- Ci sono delle storie che danno speranza da Lorenzo Tosa esse sono :
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
Cerca nel blog
7.11.25
storie speciali per gente normale storie normali per gente speciale che resiste al degrado politico e culturale del nostro paese i casi di : Paolo Cergnar ,Mauro Berruto, David Yambio,
25.6.25
Una fame disperata di vitaLaura ha 50 anni e per metà la sua vita è stata segnata dalla progressione della sclerosi multipla. Aveva pensato di ricorrere al suicidio assistito in Svizzera, ma poi ha fatto della sua vita e della sua morte una battaglia.
![]() |
| Laura nel 2007, all’epoca era già malata ma asintomatica |
Laura Santi è una giornalista, ha viaggiato il mondo ma vive ancora nella città dove è nata: Perugia.
Laura ha cinquant’anni e da venticinque soffre di sclerosi multipla.
Il suo corpo è quasi completamente paralizzato, muove solo la testa e
tre dita della mano destra. Non ha più nessuna autonomia e dipende
completamente e per qualunque funzione da chi l’assiste e da suo marito
Stefano. La sua giornata è scandita dalla sofferenza, dal
dolore, da una serie di gesti necessari per tenerla in vita, da
un’immensa fatica.

Tre anni fa ha iniziato una battaglia legale per avere il diritto di accedere al suicidio medicalmente assistito. Per avere la libertà di scegliere se restare in questo mondo.
Alcune
settimane fa, quando pensava ancora di essere costretta ad andare in
Svizzera per il fine vita nonostante abbia i requisiti previsti dalla
Corte Costituzionale per morire in Italia, mi ha scritto. Ha immaginato
che tutti avrebbero parlato della sua morte, invece lei voleva raccontare la sua vita, lasciare una traccia del suo passaggio e del suo amore e della sua gratitudine per il mondo e le persone.Così sono andato a trovarla e proprio nel giorno in cui sono
arrivato a Perugia lei ha ricevuto il protocollo sanitario di assistenza
per il suicidio assistito dall’Asl della Regione Umbria. Era
molto scossa: «Mi sono messa a piangere quando l’ho saputo. Ero in un
misto tra malinconia, tristezza, liberazione e trionfo. Mi sono fatta un
pianto a singhiozzo pensando a me che schiacciavo quel pulsante. È dura dirlo, però è così: quel pensiero può essere anche vissuto come una grande liberazione».

Per più di due ore sono stato seduto di fronte a lei ad ascoltarla, nelle sue parole ho trovato tanta umanità e la capacità di spazzare via le banalizzazioni che caratterizzano il dibattito sul fine vita in Italia: «La vita è una e soltanto una e me la tengo cara, me la sono sempre tenuta cara. Avere la libertà di morire è una cosa dirompente, ma vorrei far capire che non porta nessun abuso. Ora sono libera di decidere della mia esistenza. Sono libera di capire fino a che punto voglio affrontare la progressione di una malattia che non si sta fermando ed è dirompente». Così Laura mi ha parlato del dilemma che vive ogni giorno, di quella vertigine che lei chiama “il parapetto”, che è figlio della possibilità di scegliere, di non essere obbligata a vivere a tutti i costi: «È come se tu ti sporgessi da un parapetto che si affaccia sul vuoto: tu guardi di sotto e ti chiedi: vuoi morire domani? No, grazie, domani no. E forse neanche dopodomani, forse neanche tra una settimana. Questo è il parapetto, questa è la libertà. E questo nonostante io mi senta intrappolata in questo corpo, sia piena di sofferenze, di dolori, di spasmi, di crisi epilettiche, nonostante io viva ogni giorno la solitudine e l’isolamento della disabilità. Ogni sera il mio corpo mi dice basta, ma la mia mente mi dice che vorrebbe andare avanti. E per me è un dilemma terribile».

Laura mi ha parlato a lungo della sua vita, della
sua famiglia, della sua infanzia di bambina timida e introversa, della
sua adolescenza difficile: «Ero una ragazza bulimica, ma crescendo mi sono trasformata in una persona bulimica di vita,
che cercava di strappare la vita con i denti e con le unghie anche
nella timidezza». Mi ha raccontato dell’amore per il nuoto e della
sofferenza di dover rinunciare alla piscina per la malattia, della
scelta di fare la giornalista: «Perché mi piaceva molto ascoltare gli
altri, perché tutti hanno delle storie bellissime da raccontare. Perché
l’ascolto per me è una cosa pazzesca». Mi ha parlato dei suoi viaggi nel
mondo e dell’amore per Stefano, che è diventato suo marito e le sta
accanto ogni giorno. Il nostro incontro è diventato anche un podcast che ha il titolo che Laura avrebbe dato alla sua autobiografia se ne avesse mai scritta una: “Una fame disperata di vita”.Un incontro che è stato un turbine di sensazioni e così pieno di vita
da farmi quasi dimenticare che ero arrivato per parlare della sua
morte: «Lo capisci il dilemma che sto vivendo? Tu mi senti parlare? Il dilemma è che se fosse per la mia mente, per il mio cuore, io andrei anche tranquillamente molto in là, perché c’è la vita.
Ho cercato il cartellone di Umbria Jazz, è bellissimo, lo vorrei tanto
vedere. Non credo che lo farò, ma il solo fatto che lo desidero è
vitale. Oppure vorrei essere alla manifestazione per Gaza. Vorrei vedere
la gente che si ammassa a Roma. Voglio sapere come andrà il referendum.
Questa cosa mi incuriosisce da matti. Non so bene come votare quelli
sul lavoro, ma quello sulla cittadinanza sono certa di andare a votarlo.
E
allora mi si potrebbe dire: ma che ti frega del referendum, di Gaza,
del jazz se vai a morire? E invece mi frega, il problema è questo: la vita è bella e il mondo per me è e resterà sempre tremendamente interessante. Il mondo con le sue atrocità, con le sue ingiustizie, con le sue bellezze, con la sua poesia. Questo è il dilemma, questo è il parapetto». Una delle cose più commoventi di Laura è la sua gratitudine verso le persone:
ringrazia sempre per la solidarietà, la vicinanza e l’amicizia. Non c’è
nessuna amarezza, nessuna rabbia, ma una forza straordinaria. Nella sua
battaglia non è stata sola, ma ha avuto accanto Marco Cappato e
Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni: «Per me sono due amici,
sono due persone che mi hanno tenuto per mano mi hanno suggerito di
rendere pubblica la mia situazione. Io ero intenzionato ad andare in
Svizzera dalla disperazione e volevo tenere in incognita questa mia
scelta anche per motivi familiari, ma loro mi hanno aiutato a parlarne
pubblicamente».Nessuno di noi sa quanto vivrà ancora Laura, ma io sento il
privilegio di averla incontrata e di averla ascoltata e mi ha regalato un grande insegnamento sul valore della libertà e sul rispetto che si deve alle scelte degli altri.
9.2.24
DIArio di bordo n 34 anno II Elena Cecchettin attacca Sanremo e le "parole dell'amore" lette dagli attori di Mare Fuori: «Roba da Baci Perugina» ma non fa nessuna controposta ., Si chiama dignità l’unica via per trasformare l’immigrazione da problema a risorsa. E questa via passa per la formazione e il lavoro
Non capisco le reazioni di #elenachettin sorrella di #giulia . E delle critiche fermministe in particolare Tra queste, proprio la scrittrice ripostata da Elena Cecchettin: «Le "nuove regoledell’amore" portate sul palco di Sanremo martedì, in quella che a tutti gli effetti è una promo al sapore di pinkwashing di Mare Fuori, sono un concentrato di privilegio maschile e naftalina – scrive Carlotta Vagnoli – Ma soprattutto non sono a fuoco. Non si parla di patriarcato, di cultura dello stupro, di violenza maschile contro le donne, di privilegio, di mascolinità tossica. Far scrivere a un uomo un pezzo del genere mi sembra il punto più ridicolo della serata di ieri».Quindi le chiedo loro oltre a lamentarsi cosa proponete in alternativa che non sia il solito refrain del termine , ormai abusatissimo , patriarcato ?
Un motivo per restare di Mario Calabresi
Si chiama dignità l’unica via per trasformare l’immigrazione da problema a risorsa. E questa via passa per la formazione e il lavoro. Come raccontano in questo podcast Hamady, Anastasiia, Abdulkarim e Marieme. Che avevano un sogno e hanno trovato una mano tesa che li ha aiutati a realizzarlo
Ci sono momenti in cui scopriamo con sollievo che l’Italia è molto meglio di come viene descritta, che non è lo specchio del dibattito politico, ma un Paese che, lontano dalle polemiche politiche, è capace di risolvere problemi, inventarsi soluzioni e immaginare il futuro. Questo succede perfino nel tema che più divide, più accende gli scontri, le ansie e le paure: l’immigrazione. E se vi dico che esistono soluzioni che sostituiscono la paura con la speranza è perché ho 5.600 esempi.
Alcuni ragazzi e alcune ragazze che partecipano al progetto “Without Borders”, portato avanti da oltre sei anni da Randstad, azienda che si occupa di ricerca, selezione e formazione di personale
Alcuni anni fa ho conosciuto due medici siriani, due chirurghi per la precisione, che erano fuggiti dalla guerra insieme alle loro famiglie e, dopo un lungo viaggio fino alla Libia, erano saliti su un barcone verso la Sicilia. Avevano fatto naufragio ma si erano salvati ed erano riusciti a raggiungere la Germania. Dopo poco tempo erano stati assunti dalla sanità tedesca e lavoravano a pieno ritmo in due ospedali pubblici. Ho ripensato mille volte a loro e a come noi italiani, per miopia e scarso senso pratico, li avremmo lasciati a far nulla in un centro di accoglienza.
Mille volte ho pensato a quello che viene chiamato “l’inverno demografico”, ovvero il calo drammatico delle nascite e l’invecchiamento della popolazione (per chi non l’avesse letta vi consiglio di recuperare l’intervista al demografo e Rettore della Bocconi Francesco Billari: la trovate qui), alla mancanza di manodopera che viene denunciata da ristoranti, alberghi, fabbriche, magazzini, ospedali e cantieri e nello stesso tempo alla quantità di persone che arrivano sulle nostre coste e che noi teniamo inattivi e marginalizzati. Che incredibile spreco di risorse e possibilità.
Credo che l’integrazione non sia da catalogare alla voce “buoni sentimenti”, ma possa essere invece una strada per ridurre gli impatti negativi delle migrazioni e valorizzare le opportunità.
Tutto questo è rimasto nella mia testa finché non ho incontrato Hamady, un ragazzo senegalese che nel suo Paese ha fatto il contadino e poi l’idraulico ma che, complici i racconti di uno zio che viveva in Italia, aveva il sogno di attraversare il Mediterraneo. Il suo viaggio, cominciato a vent’anni, è durato oltre un anno (per due mesi è stato nelle carceri libiche, ma prima di essere arrestato era riuscito a nascondere sottoterra i soldi che aveva messo da parte per pagare il viaggio verso Lampedusa) e lo ha portato dove sognava.
Hamady e Anastasiia, due dei quattro protagonisti delle storie raccontate nel podcast “Una ragione per restare”
Il sogno di farsi una nuova vita è però svanito in fretta. Per tre anni è stato in un centro di accoglienza in provincia di Varese, completamente inattivo, con la sola opportunità di fare il centrocampista nella squadra di calcio locale. Ha sfruttato quel tempo vuoto per prendere la licenza media e, appena l’ha ottenuta, pur di lavorare, e grazie ad una colletta dei parenti, ha preso un treno verso Sud. In Puglia ha raccolto per due anni pomodori e zucchine per una paga da fame (4 euro l’ora), con turni estivi di 11 ore. Poi, sfinito da una quotidianità senza prospettive, ha trovato lavoro in un ristorante cinese nel centro di Foggia e poi in uno in provincia di Roma. Nessuno di questi impieghi gli ha mai permesso di poter pagare un affitto, costringendolo a un peregrinare lungo quasi dieci anni senza una meta. Sconfortato, a febbraio dello scorso anno è tornato alla casella di partenza: in Lombardia.
Una sera a Lodi, un ragazzo somalo gli ha parlato di un corso per provare a entrare a lavorare in un’azienda di cosmetici: «Mi ha detto che dovevo andare in una casa dove, sulla porta, c’era scritto Randstad. Sono andato la mattina dopo e mi hanno messo in mano un questionario da compilare, ho pensato che fosse un’altra strada senza speranza, ma quello stesso pomeriggio mi hanno chiamato». Hamady ha seguito ogni giorno un corso di lingua italiana e una serie di moduli sull’educazione civica e le regole dei posti di lavoro e, dopo tre mesi, è stato inserito come tirocinante nel magazzino dell’azienda di cosmetici. A settembre ha avuto il suo primo contratto e in un attimo tutto è cambiato: ha affittato una casa insieme ad altri due ragazzi, ha comprato il suo primo biglietto per andare allo stadio Meazza a vedere il Milan e oggi è un uomo che sorride spesso. Quando l’ho incontrato mi ha parlato dei suoi colleghi di lavoro, del responsabile del magazzino che ha avuto la pazienza di formarlo e di quanto sia orgoglioso di tutto questo. Poi mi ha fatto notare il regalo che si è fatto per Natale: un piumino rossonero.
L’opportunità che ha cambiato la direzione alla vita di Hamady e di altre 5.600 persone che sono arrivate in Italia da ogni luogo del mondo è un progetto che si chiama “Without Borders”, Senza Confini, e che silenziosamente viene portato avanti da oltre sei anni da Randstad, azienda che si occupa di ricerca, selezione e formazione di personale. Un programma pensato per favorire l’integrazione occupazionale di migranti e rifugiati, offrendogli le competenze, la formazione e anche il supporto psicologico per inserirsi nel mondo del lavoro.
Su queste storie è stato realizzato un podcast in 4 puntate, che si intitola “Una ragione per restare”, in cui si raccontano le vite di Hamady, Anastasiia (scappata dal Kiev due anni fa nel giorno delle bombe sull’aeroporto), Abdulkarim (studente afghano che, dopo aver partecipato al progetto è tornato all’Università e oggi studia informatica a Bari) e Marieme, arrivata in Italia dal Senegal per raggiungere il marito che grazie all’inserimento nel mondo del lavoro – oggi fa la cuoca – ha conquistato un’orgogliosa indipendenza economica.
Narrato dalla voce dell’attore Alberto Boubakar Malanchino, il podcast racconta il progetto insieme a Francesca Passavanti che è la responsabile del programma e a Giulia Ricci, un’insegnante di italiano, che spiega come sia importante non solo trasmettere la lingua ma anche la cultura e la tradizione del nostro Paese.
Spesso sono i dettagli a fare la differenza e così Anastasiia, che ha seguito i suoi corsi, mi ha raccontato di aver imparato la differenza tra spumante, Prosecco e Champagne, oppure quella tra i vari tipi di mozzarella: «È un modo per sentirsi un pochino italiani e a me ha fatto un regalo ancora più grande: mi ha permesso di trovare l’amore della mia vita, un ragazzo italiano che per passione fa il sommelier!».
Una cosa mi ha colpito delle storie che ho ascoltato: il modo in cui queste persone guardano all’Italia. Nonostante le difficoltà non c’è pessimismo e non ci sono mai i toni critici, disillusi con cui noi descriviamo il nostro Paese. Parlano di luce, di rinascita, di opportunità e di futuro. Avremmo bisogno, ogni tanto, di vederci con i loro occhi. Sarebbe molto utile.
25.3.17
PERSINO IL SOLE di © Daniela Tuscano

Ma il grigio, quello no, non glielo togli. Milano è compenetrata di grigio. Lo sono pure i suoi alberi, sempre spelagni ancorché fronzuti, nelle periferie, alle Case Bianche dove sei appena passato come altrove, come dalle mie parti. C'è sempre, sullo sfondo, un condominio sciatto e anonimo, una vita dove non accade niente, un'esistenza piovosa. Dove Dio non abita perché non ci si pensa, perché ci si è arresi. Non guarda né riguarda. E tu hai voluto cominciare da lì. Sicuramente oggi pomeriggio, nella rigogliosa cornice del Parco, c'infonderai linfa, come i platani secolari. Ci sentiremo forti e orgogliosi e motivati, faremo gruppo, ci sarà il tripudio delle associazioni vocianti, ma la striscia assolata di stamane varrà tutto il resto, forse anche la visita ai carcerati, giusta, ovvia, cristiana nella sua accezione più pura. Ma è questo ministero ordinario, questo sacerdozio universale il tuo tratto veramente prezioso. È questo passare vicino a quartieri senza storia, a chiese e statue prive d'arte, è questo tuo apparente, benefico disinteresse di fronte all'estro umano, il fottertene della perizia di fini cesellatori e architetti di navate, perché anche l'artista può diventare un Oderisi da Gubbio. Ma il centro è Dio, si trova ovunque e il resto è vanità di vanità. Soltanto perdendosi ci si ritrova, soltanto facendosi da parte riacquistiamo il senso dell'umanità profonda. Occorre avere il coraggio di abbandonare il centro per raggiungere il cuore.
27.11.13
Olbia Dopo l'alluvione le donano un giubbotto Trova mille euro in tasca e li restituisce
Una donna di Olbia ha trovato dentro un giaccone che le era stato donato dopo l'alluvione oltre mille euro e si è rivolta ai carabinieri per rintracciare il proprietario e restituirgli i soldi.
Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti
dopo a morte di Maurizio Fercioni ( foto sotto a centro ) , fondatore del Teatro Parenti a Milano e primo tatuatore d’Italia Gia...
-
Come già accenbato dal titolo , inizialmente volevo dire Basta e smettere di parlare di Shoah!, e d'aderire \ c...
-
iniziamo dall'ultima news che è quella più allarmante visti i crescenti casi di pedopornografia pornografia...
-
Ascoltando questo video messom da un mio utente \ compagno di viaggio di sulla mia bacheca di facebook . ho decso di ...


