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16.4.20

“I medici e mia madre. Quel fotoreportage tra la vita e la morte”

Queste foto sono state scattate negli ospedali lombardi nei giorni peggiori della crisi

. Una foto presa col cellulare, come ne facciamo tutti, dopo averne fatte a decine di migliaia di professionali, come fotoreporter. Nel giorno in cui il suo reportage sugli ospedali lombardi assediati dal virus esce come storia di copertina del New York Times Magazine, Andrea Frazzetta guarda con struggimento la fotografia che gli rimarrà nel cuore: mamma Anna, dietro al vetro di una finestra, scosta la tendina ricamata e sopra ai vasi di gelsomini gli manda da lontano un sorriso assieme rassicurante e dolente. [  FOTO  A  SINISTRA   ] 

L’ultimo. Come decine di migliaia di italiani, Andrea non ha potuto starle vicino nell’estremo istante, né salutarla un’ultima volta in chiesa o al cimitero. Una fotografia, una fra le decine di migliaia della sua vita, è quel che gli resta. «Le ho fatto così pochi ritratti», rimpiange, «lei così orgogliosa del mio lavoro... Noi del mestiere facciamo così, nella vita privata fotografiamo poco». Questo tempo d’eccezione ha ribaltato anche questa cosa. Il fotoreporter non è solo un testimone, adesso. Entra nella sua storia. La favola parla anche di te, gli dice il virus. E il lupo cattivo bussa alla tua porta.




A 43 anni, Andrea è un fotoreporter stimato nel mondo. Si muove tra Africa, Giappone, Amazzonia, lavora per grandi testate, dal National Geographic allo Spiegel al Guardian all’Espresso, su temi planetari: l’uomo e la crisi ambientale. «A gennaio ero a New York, per progettare un servizio in Cina. Appena uscito dall’ufficio di Kathy Ryan, la photoeditor del Times, lessi sul cellulare dei primi contagi a Wuhan. Sull’aereo che mi riportava a Milano c’era già nervosismo». Ovviamente, saltano tutti i programmi. Quando il Covid aggredisce l’Italia, il magazine americano gli chiede un servizio. Ma che cosa si mostra di un Paese in quarantena? «Quel rito serale dei numeri non lo sopportavo più, 516 morti, no, di più, di meno, una lotteria senza cuore, non può rimanere solo questo, mi sono detto». Allora, cosa? «C’era un selfie, lo vidi sui social. Quello dell’infermiera di Grosseto che si toglieva la mascherina, con i lividi sul volto per lo sfregamento, e scriveva: non vanificate i nostri sforzi. Era il 10 marzo. L’Italia chiudeva. Ho capito cosa fare».




Ottiene i permessi. «Stare al sicuro, rispettare gli altri: ma anche documentare è un dovere, è il mio mestiere». Comincia il giro negli ospedali. Chiede a medici, infermieri, inservienti, di posare per un ritratto, a fine turno, nel momento in cui si tolgono la mascherina. «Volevo l’emotività di quelle persone, la loro stanchezza, la loro consapevolezza. Il medico con gli occhi lucidi. L’infermiera che mi ha detto ok, capisco, fammi la foto, ma non chiedermi nulla». Sono foto essenziali, veloci, fatte nei corridoi. Poche righe di testimonianza. «Volevo che quei volti dicessero: non siamo eroi, non abbiamo un nemico, abbiamo una comunità». Il 19 marzo, uscendo dall’ospedale di Brescia, gli arriva una chiamata da mamma Anna. Tossisce, ha la febbre. «Un tuffo al cuore». Lei ha 69 anni ma lavora ancora, in un luogo ad alta frequentazione sociale, la reception di un centro congressi. «La obbligo a chiamare il 118. Le dicono di stare in casa, le prescrivono tachipirina. La febbre scende. Mi dico, dai, forse non è il virus». Due giorni dopo le porta a casa la spesa: pane, latte, surgelati, disinfettanti. Gliela lascia sullo zerbino. Da fuori la chiama al telefono. Lei si fa vedere dalla finestra chiusa, sta al piano terra. «Parliamo da lontano, ci facciamo gesti, visto che ho il cellulare in mano le faccio una foto, più come messaggio che per l’immagine. Abbasso la mascherina per mimare un bacio. Per un microsecondo mi dico: e se fosse l’ultimo?».




Domenica 22 la febbre risale. All’alba un’ambulanza porta Anna in ospedale. «La sera del ricovero il rianimatore me la passa, sul suo telefono avvolto nella plastica. Mi dice sto bene, non ti preoccupare. Quella sera parla anche con mia sorella, con mio padre Vincenzo, ricoverato in un altro reparto. Credo che il medico abbia pensato che fosse giusto darci la possibilità di un’ultima telefonata d’amore. Tre giorni dopo la chiamata che nessuno vorrebbe mai ricevere». Dall’ospedale Sacco aveva già avvertito il New York Times: il servizio finisce qui. Adesso Andrea è in quarantena, con la moglie e il figlio di quattro anni. Papà sta meglio. Il lavoro fotografico è comunque uscito. Colpisce al cuore. «Non so se sia buono o no. Credo fosse necessario. Non so dire quali immagini resteranno di questo tempo. Credo debba restare il senso di umanità che ho sentito attorno a me. Una vicinanza di specie. Se le fotografie ce lo ricorderanno, dopo, forse ci aiuteranno a non dimenticare in quali condizioni viviamo su questo pianeta. Non so come sarà la vita dopo il virus, ma nulla dovrà essere come prima».

7.1.16

La scimmia si fa un selfie, guerra legale per i diritti d'autore sulla foto

 L'unico commento  che mi  viene  da  fare    leggendo  la  vicenda  sotto riportata  è    lostesso che  ho fatto  sul gruppo dell'associazione  di cui faccio parte  :



attenzione se le scimmie ( fra cui il sottoscritto Emoticon smile ) vi rubano la macchina e poi ci fanno un selfie poi qualcuno scrive su wikipedia dell'accaduto , poi è un caos per i diritti

 da l'unione  sarda  7\1\2016  12:42



la foto del macato pubblicata su wikipedia
La foto del macato pubblicata su Wikipedia
I macachi non possono rivendicare i diritti d'autore su una fotografia. La notizia arriva dagli Stati Uniti, dove un giudice ha dato ragione al fotografo David Slater in seguito a un contenzioso legale con Wikipedia.Cinque anni fa il sito della più grande enciclopedia online ha pubblicato una curiosa immagine di un macaco che prese la macchina fotografica di Slater e fece alcuni selfie. Una di quello foto è stata pubblicata online e attribuita al macaco.Il fotografo ha rivendicato i diritti, ma un'associazione animalista si è opposta citando in giudizio il fotografo. Il giudice ha però respinto l'istanza sostenendo le leggi sul copyright non vanno riconosciute agli animali.La battaglia legale continua, ma Wikipedia non ha rimosso la foto. E' cambiata la didascalia: "Autoscatto di una femmina di cinopiteco (Macaca nigra) effettuato nel Sulawesi Settentrionale, in Indonesia. Il cinopiteco ha rubato la macchina fotografica dal fotografo David Slater e si è fotografato con essa".

4.12.15

Selfie sotto accusa . Una settimana prima di essere uccisa a Perugia dal marito, l’avvocato Raffaella Presta si era fatta un selfie del proprio volto tumefatto ma nessuno ldegli amici a cui l'ha mandato l'ha portato dai carabinieri o forze dell'ordine


03/12/2015
MASSIMO GRAMELLINI




e lo aveva spedito al fratello e all’amica più cara con il commento: «Ecco come mi ha ridotta» e la chiosa amara «Incidente domestico, diciamo». Oltre che uno sfogo, forse una richiesta di aiuto: io non ce la faccio a denunciarlo, pensateci voi.
Il tema è immenso e chiama in causa tutti: la bestialità gelosa di certi maschi che confondono l’amore con il senso del possesso e l’impossibilità per certe donne di abbandonare da sole un nido diventato mattatoio, persino quando ne avrebbero gli strumenti culturali e giuridici: Raffaella Presta era un’esperta di diritto di famiglia. Chiama però in causa anche gli amici di entrambi. Ma mentre esiste sempre l’ipotesi che il marito violento riuscisse a nascondere agli altri la propria natura e la scatenasse soltanto tra le mura domestiche, il selfie della vittima testimonia che qualcuno all’esterno della coppia era stato avvertito. Le colleghe di Raffaella l’avevano vista arrivare a giugno in ufficio con un timpano rotto a furia di botte e l’avevano scongiurata affinché chiamasse i carabinieri. Ma perché non li avevano chiamati loro? Perché uno dei destinatari del selfie d’accusa non si è presentato in procura sventolando l’immagine impressa nel suo telefonino? Quel selfie era a tutti gli effetti una notizia di reato. Il proverbio dice: tra moglie e marito non mettere il dito. Ma se il marito comincia a usare i pugni, almeno un dito bisognerebbe mettercelo eccome.



LEGGI ANCHE Il selfie del volto tumefatto di Raffaella, 8 giorni prima di morire

18.8.15

Vivian Maier Street Photographer al man di Nuoro Spoiler con foto della mostra

 “Ho fotografato i momenti della vostra eternità perchè non andassero perduti", scrive la Maier in una lettera ai “suoi” bambini, ormai cresciuti. 

Un colpo del destino ha salvato quei momenti dall’oblio, e li ha restituiti all’eternità.


Prima  d'iniziare il post  d'oggi  devo fare  una premessa  .


Lo so che per queste nuove generazioni ( meta degli anni '80 \ 90-2000 ) sarò antiquato nell'usare llo  spoiler ( antricipazioni   un termine  ormai  caduto in disuso   visto che  ormai    sui media in
DA  http://quinlan.it/upload/images/2014/04  tramite  google


particolare sui social e è impossibile non averne  e  sono sempre  più rari coloro  che lo praticano  . M;a  soprattutto non mi  va    da quelli della mia e  delle generazioni precedenti essere  definito  "sconciajochi" 
Infatti  Ma io l'uso lo stesso perchè non mi va di rovinare l'emozione a chi ancora non l'ha vista e vuole andare a vedersi la mostra ( sarà fino al 18 ottobre ) di Vivian Maier . Mi  scuso  s e  le  foto  non sono un granchè e se  in esse  si vede la mia ombra  . Ma   è la  prima  volta  che fotografo con la  digitale  dele cose  davanti al vetro  \  specchio  



Adesso andiamo ad  incominciare .
Nella giornata  del 16\8\2015  sono andato  al man di  Nuoro  a vedere questa mostra  ecco  la presentazione    presa dal sto del museo   



Vivian Maier
Street Photographer

10.07  -  18.10.2015 

Inaugurazione: 10 Luglio 2015
Dopo gli Stati Uniti il fascino di Vivian Maier sta incantando l’Europa.
Bambinaia per le famiglie benestanti di New York e Chicago sino dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, per oltre cinque decadi ha fotografato la vita nelle strade delle città in cui ha vissuto senza mai far conoscere il proprio lavoro. Mai una mostra, neppure marginale, mai una pubblicazione.Ciò che ha lasciato è un archivio sterminato, con più di 150.000 negativi, una miriade di pellicole non sviluppate, stampe, film in super 8 o 16 millimetri, registrazioni, appunti e altri documenti di vario genere che la tata “francese” (la madre era originaria delle Alpi provenzali) accumulava nelle stanze in cui si trovava a vivere, custodendo tutto con grande gelosia.Confinato infine in un magazzino, il materiale è stato confiscato nel 2007, per il mancato pagamento dell’affitto, e quindi scoperto dal giovane John Maloof in una casa d’aste di Chicago. La mostra al MAN di Nuoro, a cura di Anne Morin, realizzata in collaborazione con diChroma Photography, sarà la prima di Vivian Maier ospitata da un’Istituzione pubblica italiana.Partendo dai materiali raccolti da John Maloof, il progetto espositivo fornisce una visione d’insieme dell’attività di Vivian Maier ponendo l’accento su elementi chiave della sua poetica, come l’ossessione per la documntazione e l’accumulo, fondamentali per la costruzione di un corretto profilo artistico, oltre che biografico.Insieme a 120 fotografie tra le più importanti dell’archivio di Maloof, catturate tra i primi anni Cinquanta e la fine dei Sessanta, la mostra presenta anche una serie di dieci filmati in super 8 e una selezione di immagini a colori realizzate a partire dalla metà degli anni Sessanta. Privi di tessuto narrativo e senza movimenti di camera, i filmati fanno chiarezza sul suo modo di approcciare il soggetto, fornendo indizi utili per l’interpretazione del lavoro fotografico.Gli scatti degli anni Settanta raccontano invece il cambiamento di visione, dettato dal passaggio dalla Rolleiflex alla Leica, che obbligò Vivian Maier a trasferire la macchina dall’altezza del ventre a quella dell’occhio, offrendole nuove possibilità di visione e di racconto.La mostra sarà inoltre arricchita da una serie di provini a contatto, mai esposti in precedenza, utili per comprendere i processi di visione e sviluppo della fotografa americana.A conquistare il pubblico, prima ancora delle fotografie, è la storia di “tata Vivian”, perfetta per un romanzo esistenziale o come trama di una commedia agrodolce; talmente insolita, talmente affascinante, da non sembrare vera.Ma al di là del racconto, al di là delle note biografiche, dei piccoli grandi segreti rivelati dalle persone che l’hanno conosciuta, al di là del suo ritratto di donna eccentrica e riservata, dura e curiosa come pochi altri, custode di un mistero non ancora svelato, al di là di tutto c’è il grande lavoro fotografico di Vivian Maier, su cui molto rimane ancora da dire.Vivian Maier ha scattato perlopiù nel tempo libero e a giudicare dai risultati si può credere che, in quel tempo, non abbia fatto altro. I suoi soggetti prediletti sono stati le strade e le persone, più raramente le architetture, gli oggetti e i paesaggi.Fotografava ciò che improvvisamente le si presentava davanti, che fosse strano, insolito, degno di nota, o la più comune delle azioni quotidiane. Il suo mondo erano “gli altri”, gli sconosciuti, le persone anonime delle città, con cui entrava in contatto per brevi momenti, sempre mantenendo una certa distanza che le permetteva di fare dei soggetti ritratti i protagonisti inconsapevoli di piccole-grandi storie senza importanza.Ogni tanto però, in alcune composizioni più ardite, Vivian Maier si rendeva visibile, superava la soglia della scena per divenire lei stessa parte del suo racconto. Il riflesso del volto su un vetro, la proiezione dell’ombra sul terreno, la sua silhouette compaiono nel perimetro di molte immagini, quasi sempre spezzate da ombre o riflessi, con l’insistenza un po’ ossessiva di chi, insieme a un’idea del mondo, è in cerca soprattutto di se stesso. In questa indagine senza fine talvolta coinvolgeva anche i bambini che le venivano affidati, costringendoli a seguirla in giro per la città, in zone spesso degradate di New York o di Chicago. A uno sguardo sensibile e benevolo per gli umili, gli emarginati, univa una vena sarcastica, evidente in molti scatti rubati, che colpiva un po’ tutti, dai ricchi borghesi dei quartieri alti agli sbandati delle periferie. “Di Vivian Maier – afferma Lorenzo Giusti, Direttore del MAN - si parla oggi come di una grande fotografa del Novecento, da accostare ai maestri del reportage di strada, da Alfred Eisenstaedt a Robert Frank, da Diane Arbus a Lisette Model. Le grandi istituzioni museali fanno però fatica a legittimare il suo lavoro, vuoi perché, in tutta una vita, non ebbe una sola occasione per mostrarlo, vuoi per la diffusa – e legittima - diffidenza verso l’attività degli “hobbisti”. Ma i musei, si sa, arrivano sempre un po’ in ritardo.Delle opere di Vivian Maier non colpisce soltanto la capacità di osservazione, l’occhio vigile e attento a ogni sensibile variazione dell’insieme, l’abilità di composizione e di inquadramento. Ciò che più impressiona è la facilità nel passare da un registro all’altro, dalla cronaca, alla tragedia, alla commedia dell’assurdo, sempre tendendo saldamente fede al proprio sguardo. Una voce rimasta per molto tempo fuori dal coro, ma senza dubbio ben accordata”.


Una mostra bellissima e ben organizzata . Essa occupava ben due pian su tre dello stabile .Oltre alle foto ed ai filmini c'erano ( mi mordo le mani nel non averli immortalati ma pazienza c, è inutile piangere sul lattte versato ) .anche i suoi " attrezzi del suo hobby " macchina fotografiche e cineprese da lei usate . . Sono cointento d'aver  visto la mostra  dedicata  Vivian Maier in quanto   <<  è   oggi unanimemente considerata una delle esponenti più importanti della fotografia di strada del Novecento, benché i suoi lavori siano stati ignorati per decenni e poi scoperti, valutati e apprezzati soltanto in tempi recenti, dopo la sua morte. Infatti   


 da  https://it.wikipedia.org/wiki/Vivian_Maier

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La maggior parte delle sue foto sono "street photos" ante litteram e può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico. Inoltre, scattò moltissimi autoritratti, caratterizzati dal fatto che non guardava mai direttamente verso l'obiettivo, utilizzando spesso specchi o vetrine di negozi come superficie riflettente.
La sua vita può essere paragonata alla vita della poetessa statunitense Emily Dickinson, che scrisse le sue riflessioni e le sue poesie senza mai pubblicarle e, anzi, a volte, nascondendole in posti impensati, dove furono ritrovate dopo la sua morte.
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Maier nacque a New York nel 1926 e morì a Chicago nel 2009, a 83 anni, senza famiglia e dopo aver trascorso gran parte della sua vita praticamente da squattrinata. I notevoli guadagni ottenuti da alcuni collezionisti – che per poche centinaia di dollari si sono ritrovati proprietari di decine di migliaia di negativi di foto di Maier non sviluppate, e oggi valutate intorno ai 2 mila dollari a pezzo – hanno di recente avviato un interessante dibattito sulla controversa eredità di Maier, diventata nei mesi scorsi un caso giudiziario: se ne è approfonditamente occupato un articolo del New York Times. [... ]   >> (  da   un articolo   di www.ilpost.it )
Credo che    essa   sarà  una dele ultime se  non l'ultima  volta  che    si potra' vedere in pubblico i suoi




lavori in quanto  -- sempre  secondo l'articolo de  ilpost ---   c'è ed  è in  corso  Una causa legale dovrà chiarire chi sono gli eredi legittimi della fotografa statunitense e il processo potrebbe durare diversi anni e, nel frattempo, portare alla sospensione di qualsiasi mostra o esposizione delle fotografie di Maier finché l’eredità legale non sarà determinata. . Infatti il sito  http://www.vivianmaier.com non è   aggiornato negli eventi  



Ma  soprattutto    la vicenda    è la risposta   a i miei vecchi  che mi chiedono  perchè   mi porto dietro la video camera   la   digitale  e pubblico  tutte le  foto  ed  i video     d'eventi    culturali () concerti , manifestazioni letterarie  , ecc  )  

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...