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Era il 25 febbraio del 1975 quando Giorgio Ambrosoli scrisse queste parole in una lettera alla moglie Anna. Aveva appena completato la faticosa ricostruzione dello stato passivo della Banca privata italiana, cuore dell'impero di Michele Sindona, di cui la Banca d'Italia aveva disposto la liquidazione coatta. Intuiva che la sua vita da quel momento era a rischio ma era orgoglioso di quanto era riuscito a fare. Ambrosoli, che fu nominato commissario della Banca privata nel 1974, era un professionista milanese non molto in vista. Avvocato contro la volontà del padre, che avrebbe preferito una carriera in banca, sposato con tre figli, si era "fatto le ossa" nel 1964 con il fallimento della Sfi, una finanziaria "vicina" a Giuseppe Pella, pezzo da novanta democristiano. Il buco era di 70 miliardi delle lire di allora. Non un borghese qualunque Ambrosoli, cresciuto in un ambiente conservatore, da giovane aveva simpatizzato per l'Unione monarchica e per la Gioventù liberale. Era un borghese, sì, ma non qualunque. Era un eroe borghese, come lo dipinse Corrado Stajano in un bellissimo libro del 1991. Quando accettò l'incarico dal governatore Guido Carli, probabilmente non immaginava i guai cui sarebbe andato incontro. Ma gli bastò pochissimo per rendersi conto che dietro quel crac si nascondeva un intreccio di politica, finanza, poteri costituiti e poteri occulti, malavita. Giorno dopo giorno si imbatté in documenti che provavano come il bancarottiere siciliano fosse legato a filo doppio a politici di primo piano (Giulio Andreotti, soprattutto, e la sua corrente Dc, ma anche Amintore Fanfani), banchieri burattini (Ferdinando Ventriglia, Mario Barone, Roberto Calvi), uomini di chiesa troppo legati alle cose terrene (Paul Marcinkus e il suo Ior), torbidi manovratori della massoneria (Licio Gelli e la sua loggia P2 che fu scoperta solo parecchi anni dopo), magistrati manovrabili (Carmelo Spagnuolo, Antonio Alibrandi, Luciano Infelisi), capibastone della mafia. La "disinvoltura" della Ior e la crisi spirituale di Ambrosoli Umberto Ambrosoli è il figlio minore di Giorgio. Oggi ha poco meno di quarant'anni e ha dedicato Qualunque cosa succeda (Sironi) alla memoria di suo padre. È una meticolosa ricostruzione della vicenda Sindona, inquadrata nella storia dell'Italia di quegli anni, che però ha sullo sfondo la vita di una famiglia come molte altre: la sua. E così ciò di cui Giorgio Ambrosoli deve occuparsi nell'ambito del suo difficile lavoro di liquidatore di quell'impero del male, diventa anche un fatto privato. Scrive Umberto: «Toccare con mano la disinvoltura con la quale lo Ior ha operato assieme a Sindona genera in papà una sorta di imbarazzo, quasi una crisi della dimensione spirituale. Ma per noi tre continua a volere una formazione religiosa». Sembra di vederlo quest'uomo probo e credente che scopre come la gerarchia del Vaticano trafficasse con i peggiori lestofanti. E che si pone il problema: continuare o no ad allevare i figli nel rispetto dei valori di cui quelle persone dovrebbero essere i custodi? Ambrosoli era schivo ma sapeva anche parlar chiaro. Nell'aprile del 1977 replicò così, in un'intervista, alle accuse di incompetenza contenute in un esposto di Sindona contro di lui: «Sono uno specialista in crac bancari. Nel 1965 mi sono dovuto occupare del dissesto della Sfi; dieci anni dopo ho cominciato a mettere il naso nell'impero Sindona. Sarà un caso, ma ho sempre visto spuntare fuori nomi democristiani». Di Sindona sapeva tutto, pur senza averlo mai incontrato Non sopportava che i soldi dei contribuenti potessero servire per puntellare le traballanti sorti di Sindona. Nella sua relazione di commissario liquidatore commentò così un prestito effettuato dal Banco di Roma di Ventriglia alla Banca privata: «Sorprende e addolora che 100 milioni di dollari siano stati spesi da un'azienda pubblica, quale il Banco di Roma, quasi per nulla». Umberto Ambrosoli rivela anche che suo padre in qualche modo era attratto da Sindona di cui conosceva ormai tutto senza peraltro averlo mai incontrato: «È un uomo curioso papà: e ora è incuriosito dall'uomo Sindona. Da quattro anni è come se vivesse a contatto con lui, ogni giorno; ha sgarbugliato la matassa compatta che quello aveva creato; ha riconosciuto la sua intelligenza e abilità e il loro malizioso utilizzo, che certo non può stimare. Doti sprecate». Così, nel dicembre 1978, quando si reca a New York per rendere una testimonianza in tribunale, Ambrosoli passa davanti al Pierre, l'albergo dove sa che vive (agli arresti) colui che dopo pochi mesi lo farà uccidere da un sicario della mafia. Scrive sulla sua agenda: «Cerco inutilmente Michele Sindona passando davanti al Pierre».

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L'eroe borghese» raccontato dal figlio Umberto, figlio minore dell'avvocato milanese liquidatore dell'impero Sindona, ha dedicato alla memoria del padre un libro: "Qualunque cosa succeda" Sull'inserto culturale di questa settimana anche una riflessione di Remo Bodei sulla crisi delle democrazie liberali, preda del populismo «A quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito». Era il 25 febbraio del 1975 quando Giorgio Ambrosoliscrisse queste parole in una lettera alla moglie Anna. Aveva appena completato la faticosa ricostruzione dello stato passivo della Banca privata italiana, cuore dell'impero di Michele Sindona, di cui la Banca d'Italia aveva disposto la liquidazione coatta. Intuiva che la sua vita da quel momento era a rischio ma era orgoglioso di quanto era riuscito a fare. Ambrosoli, che fu nominato commissario della Banca privata nel 1974, era un professionista milanese non molto in vista. Avvo