Tra i dieci condannati in via definitiva per l’omicidio di Sergio Ramelli c’era anche l’attuale vice-primario presso il reparto Psichiatria 3 dell’ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano: Claudio Scazza. Il 16 maggio 1987, dodici anni dopo la morte di Sergio Ramelli, Scazza è stato condannato in primo grado a 11 anni per omicidio preterintenzionale. In aula esibiva un elegante loden verde, era immobile e silenzioso: i tempi del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e delle Hazet 36 sembravano già lontani, dimenticati. In appello, il 2 marzo 1989, l’accusa è stata mutata in omicidio volontario, ma la pena ridotta in virtù del riconoscimento dell’attenuante del “concorso anomalo”: 6 anni e 3 mesi. Il 22 gennaio 1990 la Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello, chiudendo la vicenda giudiziaria sull’omicidio Ramelli Claudio Scazza non colpì materialmente Sergio Ramelli con le Hazet 36, ma fece parte del gruppo di squadristi che aggredirono il giovane missino in quel 13 marzo 1975, causandone la morte dopo 47 giorni di agonia. Inoltre il medesimo servizio d’ordine, appena un anno dopo l’aggressione a Ramelli, si rese protagonista dell’assalto del bar di largo Porto di classe, considerato covo di “neo-fascisti”. Dopo la condanna, Claudio Scazza non tornò in carcere: riuscì ad usufruire di un condono e di pene alternative grazie alla sua “condizione sociale” e alla “ridotta pericolosità”. Scazza si è poi pentito: assieme ad altri quattro complici decise di inviare una lettera di scuse alla madre di Ramelli, offrendo e depositando presso un notaio un risarcimento di 200 milioni di lire. La donna, con grande dignità, rifiutò. Nel frattempo Claudio Scazza si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano, ha poi svolto per oltre 10 anni l’attività di terapeuta familiare ad indirizzo sistemico-relazionale e da 30 anni svolge attività clinica nei servizi psichiatrici pubblici. La sua biografia professionale è ben visibile sul sito dell’Ospedale Niguarda Ca’ Grande, dove è specificato che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale dell’azienda ospedaliera, oltre e essere il responsabile della Struttura Semplice Territoriale 3, svolge funzioni di coordinamento nel Servizio di Diagnosi e Cura. Mancano ovviamente riferimenti al suo passato da rivoluzionario di sinistra, ma viste le gesta non c’è nulla di cui gloriarsi. Il passaggio da complice dell’omicidio Ramelli a psicoterapeuta presso una struttura pubblica sarebbe passato inosservato, non fosse per alcune anomalie che riguardano proprio il Dipartimento di Salute Mentale del Niguarda. Suicidi, maltrattamenti ai pazienti, morti sospette, contenzioni fisiche, documenti mancanti e mobbing. Pazienti legati al letto in maniera disumana, una deceduta perché soffocata dal cibo che stava mangiando, altri trovati morti nel loro letto di contenzione o sul pavimento accanto al letto. Trattamenti disumani documentati in due esposti inoltrati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il primo il 13 dicembre 2010 e il secondo il 22 marzo 2011. Ve li alleghiamo integralmente. Gli esposti si riferiscono a ricoveri avvenuti tra il 2005 e il 2011.
Dal settembre 2010 è iniziato anche il mobbing ai danni della dottoressa Nicoletta Calchi, vicenda che si trascina da oltre 30 mesi e che è costata alla dottoressa 6 procedimenti disciplinari aziendali, di cui uno archiviato e gli altri 5 costati circa 365 giorni di sospensione lavorativa senza retribuzione; una denuncia in Procura immediatamente archiviata dalla stessa; 6 denunce all’Ordine dei Medici di Milano dalle quali la dottoressa è stata assolta dall’Ordine stesso; difficoltà economiche inimmaginabili.
La dottoressa è stata abbandonata dalla Cgil a partire dal giorno stesso in cui il sindacato ha saputo della sua partecipazione alla conferenza stampa in cui veniva annunciata la presentazione in Procura del primo esposto. Una sorta di “cameratismo di sinistra”.
Da luglio 2012 la dottoressa chiede di poter rientrare almeno per svolgere la sua attività in regime intramoenia, ricevendo sempre risposta negativa.
La sua vicenda è documentata in due lettere, la prima scritta dalla madre di un paziente e la seconda dalla dottoressa stessa in occasione di un convegno organizzato dalla Cgil nel febbraio 2011.
Sugli esposti farà chiarezza, si spera, la Procura della Repubblica. Noi non possiamo fare a meno di ribadire che gli aspiranti medici che nel 1975 hanno spezzato una giovane vita in nome dell’odio politico sono poi diventati luminari di successo. Con qualche ombra.