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10.7.24

Laura Ewert, "Mio nonno , il tenente Wolf Ewert, ordinò il massacro nazista di San Polo. Ora io chiedo perdono"




tramite il solito  msn.it    leggo   di  questa  vicenda  (  mi pare   d'aver  già parlato   o sui miei social o qui    in un post  sul  25  aprile    di quest'anno  )  trovo Storia  di  Laura Ewert nipote   del Boia nazista tenente Wolf Ewert,autore  della strage nazista   ,  una  delle tante  avvenute  in Italia    nel periodo    1943-45   ,  avvenuta il 14  1944 di un luglio nel piccolo paese di San Polo, vicino ad Arezzo

dA  Quotidiano.Net • 18 ora/e

"Mio nonno ordinò il massacro nazista di San Polo. Ora io chiedo perdono"
 Di FILIPPO BONI

Roma, 10 luglio 2024 
L’attimo in cui scoprì che uno degli uomini più importanti della sua vita, quello che l’aveva consolata, le aveva raccontato le favole da bambina e insegnato a costruire sogni pieni di speranza, suo nonno, era stato un boia nazista durante la seconda guerra mondiale in Italia, fu il più atroce della sua esistenza.Fu come se anche lei, oggi madre e giornalista affermata, Laura Ewert, fosse stata ammazzata insieme ad altri 64 innocenti tra cui donne e bambini dagli uomini del tenente Wolf Ewert, il suo carissimo nonno, all’alba di un pallido mattino di sole del giorno 14 di un luglio ormai lontano, nel 1944, nel piccolo paese di San Polo, vicino ad Arezzo

Wolf Ewert e la nipote Laura Ewert© Fornito da Quotidiano.Net


Aveva un tono dimesso, velato dalla tristezza e dalla commozione Laura, quando pochi giorni fa, in collegamento web dalla Germania con la sala consiliare del Comune di Civitella della Chiana, in occasione di un convegno sulle stragi naziste dimenticate organizzato dal Comune con il giornalista Udo Gümpel e lo storico Carlo Gentile, è stata chiamata ad intervenire per portare la sua diretta testimonianza.
“Quando ho scoperto cosa era accaduto a San Polo sono stata sommersa da sentimenti di tristezza, dolore e vergogna – ha detto –. Mi sono fatta molte domande sulla mia famiglia, sul perché non abbiamo mai parlato o affrontato questo argomento. Perché non siamo mai andati a San Polo per parlare con chi ha vissuto quella tragedia, chiedere perdono, immedesimarci per un qualcosa per il quale è difficile trovare parole adeguate".Già. Difficilissimo scavare nel vocabolario e trovare le parole giuste per definire crimini di questa portata che in Italia tra il 1943 e il 1945 hanno causato circa venticinquemila vittime innocenti, la maggior parte senza giustizia. Altrettanto complesso però è trovare quelle che descrivano la forza di questa donna che si porta addosso senza colpe l’eredità sanguinosa di un nonno criminale impunito, e riesce a redimersi pubblicamente dopo ottanta anni e a chiedere, in un atto d’amore sincero ed estremo, umilmente perdono alle vittime ed ai loro familiari.
Lei che addosso non porta nessuna macchia, lei che però, con una dignità infinita, chiede scusa al posto del nonno ormai morto tanti anni fa. Perché se lui fino in fondo non comprese la gravità dei gesti compiuti e mai si pentì, lei ha almeno carpito la portata catastrofica che hanno avuto quei massacri sui sopravvissuti e sulle comunità colpite.
È impossibile conoscere davvero cosa si celi nel fondo del pozzo dell’abisso dei familiari delle vittime che fino alla tomba si sono portati dentro l’ergastolo del dolore senza aver mai ottenuto giustizia.Più facile districarsi nella storia e tornare a quel drammatico giorno di luglio, due giorni prima della liberazione di Arezzo, quando Wolf ed i suoi uomini, con un improvviso attacco, liberarono alcuni commilitoni prigionieri, catturarono numerosi partigiani e le persone sfollate nella zona, uccisero alcuni civili, tra cui donne, anziani e bambini, e condussero il resto a San Polo. Li massacrarono dopo ore di spietate violenze. In quarantotto furono obbligati a scavarsi la fossa nei giardini di Villa Gigliosi, furono seppelliti vivi e fatti saltare in aria con la dinamite. Tra loro anche il ragazzo che portava i panini ai tedeschi. Gli altri furono portati fino a San Severo e massacrati tutti. L’operazione repressiva nella zona si concluse con la morte di 64 persone, in uno scenario di raccapricciante brutalità.Sono passati ottant’anni. La morte per gli indagati è arrivata prima della Procura e quindi della giustizia. A differenza delle sue vittime, il tenente Ewert ha fatto in tempo a ricostruirsi una vita dopo la guerra e a veder crescere la nipote Laura. È morto prima di trovare la forza di raccontare.Ma siccome la vita si rigenera nel grembo materno, sarà proprio lei, sua nipote, domenica prossima, a venire a San Polo di Arezzo appositamente dalla Germania, ad abbassare lo sguardo e a chiedere perdono per una colpa che non è sua. Perché se per la giustizia può esserci un tempo, la forza del perdono è come quella dell’amore: può non morire mai, può rigenerarsi e tramandarsi di padre in figlio.E questo dà alle famiglie ed ai popoli la forza di non perdere mai la speranza nell’umanità.

28.9.22

la storia di Marco Menin che scopre suo padre Ennio fascista e torturare e deportatore di partigiani e chiede scusa a Ennio Trivellin fatto deportare da suo padre nei lager l'unico a tornarvi

 corriere  veneto del  22 settembre 2022 - 07:54

LA STORIA

Mio padre, spia dei fascisti: un segreto tenuto per tutta la vita
Verona, a 64 anni il professore Marco Menin scopre per caso il ruolo del genitore che s’infiltrò tra i partigiani e rivelò i loro nomi alle camicie nere. Furono uccisi o deportati

                              di Andrea Priante








Marco Menin

«Nel 2020 ero a casa, davanti al computer. Quasi per gioco, mi è venuta l’idea di provare a digitare il nome di mio padre sul motore di ricerca. È così che il suo segreto è venuto a galla. Su internet c’era tutto: i verbali, le testimonianze, le sentenze di condanna. A 64 anni ho scoperto che l’uomo che per tutta la vita avevo sempre considerato solo come un genitore, un marito e un nonno amorevole, in realtà era il responsabile delle torture, della deportazione e della morte di decine di persone».
Come un film
Sembra un film, di quelli che provano a raccontare le ferite della guerra e dei vagoni che da Bolzano portavano i prigionieri a Mauthausen. Invece a parlare è l’ex professore di Fisica di un istituto tecnico di Verona oggi in pensione, Marco Menin. Suo padre Sergio, classe 1921, è scomparso 25 anni fa. «E io gli sono stato vicino durante la malattia. Per giorni abbiamo parlato di tutto, mi ha raccontato cose che non sapevo. Eppure, perfino in punto di morte, mi ha nascosto la sua vera storia. È questa la cosa che più di tutte non riesco a perdonargli». In realtà le storie - quelle che per la prima volta accetta di raccontare a un giornale – sono due: c’è quella di un giovane fascista che durante la Seconda guerra mondiale si infiltrò tra i partigiani per poi condannarli a finire nei campi di concentramento, e quella di un figlio che quasi ottant’anni dopo scopre tutto e si ritrova a mettere in discussione le certezze che l’hanno sempre accompagnato.
I racconti di guerra
«Era capitato che papà mi parlasse della guerra. Di rado, a dire il vero, e anche quel poco era angosciante. Mi disse che a 18 anni fu arruolato nella Divisione Centauro, come autista, e poi trasferito sul fronte balcanico, come capocarro su un M13. Mi narrava pure del suo ritorno a casa, dopo l’8 settembre del ‘43, come fosse una scampagnata: alla guida del suo carro armato attraversò Jugoslavia e Triveneto fino a parcheggiare il mezzo militare sulle Rigaste di San Zeno, a Verona». E dopo? «Nient’altro. I suoi aneddoti si interrompevano lì». Gli anni del dopoguerra furono quelli della ricostruzione. Sergio Menin – senza mai nascondere le sue inclinazioni per la Destra - aprì una concessionaria d’auto in pieno centro, poi un’azienda che si occupava dell’installazione e della manutenzione di ascensori. «Era un uomo “normale”, come tutti gli altri. Ricordo che lo vedevamo poco: partiva al mattino, quando io ancora dormivo, e tornava la sera tardi. Però era generoso, simpatico. Una volta donò il sangue salvando la vita a una mamma e alla sua bambina. Un brav’uomo, almeno questa è l’immagine che tutti avevano di lui».
La verità
Dai documenti rintracciati sul web, Marco Menin ha scoperto che dopo l’Armistizio suo padre – col nome di battaglia «Uccello» - entrò a far parte della divisione Pasubio. «Si tratta di una delle più nutrite brigate partigiane che, guidata dal comandante Giuseppe Marozin, combattè tra Vicenza e Verona» spiega il ricercatore Salvatore Passaro, autore di un approfondito studio («Don Carlo Simionato, il cappellano dei forti Veronesi», Cierre edizioni) sulla Resistenza veneta. «Nel settembre del ’44 un massiccio rastrellamento nazifascista, denominato “Operazione Timpano”, portò al suo annientamento e all’uccisione di decine di partigiani. Non è chiaro chi fece i loro nomi ai repubblichini, ma il sospetto è che Sergio Menin possa avere avuto un ruolo». È ciò che pensa anche Marco Menin: «Credo che già all’epoca mio padre fosse un infiltrato al soldo dell’Ufficio politico investigativo della Rsi».
Le testimonianze
La certezza, invece, riguarda i fatti successivi. Scampato agli scontri, il partigiano «Uccello» entrò a far parte del battaglione Montanari. E qui le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze e dei processi che seguirono (e che portarono a tre condanne a morte nei confronti di Sergio Menin) non lasciano dubbi: «Papà fu arrestato dai fascisti assieme ad altri compagni di lotta. Pochi giorni dopo si ripresentò tra le fila partigiane, raccontando di essere riuscito a fuggire. In realtà aveva fornito ai repubblichini una cinquantina di nomi dei componenti del battaglione». I nazifascisti li catturarono, alcuni furono passati per le armi, altri deportati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero una manciata, e tra loro il veronese Ennio Trivellin, staffetta partigiana morto la scorsa settimana a 94 anni: ne aveva appena 16 quando su un carro bestiame fu trasferito a Mauthausen.

  ed  proprio a lui  che  Marco Meni  foiglio  di Sergio    chiederà  scusa



Paola Dalli Cani  L'arena  22  \9\2022 

Trivellin, testimone dei lager, morto a 94 anni e la lettera a L'Arena di Marco Menin

LA RIVELAZIONE ALLE ESEQUIE DEL PARTIGIANO
Trivellin, scuse ai funerali: «Papà ti fece deportare»
Ennio venne arrestato e internato a Mauthausen: a tradirlo era stato Sergio Menin. Ora il figlio ha chiesto perdono: le sue parole lette al cimitero e pubblicate su L’Arena




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«Con lui scompare l’ultimo veronese testimone diretto della deportazione, e oramai è necessario capire come noi, qui e oggi, possiamo dare continuità ad una memoria fondante per la nostra democrazia. Nella consapevolezza che era possibile fare la scelta giusta e quella sbagliata: dobbiamo rispettare le memorie di tutte le persone che hanno vissuto quella tragedia, ma senza dimenticare i crimini di chi ha scelto di riempire i vagoni che portavano ai lager».
Il bisogno di chiedere scusa
Su uno di quei vagoni ci era stato spinto anche Ennio Trivellin nell’ottobre del 1944, reo di aver messo i suoi sedici anni a servizio della Brigata Montanari. Ci era stato spinto su delazione, e del nome dell’uomo che si presentava come Uccello, Trivellin non aveva mai fatto segreto. A distanza di 78 anni, prima martedì al Cimitero monumentale di Verona e ieri con una semplice lettera pubblicata nello spazio dei lettori de L’Arena, Marco Menin, che di Uccello è il figlio, ha voluto pubblicamente rendere omaggio a quel ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, porgendogli pubblicamente «quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire».Personalmente lo aveva fatto due anni fa, scegliendo di presentarsi ad un uomo che non sapeva come affrontare ma dal quale era stato accolto «con un sorriso dolcissimo che porterò con me come uno dei ricordi più cari». Avrebbe potuto tacere, Marco Menin, avrebbe potuto ignorare la scoperta che lo aveva sconvolto: «Quel delatore aveva un nome che ho scoperto solo due anni fa: quello di mio padre Sergio, che quella guerra civile aveva scelto di combatterla dalla parte sbagliata della storia». C’erano state le fughe, c’erano stati i processi e poi le amnistie: tutto cancellato, tranne la memoria di Ennio, che da una quindicina di anni aveva accettato la sua condanna a ricordare e a tenere viva la memoria di ciò che era stato e di chi non era tornato, e, più tardi, quella di Marco Menin.
La commemorazione
Così, dopo la celebrazione composta in cui Ennio Trivellin, da presidente dell’Associazione nazionale degli ex deportati di Verona, è stato salutato tra le arcate della chiesa di Santo Stefano, la commemorazione spostatasi al camposanto è stata l’occasione per riannodare i fili: le parole di un figlio che si scusa nel nome del padre e quelle della nipote di un deportato che ha scelto l’impegno in prima persona (Tiziana Valpiana, nipote di Gracco Spaziani e vice presidente dell’Aned scaligera), tratteggiano le tante eredità di Ennio, l’ex studente, il partigiano Gervasio, il partigiano Nemo.
Tanti studenti con l'urgenza di opporsi al fascismo
Quanti nomi attorno ad un uomo che, raccontando, ha restituito a Verona la memoria di don Carlo Signorato e ha alimentato la fiamma della ricerca storica che ha permesso a studiosi nati trent’anni dopo la liberazione di restituirla a Francesco Chesta ed Eliseo Cobel del Galileo Ferraris, la sua stessa scuola, di Valentino Rosà e Lino Cirillo dello Scipione Maffei, Natale Mihel del Pindemonte Lorgna (ultimo superstite da anni trasferito a Stoccolma), Battista Ceriana del Messedaglia e ai tanti studenti che, come lui, scelsero l’impegno. «Celebriamo quel sedicenne consapevole dell’urgenza di opporsi al fascismo e contrastare l’invasione nazista, ma inconsapevole di quali orrori avrebbe visto», le parole di Valpiana, «una vita diventata testimonianza ed una grande eredità, immensa e terribile: raccogliere il testimone e continuare l’impegno contro l’oppressione, la dittatura, il razzismo e lo sfruttamento». 



21.11.21

Chi ha paura dei partigiani? visto che la storica Chiara Colombini presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese.


Chi ha paura dei partigiani?
Una storica presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese. Ed è successo perché c’è un’aria malsana. Quella di quando si rompono gli argini e anche il peggio, improvvisamente, si può dire

di Mario Calabresi





Prima immagine: una ricercatrice che ha dedicato la sua vita alla storia delle formazioni partigiane presenta un libro in cui affronta i luoghi comuni più diffusi sulla Resistenza. È stata invitata dalla sezione locale dell’ANPI. Fuori, uno schieramento di polizia e carabinieri garantisce che la serata si svolga con tranquillità. Una comunità neonazista attiva nella zona ha attaccato tre striscioni di contestazione. Azzate, provincia di Varese, 12 novembre 2021.
Seconda immagine: due giorni prima a Torino muore una donna che per tutta la vita si è dedicata a far funzionare l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza "Giorgio Agosti". Si chiamava Dada Vicari e ha coltivato la memoria di quelli che si sono battuti e sono caduti per la libertà, come suo padre Michele, ferroviere, partigiano, fucilato il 18 aprile 1945, il giorno dello sciopero generale di Torino, ad appena una settimana dalla liberazione dal nazifascismo.



Il panorama delle Langhe, raccontato da Beppe Fenoglio nel suo romanzo “Il Partigiano Johnny”


A legare le due immagini, i fantasmi che tornano mentre un pezzo prezioso di memoria ci lascia, è Chiara Colombini, 48 anni, autrice del libro Anche i partigiani però.... . È lei che ha avuto bisogno della scorta di polizia e carabinieri per presentare il suo volume, che è proprio dedicato a Michele e Dada Vicari. «Anch’io lavoro all’Agosti, dove sono raccolte tutte le carte delle formazioni partigiane del Piemonte, e Dada mi aveva adottato, era una persona di grande umanità e teneva sotto la sua ala tutti i giovani che passavano dall’Istituto».
Chiara è stata in provincia di Varese per un piccolo giro di presentazioni; le avevano detto che ci sarebbero potuti essere problemi, ricordando la dura contestazione che due anni prima un nutrito gruppo di neofascisti fece contro lo scrittore Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone, un altro libro sul dilagare di luoghi comuni e chiacchiericcio che in tempi di disinteresse, ignoranza e ritorni di fiamma vengono presentati come verità storiche.
«Mi avevano avvisato, ma voglio sottolineare che è stata una tre giorni deliziosa, con sale piene e belle discussioni, ma lascia perplessi che per presentare un libro ci voglia la polizia e questo mi sembra un segnale non proprio rasserenante. Non per me, anzi lo striscione che mi riguarda non l’ho considerato insultante e nemmeno minaccioso. Ma lo sai cosa c’era scritto, usando una rima banale? “Chiara Colombini, mangia bambini”. Mi viene da ridere. La mia preoccupazione è invece legata alla situazione più generale, al fatto che un gruppo neonazista riesca a condizionare le attività culturali di una zona e richieda la mobilitazione delle forze dell’ordine settantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».


Chiara Colombini in una illustrazione di Marta Signori


Quando ho letto la notizia, in un trafiletto nei giornali locali e in una comunicazione dell’Istituto Ferruccio Parri, del cui comitato scientifico Chiara fa parte, avevo appena finito di trascrivere la mia conversazione con Javier Cercas (qui trovate il podcast) e mi risuonava in testa la sua frase contro “la dittatura del presente”, quel modo di vivere immersi in ciò che accade nell’istante, dimenticando ciò che è successo soltanto una settimana prima: «Il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianza non è passato, ma fa parte del presente, se ce ne dimentichiamo viviamo un tempo mutilato».
Ho cercato Chiara Colombini perché mi sembrava che la sua vicenda e quello che mi aveva detto Cercas si parlassero, volevo capire il suo lavoro e grazie a quale scintilla fosse nata la passione per la Resistenza: «È accaduto leggendo Fenoglio. Io sono nata ad Alba e quei luoghi delle Langhe mi sono familiari, ma i suoi libri mi hanno lasciato soprattutto la voglia di conoscere i protagonisti oltre il romanzo e così ho incontrato la figura di Nuto Revelli che mi ha spalancato un mondo. Mi ha fatto capire la complessità e le difficoltà di una scelta come quella partigiana nell’estate del 1943. Revelli era un militare di carriera, un ufficiale degli Alpini ed era andato volontario in Russia. Non era stato antifascista nel ventennio, ma era tornato con ferite umane profondissime e con una voglia di ribellione fortissima. Diventò un capo partigiano leggendario, ma con grande onestà intellettuale ha sempre ricordato la difficoltà di quella scelta. Io studiavo filosofia ma leggere i suoi ricordi mi ha fatto nascere la domanda fondamentale: io che cosa avrei fatto?».
E così la vita di Chiara ha preso la sua direzione che l’ha spinta oggi a confrontarsi con i luoghi comuni che si sono fatti sempre più spazio negli ultimi venticinque anni, ha scelto di fare un libro divulgativo, con un titolo provocatorio, non per storici, ma per tutti.





«Oggi il discorso contrario alla Resistenza è radicatissimo, ha trovato la sua capacità di saltare il fosso della memoria neofascista e di diventare di più ampia diffusione all’inizio degli Anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica. In questa nuova fase si è fatta strada l’idea che l’antifascismo e la Resistenza non potessero più essere il punto di legittimazione della Repubblica e oggi viviamo immersi in un clima che dà pessimi segnali. Se sia fascismo o no, quello che torna non lo so, ma quello che colgo è un clima che non mi piace. Non nasce dalla denigrazione della Resistenza ma è qualcosa di più complesso, è come se si fossero rotti gli argini e così, ora, è possibile fare affermazioni e dire cose che non si sarebbero mai immaginate. Penso ai discorsi razzisti prima di tutto».
Così Chiara è ripartita da lontano e nel suo libro in ogni capitolo affronta una delle accuse mosse ai partigiani, una delle semplificazioni utili a sporcare e denigrare: “Erano tutti rossi”, “Inutili e vigliacchi”, “La violenza è colpa loro”, “Rubagalline”, “Assassini”.
«Nel confrontarmi con i luoghi comuni non cercavo delle giustificazioni e nemmeno di santificare i partigiani, ma volevo raccontare una storia fatta da esseri umani, che ovviamente non erano perfetti e avevano insieme contraddizioni, slanci meravigliosi e limiti. Quello che io amo ricordare è che ci sono state persone che nel momento più nero della disperazione di una guerra di occupazione, dopo vent’anni di dittatura, abbiano trovato un motivo per reagire e il coraggio di salire in montagna».


Una lapide commemorativa nel territorio di Mango (CN). Tre dei contadini qui ricordati, catturati in un rastrellamento dalle truppe nazifasciste e poi fucilati, avevano solo 16 anni


Leggendo il libro di Chiara Colombini e parlando con lei ci si rende conto che tutto il revisionismo, le accuse e i famosi luoghi comuni partono da un dato falsato: si dimentica che c’erano i nazisti, si dimenticano le atrocità della guerra. «Questo è l’elemento fondamentale dei giudizi liquidatori: l’azzeramento del contesto storico e il tentativo di giudicare il passato con il metro dell’oggi. Se non si capisce quale era la situazione, allora la scelta armata è inconcepibile».
Per ripartire davvero dall’inizio, come fa quando incontra i ragazzi delle scuole, è necessario rispondere alla domanda su chi fossero i partigiani: «Erano persone molto diverse tra loro, per provenienza sociale, politica, geografica e con idee spesso opposte sul presente e sul futuro, ma che in un momento di grandissima precarietà e incertezza, in un momento in cui la sopraffazione era legge, hanno reagito. Certo sono stati una piccola minoranza i partigiani in armi, ma più grande era l’area che li sosteneva. Una larga parte era rappresentata dai più giovani, c’erano anche trentenni e quarantenni con una formazione politica alle spalle, già antifascisti o che lo erano diventati nel corso della guerra ma soprattutto tanti ragazzi, nati e cresciuti sotto il fascismo e senza un’idea politica ben precisa. Uno degli aspetti che mi affascina di più è questa natura composita così ricca. E non erano tutti comunisti. Certo la risposta al luogo comune non deve portare a sminuire il ruolo delle Brigate Garibaldi, che erano la metà dei combattenti, ma è scorretto stabilire un rapporto organico tra formazioni partigiane e partiti politici».


Dalla Cascina Langa la vista spazia su tutta la pianura cuneese e sul Monviso


Ogni storia ha un luogo di elezione, un punto in cui le cose sembrano avere un senso più nitido e vero, per Chiara quel luogo è la Cascina Langa narrata da Fenoglio nel Partigiano Johnny, si trova a 700 metri d’altezza tra i paesi di Benevello e Trezzo Tinella, da qui si apre un panorama mozzafiato su tutta la pianura e sulla corona delle Alpi. Per il partigiano Johnny quella cascina solitaria era un rifugio, il luogo degli amici e della cagna lupa.
Anch’io, quando un giorno ci sono arrivato, portato da Angelo Gaja che voleva farmi capire l’essenza dell’Alta Langa, mi sono innamorato di quel luogo e ho riletto lo scrittore che imparai ad amare all’università per quella sua lingua asciutta ed essenziale che definisce alla perfezione ogni cosa.


  stavolta    oin sottofondo  non  c'è una  canzone    ma  un intero  album

Appunti Partigiani” - Modena City Ramblers.

29.9.21

77° ANNIVERSARIO Stragi naziste: Mattarella, “Marzabotto e Monte Sole segni indelebili nella Costituzione e nei valori di un’Europa dei popoli e della gente non quella della lobb y e dei banchieri



29 Settembre 2021 @ 10:08
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“Oggi Monte Sole e Marzabotto, insieme ai vicini Comuni di Monzano e Grizzana Morandi, sono luoghi di memoria e sacrari di pace, non soltanto per la Repubblica italiana ma per l’intera Europa. Sono segni indelebili, che troviamo nelle radici della Costituzione e che hanno dato origine al disegno di un’Europa unita nei suoi valori comuni”. Lo ha dichiarato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 77° anniversario della strage di Marzabotto.
“Marzabotto e Monte Sole – ricorda il Capo dello Stato – furono teatro settantasette anni fa di un eccidio di civili spietato e feroce compiuto dalle SS nel nostro Paese. Si raggiunse in quei giorni, tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ’44, pur nel contesto della ritirata delle truppe tedesche, il culmine di una strategia di annientamento che non risparmiò bambini e anziani, giungendo a sterminare persone del tutto incapaci di difendersi e fedeli riuniti all’interno della loro chiesa”. “L’orrore di quella ‘marcia della morte’ e il sangue innocente versato – aggiunge Mattarella – divennero simbolo della furia distruttrice della guerra, della volontà di potenza, del mito della nazione eletta. Un simbolo che la resistenza popolare e il desiderio di pace e libertà hanno saputo capovolgere nell’avvio di un percorso di costruzione democratica e civile, fondato sui diritti inviolabili della persona e della comunità”.
“Il ricordo di quanto avvenuto, che doverosamente si ripete in forme aperte e pubbliche, rinnova anche l’impegno che la Repubblica e le comunità locali assumono nei confronti delle giovani generazioni”, ammonisce il presidente, secondo cui “occorre avvertire la responsabilità di testimoniare ancora i sentimenti, i sacrifici, gli ideali che hanno spinto il nostro popolo, insieme agli altri popoli europei, a far prevalere la civiltà sulla barbarie e ad affermare la libertà, la democrazia, la giustizia sociale come pilastri irrinunciabili della nostra vita”.

Oltre  al solito    bla ... bla  .....   spesso ipocrita    ed retorico infatti    le  celebrazioni ufficiali vengono  fatte     e  vi partecipano   anche  politici ed  politicanti  che  hanno  al loro interno  gente  che  ancora   celebra     e  mantiene   come   punto di riferimento    teorie  ed  ideologie   che      sono state la  causa  e  l'origine di   tali fatti   bisognerebbe       ricordare  l'evento    attraverso uomini come Ferruccio Laffi dovrebbero essere considerati monumenti viventi al coraggio, dovremmo celebrarli e ricordarli ogni giorno, e invece sono ormai diventati rumore di fondo, persino un po’ fastidiosi, scomodi per alcuni, ricordi ingombranti di un passato con cui in tanti rifiutano ancora di fare i conti. Teniamoceli stretti perché un giorno nessun testimone di quell’orrore ci sarà più. E non è questione di decenni ma anni.  Infatti  oggi  parlo  di   Ferruccio Laffi l'uomo ritratto in questa foto a sinistra .Egli , oggi ha 93 anni ne aveva 16 il 30 settembre del 1944 , quando tornando nella sua casa di Monte Sole ( trovate a fine post , come di consueto dei link per ricordare o conoscere se ancora non lo sapete cosa è stato tale evento ) trovò la sua l’intera famiglia ammazzata dai nazifascisti: mamma, papà, fratelli, sorelle. 14 persone in tutto, trucidati insieme a migliaia di italiani innocenti.
Li hanno ammazzati uno per uno, nelle case, nelle cascine, persino nelle chiese, donne, anziani e bambini, alcuni fucilati sul posto, altri bruciati vivi, altri ancora decapitati. In tutto alla fine saranno 1830 le vittime Per una settimana intera. Non importava se avessero combattuto o no, se fossero o meno partigiani. I nazisti erano arrivati sull’Appennino bolognese con un piano preciso in testa: ammazzare qualunque essere umano in grado di respirare. E così fecero.Egli   è uno degli ultimi  (  se  non addirittura  l'ultimo  )    e pochissimi sopravvissuti di quella strage. Si era andato a nascondere nel bosco. Quando è tornato a casa e ha trovato quei 14 corpi, li ha sepolti uno per uno con le sue mani. Ha trascorso metà della sua vita a cercare di dimenticare l’orrore. E, quando ha capito che era impossibile, ha cominciato a raccontarlo. A testimoniare. A denunciare. Perché altri, dopo di lui, non lo potessero più cancellare. Il 29 settembre di 77 anni fa cominciava la strage di Marzabotto, una delle più grandi ferite della storia dell’Umanità, proprio lì, a due passi da Bologna.A Ferruccio Laffi, a questa memoria vivente, l’omaggio e il pensiero di tutti noi.


 Per non dimenticare. Infatti 

Uomini come Ferruccio Laffi dovrebbero essere considerati monumenti viventi al coraggio, dovremmo celebrarli e ricordarli ogni giorno, e invece sono ormai diventati rumore di fondo, persino un po’ fastidiosi, scomodi per alcuni, ricordi ingombranti di un passato con cui in tanti rifiutano ancora di fare i conti. Teniamoceli stretti perché un giorno nessun testimone di quell’orrore ci sarà più. E non è questione di decenni ma anni.



P.s
Lo  so  che    cito  più volte    ma  che  colpa  ne  ho se    una delle poche persone pensati     che  ancora  non hanno mandato il cervello all'ammasso  o  nella  falsa  libertà al pensiero  unico  \ complottismo     diventa conformismo  .  Infatti  pur non allo stesso modo, stiamo tornando a quel clima di odio, persecuzione, menefreghismo nei confronti dell'altro che sia diverso da noi per provenienza, religione, colore della pelle, idea politica. Questo mi fa paura, non tanto per me, che già ho trascorso la maggior parte della mia vita, ma per il nostro futuro. Ben venga chi ci fa ricordare gli errori del passato, ci vuole più conoscenza dei pericoli verso cui andiamo incontro.

                        Per   approfondire  





emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...