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29.6.15

la Heineken ( la nuova proprietaria della birra moretti ) contro La birraia Francesca Lara creatrice della Birra la moretta



Francesca e suo marito hanno infatti iniziato la loro avventura nel territorio dell’Ogliastra (a Tertenia) nel 2009.IL loro obiettivo principale ? Realizzare la prima birra dell’isola a chilometro zero.


Essa va ad aggiungersi all'elenco delle

(....)
Le birraie italiane

Rosa Gravina

Come dichiara il completissimo The Oxford Companion to Beer – che riporta un’intera voce “women in brewing” – la recente crescita della birra artigianale negli USA ha in molti casi riportato le donne al centro dell’industria brassicola. Fino a far occupare loro il ruolo più importante in assoluto: quello di birraio. Se questo è vero per gli Stati Uniti, lo stesso si può dire per l’Italia, dove in modo analogo esistonoalcuni esempi di donne birraie. La “mamma” di tutte (nonostante la sua giovane età) è sicuramente Rosa Gravina, formatasi al Birrificio Lambrate prima di fondare, nel 2003, il Birrificio Artigiano. Qualche giorno fa il Corriere della Sera le ha dedicato un bell’articolo, in cui si ripercorrono i primi anni pionieristici della birra artigianale in Italia. Di cui, chiaramente, Rosa è stata una degli attori principali.

                                Francesca Torri

                        
francesca lara  
Ma Rosa è in buona compagnia. Francesca Torri è un’altra storica birraia italiana, legata al birrificio Mostodolce di Prato, attivo anch’esso dal 2003. Più recente (2012), ma sempre situato in terra toscana, è il birrificio La Badia, le cui birre sono brassate da Lavinia Barni, laureata in Scienze e Tecnologie Agrarie. Uscendo invece dai confini della Toscana – che probabilmente possiamo considerare la regione birraria più “rosa” in assoluto – troviamo il birrificio Jeb, aperto nel 2009 e guidato da due sorelle gemelle:Chiara e Donata Baù, con la prima che si occupa della produzione. In un vecchio post su Mobi Kuaska poi cita Francesca Lara del birrificio sardo Lara e Miriam del bergamasco Maspy. Ci sarebbe da inserire anche Carla del toscano (anch’esso!) Pevak, che però ha recentemente chiuso i battenti. E poi chiaramente c’è l’ultima new entry: Elena Di Martella Orsi di Birroir. Travalicando invece i confini nazionali, non possiamo non citare Giada Maria Simioni, attuale birraia dell’inglese Magic Rock e giudice in concorsi internazionali.


( .... continua qui su http://www.cronachedibirra.it/   foto comprese  esclusa  quella  di francesca lara  presa dall'unione sarda del 28\6\2015  )






Ma essa è recentemente è passata alla cronaca perchè nonostante il compromesso proposto Francesca Lara d'aggiungere al nome moretta il nome Lara la multinazionale della birra olandese le  ha  fatto causa 

come dice l'unione sarda







e http://www.algheroeco.com/ sempre d del 28\6\2015 e le ha dichiarato guerra legale perchè cambi il nome


Guerra di birre: Heineken contro la “Moretta”
La multinazionale pronta a trascinare in Tribunale un birrificio sardo per il nome troppo simile alla "Birra Moretti".


La multinazionale Heineken minaccia di trascinare in Tribunale il “Microbirrificio Artigianale Lara” della quarantaduenne Francesca Lara. Oggetto del contendere sarebbe la “Moretta”, birra artigianale prodotta nello stabilimento ogliastrino, nome che insieme a “Sennòra”, “Affummiàda” e “Piculìna” richiamano i vezzeggiativi con cui le quattro sorelle Lara (Sebastiana, Carmen, Sandra e Francesca) sono chiamate in famiglia sin da piccole. Seconda la Heineken proprio la “Birra Moretta” violerebbe le leggi «in materia di proprietà intellettuale» perché troppo simile alla famosa “Birra Moretti”, marchio acquisito dalla multinazionale nel 1996.









e qui la prepotenza e chiusura mentale della multinazionale  birraria  . Ora m chiedo ma la domanda è destinata volare nel vento come .... mi chiedo una birra artigianale può fare concorrenza a una multinazionale ----

20.12.14

meglio parlare di mafia ed antimafia fino a creare assuefazione che lasciare che prosperi in silenzio \ Il caso di maria Stefanelli la prima testimone di di 'andrangheta al nord e il suo rqpporto con i giudici

Lo   so che  v'annoierete   nel  leggere  storie  di mafie a  cosi breve distanza     ( vedere il precedente post  :  " la  storia  della  giornalista  Ester   "  di qualche  giorno fa  )   , ma come ho  già detto   nel titolo meglio un assuefazione   che  il silenzio   , o peggio   se  ne parli male  o  a  ....   come evidenzia lo stesso  Saviano


Roberto Saviano.15 dicembre alle ore 12.12

In questi giorni, dopo l'inchiesta “Mafia Capitale”, sono diventati tutti conoscitori di mafia. Ne scrivo qui: bit.ly/LaMafiaDiSempre
Non ho mai temuto i professionisti dell'antimafia, ma i dilettanti sì, e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma forse nemmeno il Paese. D'improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? (....) 


Ma  soprattutto per  far  si che storie  come questa   non siano  casi isolati  c' cioè   : <<(...) Storia diversa per gente normale \storia comune per gente speciale  (...) >> (  per citare una famosa   canzone poesia  de  andreiana    ) e che   non diventino   solo  : <<  storie che restano sepolte nei faldoni delle procure, dimenticate negli archivi dei giornali, ma ancora vive e sanguinanti nell’animo di chi le ha vissute>>  e  condivise  e  da esempio  a   chi vuole uscirtne  o  cis ta  cadendo   . Ma  soprattutto  non ci  cada 

Ecco la  sua storia 

da  narco mafie    piu' precisamente  qui 

E’ una di queste la vita di Maria Stefanelli, classe 1965, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta in Piemonte dal 1998, costretta tutt’oggi a vivere sotto protezione per la ferocia della famiglia dei Marando che di lei, invece, non si è dimenticata.
Una vita spezzata dalle assurde regole dell’organizzazione, dalla rigidità dei protocolli dell’onorata società, dalla violenza del vivere mafioso. Vita raccontata, in ore di dolorosa deposizione, proprio in questi giorni a Torino nell’ambito del processo Minotauro scaturito dall’operazione che l’8 giugno del 2011, sotto il coordinamento della procura di Torino guidata da Gian Carlo Caselli, ha sgominato 9 locali di ‘ndrangheta nel capoluogo e in provincia.
Non piace che racconti, Maria. In alcuni momenti della deposizione, gli imputati dietro le sbarre si innervosiscono e il giudice Paola Trovati è costretta a richiamarli al silenzio. Un avvocato si lamenta con i giornali: “La Stefanelli non ha più nessun contatto con le persone di cui parla dal 1998, perché chiamarla a testimoniare in un processo le cui indagini sono state condotte dal 2007?”.
Le ragioni, invece, ci sono eccome. Foss’anche per portare davanti alla corte una testimonianza che faccia capire che cos’è e come opera la ‘ndrangheta, visto che troppi processi nelle regioni settentrionali stanno registrando preoccupanti assoluzioni da parte di una magistratura giudicante che, dopo sessant’anni di mafie al nord, appare ancora titubante di fronte alla natura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Ma quello che racconta Maria riguarda invece da vicino la storia di molti di coloro che si trovano imputati nel maxiprocesso. E la sentenza sull’omicidio di suo fratello e del suo patrigno, per cui nel 2000 sono stati condannati Domenico Marando e Giuseppe Leuzzi, è agli atti del dibattimento in corso.
Maria Stefanelli è la sorella di Antonino Stefanelli, e figliastra dell’omonimo Antonio, i due esponenti della cosca ‘ndranghetista di Varazze (Sv) che con Francesco Mancuso il 1° giugno 1997 caddero in una trappola a Volpiano (To) a casa di Domenico Marando, che voleva vendicare la morte del fratello Francesco avvenuta nel 1996 di cui i tre erano supposti responsabili: l’ipotesi è che non avrebbero saldato con lui un debito per una partita di droga e, consapevoli dei rischi che quella mancanza comportava, lo avrebbero preceduto nell’eliminarlo. Si salvò, quella sera, solo Roberto Romeo, rimasto di guardia, che sull’alta scalinata di un noto centro commerciale dell’hinterland torinese raccontò alla stessa Stefanelli le dinamiche della scomparsa. Romeo nel 1998 sarebbe poi caduto a Rivalta (To) in un’imboscata di Antonio Spagnolo, con la collaborazione di Rocco Varacalli, uomo di fiducia dei Marando, con un ruolo chiave nell’attuale processo dell’aula bunker delle Vallette perché è stato proprio il suo pentimento nel 2006 a togliere il coperchio sugli affari delle cosche in Piemonte e a rendere così possibile l’operazione Minotauro.
Ma, soprattutto, Maria Stefanelli è la moglie di quel Francesco Marando vendicato nell’agguato di Volpiano, ucciso nel 1996.­ Il cadavere carbonizzato fu ritrovato nei boschi di Chianocco (To).
Della morte del marito Maria venne a sapere dal telegiornale: “E’ stato ritrovato il corpo carbonizzato di un uomo di origine marocchina. Portava al dito una fede nuziale con inciso “Maria 9 giugno 1990””. La donna, all’epoca trentunenne e con una bambina piccola, si stupì della coincidenza con il nome e la data delle sue nozze, ma solo quando alla porta si presentò la lunga processione per le condoglianze capì che l’anello era il suo.
“Mi crollò il mondo addosso, ma non posso negare che quella notizia fu per me una liberazione”.
Quando Maria Stefanelli pronuncia queste parole, chi il 16 gennaio 2013 era in aula comprende le ragioni dello sfogo di cui la donna sente ancora di doversi giustificare, perché ha già ascoltato la sua storia, che il pubblico ministero Monica Abbatecola le aveva chiesto di raccontare. Maria Stefanelli parla del fidanzamento combinato dalle famiglie, a cui lei aveva ceduto per la necessità di lasciare la casa materna (fidanzamento avvenuto al carcere delle Vallette, dove Francesco Marando si trovava recluso, e matrimonio in Comune a Torino, con il promesso sposo che arriva in blindato e firma gli atti con le manette ai polsi); della vita da reclusa a cui suocera e cognati la costringono, in un appartamento senza acqua, luce e riscaldamento, il cibo contato, uniche uscite ­- sempre sotto sorveglianza – le visite quotidiane al marito e la spesa per la necessità della famiglia da cui era trattata come una serva; dei pizzini che deve portare fuori dal carcere per la prosecuzione dei traffici dei Marando; delle riunioni al giardino dei Perre (un’altra famiglia affiliata) a Volpiano, dove ha assistito a riunioni di affari e a ingressi nell’“onorata società” suggellati da brindisi e grandi mangiate, da cui le donne erano escluse, buone solo per servire al tavolo. Racconta della paura quotidiana, delle corse dagli avvocati per trovare il modo di fare uscire dal carcere il marito, dell’organizzazione della rocambolesca fuga dall’ospedale psichiatrico di Genova dove Francesco Marando riuscì a farsi ricoverare fingendosi depresso.
Da quella fuga l’inizio della latitanza, il periodo più duro per lei, costretta a trasferirsi a Platì (Rc), in una casa in cui subiva continue incursioni nel cuore della notte da parte delle teste di cuoio, che entravano sfondando porte e finestre che lei aveva smesso di riparare, tanto nessuno a Platì l’avrebbe mai toccata, lei, moglie del super ricercato Francesco Marando. Che infatti si trovava ospite a poca distanza, e con cui riusciva ad avere fugaci incontri, prelevata dagli uomini che ne supportavano la latitanza, che la conducevano nelle case in cui si nascondeva, o nei bunker nel bosco, in cui lui era “attrezzato e armato di tutto punto tanto da sembrare Rambo. A volte sentivamo i cani e i passi di chi lo cercava proprio sopra le nostre teste. Ma io non ero complice, non potevo che fare così, mi avrebbero ammazzata”.
L’ultima volta che lo vede è il 6 aprile 1996, compleanno di Marando: erano stati insieme nascosti una settimana, e proprio quell’ultimo giorno lui l’aveva massacrata di botte, perché dovendo andare a portare le condoglianze per una morte si era permessa di lasciare la bambina a una vicina di casa anziché alla suocera. Botte da sanguinare, senza potersi curare da nessuna parte. Lei, che doveva anche sopportare che lui avesse un’amante.
Dopo la morte di Francesco Marando, Maria Stefanelli torna a casa dalla sua famiglia, a Varazze, in Liguria. Sola con la sua bambina, piena di debiti lasciatigli dal marito che trafficava droga per centinaia di milioni di lire. Non un soldo, costretta a lavorare nei cantieri edili per tirare avanti: “Ma volevo che mia figlia crescesse con dignità”.
L’anno dopo avviene l’omicidio di suo fratello Antonino e dello zio Antonio Stefanelli, fratello del padre morto di infarto con cui la madre si era risposata in seconde nozze.
Poi l’incontro con Roberto Romeo, che le rivela i retroscena del delitto.
Lei, intanto, continua a subire le pressioni della famiglia acquisita: “Vogliamo vedere la bambina, è nostro diritto. Devi scendere in Calabria per la messa di ricordo di tuo marito”.
Quando viene a sapere che anche Romeo è stato ucciso, si decide per la scelta più difficile. Lo dice ancora piangendo: “Ho fatto la scelta della mia vita, quella più giusta, anche se ho perso tutto, la mia famiglia che mi ha chiamata infame, mia madre che ho potuto rivedere solo quando era già morta in una cella di frigorifero. Ho scelto di dire quello che sapevo, perché altrimenti sarei stata assassina anch’io”. Preparerà di corsa una valigia con poche cose lasciandosi tutto alle spalle. Il giudice Marcello Tatangelo raccoglierà la sua testimonianza.
Ma la sua storia non è ancora finita: “Loro mi danno la caccia tuttora. Coi Marando non si scherza”.


 

Essa     ha deciso di  parlare     e rompere il muro di silenzio    ed  è spiegato benissimo in quest'altri due   articoli

 il  primo preso  da   http://www.ioacquaesapone.it/canale.php?id=39

Maria Stefanelli: la prima testimone di ’ndrangheta al nord

Il coraggio di dire no, di denunciare i familiari, di inseguire il sogno di una vita normale

Ven 28 Nov 2014 | di Angela Iantosca


Ha deciso di parlare, perché denunciare nelle aule di tribunale non è sufficiente. Ha deciso che la sua storia la doveva mettere nero su bianco, far sapere a tutti ciò che accade e continua ad accadere. E lo doveva fare soprattutto per lei, sua figlia, per la quale un giorno ha voluto lasciare il suo passato e avventurarsi in un nuovo futuro, fatto di speranza e amore.
Maria Stefanelli è la prima testimone di ’ndrangheta del Nord Italia, una donna nata e cresciuta in una famiglia di ’ndrangheta e poi diventata moglie di un uomo di ’ndrangheta. Una vita segnata, fatta di violenze, abbrutimento, illegalità, dalla quale ha trovato il coraggio di fuggire.
La incontro a Milano, in un luogo che abbiamo concordato la sera prima. So che lei arriverà in auto da una località che ignoro. So solo che ha viaggiato a lungo. Eppure la gioia di essere lì e di trascorrere una giornata diversa non le fa sentire minimamente la stanchezza.
Ci fermiamo in un bar a chiacchierare. Con noi Manuela Mareso, la giornalista che l’ha aiutata nella stesura del libro “Loro mi cercano ancora”, nel quale racconta la sua storia. 
«Sono nata in Calabria, ad Oppido Mamertina, il paese che tutti conoscono per gli inchini delle statue delle Madonne davanti alle case dei boss. Lì avevamo un esercizio commerciale che un giorno, non so ancora perché, o forse sì, ci viene bruciato. È così che perdiamo tutto e quando ho 9 anni, con i miei fratelli e mia madre, vado via da lì, per ricominciare in Liguria, dove i miei fratelli “lavorano”. Non saprei dire cosa fanno, so solo che la nostra è una vita da indigenti e che da quel momento per me è cominciato l’inferno: le botte, le violenze di mio zio, l’assenza dell’amore di mia madre, la scuola che non riesco a finire, i doveri di “femmina” e quella famiglia che non comprendo, alla quale sento di non appartenere».
Cosa significa crescere in una famiglia di ’ndrangheta?
«Non ne hai consapevolezza vivendola dall’interno. Ma vedi cose, vivi situazioni, senti discorsi che un bambino non dovrebbe mai sentire. Sei obbligato a vedere cose che ti bruciano l’infanzia, sentendo il dovere poi di obbedire. Perché chi cresce in una famiglia di ’ndrangheta sa e vede tutto. Quante donne potrebbero parlare, potrebbero ribellarsi, gridare e dire basta. Le più forti siamo noi, noi donne, che dobbiamo prendere i nostri figli e denunciare. La ’ndrangheta è come un cancro, una metastasi, ti uccide, ma si può curare. Ti uccide lentamente. Ma noi donne siamo una risorsa, siamo più forti. Noi possiamo salvare i figli, salvando noi stesse e ritrovando quella infanzia che ci hanno rubato».
La tua infanzia è stata durissima. Poi è arrivato il matrimonio.
«Quando ho conosciuto Ciccio (Marando – ndr) pensavo di poter coronare il sogno del principe azzurro che ti libera dal dolore. Non sapevo di finire dalla padella alla brace. Ciccio era in affari con i miei fratelli, che per questo vollero la nostra unione. Quando ci siamo sposati, lui era in carcere: ci siamo sposati con la polizia e lui era in manette. E dal primo giorno del matrimonio ho capito che nella mia vita non sarebbe cambiato niente, anzi. Ho cominciato a fare su e giù tra le carceri. Ero solo uno strumento per i suoi porci comodi. Poi, per fortuna, sono rimasta incinta di una bambina e lì ho creduto che qualcosa cambiasse. Invece no: usava la mia gravidanza per nascondere sotto la mia pancia quello che non voleva venisse trovato dalla polizia ai posti di blocco…». 
Un incubo che diventa un inferno, quando Ciccio la picchia con tale violenza da farle perdere il secondo bambino che aspettava, al quarto mese di gravidanza.
«Non si fidava di me, mi teneva sotto controllo. E un giorno, per farmi capire chi comandava, mi ha dato una bella lezione. Mi ha portato in montagna, vicino Platì (in provincia di Reggio Calabria – ndr), dove abitavamo in quel momento, e mi ha massacrata di botte. Aspettavo un bambino. Un maschio. Quando mi ha fatto lasciare inerme davanti alla porta di casa, ho sentito qualcosa tra le gambe. Era sangue. Era mio figlio. Credo di essere morta in quel momento. La forza, da allora, me l’ha data solo la presenza di mia figlia. Da quel momento ho solo pensato che dovevo salvarla da tutto questo».
Ma per fare quei nomi, per denunciare padre, madre, fratelli, quanta forza ci vuole? Quella della disperazione. Perché Maria, come tutte le donne, lo sa che non si può parlare. Che non è permesso sottrarsi, neanche immaginare di farlo, dalla famiglia alla quale si appartiene.
«La forza ti viene quando ti aggrappi, capisci le cose, capisci che sei in pericolo. Che non è giusta quella vita. Mi sono trovata ad un bivio: o la morte o la vita. Io ho scelto la vita. E questo l’ho fatto dopo la morte di mio fratello e mio zio, quando ho dovuto prendere una decisione definitiva, anche per salvare la vita di mia figlia, per darle un futuro, una dignità. Dopo la morte di Ciccio, che per me è stata liberatoria, ho trovato il coraggio. Con la scusa di dover denunciare i soprusi del mio datore di lavoro, sono entrata dai Carabinieri. Credo che il maresciallo mi stesse aspettando. La mia famiglia e quella di Ciccio da anni riempiva le pagine dei giornali. Tutti sapevano. Dietro di noi avevamo una striscia continua di sangue. Quando mi dicono che io sarei stata la prossima, decido che è ora di cominciare a testimoniare. Era il 5 febbraio del 1998. Di fatto si trattava di scegliere se vivere o morire. Semplicemente. Da mesi ormai mi trascinavo logorata dal pensiero di essere uccisa. È così che ho cominciato a parlare. Sono diventata una teste importante all’interno di un procedimento penale che ha portato in carcere molte persone, il processo Minotauro, che si è svolto a Torino, perché la mia famiglia operava nel territorio piemontese e ligure». 
Maria ha scelto da che parte stare e ne ha pagato le conseguenze, perché da allora vive in località protetta con il timore di essere raggiunta e uccisa, ma ora, nonostante tutto è libera.
«Ho deciso di dire basta, come vorrei lo facessero tutte le donne di ’ndrangheta, che sanno, sono complici. Devono trovare la forza e farlo per i loro figli. Non è semplice vivere in un non luogo con una falsa identità. Ma ora sono libera, libera, libera di camminare senza dover sottostare ai loro ordini. E ogni giorno posso scegliere in che direzione andare».   

il secondo preso   sempre  dal sito   da   narcomafie
di Manuela Mareso 2 lug 2013 

Io, tradita dai giudici


Quindici anni di solitudine. Di fuga, di isolamento. Per lei e sua figlia. Nessun contatto con la famiglia, nessun amico. Per loro ormai è un’“infame”, e l’hanno cancellata dalle loro vite. Nessuno a cui poter raccontare il suo passato. Un nuovo nome, una nuova identità. È la storia di Maria Stefanelli, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta dal 1998, dopo una vita di violenze e brutalità. Una voce che fuori dai tribunali nessuno ha mai sentito, e oggi, per la prima volta, decide di spezzare il silenzio. Il motivo è la decisione dei giudici di Torino – chiamati a emettere il verdetto di primo grado nel maxi processo sulla ‘ndrangheta in Piemonte ora alle battute finali – di revocare l’ordinanza di custodia cautelare per Rosario Marando, elemento di spicco della famiglia di Platì (Rc) che da 30 anni comanda a Volpiano, nell’hinterland torinese. “Sono molto preoccupata per l’incolumità della mia cliente”, dice l’avvocato Cosima Marocco. “Rosario Marando ha più volte espresso un fortissimo livore nei suoi confronti, sia al processo Minotauro, dove è imputato per associazione mafiosa, sia al processo Stefanelli, in cui è accusato di omicidio. Era detenuto per narcotraffico, sarebbe dovuto uscire nell’aprile del 2014, invece con un cumulo di pena è riuscito a estinguere i mesi residui e dunque ora è fuori”. Nel processo riaperto per la morte di Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso – per il quale nel 2000 era già stata pronunciata una condanna per il fratello Domenico Marando e per Giuseppe Leuzzi, condannati all’ergastolo –, Rosario Marando è stato protagonista di un colpo di scena: “So dove sono sepolti i tre cadaveri, ce li ho messi io”, ha affermato lo scorso aprile, interrompendo l’udienza e portando giudici, pm e avvocati nel boschi della Vauda, a Volpiano. Ad oggi le ricerche non hanno portato risultati.
Signora Stefanelli, come ha reagito alla notizia della liberazione di Marando?
Sono terrorizzata. Non dormo e non mangio da giorni, sono ripiombata nell’incubo di anni fa. Rosario Marando appartiene a una famiglia potente di ‘ndrangheta, una famiglia di assassini oltre che di grandi trafficanti di droga. E lo so perché sono sua cognata. Ne ho sposato il fratello, il boss Francesco Marando, di cui sono rimasta vedova nel 1996, quando è stato ammazzato e bruciato nei boschi di Chianocco (To) dai miei familiari, con cui era finita l’intesa negli affari. Il nostro era stato un matrimonio combinato, come avviene nelle famiglie mafiose calabresi. Non ho mai pensato che i Marando dal carcere si fossero dimenticati di me, ma ora mi preoccupa il fatto che Rosario e Domenico si siano palesemente riavvicinati dopo la grossa rottura dovuta alla spartizione del tesoro del loro mitico – in ambienti criminali – fratello Pasqualino. Dalle sue deposizioni ai processi Rosario ha lanciato palesi messaggi, l’ultimo interrogatorio con il pm Roberto Sparagna sembrava un duello. Bisogna interpretarlo il linguaggio della ‘ndrangheta. Sapere che i fratelli Marando sono tornati in sintonia per me è una notizia angosciante. Eppure non è neanche questa la cosa che mi deprime maggiormente.
Che cosa allora?
Ancor più del fatto che sia libero, mi inquietano le motivazioni addotte. Suonano chiaramente come un’anticipazione di una sentenza di assoluzione, e temo non solo per Rosario. Si trattasse di un processo a Reggio Calabria penserei male. Siamo a Torino, voglio credere che semplicemente le tre giudici non sappiano che cos’è la ‘ndrangheta. Mi sembra che non colgano la caratura criminale di questi imputati, che li considerino solo dei bifolchi, dei cafoni, non delle menti più evolute come la guida di un’associazione di stampo mafioso impone. Del resto è un atteggiamento ricorrente nella magistratura giudicante di molti processi al nord. La mia era una sensazione maturata seguendo le udienze a distanza, e questo provvedimento sembra darmi ragione.
Perché è così severa nel suo giudizio?
In quella revoca si mettono in discussione le dichiarazioni mie, di Rocco Marando – il fratello pentito – e di Rocco Varacalli, il collaboratore che ha fatto scoppiare Minotauro. Il punto è questo: io, forse ingenuamente, ho sempre detto la verità. E la verità è che nessuno di loro, non Rosario e neanche mio marito, mi ha mai confessato “sono un affiliato”. Ma io ho assistito a molti rituali, ai “battesimi”, ai brindisi per i nuovi membri. Certo, non ho assistito a quelli dei Marando, anche perché loro erano già dentro l’organizzazione quando sono entrata nella famiglia. E sulla contestazione che non me ne abbiano mai fatto esplicito cenno, bisogna chiarire che nella ‘ndrangheta non funziona così, dell’appartenenza non si parla apertamente, figuriamoci alle donne poi, che sono bistrattate, sottomesse, umiliate, picchiate. Moltissime vanno avanti a psicofarmaci, per sopportare la morte di figli e mariti, o anche solo la prigionia in cui di fatto vivono. Io ero costretta a portare i pizzini fuori dal carcere per conto di mio marito, raggiungerlo nei suoi bunker sull’Aspromonte mentre era latitante. Perché ero la moglie di un mafioso. Se un giudice non capisce questo, non può capire la ‘ndrangheta.
Lei ha scelto di abbandonare quel mondo.
Sì, e l’ho pagato caro. Ma da quel momento nella giustizia ho sempre creduto, per questo quando mi hanno richiamata per i processi Stefanelli e Minotauro, dopo anni in cui mi ero rifatta una vita, benché misera come può essere quella di una fuggiasca sotto protezione, non ho avuto dubbi sull’accettare di testimoniare. E mi sono seduta su quella sedia da cui le giudici hanno visto uomini tremare di paura, imprenditori vessati sconfessare quello che avevano denunciato, addirittura persone rinnegare la propria identità e dire: “Non sono io, è un caso di omonimia”. Si è visto di tutto in quel processo. Purtroppo capita spesso che i giudici dei tribunali del nord sottovalutino la pericolosità e il livello di infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale ed economico, vanificando il lavoro dei magistrati inquirenti.
Che cosa pensa di fare ora?
Non lo so. Volevo essere dimenticata e dimenticare tutto. E’ stato impossibile. Quello che ho detto nelle aule di tribunale, e che già mi sembrava molto, è un centesimo di quello che ho vissuto. Capisco solo ora come una mancanza di conoscenza delle dinamiche dell’organizzazione possa influenzare le decisioni giudiziarie. Forse è il momento di raccontare come vive una donna di ‘ndrangheta e pubblicare il libro sulla mia vita che da tempo penso di scrivere. Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e tante altre donne uccise per aver parlato non hanno fatto in tempo. Lo devo anche a loro.

  Ma  sopratutto lo  ha  fatto    con  questo libro


 

 Titolo    Loro mi cercano ancora. Il coraggio di dire no alla 'ndrangheta e il prezzo che ho dovuto pagare
Autore    Stefanelli Maria; Mareso Manuela
Prezzo Sconto -15%     € 14,45
(Prezzo di copertina € 17,00)
Dati    2014, 204 p., brossura
Editore    Mondadori  (collana Strade blu. Non Fiction)
     Disponibile in eBook a € 9,99

  scheda presa  da  su http://www.ibs.it

Loro mi cercano ancora” è il libro scritto da Maria Stefanelli, con Manuela Mareso, direttore di “Narcomafie”. Pubblicato da Mondadori a settembre, racconta la storia della prima donna testimone di giustizia contro la ’ndrangheta al Nord. Originaria di Oppido Mamertina (Rc), Maria Stefanelli all’età di 9 anni emigra in condizioni di povertà drammatiche dalla Calabria alla Liguria, dove la sua famiglia controllerà il narcotraffico e sarà protagonista di illeciti di varia natura. Morto il padre, la madre si risposa con il fratello di questi, Antonino, zio dal quale verrà abusata sessualmente. Conosce e sposa Francesco Marando, del quale crede di innamorarsi per liberarsi dalla sua famiglia, ma al fianco di quest’uomo condurrà una vita infernale. Quando Ciccio viene ucciso, braccata dai Marando, che ritengono gli Stefanelli autori dell’omicidio del loro familiare, decide di denunciare, cominciando una vita sotto protezione.Ancora oggi vive nella paura e nella solitudine a cui la vita sotto protezione la costringe.

29.11.14

Staccata la spina alla giovane-coraggio Era in coma per aver difeso 2 ragazzine


di  Rosanna Pugliese (Ansa)

Staccata la spina alla giovane-coraggio
Era in coma per aver difeso 2 ragazzine

Staccata la spina alla giovane-coraggio Era in coma per aver difeso 2 ragazzine                                          Un'immagine di Tugce esposta durante una fiaccolata
I genitori venerdì hanno deciso di staccare la spina a Tugce, 23enne di origine turca. Era finita in coma per un pugno sferratole dopo aver tentato di salvare dalle molestie due ragazzine.
Un pugno in pieno volto, per aver difeso due ragazzine dalle molestie di un branco di bulli, l'ha ridotta in fin di vita. Tugce, nel giorno in cui i genitori hanno scelto per staccare la spina alla ragazza, è diventata un'icona del coraggio civile. La Germania, commossa, la piange. Mentre migliaia di persone sul web chiedono che le sia conferita la croce al merito. Ventitré anni compiuti lo stesso giorno in cui muore: il padre e la madre hanno confermato la drammatica scelta di spegnere i macchinari che hanno tenuto artificialmente in vita la figlia - dichiarata cerebralmente morta due giorni fa - a una fiaccolata organizzata davanti all'ospedale in cui giaceva in coma da due settimane. Tugce paga per il suo coraggio e la sua generosità. Quindici giorni fa, la studentessa ha assistito nei bagni di un Mc Donald's ai tentativi di molestie di un gruppo di balordi su due ragazzine. Diversamente da come avrebbero fatto tanti altri, si è intromessa ed è riuscita salvare le due malcapitate. Uscita dal locale si è trovata però di fronte un diciottenne, Sanel M., al momento in stato di fermo e reticente agli interrogatori, che le ha sferrato un pugno, stendendola al suolo. La dinamica - riportata dalla Bild - non è ancora confermata dalla polizia, che ha bisogno di altre testimonianze. Ma intanto le due ragazzine che Tugce ha difeso sono scomparse. E a loro un padre addolorato ha rivolto il suo appello: "Mia figlia vi ha salvato. Ha fatto di tutto perché non vi accadesse nulla. Forse si è addirittura sacrificata per voi. Per questo, vi prego, andate dalla polizia e rilasciate la vostra testimonianza. Tugce non tornerà più, ma voi glielo dovete: testimoniate!". A rendere ancor più amara la vicenda, l'indifferenza in cui si sono consumati quei momenti di violenza: i dipendenti del fastfood, oggi difesi dalla ditta, non sono intervenuti. E la polizia ha esortato a un comportamento diverso: "Bisogna intervenire, si può aiutare in casi del genere", è il messaggio. Tugce è stata uccisa anche dall'indifferenza. Ma non è passato inosservato il suo gesto: sono decine di migliaia i messaggi su Facebook e su Twitter per lei. Cinquantamila chiedono che le sia conferita la più alta onorificenza del Bund tedesco, 89mila sostengono un gruppo a suo nome. Per moltissimi è già "un angelo", "un'eroina", un "modello di coraggio civile".

26.9.13

Sassari . coraggio di donna e moglie : << cosi ho salvato mio marito dalle slot machine >> .


 da la  nuova Sardegna  online del  26\9\2013






Un falegname di 36 anni ha giocato per tre anni. Adesso riconquista la vita nella comunità di recupero di don Chino Pezzoli.

di Vannalisa Manca wSASSARI «Un giorno ha infilato un euro in quelle maledette macchinette e il tintinnare di monete lo ha fatto saltare dalla contentezza. Con un euro si era fatto uno stipendio. Non immaginava che quell’euro stava cominciando a cancellare la sua anima di uomo meraviglioso, di padre, di marito». Angela (il nome è di fantasia) è una donna minuta, ma la luce dei suoi occhi emana una forza enorme. Quella che ha avuto per strappare il marito dal vizio del gioco, da quella malattia che lei chiama da slot machine e che gli stava consumando la vita. Il tunnel è durato tre anni, un periodo che Angela ha vissuto come un incubo, cercando di capire che cosa avesse cambiato anche i sentimenti del suo compagno, un uomo di 36 anni, un bravo falegname che amava la moglie e i due figli di 10 e 3 anni. Una vita matrimoniale costruita in dodici anni con una serena convivenza, allietata dalla presenza dei due figli.
L’incanto si rompe all’improvviso. La crisi incombe anche sulla piccola falegnameria, meno clienti e minori entrate, mentre il mutuo della casa va pagato, così le bollette e le spese per mandare i figli a scuola. «È stata questa preoccupazione a fargli tentare la fortuna. Ma questo l’ho saputo solo dopo, quando sono riuscita a portare mio marito prima al Serd e poi nella comunità di recupero di don Chino Pezzoli. Là mio marito sta rinascendo». Tre anni sono trascorsi. «Mio marito ha toccato il fondo da dipendenza da slot machine a livello patologico, è stato un perfetto attore con doppia personalità. Si è comportato come un tossico: parlava male delle slot, negava ogni mio dubbio. Ha perso tutto, il lavoro ma soprattutto la sua autostima». Angela, che di anni ne ha 34, ha capito che il problema era serio, che il padre dei suoi figli stava percorrendo una strada sbagliata, ma non riusciva a capirne la causa. «Non lavorava più, non portava soldi a casa, non parlava con i figli, usciva e non diceva dove andava. Lo chiamavo al telefono e rispondeva vago. Dormiva poco, era diventato molto silenzioso. Non era l’uomo che avevo conosciuto io». Così, Angela ha cominciato a pedinarlo, a controllargli i numeri sconosciuti del cellulare e a scoprire questa doppia vita del marito. Un giorno, dopo vari litigi, Antonio (anche questo è un nome di fantasia), scrive una lettera al figlio di dieci anni. Una lettera carica di amore, dove Antonio dice di essere sempre un buon padre, ma chiede al figlio di stare vicino alla madre, «perchè è una brava mamma e non può stare sola». Una lettera che Antonio nasconde sotto il mucchio della biancheria da stirare e poi esce di casa. Angela sfaccenda e poi comincia a piegare magliette, calzini e camicie. Ed ecco che compare quel foglio. Angela lo legge e i polsi le tremano. «Ho capito che era una lettera d’addio», racconta mentre le lacrime le inumidiscono quegli occhi chiari. Comincia a cercarlo, a chiamarlo al telefono ma lui non risponde. Disperata, alla fine prende il telefonino del figlio e chiama da quello. Lui risponde, ed è lo squillo della salvezza. Moglie e marito si ritrovano, si parlano. Lui nega e confessa al tempo stesso. Si sente scoperto ma non vuole ammettere la verità. «Ci siamo chiusi in casa e sono riuscita a farlo ragionare. Ci siamo rivolti al Serd, ma pochi sono convinti come me che la slot può portare alla dipendenza. Un richiamo patologico dato dal tintinnare delle monete, che ti inebriano quando vengono giù. Vinci e giochi quello che hai vinto. E quando lui non aveva più soldi, si indebitava. Ha chiesto denaro a tutti gli amici che glielo davano perchè lui, da perfetto attore-tossico riusciva a farseli prestare. Non pagava il mutuo, né altro.Ma giocava. Andava in tutti i paesi per giocare e non farsi scoprire». Ora l’incubo è finito. Angela ha ottenuto di inserire il marito in comunità, da don Chino Pezzoli, fuori dall’isola. E da dieci mesi Antonio si è ripreso la vita. Impara nuovi mestieri e ha riconquistato la fiducia. La sua e quella di Angela. E rivede il sorriso luminoso dei figli. 

2.6.13

La compagna



Hanno già scritto e detto tanto su di lei, ma io Franca Rame voglio ricordarla innanzi tutto con questa fotografia: giovane, sexyssima, d'una sensualità schietta e aperta. Bionda e solare. Giustamente esibita, perché non era una colpa, men che meno un peccato, come pure qualche miserabile le ha rinfacciato in questi giorni. Era una donna a tutto tondo, nelle sue infinite declinazioni. Ma era, soprattutto, una compagna. Cum-panis, cioè colei che divideva volentieri il pane con chiunque le sembrasse averne bisogno. A partire dal compagno per eccellenza, quel Dario Fo che lei stessa corteggiò per prima, dopo le prove in teatro. Lui si vergognava ad accettare l'invito: "Non ho un soldo". Ma lei: "Mi fa piacere, adoro nutrire randagi, gatti abbandonati e disoccupati affamati".
Non era un vezzo aristocratico, il suo. Lo sappiamo bene. Franca Rame ha fatto della sua arte una battaglia, una coralità. A fianco di mille lotte, in mezzo ai disoccupati, ai cassintegrati, agli operai, a favore della pace e del disarmo (si dimise da senatrice dell'Idv nel 2008 in polemica contro il rifinanziamento delle missioni militari). E delle donne, naturalmente. Sempre, e pagando in prima persona.
E va bene. Lo stupro. Basterebbe questo monologo a rendere immortale Franca. Lo scempio, dell'anima prima che del corpo, da lei subito nel 1973 per mano di fascisti con la complicità di carabinieri collusi, ha racchiuso in sé tutta la mostruosità di un odio inveterato, primordiale, per il genere femminile da parte del maschio selvaggio e ferito. Ferito nel suo frainteso senso dell'onore e del potere. Era più che ucciderla, lo stupro. Era una relegazione al silenzio, all'accartocciamento su sé stessa. Non avrebbe dovuto più parlare. Tornare mera forma, senza sostanza. Rendersi invisibile con la sua presenza disarmata e dolente. E invece no. Franca ne uscì con la parola vomitata, urlata e susurrata. Ne uscì da compagna, cioè davanti al suo pubblico. Con un titolo che non lasciava alcuno spazio all'immaginazione. Lo stupro era solo quello. Nient'altro. La sua psicoanalisi fu la platea, la coralità. Ancora una volta. Insieme. Cum-panis. In questo caso il pane del dolore, l'offerta del dolore. Sacrificio, sì, se per sacrificio s'intende non un'immolazione volontaria in nome di qualche divinità crudele, ma racconto del proprio travaglio. Il sacrificio di Franca è stato testimoniare la sopravvivenza, la strada da proseguire "oltre" e "dopo", non lo scatto finale di una vita. Franca ha saputo superarsi. Ha attraversato l'annullamento e ha vinto, ancor più bella e forte di prima.
Compagna politicamente, senza dubbio. Una storia a sinistra, si direbbe, volendo essere un po' volgari. Una scelta orgogliosamente di parte, la sua, e anche, talora, orgogliosamente sbagliata - frequentazioni, personaggi -. Ma, del resto, anche una scelta inclusiva e universale, volendo Franca comprendere tutti quegli emarginati, abbandonati ecc. cui alludeva durante il suo primo incontro con Dario.
Ma ecco, appunto, di là da tutti i meriti artistici, da quell'impasto d'arte e vita di cui lei fu probabilmente l'ultima interprete, è proprio il suo essere moglie che, forse, è stato poco sottolineato. Comprensibile, da un verso, per tutte le ambiguità che comporta. La donna come eterna seconda, la donna che trova significato solo nel e col marito. Ma noi affronteremo questo rischio, perché Franca la vedevamo originaria: compagna, anche in questo. La compagna dell'uomo nel giardino dell'Eden, non seconda, ma "a fianco" (letteralmente: "quella che sta di fronte"). Del tutto logico pertanto che Franca "la laica" concludesse il suo viaggio terreno scrivendo un altro monologo, su Dio, anzi su Eva, anzi su Eva-Dio: "Siamo nel paradiso terrestre. Dio è alle prese con la creazione del primo essere umano. Che non è uomo ma donna. La modella con argilla fine e delicata. Adamo verrà dopo, per tenerle compagnia. Ed Eva, che subito lo adocchia, si esibisce per lui in una danza selvatica...". E ancora: "Dio sicuramente c'è ed è comunista. Ma non è solo comunista, è anche femmina".
Qui il "cum-panis" è diventato l'uomo, in una Creazione rovesciata. Ma solo all'apparenza. Perché nella compagnia, nell'essere di fronte, non esiste gerarchia. Non esiste un primo e un gregario. Tutti siamo pari nella diversità.
Ma la prima compagnia di Franca è stata Dario, e viceversa. E' stata feconda e si è moltiplicata, quella coppia divisa e unita, turbolenta sempre (molti gli abbandoni, tra cui uno ancora una volta dichiarato in pubblico, e i ricongiungimenti). Non è stato un narcisismo a due. La vita di Franca (e di Dario) sarebbe stata una grande vita anche da sola, ma così, a fianco, anzi di fronte a lui, ha generato milioni di figli, una prole immensa, di arte, di esperienza, di battaglie.
Al termine, Franca ha ricordato che Dio è innanzi tutto Altro. Quell'Altro cercato fin dall'inizio, nel povero, nel diverso, nella donna, in una visione dell'umanità senza pregiudizio, razzismo, violenza (in questo senso "Dio è femmina e comunista", cioè a dire comunità). Quell'Altro ritrovato al funerale: rito senza chiesa perché chiesa originaria: che non era tempio ma assemblea, dove si spezzava il pane (cum panis) assieme. La chiesa dei primordi era costituita solo da individui, non da edifici, non da preti, non da simboli. Empirismo eretico? Forse. Franca era senza dubbio un'eretica (eresia=scelta). E, come tutte le eretiche ed eretici veri, interpella, disturba, scuote la nostra ortodossia.
Il Dio di Franca è stato laico, cioè del popolo. E' stato presente quanto meno lo si è invocato, o nominato in quel modo strano, balbettante e fuori sede. E' stato un Dio compagno che la compagna ha cercato con buona, indefessa volontà. Questa ricerca solitaria e all'unisono, questa continua tensione verso qualcosa che resti, è già traguardo.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...