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5.1.23

Zonato , la frontiera ©Daniela Tuscano

 Zonaro, la frontiera


Nemmeno una targa ricorda la palazzina dove abitò  Fausto Zonaro, ultimo pittore della Corte Ottomana, al numero 5 di via Dante Alighieri a Sanremo. È una zona di condomini e negozi anni '70, tra via Zeffirino Massa e il principio del quartiere - qui si dice regione -  Baragallo, luogo decentrato, tutto in salita, quasi un'enclave di torrenti e asperità. Il microclima anticipa le brume montane di San Romolo. All'epoca di Zonaro la selvatichezza del posto doveva essere ancor più accentuata e maggiormente risaltava la sontuosità della Madonna della Costa. Forse per questo la scelse come dimora, e per quella durezza da rifugiati valdesi, numerosi nell'estremo Ponente ligure, che fra erte, canneti e mulattiere trovavano riparo dalle persecuzioni. Zonaro non era un eretico in fuga, ma un superstite sì; della cittadina smagliante e cosmopolita lo interessava il côté nostalgico.
 Sanremo era mèta del turismo ricco, soprattutto inglese e russo (zarista), capitale della Belle Époque, ma a Zonaro non sfuggiva quel suo lato finitimo, sorta di Colonne d'Ercole italiane, e ne predilesse la parte più umbratile e defilata, anch'essa di confine. Zonaro era reperto vivente: nato a Padova, ultimo lembo di Levante italiano, fu l'ultimo ritrattista ufficiale del sultano Abdulhamid e, al crollo dell'Impero, si stabilì nel Finisterre, ultimo lembo italiano, stavolta d'Occidente, dove terminò i suoi giorni, in esilio, anche Maometto VI, fratello di Abdulhamid. Zonaro (con)visse con l'ultimità, e in definitiva con la favola: l'Oriente delle odalische e degli eunuchi, dei diwan e delle terme, che si chiamava Costantinopoli; e Zonaro, come il Sinan di De André, era egli stesso turco, un turco padovano-sanremese, un turco italiano


. Sarebbe piaciuto ad Alessandro Spina, cioè Basil Khouzam, lui pure un ultimo, un siro-libico italiano. Testimoni d'una fratellanza d'arte e letteratura, favolistica perché inattuale, favolosa perché crudele, pur nella brillantezza dei colori e l'eleganza della prosa. Non sorprende che il tempo ordinario, il tempo smemorato, di quest'eternità non conservi nulla, anzi la ignori; solo fuori della storia, essa troverà dimora.


© Daniela Tuscano

26.11.21

Il “maschio-alfa” Di Mare sloggia Fiorella Mannoia e vuole essere lui a parlare di femminicidi

Cercando il mio scritto offline per il post d'oggi ( lo trovate dopo questo ) ho trovato quest articolo del




FQ d'oggi 26 Novembre  2021 di Antonio Padellaro che volevo archiviare per il prossimo 25 novembre ma fatti come quelli che riporto oggi mi hanno fatto cambiare idea . Ma andiamo con ordine.

 Fanfare sui femminicidi

Speriamo che trascorsa la Giornata contro la violenza sulle donne non si debba poi dire, ancora una volta, molto rumore per nulla. Viva mille volte il rumore che anche questa volta è stato fragoroso, ma che dovrebbe rimanere assordante a rammentarci l’esistenza di un’infamia di cui non riusciamo a liberarci. Attenzione però al nulla di fatto, implacabile ogniqualvolta in Italia si cerca di risolvere la questione delle tutele dei più deboli. Leggiamo su La Stampa: “Femminicidi, il governo accelera, ‘Ora leggi e pene più severe’”. Fantastico. Da applausi anche la proposta della ministra per il Sud, Mara Carfagna: “Aiuti alle donne coi fondi tolti alle mafie”. Ma chi ci assicura che provvedimenti così duri, una volta giunti in Parlamento, non affondino nella palude dei veti “garantisti” della destra, e addio, come avvenuto con il ddl Zan? Certo, attendiamo che la voce di Matteo Salvini e Giorgia Meloni su tali proposte si levi forte e chiara, ma siamo proprio sicuri che l’occhiuto senatore Pillon non abbia obiezioni sul merito? Esiste poi il problema delle aule di giustizia chiamate a giudicare gli autori dei misfatti. Leggiamo sul manifesto: “Femminicidi: se c’è la gelosia, l’aggravante spesso non è concessa”. In un’analisi qualitativa su 370 sentenze condotta da Alessandra Dino, docente a Palermo, emerge che nel 44% delle motivazioni i giudici definiscono le uccisioni di donne “come sentimentali, per rifiuto o abbandono, oppure relazionali, per possesso”. Per gli assassini implicite attenuanti coerenti con la descrizione della vittima “che molto spesso viene vista come ondivaga, fragile, quando non si evidenzia la sua condotta sessuale disinibita all’origine dei gesti”. Poi, c’è un contesto pubblico nel quale si fatica a considerare i femminicidi come reati marchiati dal particolare allarme sociale che suscitano. Infatti, su Libero, Filippo Facci scrive, citando numeri ufficiali, che “l’italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise, anche perché il tasso di omicidi è tra i più bassi del mondo”. Dati che, va riconosciuto, rappresentano un motivo di consolazione, e anche di pacata riflessione, per le 109 donne che dall’inizio dell’anno sono state sparate, accoltellate, sgozzate, sventrate, strangolate, massacrate di botte e, in definitiva, cancellate dalla faccia della terra. Anche perché, probabilmente, se l’erano cercata.



l'ennesima    cafonaggine e  prevaricazione , dopo quella  dell'anno  scorso   con Bianca  Berlinguer   di  quello che credevo  un buon giornalista 

 Per realizzare uno speciale contro la violenza sulle donne viene cancellata una trasmissione in programma e già registrata che riguardava proprio la violenza sulle donne. Via Fiorella Mannoia, dentro Franco Di Mare. Ieri sera su Rai3 è andato in onda uno Speciale Frontiere condotto dal direttore di rete Di Mare dal titolo evocativo: “Gli uomini non cambiano”, come la nota canzone di Mia Martini.

Peccato, però, che, per allungarsi sul palinsesto, Di Mare abbia commesso una piccola violenza televisiva nei confronti di Fiorella Mannoia, sfrattando la puntata già registrata de La versione di Fiorella, che ieri sera avrebbe trattato gli stessi argomenti. “Per motivi di palinsesto questa sera non andremo in onda”, ha twittato Mannoia ieri mattina a cose ormai fatte. Il cambio di palinsesto, a quanto si sa, è stato stabilito mercoledì. Sembrava che i due programmi potessero coesistere. Poi però Di Mare ha deciso che gli serviva più tempo, fino a mezzanotte. E quindi addio Fiorella, nemmeno invitata a partecipare al nuovo programma. La cantante tornerà in onda questa sera con la puntata già registrata sulle violenze contro le donne. Questione che sembra stare molto a cuore alla nuova dirigenza. “Il servizio pubblico può e deve contribuire a contrastare la violenza contro le donne”, hanno detto ieri l’ad Carlo Fuortes e la presidente Marinella Soldi.


  fare un programma in due  o  unirli    sarebbe stata  la  cosa  migliore  .   



7.9.21

Roma, San Lorenzo in mano ai boss del quartiere. La ristoratrice-coraggio: "Ci sentiamo soli, qualcuno ci tuteli" , Alicudi, la scuola più piccola d'Europa: tre alunni in tutto. Ma per i prof è un'impresa ,ed altre storie

   sempre  a  proposito  di resistenza  e  di  guerriglia  contro  culturale  oltre  alle storie    del precedente  post    eccovene  altre 




Roma, San Lorenzo in mano ai boss del quartiere. La ristoratrice-coraggio: "Ci sentiamo soli, qualcuno ci tuteli" 
                             di Romina Marceca repubblica    3\9\2021(franceschi)


Minacce, soprusi, violenze: i pub sotto il ricatto di gang stile Gomorra. E contro i boss del quartiere c'è stata una sola denuncia. L'ultimo raid: distrutto un locale, titolare in ospedale




Alle 23 in piazza dell'Immacolata a San Lorenzo sono seduti in un pub malandato. Ridono, chiacchierano con amici e parenti sotto la luce fioca dei lampioni e le telecamere di Occhi sulla città. Accanto il fedele pitbull color champagne. Sono loro i boss del quartiere con tanto di auto posteggiata in mezzo alla strada. Due fratellastri, una famiglia, e a capo di una gang composta da giovani che spacciano agli angoli delle strade marijuana, hashish, mettono a segno piccoli furti mentre loro collezionano insopportabili soprusi ai ristoratori. Sono legati all'estrema destra, frequentano il giro degli ultras, nel loro passato arresti e denunce, mettono in campo l'arroganza in stile Gomorra con coltelli alla mano. La loro base operativa, di giorno, è un ex centro sociale. Il quartiere sa, tace e subisce.
Ma c'è chi, nonostante un passato non del tutto limpido, ha deciso di dire "No". È Giulia, nome di fantasia, che racconta a Repubblica da dietro il bancone: "Qui siamo governati da criminali, non ce la facciamo più. Io, mio marito e mio cognato abbiamo iniziato a denunciarli da un anno. Arrivavano, consumavano al banco e poi andavano via. Utilizzavano il nostro bagno per spacciare. Siamo stati minacciati di morte più volte". Ma c'è di più. Contro il pub della coppia una settimana fa è stata scagliata una molotov. "Siamo esasperati. Il locale è stato incendiato perché ci siamo rifiutati di pagare un'estorsione", ricostruisce la ristoratrice, si asciuga il sudore perché quando parla di loro si innervosisce. "Per fortuna non c'era nessuno all'interno ma fuori è scoppiato il panico", ricorda.
La beffa è arrivata da lì a poco. Giulia alza gli occhi al cielo: "I carabinieri hanno arrestato chi ha messo a segno l'attentato incendiario e la mattina ce lo siamo ritrovati qui. Il giudice l'ha scarcerato. Lui ha sputato contro la nostra saracinesca e ha detto: "Ah 'nfame hai riaperto? Io ti faccio chiudere un'altra volta come ieri". Una persecuzione". Mentre il fratellastro intorno alle 2 della notte è passato davanti al locale urlando: "Invece di dare fuoco al locale, doveva dare fuoco a te". La denuncia, l'ennesima, è stata presentata il 29 agosto. In procura ci sono diversi fascicoli sui due fratellastri: droga, minacce e l'ultimo per tentata estorsione. Uno dei due ha anche un Daspo ma gira senza problemi nel quartiere. "Sono stata anche accusata - continua - di avere sposato un uomo immigrato. "Hai portato un nero qui", mi hanno detto". Con gli immigrati, che disprezzano, poi però i fratelli farebbero affari per rifornirli di droga.
L'ultimo atto di forza ieri: il locale del cognato è stato distrutto da altri due uomini della gang. Giulia lo racconta al telefono: "Mio cognato è in ospedale, il pub è devastato. Ci sentiamo soli, abbiamo paura. Qualcuno ci tuteli". Secondo Giulia altri ristoratori hanno presentato denuncia ma, tra gli intervistati, nessuno ammette a Repubblica di avere alzato la testa contro i due capoccia. "Sì, è vero - dice un altro titolare di pub - qui si spaccia ovunque. Dopo Desirée è ritornato tutto come e peggio di prima. Ci sono questi due fratelli guappi ma io non gli ho mai dato confidenza. Una volta mi sono arrivati dei coltelli contro il locale ma nulla di preoccupante". Una resa a una situazione inaccettabile.
Quella della coppia è una voce fuori dal coro. È anche vero che a San Lorenzo il bianco e il nero non sono colori ben definiti e scivolare nell'area grigia è facile. Non sarebbe un mistero il fatto che alcuni titolari di locali danno il lasciapassare allo spaccio dentro ai pub. "Quelli lì sono stati i primi a dare manforte ai fratelli sanlorenzini. Adesso sono passati dall'altra parte", è quanto pensa di Giulia e del marito un altro ristoratore.
All'una di venerdì notte gli affari di droga vanno avanti senza problemi nonostante il presidio delle forze dell'ordine ai lati di piazza dell'Immacolata e di largo degli Osci. I locali da 2 euro a shottino sono strapieni di minorenni e universitari di ritorno dalle vacanze. Acquistare un pezzo di "copertone" (hashish di scarsa qualità) è più facile che mettersi in fila per una birra. "Ma se vuole - si avvicina un uomo dei fratelli - abbiamo anche cocaina".

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La scuola di Alicudi è tra quei pochi istituti d'Italia che il covid non ha stravolto. Anche prima della pandemia, infatti, non aveva problemi di distanziamento: perché gli studenti sono tre, in tutto. E già si praticava la dad (spesso si facevano collegamenti video con le altre scuole delle isole Eolie). 

 
In questo reportage inedito (girato nel gennaio del 2020) raccontiamo una delle scuole più sperdute d'Italia. Gli insegnanti devono affrontare viaggi di ore per raggiungere i loro alunni. O devono trasferirsi sull'isola, e affittare una casa. Con il risultato che lo stipendo se ne va quasi tutto per pagare le spese. E a volte gli alloggi non sono esattamente confortevoli, visto che si tratta di abitazioni soprattutto estive: una maestra racconta che la sua - ad esempio - non ha i vetri alle finestre. E se il mare è grosso, anche i prof che non si sono trasferiti sono costretti a rimenere sull'isola.
Per arrivare a scuola bisogna salire 356 scalini. E a volte, per portare i pesi, gli abitanti (non sono più di 60) usano ancora gli asini. 
Sull'isola il virus non è mai arrivato, i residenti sono quasi tutti vaccinati, come quasi tutti gli insegnanti, guidati dalla storica preside Mirella Fanti. E tra qualche giorno si ricomincia, suona di nuovo la campanella
 
di Valeria Teodonio
regia di Sonny Anzellotti
immagini di Sonny Anzellotti e Valeria Lombardo
montaggio di Alberto Mascia
grafica Riccardo Pulvirenti





rebblica5\9\2021
Teddy, il pugile di Auschwitz che tentò di mettere KO i nazistidi Andrea Tarquini

Tadeusz Pietrzykowski
 
In un libro e in un film appena usciti in Polonia la figlia di Tadeusz Pietrzykowski racconta come il padre complottò per assassinare il comandante del lager in cui era stato rinchiuso per motivi politici. Liberato dall'Armata Rossa, condusse una vita umile: il regime comunista non gli riconobbe i suoi atti di eroismo



Per sportivi e tifosi polacchi e di tutta Europa si chiamava Tadeusz Pietrzykowski, detto Teddy, era l´idolo del ring, campione polacco dei pesi gallo e giovane promessa del pugilato europeo. Per i nazisti fu il prigioniero numero 77, come gli fu tatuato sul braccio. Adesso un film appena uscito, "Il campione di Auschwitz", e una biografia di lui scritta postuma dalla figlia, Eleonora Szafran, dal titolo "Mistrz", il maestro, ricordano il suo eroismo, gli anni tragici nella fabbrica della morte della Shoah nazista tedesca nella Polonia occupata da Berlino e Mosca, poi la povertà nel dopoguerra, quando il regime comunista si guardò bene dall´onorare il suo eroismo. Ci sono voluti 76 anni perché la sua avventura straordinaria uscisse dal silenzio e riaffiorasse nel mondo della Memoria.
Tadeusz, detto Teddy dai fan della boxe polacchi e di tutta Europa, cattolico e patriota convinto, finí ad Auschwitz come prigioniero politico polacco arrestato dalla Gestapo mentre cercava di raggiungere l´Europa occidentale e unirsi all´Armata polacca, che poi in guerra sotto la guida del generale Wladyslaw Anders a fianco degli alleati combatté con piú uomini e armi che non la Francia gaullista.
Il sogno di Teddy di lottare per la libertà a fianco di quegli eroi fu infranto dall´orrida macchina repressiva del Terzo Reich. All´inizio fu percosso torturato maltrattato e costretto a lavorare come una bestia come tutti gli altri detenuti ebrei o polacchi. Poi il caso e il suo temerario coraggio gli fornirono la via di sopravvivere: un detenuto tedesco, che svolgeva il ruolo di Kapò, sapeva che Teddy era un pugile famoso e gli propose di organizzare un match.
Tutti i compagni d´internamento tentarono invano di dissuadere Tadeus: che tu vinca o perda ti assassineranno, conosci i nazisti, gli dissero. Lui decise di rischiare, e con un colpo ben assestato alla mascella mise KO Walter Düning sanguinante. Qui venne la svolta: il Kapò, preso da ammirazione sportiva verso l´avversario, anziché chiedere di giustiziarlo come i capi del campo avrebbero sperato, decise di aumentargli le razioni di cibo e medicinali, e di alleggerire di molto la quantità di duro lavoro richiestogli.
Tadeusz non tenne mai tutto per sé: divise cibo e medicine con i compagni di detenzione. E con abile segretezza, cercò il piú delle volte invano di contattare i combattenti dell'Armja Krajowa, l´esercito interno dello Stato clandestino polacco: voleva convincerli a organizzare un attentato per giustiziare il crudele comandante di Auschwitz, elaborò egli stesso un dettagliato piano operativo.
Invano. Non gli riuscí mai, tanta era la sorveglianza repressiva. Allora approfittando del fatto che grazie al Kapò messo KO riceveva anche carta matite e tempo per prendere nota, scrisse tremende e realistiche cronache sulla vita quotidiana nella città della morte nazista tedesca. E intanto fondò un circolo di boxe nel campo col permesso die Kapò per dare un po´di speranza di vita ai dannati della terra.
Liberato con gli altri internati dalle divisioni scelte dell´Armata rossa in avanzata, tentò di ricominciare con la carriera di pugile, ma gli anni di detenzione lo avevano reso troppo debole e malato. Si guadagnò la vita onestamente e con paga frugale da insegnante di educazione fisica. Mai il regime comunista gli conferì premi, mai narrò le sue gesta: era un aspirante resistente obbediente al governo in esilio a Londra, i suoi eroi furono sempre Anders e l´Armia Krajowa, cui da detenuto passò informazioni, non i partigiani comunisti né tantomeno il regime comunista poi instaurato dai nuovi occupanti sovietici che combatté per tre anni di guerra civile l´Armia Krajowa e assassinò con la falsa accusa di tradimento moltissimi ex partigiani, oltre a colmare prigioni e campi di prigionieri politici maltrattati e torturati almeno fino alla svolta di Gomulka nel 1956, sulla scia della destalinizzazione.
Oggi Teddy torna un eroe. E il ricordo di lui è anche un monito per il giorno d´oggi, dice alla Afp l´attore Piotr Glowacki che lo impersona nel film: "Come chi protesta oggi, egli combatté contro la discriminazione di chiunque, per ragioni etniche sessuali politiche o qualunque altra“. Un eroe, insomma, ma secondo questa chiave di lettura un eroe scomodo per i sovranisti omofobi.







17.2.16

Una lampada portatile per illuminare la notte in Mali

http://www.studiomatteoferroni.com/2016/01/matteo-ferroni-it.html



da  http://www.repubblica.it/topics/news/matteo_ferroni-94855388/



Matteo Ferroni

Architetto, nato a Perugia nel 1973 e laureato all'Università della Svizzera Italiana, premiato dalla Città di Barcellona con una menzione d'onore al City to City Award. Nel 2004 viene chiamato da Luca Ronconi per trasformare un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santacristina e parallelamente entra nel mondo della video arte con un opera esposta al Museo di Valls (Catalogna) e con performance live con Ludovico Einaudi. Due progetti recenti in cui esplora gli aspetti antropologici della luce nel Mali rurale e Città del Messico gli valgono l'attenzione internazionale per il modo nuovo di concepire tecnologia e cultura.




Prima uno studio sulle comunità rurali del Mali e sull'importanza della notte nella loro vita quotidiana. Poi la prototipazione di una lampada a basso costo e facile da produrre. E così la luce collettiva torna a dare speranza (e posti di lavoro) ai villaggi. Al 'Next' l'architetto perugino Matteo Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen'


di GIAMPAOLO COLLETTI
@gpcolletti
17 settembre 2014
C'è una comunità in Mali che è tornata a vedere di notte grazie anche all'intuizione di un brillante architetto italiano. Così Matteo Ferroni, nato a Perugia e premiato dalla Città di Barcellona con una menzione d'onore al 'City to City Award', ha ridato la luce agli abitanti rispettando il contesto geografico, risparmiando energia e mantenendo inalterato il senso del tempo e dello spazio.
'Foroba Yelen' significa 'luce collettivà ed è la soluzione che sta migliorando la vita degli abitanti dei villaggi rurali del Mali. Si tratta di una lampada da strada portatile che illumina le attività piuttosto che gli spazi. Perché in Mali a causa del caldo che raggiunge livelli molto alti la vita scorre soprattutto di sera e per terra.
Produzione in loco, grazie alla fusione di parti di vecchie biciclette e lattine che vengono plasmate per diventare la testa della lampada. La lampada utilizza l'energia solare e dispone di batterie che possono essere ricaricate nelle stazioni distribuite lungo il territorio. E poi è mobile, trasportabile con facilità anche dalle donne, in modo da dare a chiunque la possibilità di usufruire della luce artificiale.
Per Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen', è possibile conciliare tecnologia e presenza umana. "Occorre però privilegiare i valori culturali. In questo progetto ho considerato la luce come un fenomeno culturale invece che una sfida tecnologica. Cioè il mio obiettivo non era di portare la tecnologia LED nei villaggi, ma di trasformare l'ombra dell'albero in luce. Le conseguenze sono potenzialmente enormi: invece di installare 40 lampioni in ognuno dei 20.000 villaggi del Mali, basterebbero 4 lampioncini mobili in ogni villaggio", racconta Ferroni, che da questa esperienza ha avviato una ricerca appassionante su etnografia e design.

Energia elettrica fai-da-te, ma non solo. Quali modelli emergenti sta vedendo prevalere nel mondo dell'architettura?

"Mi pare che i giovani architetti stiano cercando nuovi modi di interagire con la città. Riconoscono l'importanza della cittadinanza attiva ed intraprendono esperienze in cui l'architettura è frutto di un processo controllato invece che di un disegno libero. In un certo senso sta emergendo un nuovo modello di architetto più che un nuovo modello di architettura".
E lei personalmente a quali stili guarda con maggiore attenzione?

"Io credo che l'architetto debba cercare di elevare il proprio spirito e chiedersi a cosa serva l'architettura. Per questo guardo con ammirazione l'opera dei maestri del '900 che conoscevano il mestiere e la vita. Nell'Expo del 1937 Josep Luis Sert realizzò il padiglione della Repubblica Spagnola in piena guerra civile presentando la Guernica di Picasso proprio in faccia al padiglione nazista. Ecco, quell'architettura esprimeva degli ideali ed un pensiero sull'essere umano".
Formazione o genialità. Un buon architetto su cosa dovrebbe puntare?
"Decisamente sulla formazione, perché anche la creatività ha bisogno di essere coltivata".

Su invito di Luca Ronconi ha trasformato un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santa Cristina a Gubbio. Ci racconta l'esperienza?

"In Luca Ronconi ho trovato un maestro, un riferimento come artista e come persona. Avevo solo trent'anni e lavoravo a Berlino quando mi ha chiamato per chiedermi se potevo aiutarlo a trasformare un'azienda agricola delle campagne Umbre nel suo centro teatrale. All'inizio voleva una cosa molto semplice per ospitare attori e poter lavorare entro pochi mesi. Il cantiere è diventato un laboratorio di architettura, con una mia piccola raccolta di libri, modelli di studio e prototipi di mobili. Un progetto a quattro mani nato sul posto senza disegni, o meglio, tracciando linee sui muri, sulle assi di legno e sul cemento".
Dal Mali e dal resto del mondo alla sua Umbria. Che cosa rappresenta la sua terra d'origine?
"L'Umbria ha la dimensione di provincia ideale e non è un caso che venga scelta da tanti artisti internazionali proprio come luogo di lavoro e non come luogo di riposo. Qui il tempo e la prossimità alle persone permettono di sviluppare progetti meglio che altrove. Concentrarmi qui, nelle campagne umbre, è una formazione continua".
Lei ha girato il mondo. Un messaggio ai giovane 'nexter'?

"Direi di guardare l'Europa come la nostra casa e quindi di non considerarsi mai dei fuggiti all'estero".


http://milan.impacthub.net/2013/04/05/matteo-ferrone-pioniere-della-luce-in-mali/






STORIES
Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mali
05 APRIL 2013 |



“In Africa ci sono finito per caso. Non ho mai lavorato per la cooperazione internazionale. Però ho lavorato nel teatro. Ogni tanto aiutavo la scenografa di Luca Ronconi. È stato proprio lui, il regista, il committente del mio primo lavoro”. Matteo Ferroni comincia così a raccontare la lunga strada che l’ha portato in Mali, nel cuore dell’Africa subsahariana, dove è stato pioniere di un’invenzione del tutto innovativa nella sua concezione e realizzazione: un lampione portatile a energia solare per far luce (solo quando serve) nei villaggi rurali dove non c’è elettricità.
Tra il teatro e le vie di un villaggio nato al limitare del deserto il collegamento sembra arduo. Eppure c’è, e c’entra anche la luce.
“Lavoravo all’allestimento dello spettacolo di Ronconi‘ Il bosco degli spiriti’, tratto da un racconto africano che corrisponde più o meno al mito di Orfeo. Sul set ho incontrato la cantante maliana Rokya Traoré. È stata lei a chiamarmi per andare a lavorare in Mali. Voleva costruire un teatro all’aperto a Bamako. Abbiamo cominciato, ma ora purtroppo il progetto è fermo a causa del conflitto che ha investito il Paese”.
Ferrone, architetto originario di Perugia, laureato in Svizzera, ha lavorato già in Germania e per tre anni a Barcellona. In Mali viene folgorato dai villaggi, dalla vita rurale: “Contrariamente a quello che mi aspettavo, più che povertà ho visto armonia. La vita è fragile, certo. È facile morire per una malattia. Ma non ho visto la fame. Come architetto mi interessava capire cosa rendeva possibile questo tenore di vita in una comunità con pochi mezzi in un ambiente naturale così difficile, dove il termometro arriva spesso a sfiorare i 50 gradi. Un altro aspetto che mi affascinato era la loro concezione di bene collettivo. I villaggi non sono isolati ma formano delle comunità. Un villaggio, da solo, non potrebbe mai permettersi un mulino per macinare la farina. Allora ci si mette insieme, in cinque, otto villaggi. Così avviene per la scuola e per i centri sanitari, ognuno dà il suo contributo”.
Il lavoro sulla luce è venuto dopo. Matteo comincia a frequentare sempre di più i villaggi e a viverci per periodi sempre più lunghi. Si accorge che i ritmi di sonno e veglia sono diversi da quelli occidentali: la vita sociale si svolge soprattutto di notte, quando il clima è più sopportabile. Per illuminare si usano torce elettriche, nel caso di cerimonie si affittano generatori, che però sono costosi. “Quando ho cominciato a ragionare sulla lucenon ero convinto che fosse indispensabile per la loro vita, mi chiedevo che diritto avessi di cambiare un modo di vivere che fino ad allora aveva funzionato”.
“Intanto continuavo a osservare le persone: mi accorgevo che quando parlavano fra di loro mantenevano sempre una certa distanza. Avevo già vissuto con persone africane a Barcellona e anche loro si parlavano nell’ambito del medesimo spazio relazionale. Vivendo con loro mi sono fatto l’idea che questo spazio relazionale corrisponde all’ombra dell’albero. Durante il giorno sono abituati a condividere questo spazio. Allora ha cominciato a farsi spazio in me l’idea di una luce che corrispondesse all’ombra dell’albero, per illuminare una scena, come avviene sul palcoscenico. Per illuminare la notte dei villaggi ho inziato a immaginare uno strumento che fosse però funzionale alle azioni e alla vita”. I lampioni fissi esistono in qualche piazza di villaggio del Mali, dono di qualche progetto di cooperazione internazionale. Ma Ferrone si accorge che la gente non li usa. Le cerimonie e le azioni sono itineranti e si svolgono in altri spazi. “Mi è venuta così l’idea di creare un utensile per illuminare le attività piuttosto che gli spazi. Concetti come piazza o strada nei villaggi africani non esistono, o perlomeno non hanno lo stesso significato”.
L’utensile deve essere facilmente trasportabile, alimentabile con poca spesa, costruito con materiale reperito in loco. Nasce il prototipo: un lampione posto su un’asta saldato a una ruota e a una batteria caricata a energia solare. “Come architetto e designer ho prestato attenzione all’estetica” afferma Ferrone. “Ho pensato a un utensile portatile, quindi con una ruota, e la bicicletta mi sembrava un oggetto che esprime bellezza ed equilibrio. Infatti mi ha permesso di realizzare un oggetto che arriva a 3 metri e 60 di altezza, porta una batteria ed è trasportabile da un bambino di otto anni”. Tutta la struttura è realizzata da artigiani locali con materiali che si trovano facilmente nei villaggi, fatta eccezione per il led importato dalla Cina.
“Ho cominciato a produrre un prototipo e il giorno dopo il villaggio vicino ne ha richiesto un altro esemplare. In meno di un mese 60 villaggi avevano chiesto al sindaco del villaggio in cui vivevo di poter avere altri lampioni portatili. Il sindaco mi ha fatto chiamare e mi ha chiesto se la mia invenzione si poteva trasformare in un progetto”.
Un aspetto interessante è la gestione collettiva della luce. Ogni villaggio che ne fa richiesta riceve quattro lampioni. A gestirli è un comitatocomposto di rappresentanti di diversi gruppi: ci sono sempre una donna, un anziano, un giovane e un tecnico. Il comitato dà la luce a noleggio eil ricavato alimenta una cassa comune, che poi viene utilizzata per finanziare altre microattività imprenditoriali. La luce unisce le persone, attorno ad attività o a una cerimonia. Facilita lavori che vengono compiuti di notte, dalla vaccinazione degli animali alla pesca sul fiume con le piroghe, alla ristrutturazione di una moschea. “I villaggi non pagano, ma hanno un anno di tempo per ridarci dieci telai di bicicletta che serviranno per costruire altri lampioni”, spiega Matteo. “Per loro è tanto. Un telaio potrebbero venderlo a 8 euro, dieci telai quindi valgono 80 euro”.
La luce portatile, “foroba yelen” in lingua locale, ha vinto il premio innovazione urbana della città di Barcellona. Per sostenere il progetto in Mali Matteo ha aperto la fondazione eLand, con il supporto di Haus der Kulturen der Welt, e ha iniziato un progetto analogo a Città del Messico in collaborazione con l’Università di Barcellona. Di recente è arrivata una richiesta singolare da Marsiglia: la comunità senegalese che vive nei sobborghi della città francese è interessata ai lampioni portatili. Matteo non sa ancora come finirà, ma ormai si è arreso all’evidenza: la luce nei villaggi del Mali serviva, e ha già facilitato la vita di migliaia di persone.

Di Emanuela Citterio – HUB Milano

“Aspettando i pionieri” è una serie di interviste che HUB Milano sta preparando in vista del 3 maggio, data in cui verranno premiati i vincitori del concorso “A caccia di pionieri” promosso da Progetto RENA in collaborazione con HUB Milano, ActionAid Italia, CNA Giovani Imprenditori e La Stampa. Ogni settimana racconteremo il caso di un “pioniere” italiano, una persona, un’associazione o un’impresa che hanno tracciato la via producendo qualcosa di innovativo ed eccellente. La prima puntata è dedicata a Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mal

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...