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19.6.25

DIARIO DI BORDO N 13O BIS ANNO III Viaggio nell'isola di montecristo che ispirò Dumas e che oggi, sottratta alla speculazione edilizia e al turismo di massa, è sito pilota per il progetto Life Sea . ed altre storie

Avevo appena finito di scrivere il diario di bordo quando mi sono imbattutto in queste   storie 

  dal corriere  della sera  

 Viaggio nell'isola che ispirò Dumas e che oggi, sottratta alla speculazione edilizia e al turismo di massa, è sito pilota per il progetto Life Sea.Net per la crescita delle aree marine protette. Un modello da replicare ovunque. Con l'incognita di un possibile disimpegno di Bruxelles sulla tutela ambientale

per  chi  ha  fretta    può   guardare    solo il video  


 


DAL NOSTRO INVIATO
ISOLA DI MONTECRISTO 

I pulli di Berta minore crescono sereni e paciosi nei nidi artificiali predisposti per favorire la riproduzione della specie. Lì vicino i loro genitori si godono dall’alto lo spettacolo di terra e mare che regala loro lo scorcio dell’isola di Montecristo su cui si affacciano le cavità che hanno scelto come tana. Verso l’alto lo sguardo incrocia la vetta del Monte della Fortezza con i resti del monastero di San Mamiliano, che ospitò i monaci eremiti che cambiarono il nome a questa terra, indicata da greci e fenici come Monte Giove, dedicandola al figlio di Dio









. Verso il basso si posa invece su Cala Maestra, dove l’acqua turchese del mare è una tavola piatta che lascia immobili la motovedetta dei carabinieri e la motonave «Costa d’argento», le sole imbarcazioni autorizzate ad accedere alla baia, attraccate al piccolo molo. Poche decine di metri più in là l’ex casa dei pescatori accoglie i (pochi) escursionisti autorizzati a calcare il suolo di questa montagna di granito che emerge dal Tirreno su cui in molti - a partire da Alexandre Dumas che pur senza esserci mai stato vi ha ambientato il suo Conte - hanno fantasticato.



Una Berta minore sorvola Cala Maestra a Montecristo (foto di A. Sala)


Lo avevano fatto, alla fine degli anni Sessanta, anche alcuni imprenditori intenzionati a trasformare questo gioiello di natura in uno yacht club di lusso. Ma un movimento popolare affiancato anche da diversi studiosi e accademici era riuscito a far comprendere l’importanza di preservare questo scrigno di biodiversità e a vincere la battaglia per la sua conservazione: nel 1971 l’istituzione della Riserva naturale statale fece tornare nel cassetto, lasciandocelo per sempre, il progetto del resort per ricchi naviganti. Che in tanti avevano dato ormai per fatto, al punto che erano già state prodotte stoviglie di preziosa porcellana bianca con il marchio del nuovo circolo nautico, alcune delle quali sono ora in mostra nel centro visitatori dell'isola. A imperitura memoria, per raccontare quello che Montecristo avrebbe potuto diventare e che invece per fortuna oggi non è.






Oggi Montecristo è il regno della Berta minore mediterranea, nome scientifico Puffinus Yelkouan, che nel portale dedicato ai volatili da proteggere del ministero dell’Ambiente viene definita la «Signora del Mare Nostrum». Il 2% di tutta la popolazione globale di questa specie pelagica che assomiglia ad un piccolo albatros si trova qui. Al sicuro. Ma non è sempre stato così. Prima che il Parco dell’Arcipelago Toscano avviasse l’eradicazione del ratto nero, nel 2011, solo il 5% degli accoppiamenti arrivava a buon fine, ovvero allo sviluppo del pulcino e al suo involo. I ratti sono prevalentemente erbivori ma da buoni opportunisti non disdegnano di mettere in pancia qualunque cosa commestibile. E così, avendoli a portata, si nutrivano delle uova e dei piccoli appena nati, assaltando le fessure naturali del granito utilizzate dalle berte per deporre e a covare. Una scelta strategica per scongiurare gli attacchi dal cielo di quello che sarebbe stato il solo predatore naturale da queste parti, ovvero il falco pellegrino. Ma quando l’uomo ha portato sull’isola anche i ratti – involontariamente, trasportandoli nelle stive delle navi – i nostri puffinus hanno dovuto fronteggiare un nuovo e temibile nemico, di terra, contro cui poco potevano fare. Ora che questo nemico non c’è più, la percentuale di successo riproduttivo è superiore all'80%.


Cala Maestra e l'ex casa dei pescatori, oggi centro visite (foto di A. Sala)


L’isola di Montecristo è oggi un sito Natura 2000, la rete europea di circa 7 mila aree protette di interesse comunitario, ed è una delle zone pilota in cui viene sviluppato il progetto Life Sea.Net, co-finanziato dall’Ue, che ha come obiettivo l’individuazione di una strategia di gestione ottimale e replicabile per la conservazione di ambienti marini. A guidarlo c’è Legambiente, affiancata da diverse istituzioni: ministero dell’Ambiente, Ispra, due Regioni, tre aree marine protette, il Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano e anche Federpesca, perché il coinvolgimento di chi il mare lo vive ogni giorno come risorsa economica e di sussistenza è fondamentale per la sua conservazione. Basti pensare a quanto possano incidere - e quindi essere malviste in mancanza di adeguata informazione - le limitazioni previste per Montecristo, che oltre a prevedere accessi super contingentati - max 75 persone al giorno, circa 1.700 all’anno che possono muoversi solo su tre percorsi prestabiliti e scortati dalle guide del parco e dai carabinieri – non è avvicinabile a meno di un miglio dalla costa. Le sue acque sono rigidamente tutelate e la pesca o le immersioni a scopo ludico portano a denunce di tipo penale.


Carabinieri presidiano l'attracco all'isola (foto di A. Sala)


La stessa Berta, del resto, in altre zone del Mediterraneo deve fare i conti con il problema delle catture accidentali. Quando si tuffa in picchiata per pescare piccoli pesci, immergendosi in mare anche per diversi metri, rischia di restare impigliata nelle reti tese dai pescatori. O, peggio, nelle reti fantasma, quelle abbandonate o perse, che agganciandosi agli scogli o ad altri appigli sui fondali continuano a pescare anche se non c’è nessuno ad issarle, intrappolando molti animali di acqua o del cielo, che poi muoiono affogati o di inedia. Secondo la Lipu (Lega italiana per la protezione degli uccelli), dall'inizio di maggio a metà giugno di quest'anno sono stati almeno 300 gli esemplari di Berta vittime del «bycatch» lungo le coste del Lazio e della Campania. A livello europeo, sempre secondo dati Lipu, sarebbero fra i 130 e i 380 mila gli uccelli marini che muoiono a seguito di catture accidentali. Lo specchio di mare che circonda Montecristo è indenne da questo fenomeno e sotto la superficie dell’acqua custodisce una enorme biodiversità animale e vegetale che dalla cima del Belvedere, uno dei punti più panoramici raggiungibili attraverso i percorsi prestabiliti, si manifesta nei chiaroscuri di cinquanta sfumature di blu che le praterie di Posidonia disegnano sul fondo di cala Santa Maria, trecento metri più in basso.

(Berte morte sul litorale laziale - Ph Andrea Benvenuti/Lipu)


La Berta non è però la «specie bandiera» dell'isola. Lo è invece, paradossalmente, è un animale alloctono ma da secoli diventato elemento inscindibile del territorio: la Capra di Montecristo, un tipo di capra selvatica molto simile all'Egagro, originario dell'Asia centrale e considerato il progenitore di tutte le capre. Importata dai greci per scopi alimentari, non essendoci altre possibili prede da cacciare, con l'estromissione dell'uomo non ha più predatori a minacciarla ed è oggi presente in tutte le aree dell'isola, tranne che in una porzione delimitata da recinti di contenimento che racchiude il promontorio di Punta Maestra, alle spalle dell'ex Villa Reale e del giardino botanico curato dai carabinieri forestali, unica presenza umana. È la zona dove c'è maggiore concentrazione di vegetazione ad alto fusto, tra cui alcuni lecci ultra centenari, che deve essere preservata dalla voracità dei ruminanti. Oggi se ne stimano circa 130 esemplari che vivono in stato totalmente selvatico, a cui se ne aggiungono cinque trasferiti al Bioparco di Roma a scopo di conservazione. Un altro animale simbolo è la Vipera di Montecristo, sottospecie della vipera meridionale, anch'essa presente da secoli ma, come il ratto, importata accidentalmente nella stiva di qualche imbarcazione.


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Piccolo elogio al coraggio del Parma che sta prendendo Carlos Cuesta, un allenatore straniero di 29 anni

L'ormai ex secondo di Arteta all'Arsenal non ha una carriera da calciatore alle spalle ed è il più giovane tecnico nella storia recente della Serie A.


Una delle notizie di calciomercato più significative di queste ultime ore, quindi all’inizio della sessione estiva 2025, non riguarda un calciatore, né tantomeno un club di prima fascia in Serie A. Riguarda invece il Parma, che tra poche ore annuncerà l’arrivo del suo nuovo allenatore: si tratta di Carlos Cuesta, tecnico spagnolo di 29 anni reduce dalle esperienze – come assistente tecnico – nelle

giovanili dell’Atlético Madrid e della Juventus, e poi nella squadra senior dell’Arsenal, accanto a Mikel Arteta. Beh, a questo punto dovrebbe essere chiaro perché si tratti di una notizia significativa: nell’anno in cui il calcio italiano sembra aver finito gli allenatori d’élite e forse anche le idee, nell’anno in cui il Milan e la Lazio e la Fiorentina hanno pensato che non ci fossero alternative migliori rispetto ad Allegri e Sarri e Pioli, nell’anno in cui la Juventus è rimasta scottata dal mancato ritorno di Antonio Conte e solo allora ha deciso di rinnovare il contratto di Igor Tudor, l’unico vento di novità arriva da Parma.
Sì, certo: anche il Cagliari ha dato un’opportunità a un tecnico giovane e allevato nel vivaio, a quel Fabio Pisacane che ha vinto la Coppa Italia con la Primavera rossoblu e che ha certamente una bella storia personale, di riscatto e di crescita. Però, possiamo dirlo: con Cuesta siamo completamente su un altro pianeta, siamo sul pianeta dell’azzardo, del rischio non calcolabile, quasi della follia, se leggiamo l’operazione attraverso la lente del giornalismo sportivo italiano – quello classico, almeno. In questo senso, basti pensare che Cuesta diventerà il secondo allenatore più giovane di sempre nella storia della Serie A, solo che il recordman – tale Elio Loschi – ha stabilito il primato nel 1939. Per trovare dei casi simili in Serie A, e in tempi relativamente recenti, bisogna arrivare fino a Bocchetti (Verona 2022) e a Stramaccioni (Inter 2012), che avevano 35 e 36 anni al momento della loro nomina ad allenatori. Allo stesso tempo, altra cosa abbastanza inusuale per il nostro calcio, Cuesta non ha una carriera da calciatore alle spalle. E non perché si sia interrotta a causa di un infortunio, tutt’altro: quando aveva 18 anni, Cuesta ha deliberatamente scelto di cominciare gli studi come tecnico. Un anno dopo, nel 2014, era già nello staff delle giovanili dell’Atlético Madrid.
Ecco, questa è un’altra ottima notizia per il nostro calcio. Il Parma, di fatto, ha aperto le porte – a livello di Serie A, quantomeno – a un allenatore non soltanto giovane, non soltanto straniero, ma anche formatosi in maniera diversa da tutti gli altri tecnici che lavorano in Italia. Nel nostro movimento, infatti, l’iter è abbastanza delineato e definito, si può dire che sia inscalfibile: un ex giocatore accede ai corsi di Coverciano, ottiene i titoli che servono per diventare allenatore e poi comincia la sua carriera, nei settori giovanili, nelle serie inferiori oppure – per i più bravi/fortunati – direttamente in Serie A. Cuesta, invece, si è formato direttamente come tecnico, come avviene da tempo in altri Paesi europei – la Germania su tutti. Questo ovviamente non significa che sia necessariamente più preparato rispetto ai suoi colleghi che hanno un background di campo, magari potrebbe anche mancargli qualcosa a livello di interazione coi calciatori. Il punto, però, sta proprio nell’accettazione della diversità, nell’abbracciare un profilo – e quindi una formula – che non appartiene alla nostra storia. Per dirla brutalmente: Cuesta non è nemmeno un allenatore à la Fàbregas, a cui il Como ha affidato il suo progetto tecnico. Nel senso che anche Fàbregas non aveva esperienza come allenatore in prima al momento della nomina, ma quantomeno aveva un certo status, una certa riconoscibilità e quindi un certo credito “gratuito”. Poi si è dimostrato pronto ad allenare ai massimi livelli, ma questo è un altro discorso.
Il Parma, quindi, ha fatto una scelta che in Serie A non si era mai vista: ha dato credito all’idea che gli allenatori del presente possano anche “nascere” in maniera diversa, passando per i vari step della carriera da coach – Cuesta ha lavorato all’Atlético e alla Juve come assistente tecnico nelle squadre giovanili, poi dal 2020 a oggi è stato secondo di Arteta – e non da un percorso consolidato; ha ripetuto, almeno in parte, la mossa già fatta a suo tempo con Maresca e poi anche con Chivu, oggi sulle panchine di Chelsea e Inter – ripetiamo: Chelsea e Inter – al Mondiale per Club; ha investito su un prospetto – e quindi su un progetto – che ha dei riferimenti forti, Arteta su tutti, riferimenti che in qualche modo andranno a urtare le fondamenta ideologiche del nostro calcio. Ben venga, però, il club che ha il coraggio di andare controcorrente, di osare, di cambiare lo status quo: le rivoluzioni vere, quelle importanti, quelle che hanno fatto la storia (non solo del calcio), sono iniziate tutte così.


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DA   https://www.lifegate.it/
L’Alaska dirama per la prima volta un’allerta meteo per il caldo
Un monumento nella città di Anchorage, in Alaska, dove le temperature sono particolarmente elevate in questi giorni © Hasan Akbas/Anadolu/Getty Images

17 giugno 2025,
di Andrea Barolini


Benché non si tratti di caldo record, il servizio meteorologico americano ha deciso di diramare un’allerta in Alaska: “Una presa di coscienza”.





“La nostra regione sarà interessata da un’ondata di caldo anomalo. Le persone, non abituate a queste temperature insolitamente elevate, potrebbero presentare sintomi legati a colpi di calore. Prendete le necessarie precauzioni”. A questo genere di messaggi siamo abituati. Nei periodi estivi si tratta di allarmi usuali in paesi come l’Italia, e ormai anche – sempre più spesso – nelle nazioni dell’Europa settentrionale. Anche gli Stati Uniti spesso devono fronteggiare ondate di caldo particolarmente forti. Ma questa volta l’allerta in questione assume un carattere storico: si tratta della prima volta che il National weather service (Nws) americano la dirama per l’Alaska.
Nel 2019 in Alaska il record di caldo
Non era infatti mai accaduto che un’allerta per caldo anomalo fosse diramata per lo stato più settentrionale degli Usa, situato nella estremità nordoccidentale del continente e bagnato dal Mar Glaciale Artico. Il primo avviso è stato diffuso domenica 15 giugno nella città di Fairbanks, la seconda
più grande dello stato, abitata da 32mila persone, nella quale sono stati toccati gli 85 gradi Fahrenheit (29,4 gradi centigradi).
Non si tratta, in realtà, della prima volta che l’Alaska è interessato da temperature al suolo anomale durante i mesi estivi. Nel 2024 per due volte si sono superati i 90 gradi Fahrenheit, pari a 32,2 gradi centigradi. E nel 2019 un’ondata di caldo estremo portò a battere dei record assoluti a Anchorage, Fairbanks e in altre località.
Il National weather service vuole fornire più informazioni alla popolazione
A cambiare, però, è l’approccio del Nws, che punta ora a fornire maggiori informazioni alla popolazione, anche con l’obiettivo di sensibilizzare sul problema. In passato, infatti, si utilizzavano dei “comunicati meteorologici speciali”, mentre ora si adottano gli stessi messaggi di allerta del resto del territorio statunitense.
Rich Thomas, del Centro di valutazione e politiche climatiche dello stato americano, ha sottolineato in questo senso che “il caldo attuale nelle aree interne non è eccezionale o da record. C’è un nuovo strumento ufficiale, che riflette in modo più chiaro una presa di coscienza”.
“Vogliamo usare le parole giuste, in Alaska non si è abituati a queste temperature”
“Vogliamo essere sicuri di utilizzare le giuste parole e una corretta comunicazione”, ha dichiarato Alekya Srinivasan, meteorologo residente a Fairbanks, secondo quanto riportato dall’Associated Press. “Si tratta di una dichiarazione importante – ha aggiunto -. Il pubblico deve sapere che le temperature aumenteranno e che possono risultare pericolose, poiché l’Alaska non è abitato a valori così elevati”.I consigli forniti dal National weather service in caso di ondate di caldo anomale
Nello stato americano i problemi di fronte alle ondate di caldo sono infatti legati alla mancanza di strumenti adeguati per difendersi: negli edifici i climatizzatori sono quasi inesistenti e, al contrario, la maggior parte delle strutture è concepita per conservare al meglio il caldo, per fronteggiare i rigidi inverni.
In Alaska case concepite per conservare il caldo
Ma non è tutto, il vicino Canada è interessato da mega-incendi e in tutto il Nord America in molte occasioni l’aria è diventata irrespirabile. Per questo le popolazioni avvolte dalle nubi di fumo sono state invitate a chiudere le finestre per limitare l’esposizione. Cosa che, in caso di ondate di caldo, rende ancor più complicato mantenere abitazioni e luoghi di lavoro a temperature accettabili.


22.5.25

la nuova legge sulla caccia una cambiale pagata ai cacciatori e alle lobby venatorie

inizialmente   la  tentazioe era  di   scrivere  un  commento volgare    a  tale  news  . Ma  poi   misono reso conto che  sarebbe stato troppo riduttivo  e  che avreifatto il loro gioco . Poi mi è arrivata  suwatsapp  da  firmare    tale  petizione  
  
Voglio condividere con voi una petizione contro una nuova legge in Italia che mira ad ampliare l’attività venatoria. Questa proposta mette seriamente a rischio la sicurezza delle persone e dell’ambiente.
Se anche voi pensate che sia importante tutelare la natura e la sicurezza pubblica, vi invito a firmare e diffondere la petizione. Grazie per l’attenzione! https://chng.it/g9CHM5J2cr 

Io lo l'ho fatto perchè essa rappresenta un attacco diretto alla biodiversità, alla sicurezza dei cittadini e ai principi costituzionali e comunitari in materia ambientale.infatti La nuova proposta di legge:
Permette la caccia nelle spiagge, nei boschi, nelle foreste pubbliche e persino nelle aree protette, mettendo a rischio la sicurezza di chi frequenta la natura: famiglie, escursionisti, ciclisti, cercatori di funghi, bambini.
Riduce le aree protette, invece di aumentarle come richiesto dall’Unione Europea (30% entro il 2030).
Riabilita pratiche vietate come i roccoli e i richiami vivi, favorendo bracconaggio e traffico illegale di fauna selvatica.
Elimina il ruolo vincolante dell’ISPRA, ente scientifico imparziale, sostituendolo con organismi controllati dalla politica e dalle lobby venatorie.
Autorizza spari notturni e l’uso di cani in gara anche a caccia chiusa, con gravi danni alla fauna in riproduzione.
Trasforma la caccia in “attività sportivo-motoria”, tentando di legittimarla come strumento di tutela della biodiversità. Un’assurdità che capovolge la logica, la scienza e la Costituzione.
 
📢 PERCHÉ È INACCETTABILE

🔴 Violazione dell’art. 9 della Costituzione, che tutela l’ambiente e la biodiversità.

🔴 Contrasto con le Direttive UE su habitat e avifauna: rischiamo nuove procedure d’infrazione.

🔴 Privatizzazione della natura, a vantaggio di élite economiche italiane e straniere.

🔴 Rischio per la sicurezza pubblica, con fucili nei luoghi di svago e turismo.

🔴 Svuotamento del ruolo della scienza, a favore di interessi lobbistici.

 


11.5.24

celebra i 29 del trapianto di cuore facendo il cammino di santiago di compostella ., A MILANO C’È UN FIORE GIALLO UNICO AL MONDO ., PARAPLEGICO HA FESTEGGIATO I SUOI 50 ANNI LANCIANDOSI NEL VUOTO CON IL PARACADUTE

 


A MILANO C’È UN FIORE    GIALLO UNICO AL MONDO


C’è un fiore unico al mondo che cresce  solo a Milano, non si trova in  nessun’altra parte del mondo se non tra le  mura del Castello Sforzesco. Lo rivela l’inventario della "ora spontanea italiana: si tratta dell’hieracium australe ed è una specie endemica del capoluogo. È quella strana margherita gialla spontanea (a sinistra) che invade uno dei monumenti  più preziosi del capoluogo.Infatti


  da https://radionumberone.it/


Nel 2018 erano due specie uniche, ma una si è estinta
Si tratta di una pianta endemica, ossia che germoglia solo qui e in nessun’altra parte del mondo. Parliamo dell’hieracium australe, che somiglia molto al tarassaco, quello detto volgarmente soffione. Cresce spontaneamente solo sulle mura del Castello Sforzesco, in centro a Milano, ma fino a qualche anno fa non era solo. Secondo l’inventario della flora spontanea italiana del 2018, infatti, anche l’hieracium tolstoii fioriva sulle stesse mura, ma ormai si è estinto. È logico pensare che qualcosa sia cambiato nel suo habitat.
LA BIODIVERSITÀ ITALIANA – L’inventario, curato dal Museo di Storia Naturale di Milano, mette in luce la biodiversità unica dell’Italia. Il Belpaese è infatti al primo posto in Europa per la ricchezza della sua biodiversità. In Italia crescono in totale 10.023 tipi di piante, di cui 1702 , come nel caso del fiore delle mura, crescono solo ed esclusivamente qui. Questa biodiversità è favorita dalla macedonia di paesaggi e ambienti diversi che l’Italia offre.
I RISCHI – Questa varietà di piante è però messa a rischio da tre elementi. Il primo sono le piante esotiche, che vengono importate e generano delle epidemie nella flora locale. Il secondo è il cambiamento climatico, che costringe sempre più specie all’evoluzione o all’estinzione, non abituate al nuovo clima che si sta creando. L’ultima minaccia consiste nel consumo del suolo che toglie spazio alle piante autoctone spesso eliminando degli habitat, come le zone umide in pianura.




1.12.22

[ 12 giorno senza mondiale ] tra le pagine chiare e le pagine scure


  canzone  suggerita
Rimmel  - Francesco  de Gregori 


Nonostante prosegue fra alti e bassi ( vedere post precedente del diario ) il mio intento di non guardare le partite di questo mondiale e d'osservare i fatti ad esso collegati . Mi viene un senso di impotenza assoluto mi pervade di fronte a notizie del genere, uno stato d’animo che sento comune a molti e che a
centinaia state manifestando. Hai sempre la sensazione che non serva, che non basti, che non cambi
nulla perché nessuno di noi - al di là dell’indignazione - ha il potere di cambiare le cose. Forse nemmeno chi il potere lo ha davvero. Ma meno male che ci sono storie come questa di cui parlo d'oggi che mi tirano un po' su e mi danno la forza di andare avanti e di non vivere solo per autoconservazione e sopravvivenza . 
 La storia    è, quella  di  un bosco  inclusivo  

 A Mira, a pochi passi da Venezia, un gruppo di ragazzi con disabilità ha messo a dimora alcune centinaia dei 5300 alberi che daranno vita, entro la primavera 2023, a bosco Moranzani: la prima area boschiva italiana creata ex novo con questa finalità, in un terreno di cinquemila metri quadri che si affaccia sulla laguna veneziana sottratto alla coltivazione intensiva.

 

 “È una foresta studiata per non avere barriere ed essere accessibile per tutti”, ha affermato Lucio Brotto, fondatore di Etifor, B-Corp spin-off dell’Università di Padova che ha dato vita a questo progetto assieme alla Fondazione Emma, impegnata nel sostegno a famiglie in cui sono presenti disabilità, e grazie alla donazione di Volksbank di 5000 alberi e ad un bando del ministero della Transizione Ecologica del precedente governo. "L’area si svilupperà negli anni per dare l’opportunità di fruire della foresta a persone con un ampio spettro di disabilità", ha affermato il presidente della fondazione per disabili che prende il nome dalla figlia Emma. 


 quindi la mia vita prosegue tra le pagine chiare e le pagine scure parafrasando la famosa canzone di Gregori che funge da colonna sonora del post d'oggi

19.6.22

Il barone rampante che vive su un ciliegio ., Una laurea al pascolo: a lezione di biodiversità col gregge L'Università di Bari ., A Genova l'altra sponda di Ellis Island

Il barone rampante che vive su un ciliegio

Cinque anni trascorsi in una casa sui rami: sei metri quadri in legno, un fornelletto, una doccia in bambù con acqua fredda. Ora vuole trasferirsi. Su un altro albero

 di Giulia Destefanis



L'importante è trovare la propria strada, che faccia stare bene. Gli auguro il meglio.



Una laurea al pascolo: a lezione col gregge



L'Università di Bari ha portato nel parco dell'Alta Murgia studenti di varie facoltà per un corso particolare di biodiversità: 32 ore di laboratorio tra fauna e flora

di Gianvito Rutigliano


A Genova l'altra sponda di Ellis Island


L'emigrazione vista dagli italiani che partivano :  nasce un museo che raccoglie storie e fa rivivere atmosfera e dinamiche del grande esodo. Siamo andati a visitarlo
                                                     di Fabrizio Cerignal


Se   negli Usa   c'è  il  museo   di  Ellis Island  overo   <<  un isolotto parzialmente artificiale alla foce del fiume Hudson nella baia di New York. L'originaria superficie (poco più di un ettaro) fu incrementata fra il 1890 e il 1930 con i detriti derivanti dagli scavi della metropolitana di New York, fino a raggiungere gli 11 ettari. Antico arsenale militare, dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, è stato il principale punto d'ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti. Attualmente l'edificio ospita l'Ellis Island Immigration Museum che è visitabile utilizzando il medesimo biglietto e traghetto che consentono l'accesso anche alla vicina Statua della Libertà ......  >>(  segue   su  Ellis Island - Wikipedia  )
A genova come riportato sia dal video sintetico ma incisivo ( vedi righe precedenti ) e dall'articolo di https://www.arte.it/notizie/  è  nato  un museo   che  racconta    la partenza  degli immigrati   per Gli Usa ed  il canada   e il sud  America     

Allestimento del Museo dell'Emigrazione Italiana alla Commenda di San Giovanni di Pre', Genova I Courtesy Comune di Genova
 

FRANCESCA GREGO

13/05/2022

Genova - Se all'ombra della Statua della Libertà l'Ellis Island Museum of Immigration racconta l'alba di quel crogiolo di culture che fu alla base dell'America moderna, sulle rive del Mediterraneo il nuovo MEI – Museo dell'Emigrazione Italiana svela l'altro lato della storia: la partenza di milioni di nostri connazionali che hanno lasciato il paese in cerca di un'altra vita, dall'Unità d'Italia ad oggi.
Inaugurato ieri presso la duecentesca Commenda di San Giovanni di Pre' - per secoli luogo di accoglienza di un'umanità in transito, dai pellegrini ai crociati, fino agli emigranti dell'Ottocento - il MEI è un museo dinamico, proprio come le esperienze dei suoi protagonisti. Distribuito su tre piani e 2800 metri quadri, è pronto a raccontare il fenomeno migratorio nelle sue diverse sfaccettature e articolazioni attraverso oltre 200 storie di vita vissuta che prendono la parola attraverso diari, foto d'epoca, autobiografie, lettere, giornali, canti e musiche.

Foto in mostra al nuovo Museo dell'Emigrazione Italiana, Genova I Courtesy Comune di Genova

I visitatori potranno interagire con gli spazi e gli oggetti del museo e tuffarsi in viaggi virtuali a 360 gradi, oppure consultare gli archivi del Centro Internazionale Studi Emigrazione Italiana, che ha raccolto online i documenti del viaggio di oltre 5 milioni di emigranti. Settanta postazioni multimediali, 25 proiettori laser e 1300 immagini originali saranno i mezzi per esplorare la memoria collettiva del paese e perfino “sedersi a cena” con i suoi protagonisti.
La mole di informazioni disponibili è impressionante: non solo partenze, ritorni e destinazioni, ma anche dati sulle motivazioni che hanno spinto le persone a emigrare, sul lavoro, la salute, l'alimentazione, le esperienze di accoglienza o di razzismo vanno a comporre una narrazione immensa e corale, messa insieme grazie al lavoro congiunto di enti pubblici e privati. All'impegno del Mic, della Regione Liguria e del Comune di Genova e al sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo, alla base dei lavori di adeguamento funzionale e tecnologico della Commenda, si sono infatti affiancati i contributi del Centro Internazionale di Studi sull'Emigrazione Italiana, dell’Istituto Luce – Archivio Storico Luce, della Rai attraverso l’Archivio Rai-Teche, dell’Archivio Centrale dello Stato e l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero Affari esteri e cooperazione internazionale, dell’Istituto centrale per i beni sonori e gli audiovisivi, della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, del Museo regionale dell’emigrazione Pietro Conti di Gualdo Tadino, nonché di musei e centri internazionali quali l’Ellis Island National Museum of Immigration di New York, il MUNTREF - Museo de la Inmigración di Buenos Aires e il Museu da Imigração do Estado de São Paulo di San Paolo, senza dimenticare il ruolo fondamentale giocato dalle numerose associazioni di italiani nel mondo.

Allestimento del Museo dell'Emigrazione Italiana alla Commenda di San Giovanni di Pre', Genova I Courtesy Comune di Genova

“La prima volta che sono andato a Ellis Island”, ha ricordato il Ministro della Cultura Dario Franceschini durante l'inaugurazione, “ho potuto vivere le emozioni straordinarie che trasmette quel luogo: le storie degli immigrati, gli arrivi, le separazioni e i dolori. Abbiamo immaginato che anche lo Stato Italiano dovesse creare un luogo importante, all’altezza delle storie straordinarie dei nostri emigrati, e la scelta non poteva che cadere su Genova per quello che ha rappresentato rispetto al tema immigrazione. Un luogo unico, pieno di multimedialità per rivivere le speranze, i dolori e i sacrifici degli immigrati italiani, storie che non possono essere dimenticate e che vanno tramandate alle future generazioni”.

Allestimento del Museo dell'Emigrazione Italiana alla Commenda di San Giovanni di Pre', Genova I Courtesy Comune di Genova

Diviso in 16 sezioni, l'itinerario di visita si configura come la naturale prosecuzione del Galata Museo del Mare, altro importante polo espositivo genovese: se il viaggio è il fulcro dell'allestimento del Galata, l'attenzione del MEI l’attenzione si concentra su tutto ciò che segue: la ricerca del lavoro e della casa, imparare una nuova lingua, inserirsi in una società diversa a volte ostile. E poiché migrare è da sempre una dimensione costitutiva dell'esperienza umana, ogni sezione del museo racconta una parte di questa storia, dalla preistoria all’età medievale e moderna, ben prima della diffusione del concetto di confine. L’emigrazione italiana non ha avuto solo la sua destinazione all’estero e non appartiene solo al passato. Per questo il museo racconta anche l’emigrazione interna, declinata nelle sue due grandi direttrici, dalla campagna alla città e dal Sud al Nord, e l’
le migrazioni contemporanee, in cui l’Italia diviene meta degli immigrati. L'installazione artistica Memoriale, infine, stimola a riflettere sul lato oscuro e sulle tragedie delle migrazioni: dal naufragio del Sirio all’incendio della Triangle a New York, dai fatti di Aigues Mortes alla strage di Marcinelle, passando per disastri minerari e naufragi, che ci ricordano ancora oggi, pur nella loro diversità, le silenziose stragi che colpiscono i migranti in ogni parte del mondo.

Allestimento del Museo dell'Emigrazione Italiana alla Commenda di San Giovanni di Pre', Genova I Courtesy Comune di Genova

23.5.21

Il naturalista che salva l'ululone appenninico: "Sono così pochi che li riconosco tutti"

CASTEL DI TORA (Rieti) 
 I piedi nella pozza (immersi dopo essersi accertato che non avrebbe calpestato nulla di vivo), Andrea Pieroni draga il fondo fangoso con il retino e con le mani. Le sue dita guizzano fuori dall'acqua e si intravvede un rospetto dal ventre giallo acceso, con macchioline nere: sta immobile, convinto che il suo predatore sarà messo in guardia da quella pancia dal colore così brillante, che indica tossicità. Il viso del responsabile del
servizio naturalistico della Riserva Monti Navegna e Cervia si illumina: "Ma sei tu! Non ti vedevo da un anno, pensavo fossi morto!". Uno degli esemplari più vecchi tra gli ululoni appenninici (Bombina pachypus), che dal 2006 Pieroni monitora e cataloga con una passione che va ben oltre i suoi compiti, viene controllato meticolosamente. "È un po' magro - osserva il naturalista - probabilmente ha appena ricominciato a muoversi dopo la fase di ibernazione, quando se ne stanno sotto il fango, ma sembra in buona salute. Lui ha circa 12 anni, ma possono arrivare anche a 16". Le macchioline nere sulla pancia dell'anfibio vengono confrontate con quelle di foto precedenti per una verifica ulteriore, poi viene messo in un barattolo, fotografato di nuovo e misurato. I dati, compresa la temperatura dell'acqua nella pozza in cui è stato trovato, sono annotati insieme a quelli degli altri esemplari che Pieroni pesca e poi rilascia. "Non è un bene che io li riconosca anche senza guardare le cartelle per il confronto - si rabbuia - vuol dire che sono pochi, sempre gli stessi".
 L'animaletto che l'Italia rischia di perdere. Gli ululoni sono pochi non soltanto qui, in questo angolo di paradiso dell'Appennino laziale, ma in tutta Italia. Il piccolo rospo (non supera i 5 cm) esclusivo della penisola italiana è l'emblema della nostra perdita di biodiversità e della minaccia che incombe sugli anfibi, che sono in tutto il mondo tra le specie più a rischio. Per restare all'Europa, il 59% di anfibi è in diminuzione e per il 23% la situazione è talmente grave da doverli annoverare nella Lista Rossa Europea. L'ululone appenninico rientra appunto in questo triste 23%: "Ha subìto negli ultimi anni un rapido declino tuttora in corso - spiega Pieroni - a causa della trasformazione del suo habitat. Vive e si riproduce in ambienti montani
o collinari e la sua sopravvivenza è strettamente legata alla presenza di pozze d'acqua anche temporanee, o di piccoli bacini artificiali come vecchi lavatoi in pietra usati in pastorizia. La distruzione degli ambienti adatti alla riproduzione, l'abbandono delle tradizioni agricole di un tempo e l'eccessivo sfruttamento dell'acqua minacciano l'ululone. In più, il clima sempre più caldo fa evaporare le pozze rapidamente e la cattura per il commercio illecito dei collezionisti, soprattutto verso la Germania, non si ferma".

Specie endemica della penisola (vive dalla Liguria alla Calabria) il piccolo rospo è ora a rischio di estinzione. Un progetto della Riserva Monti Navegna e Cervia, Università Roma Tre e Fondazione Bioparco di Roma alleva le uova in cattività e poi libera gli ululoni di 1 anno nelle pozze controllate dalla Riserva. Il naturalista Andrea Pieroni: "Distruzione del suo habitat e cambio climatico minacciano la sua sopravvivenza"

La sopravvivenza appesa a un filo (d'erba). Pieroni continua la sua osservazione delle pozze, che l'ufficio tecnico della Riserva Monti Navegna e Cervia, dove restano circa un centinaio di ululoni, ha recintato per evitare che cinghiali e altri animali entrino nell'acqua bassa. Con pazienza certosina osserva i germogli dei giunchi e delle erbe acquatiche alle quali sono attaccate le uova di ululone e le conta. "Rispetto ad altri anfibi l'ululone depone poche uova - dice - poche si schiudono e la mortalità dei girini e dei metamorfosati è altissima, circa il 92%". Con un altro filo d'erba recupera un grappoletto gelatinoso dal fondo e lo posa su uno stelo: "Perché le uova si schiudano devono essere a mezz'acqua, non posate sul fango. Provo a rimetterle qui, ma chissà...". Il suo non è fatalismo, è la praticità che, dopo anni di monitoraggio e tentativi di salvaguardare i nuovi nati, ha portato a cambiare strategia. Dal 2012, infatti, un progetto tra la Riserva, l'Università di Roma Tre e il Bioparco di Roma per aumentare la popolazione abbina alle attività sul campo quelle di laboratorio: dalle pozze si prelevano le uova, che vengono allevate nei laboratori del Bioparco, poi gli ululoni metamorfosati (cioè non più girini né adulti, a un anno di vita) sono rilasciati nelle pozze e monitorati.Uova al Bioparco, adolescenza nella riserva. "Il progetto sta dando risultati - dice il naturalista mentre controlla palmo a palmo anche l'abbeveratoio, che si trova un po' più a monte - ma mi preoccupa il cambiamento del clima: l'acqua è molto diminuita e non basta che, come abbiamo fatto, in agosto si sia arrivati a rifornire le pozze". Pieroni si blocca di colpo: "Ecco, hai sentito il verso?". Naturalmente soltanto lui ha l'orecchio allenato per percepire in mezzo al cinguettio degli uccelli un "uh uh", assai forte, considerato che è prodotto da un animaletto di pochi centimetri, e tanto particolare da aver dato il nome all'anfibio. È un buon segnale, vuol dire che i maschi stanno lanciando richiami alle femmine, che però oggi non si fanno trovare: alla fine si riesce a fotografarne soltanto due.
Il naturalista si infila in un pozzetto lungo strada, ammira una biscetta d'acqua e dopo aver passato palmo a palmo il tombino emerge con un altro ululone in mano. "Meno male che l'ho trovato - dice mettendolo nel barattolo che gli si porge - questo sarebbe finito dall'altro lato della strada e chissà se sarebbe riuscito a ritrovare la via delle pozze". Nel suo sollievo è palese la preoccupazione di chi sa che con una popolazione così ridotta perdere anche un solo esemplare è una tragedia. "Oggi ne abbiamo trovati pochi, ma è ancora presto, date le temperature - conclude - e poi ci vorrebbero più fondi e più personale. Se vengo da solo riesco a catalogarne meno, mi è prezioso qualcuno che prenda nota mentre li osservo".

Però la Riserva dei Monti Navegna e Cervia crede nel progetto ed è già molto: "Dopo anni di collaborazione con il Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre e la Fondazione Bioparco di Roma,- conferma il presidente della Riserva, Giuseppe Ricci  - ora c'è l’accordo con l’Università Agraria di Vallecupola, che ci ha concesso il terreno per ampliare un’area in cui intendiamo realizzare piccoli siti umidi adatti alla vita dell’ululone appenninico; in questo modo potremo proseguire con il ripopolamento di questa specie e allo stesso tempo dare una possibilità di colonizzazione di nuovi habitat alle popolazioni esistenti". E magari quando Andrea Pieroni ne tirerà qualcuno fuori dal fango potrà gioire di non riconoscerlo a prima vista. 

 



3.1.18

Asolo, dona la vigna alla nipote «Ma guai a te se produci Prosecco» Asolo. Antonia Raselli, ultima dei Bolasco, lascia cinque ettari di terreno sui colli di Asolo. «Te lo affido per produrre vino rosso


Risultati immagini per prosecco and  reportpremetto  che  di vini causa problemi  d stomaco ne bevo poco  e niente  e   non so distinguerne  se non  il bianco dal rosso  le  qualità  . Questa  storia   mi ha incuriosito   . Come  a  dire    l'erede sono io ma chi comanda è mia nonna😂🤔😆🤷‍♀️❤️ . Esso smonta  un luogo  comune    cioè  quello  di  chi lo dice in veneto una terra  ricca   di varietà  di vini  si faccia solo proseccco.
Lo   so che potra sembrare un gesto autoritario , quello  della nonna  (n vedere  sotto la storia )  ,ma  qui  d si vuole  evitare    che   succeda  come inn Friuli  ( vedere le puntate di report in merito a prosecco  del Friuli   venezia  giulia   in cui  i grossi produttori  di  prosecco l'accusano  di  demonizzarli  )   dove   il prosecco è diventato causa globalizzazione neoliberoista ed autoritaria un vino dominate uccidendo la biodivesità di quelle zone . E come se dai noi in Sardegna facessimo , meno male che ancora non ci siamo n, arrivati solo uno dei tre vini tipici ( cannonau , moscato, vermentino ) a scapito degi altri .

Risultati immagini per prosecco and  report

 da 



ASOLO. Una scelta forte, in controtendenza. Che non smentisce la tempra di chi l’ha fatta: donna Antonia Raselli, 95 anni ben portati, ultima discendente dei Bolasco. Ha donato alla nipote Martina Curato cinque ettari di vigneto, appoggiati sulle colline di Asolo davanti a villa Raselli, a una condizione: «Te li affido per il futuro, ma guai a voi se fate prosecco». Niente bollicine dalle sue viti, ma casomai ottimo vino rosso. E così è stato. «Rispettando la volontà della nonna», riferisce Martina, che, mamma felice, ora fa l’imprenditrice del vino con il marito Cristian Piazzetta dell’omonima famiglia dei caminetti, «abbiamo prodotto Merlot». La prima vendemmia si è celebrata lo scorso 8 settembre.



Un giorno non casuale per un vero e proprio rito di famiglia: è il compleanno di donna Antonia e nel 2017 lo ha festeggiato nel vigneto affidato alla nipote. «C’era anche lei con noi a vendemmiare», racconta Martina, «A lei abbiamo dedicato la prima produzione: trecento bottiglie di buon Merlot con una nuova etichetta “La Toni”, appunto». Così è chiamata donna Antonia Raselli per una grinta e un’energia che con il passare degli anni sono maturate e si sono arricchite acquisendo colori e profumi più intensi come un ottimo vino. «Siamo agli inizi della nostra avventura come produttori di vino», confida Martina, «abbiamo deciso di concentrarci sulla valorizzazione del Merlot in purezza».
A fianco di Martina e Cristian l’enologo castellano Enrico Rana. Con la benedizione di Antonia Raselli e la supervisione di Rana è stata così imbottigliata ai primi dello scorso dicembre una parte dell’annata 2017. «Bottiglie», precisa Marina, «per ora destinate agli amici e a chi si è dimostrato sensibile verso questa nostra avventura. Poi, nelle barrique, abbiamo voluto lasciar riposare il resto della produzione. La seguiremo nella sua evoluzione e cercheremo di capire quale sarà la strada migliore».
La produzione di vino rosso è stata avviata in due ettari e mezzo dei cinque donati da donna Antonia, figlia di Giacomo, ultimo podestà di Asolo. Sull’etichetta del Merlot imbottigliato ai primi dicembre i due simboli delle famiglie Raselli e Bolasco. Donna Antonia si gode il suo Merlot, sicura che la nipote non tradirà l’impegno preso. «Questa è terra di vini rossi»,
ha ammonito dal suo metro e quaranta di altezza, «Niente bollicine». Lo stesso tono perentorio di quando lei, nobile, decise di sposare Antonio Tonello, uno del popolo, contro la volontà della famiglia. Combattiva e “capatosta” allora come oggi: niente Prosecco sulle sue terre

3.11.16

la battaglia ecologista di Sylvie Guillem ex ballerina dell'Opéra di Parigi



Leggi anche
http://www.wordsinfreedom.com/sylvie-dopo-guillem-vivere-secondo-natura/

Dopo essermi " marzullato "  con questa  domanda  -  risposta

vegani o vegetariani ( parziali nel mio caso in quando mangio formaggio e uova e raramente carne d'allevamento non industriale\ intensivo ) scelta morale o moda ?
Entrambi . Anche se,lo stesso vale per tutte le cose , la scelta viene fatta criticamente \ spontaneamente e non in maniera acritica \ passiva. Io preferisco la seconda .




Ecco la  storia  secondo me sincera   e coerente di Sylvie Guillem .  Essa è    rispetto a  quella del sottoscritto , cresciuto  fine  anni  70 primi 80   sul finire della cultura  egli stazzi e delle cussuggie   (  I II )  dove  gli animali ( galline  , mucche  ,  maiali , api )   s'allevavano   in maniera  naturale  \  biologica  e  non intensiva  \  industriale  ed  i loro prodotti ( salun ed insaccati , miele ed  uova  )  
erano sani  che   se magia  pochissima  carne    e molta verdura  quindi  è uno che  non disdegna la  cucina vegetariana   - vegana   ma  non ha  il coraggio pur piangendo  ogni volta  che vede  carne  e programmi  sugli allevamenti  non riesce  a  fare il passo   definitivo ad uyn  alimentazione  senza  carne  ed  prodotti animali  .

ma  ora basta  con il mio capriccio  )   e  veniamo alla storia in questione






Sylvie Guillem è una ballerina francese Conosciuta ed apprezzata come una delle più grandi ballerine che ha incominciato ad 11\12 anni e nel corso del 2015 all'apice della sia carriera la cui scelta è stata << Annunciata la sua ferma intenzione di interrompere la carriera (“Mi ritiro quando sono al massimo, non volevo essere obbligata dai segnali del corpo”) [1], danza per l'ultima volta, il 30 dicembre 2015, davanti al pubblico giapponese .[2] >> ( da  wikipedia

    l'icona della danza Sylvie Guillem è anche una donna impegnata per la tutela dell'ambiente e la lotta contro “l'assurdità di un mondo suicida, ignorante, avido e sanguinario”. 
    Conosciuta ed apprezzata come una delle più grandi ballerine, l'icona della danza Sylvie Guillem è anche una donna impegnata per la tutela dell'ambiente e la lotta contro “l'assurdità di un mondo suicida, ignorante, avido e sanguinario”.Una scelta  coraggiosissima   come è evidente  sia  dall'intervista    rilasciata   al programma di rai tre  indovina  chi viene a cena del 31\11\2016  ce  trovate   qui su http://www.vegolosi.it/
      e  da  questa    che    del  20134  che  dimostra      come  la sua  scelta    fosse già nell'aria    quando ancora  era  una balleria  e  non delle coversioni dell'ultimo momento  fatte per  moda  o  farsi  pubblicità  




    Danza e ambiente, la battaglia ecologista di Sylvie Guillem

    Conosciuta ed apprezzata come una delle più grandi ballerine, l'icona della danza Sylvie Guillem è anche una donna impegnata per la tutela dell'ambiente e la lotta contro “l'assurdità di un mondo suicida, ignorante, avido e sanguinario”.

    di Salvina Elisa Cutuli - 20 Marzo 2013

    sylvie guillem
    Sylvie Guillem, una delle più grandi ballerine, icona della danza dalla straordinaria tempra fisica e non solo
    A volte nella vita ci si ritrova a vivere incontri che non avremmo mai pensato di fare se non nei sogni. Chi di mestiere fa il giornalista è abituato a realizzare interviste, ma l'abitudine cede il passo all'emozione quando si incontrano persone che hanno segnato in modo particolare la propria esistenza.

    È stato dunque per caso, una lacrima di emozione dopo averla vista ballare e sentita parlare, una forte stretta di mano, un ripensamento per non averne 'approfittato', un passo indietro ed un'attesa trepidante nel corridoio dell'Auditorium Parco della Musica di Roma prima di avere un suo recapito.

    Un climax di emozioni ed eccomi finalmente lì, a realizzare un'intervista a Sylvie Guillem, una delle più grandi ballerine, icona della danza dalla straordinaria tempra fisica e non solo. Basta vederla danzare per capirlo. Passione, talento, intelligenza, impegno, abilità, espressività si servono di un corpo longilineo e sinuoso capace di dare vita a movimenti, linee ed equilibri in una continua sperimentazione che l'ha portata ad affiancare il mondo del classico, con la danza moderna e contemporanea.

    Come detto, però, non è solo una questione di fisico. Dietro il palcoscenico, infatti, c'è un'artista, una persona attenta e cosciente del mondo in cui viviamo che ha deciso di sostenere l'esempio di Paul Watson – a lui e a Rudolf Nureyev ha dedicato il Leone d'oro alla carriera per la danza che ha ricevuto nel 2012 a Venezia – e degli attivisti di Sea Shepherd, promuovendo e facendo conoscere il loro messaggio durante i suoi spettacoli.

    Prima dell'inizio dello spettacolo – Sylvie Guillem, lo scorso 3 febbraio, ha aperto la nona edizione del festival Equilibrio all'Auditorium Parco della Musica di Roma, con un trittico di pezzi che riunisce tre dei più importanti coreografi del momento: Mats Ek, William Forsythe e Jiří kylián – sono stati distribuiti alcuni volantini con un messaggio chiaro che porta la sua firma: “[...] Eppure tutti noi siamo coinvolti da questi crimini contro la natura e la biodiversità, assolutamente tragici per le generazioni future. […] Il mio impegno con Sea Shepherd è teso a sostenere la lotta contro l'assurdità di un mondo suicida, ignorante, avido e sanguinario. Un mondo che saccheggia ciecamente le risorse da cui dipende. [...]”.

    Durante la nostra conversazione, quindi, ho avuto modo di conoscere un altro volto di questa artista imprevedibile e audace che ha sentito da subito il bisogno e la necessità di libertà di ballare a modo suo, che ha piegato le regole del balletto classico sfidando anche le convenzioni più radicate. Un volto curioso, attento e consapevole che lotta affinché l'essere umano impari a salvaguardare se stesso e quindi il pianeta.

    sylvie guillem
    "Tutti noi siamo coinvolti da questi crimini contro la natura e la biodiversità, assolutamente tragici per le generazioni future"
    Cosa è per lei la danza?

    È una necessità, una fortuna arrivata senza cercarla, senza chiederlo. È arrivata e sembrava una evidenza forte, non ho pensato e mi sono sentita subito a mio agio, trovando uno spazio enorme di libertà, di comunicazione, dove poter dare e ricevere generosamente. La danza per me è tutto questo. È una maniera di essere, una maniera come un'altra, come lo è per uno scrittore, un pittore o un cantante.

    Come definirebbe la danza?
    È la maniera di raccontare una vita o un persona anche se talvolta passa attraverso personaggi o cose non descrittive. Ovviamente è il movimento del corpo che permette che le emozioni si sentano, passino da una persona all'altra, come le parole della bocca, come le immagini di un film...

    Cosa pensa dei tanti spettacoli di danza che si vedono oggi in giro?

    È bello che ci sia l'opportunità di realizzare tanti lavori, ma sono pochi quelli che, guardandoli, mi hanno cambiato la vita. Fa parte della società di oggi avere tante cose nuove, nuovi lavori, progetti, creazioni, ma poca originalità. Sono nuove perché qualcuno ha deciso di fare qualcosa, ma questo qualcuno non l'ha fatto perché sente la necessità, perché ha qualcosa da comunicare in una certa maniera.

    Per arrivare al suo livello c'è bisogno di tanto lavoro, sostenuto dalla passione, dal cuore e da tanta intelligenza. Cosa si sente di dire ai più giovani che intraprendono questa carriera interessati, spesso, più alla forma che alla sostanza?

    Non posso cambiare la società e i ballerini che ne sono parte. Ci sono persone che fanno questo lavoro con passione, onestà, rispetto e necessità – non facciamo questo mestiere perché non abbiamo niente di meglio da fare – altre che... sai, una piramide è fatta sempre da una base larga con una punta molto stretta perché, come le persone, la varietà è davvero tanta. C'è chi pensa con il cuore, chi si lascia andare per scoprire le cose, per impararle e trasmetterle ad altri e chi, invece, ha come obiettivo la carriera fine a se stessa.

    Secondo lei si può danzare senza tecnica?

    Sì, sarà differente perché quando c'è un vuoto o una debolezza bisogna trovare una compensazione. Talvolta la persona ha qualcosa di così importante da trasmettere che il problema della tecnica non si considera neanche, non ci si pensa. È chiaro che per discipline come la danza classica è meglio possedere una tecnica, anche se non formidabile, per non correre il rischio di cadere e per acquisire una certa eleganza e grazia. Bisogna considerare anche cosa vuole/cerca il pubblico. Spesso lo sguardo del pubblico è più eccitato per la performance che per un'emozione. Sul palcoscenico come nel pubblico la gente è variegata.

    sylvie guillem
    "6000 miles away" è uno spettacolo ideato e interpretato da Sylvie Guillem come omaggio al Giappone devastato dallo tsunami (Foto da “6000 miles away”)
    Qual è il segreto di Sylvie Guillem? Cosa la muove?

    Se avessi un segreto non lo direi (ride!). Non c'è un segreto, sto ancora scoprendo e imparando molte cose, cosa c'è da fare, come reagisco alla vita... Ho avuto la fortuna di fare qualcosa che mi è venuto così senza cercarlo. Mi è piaciuto dall'inizio, ho visto che c'erano delle cose incredibili da vivere ed esplorare. Cerco di fare il meglio possibile, di continuare e seguire questo cammino in modo onesto. Non voglio deludere. Sul palcoscenico non si può nascondere ciò che siamo veramente, si sente e si vede tutto. “I do my best”. Ho questo approccio con la mia disciplina.

    È possibile raggiungere la perfezione?

    Si può cercare, ma non so quale sia la perfezione. Ci sono momenti in cui ho sentito emozioni più forti, ho visto maggiore bellezza, ma non so se è la perfezione.

    Di recente l'abbiamo vista protagonista dello spettacolo “6000 miles away” alla nona edizione del festival “Equilibrio” a Roma. Partiamo dal titolo. Cosa significa? 6000 miglia lontane da chi?

    Mentre eravamo a Londra e provavamo la coreografia di Forsythe – era giunto anche il momento di scegliere il titolo per lo spettacolo – ci è giunta la notizia del terrificante tsunami in Giappone. Sono tanti anni che vado in Oriente ed ho imparato ad amare questo paese... ho tanti amici, tante persone che conosco bene. Guardavo la televisione e mi sentivo inutile e impotente, non potevo comunicare con gli amici e non sapevo come stavano. Oltre alle persone che conosco pensavo anche agli altri, al pubblico che mi segue da tanti anni.

    Questa sensazione di impotenza non era piacevole. Mi dicevo: “ok non sono in Giappone, non sono lì, facciamo qualcosa che possa alleggerire lo stato d'animo delle persone colpite da questo evento”. Ed ecco il perché di “6000 miles away”. 6000 miglia, infatti, sono la distanza tra Londra e Fukushima. Un omaggio all'amicizia. Un pensiero che potesse far sentire che l'amicizia esiste anche se ci sono tanti chilometri che ci dividono.

    Mi ha stupito molto il volantino che è stato distribuito all'ingresso della sala del teatro con un suo testo che richiama l'attenzione del pubblico sull'associazione fondata da Paul Watson, Sea Shepherd. Perché divulgare e far conoscere proprio Sea Shepherd? Cosa rappresenta per lei la figura di Paul Watson?

    Ho visto per la prima volta, due anni fa circa, un documentario in televisione su Paul Watson e Sea Sepherd. Subito dopo, insieme a mio marito, abbiamo cercato su internet altre informazioni sull'associazione di volontari presieduta da Watson. Mi è sembrato qualcosa di utile, realizzata con senso e intelligenza. Ho sempre avuto coscienza dell'importanza della natura e degli animali e avevo la sensazione che le cose non stessero andando nella direzione giusta. La vita di Paul, le sue parole, ma soprattutto le sue azioni mi hanno aperto gli occhi ancora di più e ho visto la dimensione del problema che è molto maggiore rispetto a quello che pensavo.

    sylvie guillem
    "L'arte è la vita, fa parte dell'essere dell'umano, è tutto. L'arte prende ispirazione dalla natura, con le emozioni che noi sentiamo e proviamo"
    Io sono un'ecologista per indole, amo l'aria e quando arrivo in un posto nuovo mi fermo sempre a sentirla, a respirarla... non sono cieca rispetto a quello che c'è intorno a me, so che sono una piccolissima parte rispetto ad esso e da cui dipendo, ma non mi rendevo conto che la situazione fosse così drammatica nonostante facessi parte - come tanti - di associazioni conosciute. Mi sono detta: “Paul, Sea e i volontari agiscono personalmente, vanno sul posto e non lottano solo contro la caccia alle balene, quella loro è una lotta molto più ampia”.

    Noi non siamo il centro di tutto, siamo parte di un tutto che ha bisogno di un equilibrio e se ci comportiamo e pensiamo di essere superiori rispetto alle cose intorno a noi è finita. Stiamo facendo danni terribili. Avrei voluto scoprire Paul Watson e Sea Shepherdmolto tempo prima. Non posso andare sulle navi, non sono capace di “attaccare” i laboratori che torturano animali, vorrei essere capace ma non lo sono almeno per ora (ride), come posso aiutare ed essere utile per la natura e la vita in generale? Allora ho capito che forse potevo contribuire ad aprire gli occhi ad altre persone.

    Non è giusto che solo una piccola parte dell'umanità, considerata spesso terrorista o fanatica, provi a salvare l'altra grande parte del mondo. Tante persone non vogliono rendersi conto, non vogliono vedere e questo mi fa molto arrabbiare. Non vogliono sentirsi dire che le proprie scelte non sono buone e non hanno nessuna intenzione di cambiare le proprie abitudini perché vanno bene così, permettono di vivere in modo più comodo e semplice. Molti non pensano nemmeno al destino dei propri figli! Non considerano tutti gli animali torturati; un vero olocausto per quanto ne vengono uccisi ogni anno nel mondo.

    Quindi l'arte può avere un ruolo importante...

    L'arte è la vita, fa parte dell'essere dell'umano, è tutto. L'arte prende ispirazione dalla natura, con le emozioni che noi sentiamo e proviamo. L'arte parla, dunque può aiutare. Ma l'arte è fatta dagli essere umani quindi è la parola di una persona.

    sylvie guillem
    "Io sono un'ecologista per indole, amo l'aria e quando arrivo in un posto nuovo mi fermo sempre a sentirla, a respirarla"
    Visto che l'arte può contribuire a svegliare le coscienze delle persone ci vorrebbero più artisti che, come lei, contribuiscano alla battaglia ecologista

    Anche se ci sono molte persone note impegnate il problema, purtroppo, permane. Le decisioni vengono prese valutando le conseguenze immediate senza ragionare e progettare “in prospettiva”. In una tribù indiana, ad esempio, qualsiasi scelta viene ponderata e presa considerando le sette generazioni future. Oggi viviamo in un mondo pazzo.

    Paul Watson non ha passaporto, è chiamato terrorista e spesso è perseguitato dalla giustizia. Volontari che vogliono salvare l'umanità vanno in prigione, mentre chi distrugge gli altri e la vita con l'inquinamento, le armi, le guerre ha la possibilità di prendere tranquillamente le proprio decisioni e non viene ostacolato. Non si tratta di salvare solo gli animali, ma si va molto oltre. Il nostro comportamento con gli animali riflette quello che abbiamo con gli esseri umani; se non sappiamo prendere buone decisioni per gli animali non lo sapremo fare per noi, per il nostro futuro e per i nostri bambini. È una lotta fondamentale.

    Visto che si parla di cambiare, per lei cosa è il cambiamento?

    Io sono diventata vegetariana e per me è stato un passo enorme. Amavo, specialmente in Italia, mangiare i salumi, ma ho deciso, e non per la mia salute, di fare parte della soluzione e non del problema. Se fossimo in tanti a fare delle scelte di questo tipo potremmo cambiare le cose prima che sia molto tardi. Nel 2045 non ci sarà più a disposizione pesce da mangiare. Se gli oceani muoiono, moriamo tutti. D'accordo non posso cambiare il mondo ma uno più uno più uno… se non c'è domanda, se la gente non va al supermercato per mangiare una carne, tra l'altro tossica, non ci sarà più un tipo di allevamento industriale che distrugge gli animali, la natura e quindi il nostro habitat. Da tanti anni non vado più al supermercato.

    Quando ero giovane dicevano che mangiare carne e bere latte era sano, oggi sappiamo che non è più così. È una scelta morale non salutare. Per me il cambiamento è questo, aiutare anche altre persone a raggiungere questa consapevolezza. Avrei voluto avere qualcuno che mi avesse fatto conoscere Paul Watson tanti anni fa, non solo adesso. Il cambiamento è aprire gli occhi anche agli altri.

    È ottimista per il futuro?
    No, perché si è perso il senso, l'intelligenza, la compassione nelle cose e nei comportamenti. Non è più accettabile con i mezzi di informazione che oggi abbiamo a disposizione fare finta di non sapere, di non scegliere, di non cambiare. La gente non pensa agli altri, ma a se stessa. Non è la politica che può risolvere le cose. Ammiro Paul Watson, gli attivisti e coloro che hanno il coraggio di agire e non parlano solamente. Meglio combattere che mettere la testa nella sabbia. Questa è una lotta contro il denaro e il potere, ma anche contro l'ignoranza della gente.

































































































































































































































































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