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27.11.24

In piazza Duomo a Firenze la bottega dei colori che resiste al mangificio., Il negozio di vinili che dice no al Black Friday: «Clienti da tutta la Toscana, il nostro segreto è la roba popolare»

 Corriere della Sera
In piazza Duomo la bottega dei colori che resiste al mangificio


In questi anni hanno visto la città intorno cambiare, gli artigiani chiudere, le botteghe trasformarsi in locali e store internazionali, ma loro sono rimasti fedeli a se stessi: la bottega di Belle Arti Zecchi. Dopo qualche mese di trasferimento in un magazzino a pochi metri di distanza, per consentire i lavori di restauro dell’antico palazzo, di proprietà dell’Opera del Duomo, la bottega è tornata nei locali storici di via dello Studio 19 rosso. 
Oggi come un tempo qui si possono trovare colori, pigmenti, strumenti usati da pittori, artisti, decoratori, artigiani. «Sopravviviamo perché abbiamo prodotti particolari, molto di nicchia, e un marchio nostro che spediamo in tutto il mondo», spiega Sandro Zecchi, che insieme al fratello Massimo porta avanti l’attività di famiglia. «Abbiamo creato un punto di incontro tra tecniche antiche, medievali e rinascimentali e quelle dei nostri giorni».
Nell’edifico aveva sede nel Trecento lo Studio Fiorentino, la prima università di Firenze. 
Era già presente fin da tempi antichi una bottega dei colori, centro di riferimento per artisti e professionisti, dai pittori famosi agli artigiani fiorentini fino ai giovani studenti dell’Accademia di Belle Arti. La presenza di un negozio di colori chiamato «Colorificio Toscano» in questa via risale alla seconda metà dell’800.
Nel 1920 il fiorentino Ugo Ercoli rilevò la bottega d’arte trasformandola in un punto vendita di colori. Adolfo Zecchi, padre degli attuali proprietari, entrò a lavorare nella mesticheria durante la Seconda Guerra Mondiale e dopo pochi anni rilevò l’attività. Negli anni 70 i figli Sandro e Massimo incrementarono la rivendita di colori e materiali per le Belle Arti recuperando le antiche tecniche pittoriche ed artigianali della tradizione fiorentina, guidati dal trattato trecentesco di Cennino Cennini «Il Libro d’Arte». 
Nel corso degli anni Zecchi ha fornito materiali all’Opera House di Sidney, al Paul Getty Museum di Los Angeles, per accademie in Giappone, Stati Uniti, Brasile, Cipro, Israele, per la cappella Brancacci, per la basilica di Assisi ed il Duomo di Firenze. Qui si possono ancora trovare la tempera all’uovo «Cennini» o il preziosissimo Blu Oltremarino di Lapislazzuli, ma anche colori a olio, gli acrilici e le tempere, tele a metraggio e tavolette a gesso, gomme e resine naturali, materiali per doratura, carte a mano e pergamene, cere solide e paste adesive. 
«Da bambini dopo la scuola venivamo qui a curiosare,
 siamo cresciuti in bottega», racconta Sandro. Ricorda la Firenze di allora e vede quella di oggi. «È stata stravolta. Prima nel centro storico c’erano magazzini e grossisti, era un centro distributivo. E c’erano tanti artigiani, che erano la spina dorsale della città. Ora gli artigiani non ci sono più, e i giovani non hanno interesse a continuare i mestieri, che pure potrebbero rendere». Sandro e Massimo per fortuna hanno i due figli a cui poter lasciare l’attività. «Sono in bottega con noi. Poi ci sono i dipendenti: siamo una buona squadra». 

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  non ricordo  la fonte



Il negozio di vinili che dice no al Black Friday: «Clienti da tutta la Toscana, il nostro segreto è la roba popolare»



CECINA. «Nel mio negozio non si fa il Black Friday, sono fuori da queste dinamiche». È contro tendenza Alessio Cruschelli, titolare di Slow Record Shop di Cecina, negozio che vende i vinili e tutto ciò che è collegato a questi oggetti, tornati in voga da una decina d’anni.

Cruschelli, da Slow Record Shop non si trovano le offerte targate Black Friday. Come mai?

«Ho un’area in negozio dedicata al materiale sottocosto, che ha un costo minore rispetto agli altri pezzi per varie ragioni. A livello commerciale capisco il senso del Black Friday, ma lo vedo utile soprattutto online».

Voi vendete anche online i vostri prodotti?

«Abbiamo il sito e i profili Instagram e Facebook, ci si deve muovere con più canali. Ma per noi l’online è solo una parte del negozio, ma non è decisiva».

Gli affari vanno meglio nel negozio fisico quindi.

«Chi entra non trova solo il vinile, ma tutto ciò che riguarda il mondo di questi dischi: giradischi, amplificatori, casse. Il negozio va bene. Abbiamo aperto nel 2013, fino a sette anni fa eravamo in 38 metri quadri, ora siamo in uno spazio che di metri quadri ne ha 235, con un grande open space».

Perché scegliere di venire in negozio e non comprare online?

«In negozio ti puoi interfacciare con una persona, e se hai qualche problema la persona è pronta a risolvertelo. Con i grossi competitor online, questo è impossibile. Chi viene da me e ha un problema con il giradischi, io sono in grado di trovare una soluzione. Però nei negozi fisici c’è un gap al rialzo nei confronti del web, ci sono dei passaggi in più del materiale che si vende. Quindi chi viene qui deve essere disposto a spendere di più che sui siti»

I vostri clienti sono solo cecinesi?

«Con il nuovo negozio vengono da tutta la provincia di Livorno, e anzi, da tutta la Toscana. Non dico da tutta Italia, ma quasi».

Vi siete fatti pubblicità online?

«Online abbiamo sempre fatto poca pubblicità. Si è sempre contato sulla bontà del passaparola. Per me i dischi sono un’opera d’arte, ne ho una visione un po’ naif. E invece in questo mondo (nel mercato, ndr) devi essere uno squalo. Infatti io metto il prezzo dietro la copertina, e in una piccola etichetta, per non sciupare la bellezza del disco. Ma un po’ mi sono dovuto adeguare, ora tengo anche Claudio Villa».

Vendete tutti i tipi di vinili...

«Vendo sia la stampa originale, del periodo di uscita del vinile, che le altre versioni. I grandi classici servono a catalizzare l’attenzione: i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin. Ma vanno tanto anche i più contemporanei: Nirvana, Pearl Jam, Artic Monkeys».

E tra gli italiani?

«Va il cantautorato: Dalla, Battisti, De André, De Gregori, Paolo Conte. La musica super contemporanea invece va meno. Per arrivare fin qui, sono partito da roba popolare e prezzi accessibili».

24.9.23

La sfida di restare di mario caabresi

canzone  consigliata 
Paese mio che stai sulla collina...

Si racconta spesso di chi lascia la città per fuggire nella natura. Ma la storia più comune (e meno romantica ) è quella dei piccoli borghi da cui i giovani vanno via. Un fenomeno di spopolamento che continua da un secolo e sembra inesorabile. Ma in alcuni borghi ad esempio a Calascio, in Abruzzo, è nato un progetto per dare un futuro ai ragazzi, per non farli partire. E così sono ricominciati anche a nascere i bambini.

    DA   https://mariocalabresi.com/



Un secolo fa a Santo Stefano di Sessanio vivevano novecento persone, poi è cominciata l’emigrazione verso Belgio e Francia e oggi ci abitano in settanta. A Calascio erano quasi duemila, trent’anni fa resistevano in duecentocinquanta, ora sono rimasti in ottanta. Da qui sono partiti verso Stati Uniti e Canada. Siamo in Abruzzo, a 1.200 metri sul livello del mare, sotto l’altopiano di Campo Imperatore, nel cuore del massiccio del Gran Sasso. Lo spopolamento maggiore è cominciato negli anni Cinquanta e non si è mai fermato. Per secoli gli abitanti di questi luoghi sono stati pastori, vendevano la lana e facevano il formaggio, e agricoltori, lenticchie soprattutto. Poi il loro mondo è finito e se ne sono andati. I paesi sono diventati dei fantasmi silenziosi. In questi anni abbiamo letto e ascoltato storie di persone coraggiose – coppie giovani, qualche straniero, adulti stanchi di un’esistenza dai ritmi insostenibili – che hanno lasciato le città dove sono nati, per andare a vivere in montagna. Storie nobili, ma non fenomeni diffusi, non una risposta alla domanda vera: perché non esiste la possibilità di restare?
Uno scorcio del paesaggio rurale tra Santo Stefano di Sessanio e Calascio (AQ)

Pensavo che non ci fosse una risposta a questa domanda, ma mentre camminavo in quello che il grande antropologo e esploratore Fosco Maraini aveva ribattezzato “Il piccolo Tibet”, sono inciampato in qualcosa che somiglia a una ricetta, che contiene gli ingredienti per un tentativo di soluzione.
Partiamo dall’inizio, quest’estate volevo fare un viaggio di scoperta, in cui camminare nella natura e conoscere posti nuovi, sognavo l’Islanda, poi ho pensato che, a essere onesti, c’era ancora un pezzo d’Italia che non conoscevo bene: le aree interne, quella dorsale appenninica che dall’Abruzzo arriva in Calabria, passando per il Molise e la Basilicata.
Un’ “Italia vuota” per usare il titolo di un bel libro scritto da Filippo Tantillo.
Così mi sono comprato una cartina e sono partito. È stata un’esperienza meravigliosa, ho negli occhi panorami e luoghi che non immaginavo e mi sono portato a casa incontri indimenticabili. Impensabile fare l’elenco, ho fatto 18 tappe e percorso 1.600 chilometri, vi suggerisco solo l’Abbazia di Bominaco, con un ciclo di affreschi del tredicesimo secolo; la città romana di Sepino; le piccole Dolomiti lucane a Castelmezzano; i calanchi di Aliano – il paese della Basilicata in cui venne mandato al confino dal Fascismo il pittore Carlo Levi, che ci ambientò il suo romanzo: Cristo si è fermato a Eboli – un paesaggio a metà tra la Cappadocia e le rocce dell’Arizona, dove ho partecipato a un festival immaginifico organizzato dal poeta Franco Arminio.
Gli affreschi dell’Abbazia di Bominaco
Il parco archeologico di SepinoIl Comune di Castelmezzano, in provincia di Potenza
Uno scatto dal festival “La Luna e i Calanchi” di Aliano, giunto quest’anno alla tredicesima edizione. La direzione artistica del festival è del poeta Franco Arminio

In Abruzzo, la regione che mi ha stupito di più per l’estensione dei boschi e dei paesaggi, ho fatto alcuni cammini con Lorenzo Baldi, una guida di Roma che vive a Calascio da quasi trent’anni. Mentre salivamo in una lunga vallata per raggiungere Rocca Calascio (in due ore non abbiamo incontrato nessuno tranne due caprioli maschi che combattevano per il controllo del territorio) mi sono fatto raccontare la storia di quella terra. Ho provato a immaginare quale potesse essere il panorama nel Cinquecento, quando in quest’area c’erano centomila pecore, e per controllare nemici e pericoli alla torre centrale quadrata di epoca normanna ne vennero aggiunte altre quattro e una cinta muraria.

Rocca Calascio, dove ambientarono parte del film Ladyhawke con Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer, aveva visto andare via il suo ultimo abitante nel 1956 e non aveva più avuto una luce accesa finché un romano non decise di ristrutturare un rudere per le vacanze, che nel 1992 diventò il luogo dove restare e mettere su famiglia. «Quel pazzo romano – mi ha raccontato Lorenzo – si chiama Paolo ed è mio fratello. Ha fatto la scommessa di poter vivere di turismo. Ha sistemato un altro rudere e lo ha trasformato in un rifugio con una camerata con i letti a castello, poi da una vecchia casa ha tirato fuori tre camere e così, piano piano, è nato un piccolo albergo diffuso. Oggi Rocca Calascio ha sette abitanti: mio fratello, sua moglie e i loro cinque figli».



La rocca di Calascio e uno scorcio dal paesaggio che si può osservare dal suo interno

Lorenzo è arrivato nel ‘94, dopo aver fatto l’alpino a L’Aquila e aver preso il brevetto come pilota di aerei, ma senza riuscire ad essere assunto dall’Alitalia. Così ha iniziato a lavorare in montagna, facendo un progetto di ripristino e manutenzione delle antiche mulattiere (quelle che mi ha fatto percorrere). Con il tempo ha gestito un piccolo rifugio a Campo Imperatore, sulle piste dello sci di fondo, e poi ha cominciato ad accompagnare i turisti in montagna e nei boschi. «In questi anni mi ha salvato l’inglese, sono stati gli stranieri i primi a capire questi territori, e la cosa più bella che faccio è la salita in cima al Corno Grande nelle notti di luna piena per vedere l’Adriatico all’alba». Anche lui si è sposato e vive con due figli nel paese di Calascio (poco a valle della Rocca).
Il più grande cruccio di Paolo e Lorenzo era quello di dare un futuro a quei figli nati in un posto dove non nasceva più nessuno, di non vederli obbligati ad andarsene come accade da un secolo. Così nel 2020 hanno fatto nascere una Cooperativa di comunità (un modello di innovazione sociale che nasce per creare lavoro nei piccoli borghi e frenare lo spopolamento) che si chiama “Vivi Calascio”.I ragazzi della cooperativa “Vivi Calascio”, fondata da Paolo e Lorenzo Baldi nel 2020

È nata nel momento in cui c’è stato un aumento del turismo e sono cresciute le necessità dell’accoglienza. «In questa cooperativa adesso ci lavorano 14 persone dai 16 ai 30 anni per sei mesi all’anno. Alla metà di loro riusciamo a garantire il contratto tutto l’anno. Fanno accoglienza turistica, gestione dei bus navetta, biglietteria, servizio informazioni, gestiscono il parcheggio delle auto, la torre di Rocca Calascio e il negozio di souvenir. Abbiamo reinvestito i primi utili comprando 20 biciclette elettriche e formando i ragazzi come guide cicloturistiche».
Il problema però è l’inverno, allora la cooperativa ha cominciato a lavorare anche nella cura del verde pubblico, nelle manutenzioni comunali e dei sentieri e nella pulizia dalla neve: «Per tenere le persone a vivere qui bisogna dargli uno stipendio tutti i mesi: questa la nostra sfida e ce la faremo». Una delle ragazze della cooperativa si è sposata e ha due bambini piccoli: la prima nuova famiglia nata qui.Il Battistero di Santa Maria della Pietà visto dalla Rocca di Calascio

Ma ora, grazie anche ai fondi del PNRR, a Calascio pensano ancora più in grande: vogliono aprire un ostello, un campeggio, un rifugio in montagna e una scuola di pastorizia. Oggi ogni turista che si ferma qui vorrebbe provare il pecorino locale e nella testa di questi due fratelli e di queste ragazze e ragazzi c’è la speranza che questi immensi prati tornino anche ad essere dei pascoli (per la gioia dei lupi…).


diario di bordo n° 11 anno I . L'italia non sfrutta le sue eccellenze . Il caso di Matteo, il genietto di 16 anni iscritto all'università di Berlino., il navigatore del cellulare salva la vita ad una ragazza che voleva suicidarsi ., Rifiutano 5 milioni per vendere casa e la villa viene circondata da un intero quartiere



in italia abbiamo delle eccellenze ma non siamo usare e la burocrazia le blocca anzichè avantaggiarle . ecco che l'estero è la via obbligata

  da  IL  GAZZETTINO    tramite  https://www.msn.com/it-it/notizie/italia/

Storia di Moira Di Mario •1 ora/e







© Ippoliti

Ammesso all’università ad appena 16 anni. Si chiama Matteo Bernardeschi e vive a Ostia con papà Edoardo e mamma Lucia. Figlio unico, appassionato di matematica e materie scientifiche è iscritto alla facoltà di ingegneria all’università di Berlino. Un genio dei numeri, curioso, che ama capire e approfondire tutto ciò che fa. Preciso e rigoroso, Matteo sostiene di non avere alcuna difficoltà ad imparare in fretta, a mettere insieme formule matematiche che nessuno gli ha mai spiegato prima, semplicemente seguendo un video trovato in rete.
Dopo le scuole medie, l’iscrizione al liceo scientifico Vincenzo Pallotti di Ostia dove già dal primo anno gli insegnanti e il preside, Vito Giannini che non ha mai smesso di stargli accanto, capiscono le capacità di questo adolescente. «Fin da bambino sono sempre stato affascinato dalle materie scientifiche – dice Matteo – durante il primo anno di liceo i professori di matematica e fisica mi stimolavano, proponendomi quesiti sempre più complessi», che concludeva in un lampo. Così nel giro di appena trenta giorni con il supporto dell’insegnante di matematica porta avanti «tutto il programma dei cinque anni, risolvendo tutti i quesiti della preparazione all’esame di maturità», aggiunge Matteo. Iniziato il secondo anno dello scientifico, il ragazzo insieme ai genitori prende in considerazione un percorso scolastico alternativo «per esprimere concretamente e fattivamente – dice – le mie potenzialità, cercando una strada per accedere in anticipo all’università». La possibilità è frequentare, contestualmente alle normali lezioni al liceo, i corsi di preparazione degli A – Level internazionali dell’Università di Cambridge. Vale a dire gli esami di valutazione di livello pre-universitario in inglese che consentono agli studenti di entrare negli atenei più prestigiosi, indipendentemente dall’età anagrafica e scolare. Matteo viene prima inserito a un livello base, meno difficile, ma dopo qualche giorno gli insegnati sono costretti a spostarlo ad un corso superiore di matematica. Alla fine del percorso supera brillantemente le quattordici prove d’esame di matematica, fisica e computer science con due dieci e lode e un nove. Intanto all’università Roma Tre partecipa al test d’ingresso alla facoltà di ingegneria aerospaziale per iscriversi a La Sapienza e anche questo va liscio come l’olio. «Tutto – prosegue il ragazzo - senza tralasciare gli studi del secondo anno di scientifico», che ha concluso con il massimo dei voti in tutte le materie e una media del 10. A fine luglio vince la seconda selezione per accedere all’ateneo romano. C’è però un problema. «L’università ha stoppato la mia immatricolazione – dice – perché al mio attivo avevo solo dieci anni di scolarità invece dei dodici previsti». Eppure, il ragazzo è stato regolarmente accettato ai test d’ingresso ed ha superato tutte le prove pre-universitarie. Documenti alla mano, resta da superare lo scoglio della burocrazia. Matteo, però, non perde la speranza di trovare una soluzione. Intanto in queste settimane per lui, mamma Lucia e papà Edoardo è stata una corsa contro il tempo per trovare una soluzione in Europa. La prima ha bussato direttamente a casa.
L’università berlinese, interessata alle sue sorprendenti capacità, lo ha contattato accettando la sua iscrizione. Matteo può dunque frequentare le lezioni online di ingegneria. Ad essere interessati a questo genio della matematica e della fisica sono anche un paio di atenei londinesi e statunitensi che gli hanno aperto le porte delle loro facoltà. Per lui insomma c’è solo l’imbarazzo della scelta. Intanto continua a vivere la sua “normalità”. Esce con la fidanzata e ormai ex compagna di classe Francesca Rona «che ringrazio per essermi stata accanto e avermi sempre sostenuto», va in barca a vela e sta per tornare a fare Karate.
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  sempre  dallo   stesso  msn.com/it  stalvolta la  notizia  è   da IL MESSAGERO


Bologna, ragazzina di 15 anni manda un messaggio all'amica: «La faccio finita», poi si butta da un ponte. Il padre la geolocalizza nel fiume

dal  web  



Il padre l'aveva lasciata a pochi metri dalla scuola poco prima delle 8. Ma lei in quella scuola non è entrata mai. Ha cambiato direzione e si è diretta verso il ponte di via Giuseppe Dozza, tra Bologna e San Lazzaro. Poi ha mandato un messaggio all'amica del cuore: «La faccio finita». La compagna di scuola ha girato subito il messaggio al padre che si è precipitato sulla strada  dopo aver geolocalizzato la posizione della figlia grazie al telefonino. E grazie a quel messaggio è riuscito a salvarla. La storia è raccontata dal Corriere della Sera.
Il padre arriva sul luogo indicato dal telefonino. E' lì che l'uomo vede lo zaino della figlia, una ragazzina di 15 anni, abbandonato sul parapetto. Si sporge, nell’acqua non la vede. È già disperato quando chiama i carabinieri. Al 112 dice di non riuscire a scorgere la figlia, spiega del messaggio mandato all’amica e dello zaino trovato. I carabinieri del nucleo radiomobile arrivano in pochi istanti. Scendono giù a riva e notano la testa della ragazza. 
È viva, cosciente, ma non sta bene. La trascinano fuori dal vortice, ma non riescono a portarla fuori dall’acqua completamente. Ha una ferita profonda alla gamba e diversi traumi, non è in condizione di essere trasportata a braccio. I militari decidono di proteggerla, cercando di scaldarla dal freddo dell’acqua, in attesa dell’arrivo dei vigili del fuoco. I caschi rossi, intervenuti con tre squadre, il nucleo sommozzatori regionale e il Saf, hanno messo la giovane sulla barella ancora in acqua e l’hanno portata definitivamente in salvo. Prima nelle mani del 118 e poi di corsa all’ospedale Maggiore in codice 3. 


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stessa fonte

Rifiutano 5 milioni per vendere casa e la villa viene circondata da un intero quartiere: la storia fa il giro del web

Rifiutano 5 milioni per vendere casa e la villa viene circondata da un intero quartiere. È la storia della famiglia Zammit che si opposta alla vendita del loro terreno anche se intorno all'abitazione spuntavano file e file di nuove case. La proprietà si trova a circa 40 minuti di auto dal centro di Sydney, la città più grande del paese, su quello che una volta era un terreno agricolo costellato di piccole case e cottage in mattoni rossi, ha detto Diane Zammit al Daily Mail. Oggi, però, è dominato da case a due piani situate così vicine tra loro che molte di esse sono separate da pochi centimetri. Secondo il New York Post, la maggior parte dei lotti vicini sono stati venduti nel 2012, quando gli Zammit avrebbero potuto ricevere circa 5 milioni di dollari per la loro casa. L'agente immobiliare Taylor Bredin ha detto a 7News che il terreno della famiglia potrebbe ospitare da 40 a 50 unità immobiliari. Ogni casa varrebbe 1 milione di dollari australiani, ovvero quasi 700.000 dollari.

Ma mentre tutti i loro vecchi vicini gradualmente hanno venduto e si sono trasferiti, la famiglia si è opposta nonostante gli fossero stati offerti parecchi soldi. La casa si estende su 1,99 ettari e ha un vialetto in stile di Windsor lungo 200 m che attraversa un grande prato fino alla porta d’ingresso. Le foto satellitari hanno mostrato l'evoluzione del quartiere. Dall'alto, infatti, si può vedere la casa della famiglia circondata da minuscole abitazioni. Le immagini hanno fatto il giro del web, scatenando migliaia di commenti.

4.2.22

Goito, dalle mucche alle vasche di storioni: le sfide vinte della fattoria Naviglio., Vino sottozero, la cantina è nell'igloo.,L'unico hangar dove osavano i dirigibili

Il caviale del Mincio è l'oro nero d'Italia

Valerio Lo Muzio Centomila storioni e 15 tonnellate annue di produzione: terzo posto mondiale. Principali clienti: estremo Oriente e Russia. Reportage da Bovolone, nel cuore del Veneto

 e  https://www.jamesmagazine.it/food/cru-caviar-nero-italiano/ Il caviale più pregiato non viene dal Caspio o dalle steppe russe. L’oro nero’ si produce nel cuore della pianura lombarda. Dallo storione del 
Volga 
allo storione del Mincio, si potrebbe dire, parlando della sfida lanciata ormai alcuni anni fa dall’azienda agricola Naviglio, di Maglio di Goito nel Mantovano
. Un’ennesima eccellenza produttiva, che può vantare persino clienti dalla Russia


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Duecento bottiglie conservate a duemila metri: uno studio promosso in Val Camonica vuole verificare come il clima di alta montagna influenzi l'affinamento dei sapori





di Chiara Nardinocchi

Incuriosito  ho  cercato notizie  su tale  progetto   ed  ecco  cosa  ho trovato 
  su  https://www.bresciaoggi.it/territori/valcamonica/un-igloo-come-cantina-per-i-vini-1.9154014


Il contesto è degno di «Frozen» o di qualche leggenda nordica e lo scenario si presta: il Corno D’Aola nella ski area di Ponte di Legno, nel Parco dell’Adamello. Più in basso, in Valle Camonica è stata
riscoperta una tradizione vinicola diventata un punto di riferimento all’interno della produzione agroalimentare del territorio. Perché allora non unire i due elementi, la neve e il vino, per creare un prodotto unico nel suo genere? Da questa idea nasce un esperimento inedito: un igloo, una vera casa di ghiaccio realizzata a 2.000 metri di quota dall’artista camuno Ivan Mariotti, da utilizzare come originale cantina di affinamento dei vini. Al suo interno, all’inizio dell’inverno, sono state collocate circa 200 bottiglie. La Cantina Bignotti ha depositato in questa cantina speciale i suoi rossi Igt e gli spumanti Supremo e Brut metodo classico, mentre il Consorzio Vini di Valcamonica, che riunisce al suo interno 12 cantine, partecipa all’esperimento con una trentina di etichette tra rossi, bianchi e passito. L’iniziativa ha ovviamente anche uno scopo scientifico: servirà a capire meglio come l’alta quota e il freddo invernale possano contribuire a migliorare l’affinamento in bottiglia dei vini locali. Il contributo scientifico all’esperimento è stato affidato a Unimont, l’Università della Montagna, polo di eccellenza dell’Università degli Studi di Milano che ha sede a Edolo, nel comprensorio Pontedilegno-Tonale. Spiega Anna Giorgi di Unimont: «Verranno effettuate analisi chimico-fisiche e organolettiche sia sui vini collocati nell’igloo che su quelli lasciati nelle cantine delle aziende in fondo Valle, che consentiranno una prima comparazione necessaria a verificare l’effetto delle condizioni di quota e a meglio orientare la ricerca nei prossimi anni. Il coinvolgimento dei ricercatori e degli studenti del polo Unimont in questa esperienza è in piena coerenza con la “mission” della sede decentrata della Statale di Milano, ovvero trasformare le specificità dei territori montani in punti di forza anziché elementi di debolezza grazie ad approcci innovativi e collaborazioni strategiche con le forze territoriali». «Il turismo può essere una straordinaria fonte di conoscenza di un territorio e dei suoi prodotti e l’ambito agricolo a sua volta può essere un valido alleato delle strategie turistiche - spiega Michele Bertolini, direttore del Consorzio Pontedilegno-Tonale -. Riteniamo che unire questi due comparti possa rappresentare un’ottima occasione di sviluppo». •.
                                        L.Feb



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L'unico hangar dove osavano i dirigibili
È ad Augusta, in Sicilia: un edificio colossale iniziato a costruire nel 1917 per contrastare i sommergibili tedeschi. Ora è abbandonato. E si litiga sul suo destino
di Salvo Catalano

la struttura è imponente. Sorprende il fatto che questa struttura sia stata fatta e abbandonata dal 1920 ed è ancora li intatta, volendo anche riutilizzabile; le costruzioni di oggi soprattutto pubbliche è già tanto se durano trent' anni manutentandole costantemente. Ľ idea di un sommergibile classe Totti li dentro mi sembra proprio una bella idea, come restituire alla comunità e a chi la sa valorizzare tutta ľ area.
per  chi volesse  saperne  di  più    ecco alcuni siti  

17.9.21

Da hobby a business: «Vendo cavalli arabi agli sceicchi» La bella avventura di una coppia teresina e del loro allevamento

la nuova sardegna del 16\9\2021

Da hobby a business: «Vendo cavalli arabi agli sceicchi»

La bella avventura di una coppia teresina e del loro allevamento

SANTA TERESA. Un cavallo che conquista per armonia e fascino. Destrieri che hanno appeal e che soprattutto si vendono. In alcuni casi diventano leggenda come Nopoli, un vero fenomeno negli Emirati arabi che per il palmares sconfinato viene chiamato appunto Legend. Ovviamente tutto questo ha un prezzo, i puledri allevati e addestrati con cura raggiungono quotazioni importanti. Alcune volte quelle necessarie per acquistare metà di un bell’appartamento in città. Un gioiello per pochi dunque e non per tutti. A Santa Teresa Gallura c’è un’azienda, l’allevamento del Ma, di Maurizio Muntoni e di Anna Teresa Vincentelli, che lavora e in silenzio produce eccellenze. Cavalli di razza araba che riforniscono le scuderie degli sceicchi più ricchi del pianeta che non badano a spese per portarseli a casa. Sembra il classico caso in cui l’impresa fa molto, molto di più della politica nell’esplorare nuovi e appetibili mercati. E l’apertura di un canale commerciale con gli Emirati Arabi si deve a intuito, passione e al lavoro piuttosto che ad accordi economici o patti bilaterali troppo spesso validi solo su carta ma in realtà ben poco efficaci.



Maurizio Muntoni, 60 anni portati benissimo, racconta il suo ingresso dalla porta laterale in questo mondo complesso che ha imparato a conoscere e a decifrare nel tempo grazie ad una dose fuori dal comune di passione ma anche di pazienza. Quella virtù che possiede chi sa attendere e non ha fretta di avere tutto subito. «L’avventura iniziò con un asinello che da bambino mio padre mi comprò per accontentarmi, poi a vent’anni il primo cavallo per le passeggiate. Iniziai il percorso sportivo agonistico con le gare di trek che mi diedero tante soddisfazioni e mi portarono a girare mezza Europa e a partecipare anche ai campionati del mondo», racconta Muntoni scavando nel libro dei ricordi. La vera svolta avviene intorno al 1990, quando rompendo gli indugi le attenzioni dell’allevatore si concentrano esclusivamente sul cavallo di razza araba. «Sono sempre stati un mio pallino. La mia prima cavalla araba la acquistai a Parma. Era versatile ed equilibrata lasciai il trek e abbracciai l’endurance (Le competizioni consistono in corse di resistenza su percorsi di varia natura ed un chilometraggio che varia dai 30 ai 160 km a seconda delle categorie) e la cavalla mi diede subito degli ottimi risultati». Erano gli anni pionieristici dell’allevamento e occorreva aumentare gli animali seguendo però l’unica direttrice possibile: la qualità. «Incrociai la cavalla con uno stallone dell’Incremento ippico e il puledro diede subito ottime performance sia nelle corse, che poi nell’endurance. Vincemmo i campionati europei con Mara Feola, un’amazzone di Santa Teresa molto brava e altre competizioni».



Ma la vera svolta si concretizzò incrociando le fattrici sarde in Francia con i ceppi migliori, soprattutto sui cavalli arabi e all’incontro fortuito ma solo fino ad un certo punto con il mondo degli sceicchi Hamdan e Mohamed che attraverso alcuni loro osservatori videro da queste parti l’argento vivo per le loro passioni sportive. «Nel 2001 vendemmo i primi tre puledri. Li acquistarono in blocco e non se ne pentirono, anche perché uno di loro è diventato una vera leggenda. Si tratta di Nopoli del Ma’, quello che loro chiamavano e chiamano Legend, un cavallo che negli Emirati arabi ha vinto tutto quello che c’era da vincere. Da allora posso dire che con loro si aprì un varco con la Sardegna, non solo con il mio allevamento. Scoprirono che qui si allevavano cavalli all’altezza. Un movimento importante di cui abbiamo beneficiato tutti», spiega l’allevatore nella struttura di Santa Teresa che ospita una settantina di cavalli. Quella di Nopoli è davvero una bella storia di cui Muntoni va giustamente orgoglioso anche perché condensa la sua filosofia di vita e un approccio all’allevamento dei cavalli fatto del giusto mix tra ragione e sentimento. «Il puledro quando aveva 5 mesi iniziò a zoppicare, il problema non cessava. Così il mio veterinario mi consigliò di andare a Perugia dove c’era una dottoressa molto brava e strumentazioni tecniche all’avanguardia. Lo ascoltai e seppi aspettare. Il cavallo aveva il menisco rotto, lo tenemmo fermo per un anno ma dopo scalpitava, o meglio volava e ottenne tutti quei risultati che ne hanno fatto una autentica star e quell’appellativo di Legend non arrivato per caso». Quella dell’infortunio poi per fortuna rientrato fu una grande lezione per l’allevamento (oggi costituito da 70 cavalli con la produzione di 10 puledri all’anno) che ha impostato il lavoro seguendo gli standard più all’avanguardia. «Abbiamo un metodo particolare. Li seguiamo durante l’arco della giornata. I puledri fino all’anno e mezzo mangiano la loro razione nei box, per evitare che il più forte sottragga il cibo a chi lo è meno. Facciamo noi il fieno con quattro tipi di erba e diamo il supporto con i mangimi con il giusto supporto di calcio. Poi li seguiamo con le telecamere e il momento del parto ha tutte le attenzioni del caso. “Eccetto lo scorso anno per il covid, vado sempre negli Emirati Arabi. Vedere i nostri cavalli comportarsi in maniera egregia è una soddisfazione enorme». E se dall’Isola, dove sono nati e allevati molti puledri raggiungono le grandi scuderie, questa volta grazie al Sardegna Endurance Festival 2021 ormai alle porte, con il suo Campionato mondiale per giovani cavalli organizzato all’Horse Country Resort di Arborea, il gotha è alle porte del regno di Eleonora.

3.9.21

Paralimpiadi, l’eccellenza bolognese che realizza le protesi dei campioni

   corriere  dela sera  ed  Bologna  3 settembre 2021 (modifica il 3 settembre 2021 | 15:33)

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Paralimpiadi, l’eccellenza bolognese che realizza le protesi dei campioni

Il Centro Protesi Inail a Vigorso di Budrio è dietro alle vittorie di tanti atleti italiani, da Zanardi a Bebe Vio. Gregorio Teti (Area tecnica): «Noi facciamo lo 0,5% del lavoro»

La lavorazione di una protesi
La lavorazione di una protesi

L’ultima in ordine di tempo è quella di Martina Caironi, bergamasca di nascita e bolognese d’adozione che ha vinto l’argento nel salto in lungo, ma nell’infinito bottino di medaglie alle Paralimpiadi di Tokyo 2020 – superato il record di Seul1988 – c’è lo zampino di un’eccellenza tutta bolognese come il Centro Protesi Inail che ha sede a Vigorso di Budrio. Da lì sono passati tutti i grandi nomi dello sport paralimpico italiano: da Alex Zanardi a Bebe Vio, fino appunto a Martina Caironi. E in questi giorni a Tokyo c’era anche Gregorio Teti, direttore dell’area tecnica del Centro di Vigorso, che era sul campo per seguire nove dei 113 atleti della spedizione in Giappone.

Gregorio Teti
Gregorio Teti

Direttore Teti, la spedizione azzurra alle Paralimpiadi sta andando alla grande. Quanto c’è del vostro lavoro in questi successi?
«Innanzitutto c’è grande gioia: in questi anni si è costituita una sorta di famiglia molto allargata con diverse atlete, tra cui Martina Caironi, Monica Contrafatto, Ambra Sabatini e Veronica Plebani, bronzo nel triathlon. É vero che noi mettiamo la competenza tecnica nella costruzione dei dispositivi protesici, ma senza i giusti feedback da parte degli atleti non avremmo il materiale su cui fare analisi e studi per migliorare le performance dell’atleta stesso. É un grosso lavoro d’equipe, ma nei risultati lo 0,5% viene da noi e il 99,5% dagli atleti: è come in Formula 1, a parità di mezzo tecnico vale la qualità del pilota».

Il lavoro che fate con gli atleti migliora anche le protesi dei vostri pazienti?
«Assolutamente. Non tanti sanno che l’atleta è l’attore principale del team non solo per lo sforzo fisico, ma anche per il lavoro sulla protesi: ci dà le sue sensazioni, i feedback sull’arto e poi sta a noi mettere in campo le varie soluzioni e le tecniche progettistiche che, tramite filmati e analisi, ci consentono di verificare il miglioramento atteso. É proprio la sensibilità dell’atleta che, insieme al lavoro di allenatore e preparatore, ci dà le strade giuste per migliorare il dispositivo tecnico: lo sviluppo del prototipo per un atleta agonista si riversa successivamente sui cicli di produzione per i\ dispositivi di normale uso quotidiano e va appannaggio di tutti gli assistiti che accedono al nostro centro protesi, che siano pazienti Inail o invalidi civili».

In questi giorni era a Tokyo, che lavoro fate «sul campo»?
«Siamo intervenuti domenica scorsa sul dispositivo di Ambra Sabatini e martedì proprio su quello di Martina Caironi con cui ha gareggiato e vinto l’argento nel salto in lungo. Siamo a completa disposizione degli atleti: li seguiamo sia sui campi di allenamento sia su quelli di gara. Come Inail abbiamo un accordo quadro di stretta collaborazione con il Cip, il Comitato Paralimpico, che impegna entrambe le parti a rispettare determinate norme per supportare gli atleti e collaborare con le varie istituzioni. Come istituto statale non abbiamo finalità di lucro e la nostra opera tocca sia la prevenzione che la ricerca: la nostra anima tecnica consente sia l’attività di ricerca sia quella riabilitativa».

Gli atleti paralimpici sono esempi di forza di volontà, ma quanto sono stati d’ispirazione per chi ha avuto gravi menomazioni? A Vigorso qualcuno ha iniziato ad interessarsi allo sport paralimpico vedendo il lavoro che fate con gli atleti?
«Tutti gli atleti agonisti passano per una sorta di limbo, un approccio allo sport di tipo amatoriale: per chi ha subito un’amputazione o un grave trauma lo sport è rimettersi in gioco, è voglia di superarsi. Una sfida con se stesso e un’occasione di integrazione con gli altri. Chi accede al centro, una delle maggiori realtà a livello mondiale, vive quel mondo e vuole mettersi alla prova, testarsi nonostante la condizione di sfavore dovuta a un grave trauma: è una rivincita personale, per far vedere che al mondo si può andare oltre la disabilità. E il nostro obiettivo come Centro è ricostruire sempre il paziente anche a livello personale: non c’è solo il lavoro sull’arto ma è una presa in carico totale per supportarlo a livello psicotico, medico e fisioterapico grazie alla nostra equipe».

27.9.18

Aldo Fraoni, Lamiere e passione: il carrozziere di Laerru che fa rivivere vecchie Ferrari, Alfa e Maserati


dall'inserto lamiaisola della nuova sardegna Lamiere e passione: il carrozziere di Laerru che fa rivivere vecchie Ferrari, Alfa e Maserati Nel laboratorio di Aldo Fraoni, un artigiano che con pazienza cesella pezzi d'epoca 

di Roberto Sanna





L’Alfa Romeo 1750 ti accoglie rossa e aggressiva al centro della stanza. Poco distanti sonnecchiano una Ferrari 400i azzurra e una Lancia Beta Montecarlo rossa, mentre una Renault Alpine attende con pazienza il suo momento e sul ponte una Mercedes SE del 1961 osserva dall’alto la scena. Aldo Fraoni emerge dal suo regno con un sorriso, per farsi spazio sposta una Fiat 500 L degli anni ’70. Quelle automobili in via rinascita sono le sue compagne di vita, assieme a loro trascorre ore e ore in quello che visto dall’esterno è un anonimo capannone arroccato su una collina all’uscita di Laerru e all’interno si rivela una gioia per gli amanti delle quattro ruote.
La scuola varesina
Dei suoi 62 anni, Aldo ne ha trascorsi 50 a rimettere a nuovo automobili: «Ho cominciato presto, a Varese, dove la mia famiglia si è trasferita quando avevo otto anni. Sotto casa c’era un’officina, già a tredici anni, finita la scuola, andavo a dare una mano. A dir la verità avrei voluto proseguire gli studi ma non avevamo le possibilità, così ho continuato a lavorare. Roba pesante, la mattina appena arrivati cominciavamo a martellare paraurti di camion, io li tenevo e lui picchiava. Ci portavano anche auto sportive, rifacevamo i musetti delle Formula 3. Le carrozzerie che adesso mi portano da rimettere a nuovo le ho già fatte in quegli anni, so dove mettere le mani: Lancia, Millecento, Giulia, “Fulviette” HF, a Varese ho toccato le prime Ferrari». In quegli anni il lavoro si trasforma in una passione che non lo abbandonerà più: «Ero intraprendente, a vent’anni mi sono messo in proprio esono arrivato ad avere sette dipendenti. Poi nel 1985 mi sono stufato di stare a Varese e ho deciso di rientrare in paese. Ho venduto tutto e riaperto qui a Laerru, non mi lamento, la mia vita è qui, in mezzo alle automobili».




Vecchio è bello.
Quando si parla con lui bisogna fare una distinzione. C’è un Aldo Fraoni carrozziere, quello che rimette a posto le auto dopo un incidente o una manovra di parcheggio eseguita male; e poi c’è l’Aldo artigiano che dà una nuova vita ad auto che sembravano destinate a marcire per sempre in un garage o in qualche spiazzo di campagna: «Sono due cose diverse. Il lavoro è il lavoro, bisogna chiudere il mese. E, salvo situazioni particolari, le auto di oggi si fa in fretta a rimetterle in sesto. Anche perché non è più come una volta, è soprattutto una questione di pezzi. Anche troppo, ormai se fai un lavoro con quattromila euro di ricambi devi aggiungerne ottocento di mano d’opera, una sproporzione assurda. E le auto sono tutta un’altra cosa, a volte basta un danno da tre-quattromila euro e rischi di buttarle. Prima no, erano fatte per durare e col lavoro e la pazienza rimettevi a posto quasi tutto. Non parliamo della verniciatura, adesso due-tre mani sono anche troppe, prima passavamo fino a ventiquattro mani».





Portata a casa la pagnotta, Aldo Fraoni si dedica ai suoi gioielli: «Ci lavoro sere intere, anche la notte. Mi affeziono tanto che quando le portano via mi dispiace. Il mio non è un lavoro di restauro, il termine è improprio: preferisco parlare di ricondizionamento. Se accetto un incarico lo porto sempre a termine. Mettendo subito un chiaro una cosa col cliente: bisogna avere pazienza, se è un lavoro da cento ore, cento ore bisogna dedicarsi, non serve avere fretta. Anche se il cliente dopo un po’ comincia a diventare impaziente e lo capisco anche, quando ti porta qualcosa la vuole vedere pronta il prima possibile. Però serve tempo, bisogna recuperare i ricambi, poi c’è anche la parte meccanica. E non sempre le auto sono quelle che sembrano al primo sguardo, le devi aprire, controllare il fondo, vedere come sono state trattate in precedenza: per esempio, in Svizzera molti carrozzieri lavoravano aggiungendo lamiera su lamiera, ti ritrovi a tirare via tre-quattro strati prima ancora di cominciare».
I costi
«Quando un cliente ti porta un’automobile conciata male, sa che deve sborsare.I ricambi della Cinquecento bene o male le trovi, se invece è una Ferrari arriva la botta anche perché la parte dei ricambi è in Inghilterra: un semplice lunotto costa anche diverse migliaia di euro, tanto per dire. Sono orgoglioso del fatto che chi si rivolge a me lo fa per avere un lavoro fatto bene, ho ricevuto pochissime lamentele. A parte quelle per il tempo. In compenso i prezzi del mercato stanno aumentando e una Ferrari 208 la paghi anche quarantamila euro, un tempo le trovavi facilmente a poco. Sono passatempi costosi e devo anche dire che la maggior parte dei clienti se lo può permettere, se c’è bisogno di spendere lo fanno».
Auto da sogno
Nel suo laboratorio sono passati pezzi da museo e non per modo di dire: «Ho rimesso in sesto una Ferrari e una Lancia Stratos che poi sono state esposte negli Usa. E la Ferrari resta l’auto più bella che uno come me possa rimettere a nuovo, non c’è paragone. Se mi chiedete quale sia stato il modello che più mi ha dato soddisfazione e quello che vorrei nella mia officina la risposta è la stessa: una Ferrari degli anni Sessanta-Settanta, magari un Gto o una California o una Daytona, mi è capitato di provarle ed è un’emozione pazzesca. Adesso sto portando avanti un’operazione incredibile con una Maserati Mistral che vale più di duecentomila euro. Un’auto che il padrone ha recuperato da un capannone nautico di Alghero dove era rimasta per trent’anni parcheggiata in mezzo a motoscafi e gommoni. Tanto per capirci, quando ho aperto il cofano era pieno di topi morti. Pian piano l’ho riportata in vita, adesso è dal meccanico, i pezzi del motore li abbiamo presi dalla fabbrica, non appena la riportano a Laerru la finisco e so già che sarà una grande soddisfazione. Ricordo anche una Porsche cabrio che non riuscivo a completare. Ci lavoravo la notte, al mattino la prima cosa che facevo era ricontrollarla e trovavo sempre un errore, sono andato avanti così per due settimane, era diventato un affare personale».
Passione senza fine.
Aldo Fraoni non riesce a immaginarsi lontano dalle “sue” auto: «Mi chiedono perché non sono in pensione ma non vedo il motivo, dovessi ritirarmi andrei a curare la mia campagna e quello lo faccio già, al mattino presto e la sera dopo che chiudo. Le mie giornate sono qui, la passione non è mai calata, ho riempito la soffitta di riviste specializzate fino a quando mia moglie non mi ha minacciato. Mi dispiace solo non aver trasmesso la mia passione a qualche giovane. A Varese ho visto i miei dipendenti mettersi in proprio nel corso degli anni e per me è stata una soddisfazione, qui non ci sono riuscito. C’è stato qualcuno ma interpretava il lavoro in maniera sbagliata, alle cinque smetteva. Non funziona così, se ami qualcosa ti dedichi con tutto te stesso, non poche ore al giorno».

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...