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3.2.25

Paola Caridi Ricordare Gaza per raccontarla







Il testo è la trascrizione di una lectio tenuta da Paola Caridi all’Università per Stranieri di Siena il 22 gennaio 2025. Ringraziamo autrice e Ateneo.




Quasi nessun luogo al mondo viene chiamato con lo stesso nome da oltre 3500 anni. Gaza sì, e insieme al nome porta con sé un destino da cui non riesce a liberarsi: quello di terra eternamente contesa, scenario di troppe battaglie. Ricordarne la storia è l’unico modo per darle dignità, e auspicare un cambiamento
Non sono palestinese né voglio sostituirmi a uno sguardo palestinese. Conservo il mio sguardo altro, mediterraneo, che è forse la definizione che più mi assomiglia, e in cui più mi riconosco. E ringrazio il rettore dell’Università per Stranieri di Siena, professor Tomaso Montanari, per avermi fatto una richiesta che mi ha sorpreso e onorato. Tenere questa lezione inaugurale. Una lezione inaugurale che non può non essere dedicata, come chiede Suad Amiry che sarà qui il prossimo ottobre per ricevere la laurea honoris causa, a Gaza. Occorre ricordare Gaza, dice. Io andrei oltre, da mediterranea, italiana, europea. Occorre raccontare Gaza, luogo costretto, blindato, invisibile. E ora distrutto. Occorre, cioè, riempire un vuoto culturale la cui profondità è così chiara, palpabile – oggi – nell’incapacità di vedere, di comprendere cosa è accaduto in questi oltre quindici mesi.
Raccontare Gaza, dunque. Ma raccontarla come? Da quando? Da quando la più inimmaginabile delle guerre è cominciata, il 7 ottobre 2023? Iniziata con l’attacco, terroristico nei risultati, delle brigate Izzedin al Qassam (il braccio militare di Hamas) e delle brigate al Quds (legate al Jihad islamico) poco oltre il confine che aveva ristretto Gaza, nel 1948, in uno spazio inferiore ai 400 chilometri quadrati. E poi proseguita, la guerra su Gaza, con il bombardamento sistematico più imponente dai tempi della seconda guerra mondiale: decine di migliaia di tonnellate di esplosivo gettate dalle forze armate israeliane su quei meno di quattrocento chilometri quadrati per oltre un anno, costantemente. Per quindici mesi, per la precisione. Su una terra in cui erano costretti, sotto embargo, blindati, oltre due milioni di esseri umani. Palestinesi.
Le immagini delle distruzioni ci sono sempre state, sui social, grazie ai giornalisti palestinesi di Gaza. Una gran parte di loro, 205, ha sacrificato anche la vita per documentare ciò che sta avvenendo dentro il luogo più blindato del mondo. Ora, nella tregua più fragile del mondo, i droni – non i droni militari israeliani, ma i droni dei giornalisti palestinesi di Gaza – mostrano l’indescrivibile. La cancellazione di Jabalia, Beit Lahia, Beit Hanoun, dell’intero nord di Gaza, e di Rafah e di Khan Younis, e di quartieri interi di Gaza City, in un elenco infinito di azzeramento urbanistico, naturale, della memoria.
Potrei raccontarli, questi quindici mesi, dalla distanza in cui siamo tutti confinati. Come fossimo ancora durante il covid. Tutti dentro, mentre in un altro confino, dentro Gaza, si realizza quello che per molti – ora un elenco lunghissimo in cui anche io ho deciso di collocarmi – è un genocidio.
Vorrei, invece, dare a Gaza ciò che le è stato negato, da decenni. La sua storia. Una storia lunga, lunghissima. Sorprendentemente per molti, una delle più lunghe del Mediterraneo. Gaza è la città che da almeno 3500 anni porta lo stesso nome. Da sempre. Come gli alberi, le città fondano le loro radici. E quando vengono spostate – anche in questo caso dagli esseri umani – perdono i riferimenti, i punti cardinali, le prospettive. Gaza è sempre stata lì, ed è la stessa permanenza del nome a confermarlo.
La prima iscrizione con il nome di Gaza – dicono gli studiosi dell’Egitto antico – è addirittura di 1500 anni prima dell’era cristiana. Nuovo Regno, diciannovesima dinastia, in un tempio a Karnak, si parla di Gaza in una iscrizione dedicata al più grande faraone, Ramses II. Mai, o quasi, una città ha conservato il suo nome dalla sua creazione, oltre 3500 anni fa, sino a oggi.
Sembra incredibile, ne sono certa. Sembra così poco credibile che un luogo ignoto, dimenticato, invisibile com’era Gaza negli ultimi decenni, fino a 15 mesi fa, abbia così tanta storia, coperta oggi dalle macerie, dal cemento squarciato, frammentato dai bombardamenti.
È così, invece.
Anche allora, Gaza era al centro degli appetiti di chi dominava la regione. Basta aprire una mappa, di quelle antiche e di quelle di oggi, per comprenderne i motivi, almeno quelli cosiddetti politici e strategici. Di lì si doveva passare, sulla costa che per gli egizi era la via di Horus e poi, col tempo, divenne la Via Maris, la via costiera che dal Sinai passava – via Rafah, appunto – per Ashkelon e poi su a nord fino a Tiro. Il Mediterraneo orientale, tutto il Levante cominciava, sulla costa, da Gaza, e arrivava sino a Tiro e poi ancora più a nord. Fateci caso, sono tutti toponimi antichi, rimasti incistati nella terra sino alla storia contemporanea, sino alla cronaca di questi terribili, maledetti quindici mesi.
“Non sono palestinese né voglio sostituirmi a uno sguardo palestinese. Conservo il mio sguardo altro, mediterraneo, che è forse la definizione che più mi assomiglia, e in cui più mi riconosco”.
Dall’Egitto, le truppe agli ordini del sesto faraone della diciottesima dinastia, Tutmosis III, dovevano passare da Gaza per arrivare alla terra di Canaan. E quella terra, quella sabbia, quelle dune che dividevano la città di Gaza dal mar Mediterraneo, hanno visto nel tempo lungo della storia truppe di ogni tipo, eserciti sempre ben equipaggiati, sempre più equipaggiati, armati, sino ad arrivare agli ottomani e ai britannici che si son giocati anche a Gaza le sorti della prima guerra mondiale, in quello che – con definizione così coloniale e anacronistica – continuiamo a definire Medio Oriente. Medio rispetto a cosa? Rispetto all’impero britannico. Rispetto a Londra. A oriente medio di Londra. A oriente estremo rispetto a Londra.
Prima del 1948, e della reclusione di Gaza in una Striscia, in un nastro di 40 km da nord a sud, e di una manciata di km (dai 6 a un massimo di 13) da est a ovest, Gaza era stata dunque la terra delle tante battaglie. Così viene ancora definita. Eppure, nonostante questa sia la realtà, e cioè Gaza terra di passaggio per gli zoccoli delle cavallerie della lunga Storia, c’è qualcosa che manca e che non rende giustizia alla stessa complessità della storia. Rinchiudere – ancora una volta re-cludere – Gaza in un topos come la guerra, il bellicismo, il destino infame di una terra di conquista, dolore, e clangore di armi, non rende cioè giustizia alla Storia vera, quella inclusiva. La storia globale in tutti i sensi, la storia in cui umano e nonumano disegnano la loro relazione sulla terra.
C’è, ora più di ieri, il dovere di dare dignità e complessità al tempo lungo della Storia, e a tutti i suoi protagonisti. Non solo gli umani. Dare spessore e profondità, processo, cambiamento.
Edward Said, mai troppo nominato, mai troppo letto e studiato, lo spiegò in modo illuminante, in una intervista-documentario del 1998, diretta da Sut Jhally, a sua volta studioso di comunicazione, ora professore emerito all’università del Massachusetts – Amherst. Nato esattamente 90 anni fa a Gerusalemme, in perenne esilio tanto da dire che il posto dove si sentiva a casa era in volo su un aereo (il suo bellissimo Reflections on Exile ha Dante Alighieri sulla copertina), grande docente di letterature comparate all’università di Columbia (non è un caso che Columbia stata stata, nel 2024 e lo sarà anche ora, il centro delle manifestazioni contro il genocidio a Gaza), intellettuale tra i più coerenti e profondi, oppositore strenuo degli accordi di Oslo che considerava “la resa dei palestinesi” (e come dargli torto, oggi): questo era Edward Said, oltre a essere il padre della definizione di “orientalismo”, il nostro peccato originale. Ed è giusto ricordare Edward Said come un poliedro, come l’apeirogon, il poliedro a n-facce di cui scrive Colum McCann in uno dei più bei libri usciti sulla questione israeliano-palestinese.
Edward Said, dunque, parlava nella lunga intervista del 1998 di una “immagine senza tempo dell’Oriente”. “Come se – diceva – l’Oriente, a differenza dell’Occidente, non si fosse sviluppato, fosse rimasto sempre uguale”. Un oriente eterno, permanente, insomma, anche nei suoi topos. Come Gaza, appunto, terra di conquista, violenza, dolore, sangue, crudeltà. Ed è proprio questo, per Said, uno dei problemi dell’orientalismo: l’orientalismo “crea un’immagine al di fuori della storia, di qualcosa di tranquillo, immobile ed eterno, che è banalmente contraddetta dai fatti della storia. In un certo senso è una creazione, si potrebbe dire, di un Altro ideale per l’Europa”.
Un Altro, distante da noi, ideale per l’Europa proprio perché è costretto dentro una gabbia dell’immaginario, dentro una costruzione, culturale e politica. Come Gaza è stata costretta, dentro il topos della guerra, della violenza, e dentro una Striscia di 365 chilometri quadrati. Eppure Gaza, nella geografia culturale, economica, sociale dell’intera regione, è sempre stata – nel corso dei millenni – una delle città, dei centri più importanti. Nodali. Il crocevia dei percorsi commerciali, dei cammini, dei passaggi. L’esatto contrario del luogo recluso, blindato di cui è divenuta simbolo dal 1948 a oggi, da quando Gaza è stata rinchiusa nella Striscia. Prima della Striscia, prima del 1948, la regione di Gaza non era solo più grande ed estesa, ma incarnava una vivacità, un’apertura, una rilevanza culturale unica. Era il porto e la terra agricola alle spalle, un po’ com’era Jaffa, il porto da cui, nel 1948, i palestinesi dovettero scappare cacciati dall’embrione dell’esercito israeliano e dirigersi, in molti, proprio verso il porto di Gaza. Porto e terra, commercio e campi. A Gaza, poi, c’era acqua (difficile a crederlo, oggi), e grande produzione agricola, da sempre. C’erano i sicomori, e le palme. E gli ulivi, e le arance.
Gaza è nel meraviglioso tappeto di mosaico che riempie la chiesa bizantina di Santo Stefano, a Umm al Rasas, in Giordania, su un altro asse economico, commerciale, di relazioni nella regione. Terra di passaggi, terra di vie. Gaza è assieme a Gerusalemme e Cesarea, a Nablus e a Sebastia, tra le sette città palestinesi più importanti, assieme ai centri più a oriente, da Philadelphia a Madaba, in una mappa urbana imprescindibile per l’epoca. Gaza, nel mosaico meraviglioso, affascinante di Umm al Rasas, scoperto e curato da padre Michele Piccirillo, è raccontata attraverso i suoi edifici pubblici, ricchi di peso culturale, teologico, artistico. Il teatro, l’agorà. Patria del monachesimo dei primi secoli, di teologi (Procopio, la Scuola di Gaza) che hanno segnato la storia del cristianesimo tout court, e anche di quello orientale, Gaza è il passaggio, la cerniera, il crocevia. Non solo la terra da conquistare, o su cui passare in armi, calpestando la vita con gli zoccoli delle cavallerie.
Persino il cantore dell’anima palestinese, un poeta gigantesco come Mahmoud Darwish, mantiene – se si guarda con occhio superficiale – Gaza all’interno della fortezza, in attesa dell’ennesimo attacco, dell’ennesima guerra. Gaza “città del dolore e del valore”, scrive in uno dei suoi ultimi testi, “In presenza dell’assenza”, contenuto nella Trilogia palestinese pubblicata da Feltrinelli (traduzione di Elisabetta Bartuli). Testo complesso, una vera e propria autoelegia scritta nel 2006, due anni prima di morire. Morto ma mai dimenticato, Darwish racconta sé stesso, racconta di quando finalmente ha visto Gaza, “una fortezza circondata dal mare, dalle palme, dagli invasori, dai sicomori. Una fortezza che non s’arrende mai. Gaza è gloria orgogliosa del proprio nome, ininterrottamente aizzata dal silenzio del mondo davanti al proprio lungo assedio”.
Mahmoud Darwish ricorda il valore del nome, per Gaza, e inserisce, finalmente, dei protagonisti inattesi. O meglio, inattesi per il nostro sguardo, ma perfettamente all’interno della storia palestinese, una storia umana e nonumana assieme. Una storia, in questo senso, paradigmatica per una storia globale. Darwish inserisce le palme, e i sicomori. Le palme, il simbolo di Gaza, disegnate nell’intreccio di fili che compone il ricamo palestinese, tanto definito da essere esso stesso – il ricamo tradizionale, il tatreez – una vera e propria definizione geografica della terra palestinese. E inserisce i sicomori, altro nome antico, antichissimo, sacro perché persino i testi sacri ne riconoscono la presenza, il ruolo, il volume nel mondo.



Più di mille anni fa, per la precisione pochi anni prima dell’anno Mille, c’erano mille sicomori che segnavano, a destra e a sinistra, la strada che poco a nord di Rafah andava sempre verso settentrione, in direzione della città di Gaza. Mille fichi sicomori, enormi, i cui rami lunghi si toccavano. Ed erano talmente ampi, i sicomori, da segnare una strada lunga un paio di miglia.
Più di mille anni fa, come ci ricorda Muhallabi, ovvero Hasan ibn Ahmad al-Muhallabi, storico e viaggiatore, geografo arabo, esisteva una città che si chiamava Gaza. E un altro centro urbano, più piccolo, dal nome a noi, fino a 15 mesi fa, ancora più sconosciuto. Rafah.
I sicomori, che in arabo si chiamano jummaiz, non ci sono più sulla strada antica che da Rafah portava verso Gaza. Da molto tempo, da prima del 7 ottobre, da prima del 1948. I sicomori non ci sono più, e la loro assenza è parte integrante di una storia negata. Una storia in cui il pilastro sul quale costruire la narrazione lungo l’asse del tempo e quello dello spazio è la terra e le sue relazioni, il nonumano di cui l’umano è parte. Nella storia negata, i sicomori descrivono come pochi altri alberi – forse il carrubo, forse l’ulivo, forse, ma a un’altitudine maggiore di quella su cui era, è Gaza, il leccio – la relazione tra la terra e l’umano. Rompono, soprattutto, una narrazione dominante, considerata ormai paradigmatica. Non tanto la narrazione “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, costitutiva del sionismo. Quella narrazione ha avuto una sua egemonia, ma poi si è consumata sulla questione israeliano-palestinese, quando è stato evidente a tutti che i popoli erano due, e sulla stessa terra. E che i due nazionalismi non avrebbero fornito alcuna soluzione in dignità e rispetto ai due popoli, palestinese e israeliano.
Quella narrazione, la narrazione di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” ne sottende invece un’altra, messa sempre da canto. Questa, sì, una storia negata. È la storia della terra, considerata a seconda dei tempi e delle circostanze il palcoscenico dei nazionalismi, la cartina su cui disegnare confini (vere e proprie ferite, coltellate inferte al suolo), la mappa catastale delle proprietà.
Negata, invece, è la storia della terra e delle sue relazioni. È qui, all’interno di questa storia, che gli umani agiscono in maniera diversa, nella relazione – appunto – con il nonumano. La questione israeliano-palestinese diventa, qui, la cartina di tornasole dei comportamenti, tutti incentrati su una differenza fondamentale. Appartenenza o possesso? Relazione o dominio? Dopo un quarto di secolo di vita trascorso a est e a sud del Mediterraneo, per me la differenza è chiara. I palestinesi dicono di appartenere, di essere parte. Gli israeliani declinano il loro rapporto con la terra come un rapporto di possesso, di proprietà. Omettendo cos’era quella terra, in cui a fiorire da secoli e secoli, prima della concettualizzazione e realizzazione del sionismo, erano nespoli e albicocchi, ulivi e sicomori, carrubi e lecci, e viti, mandorli, noci, e poi orzo e grano, e lenticchie e ceci. E gelsi, certo. Gelsi. Terra già fiorita, non deserto da far fiorire. Annullare questa storia lunga, di alberi e radici, significa possedere la terra e trasformarla perché diventi altro.
È qui, a mio parere, che si impantana anche la soluzione politica della questione israeliano-palestinese che considera la terra marginale, mero palcoscenico oppure, come si è visto a Gaza, su Gaza in questi 15 mesi, una lavagna su cui passare un cancellino per poter poi ridisegnare oggetti, case, villette, colonie, città, forse qualche albero come in un rendering.
I sicomori raccontano proprio la differenza tra appartenenza e possesso. I sicomori, per me il simbolo dell’albero-piazza, sono alberi comuni, pubblici, senza proprietari. Sono piazze, luoghi di raduno, di decisioni, di conversazioni. Sono alberi-ristoro, alberi-rifugio, alberi-ombrello contro il caldo, e alberi-dispensa per chi ha fame. I fichi dei sicomori, frutti che riempiono i rami spessi come tronchi durante tutto l’anno, sono frutti per tutti, ma solo se si mangiano sotto l’albero. Non si raccolgono, non si portano a casa, non si vendono al mercato, non diventano prodotti, commodity. Sono alberi per i viandanti, alberi anche per la preghiera, per la supplica, alberi su cui s’appendono pezzi di tela come ex voto o come fioretti. Sono gli alberi sacri accanto ai luoghi sacri costruiti dagli umani, oppure spesso sono gli edifici sacri a essere costruiti accanto a un sicomoro, che spesso – nella geografia palestinese – si trovava all’ingresso di un paese, di un villaggio.
È in parte così per gli ulivi, per i palestinesi: alberi che precedono gli esseri umani e la loro esistenza individuale, alberi che hanno vita nonumana così lunga da definire genealogie, generazioni, epoche storiche, vite di comunità. In questo contesto, gli esseri umani, come sono i palestinesi, nativi e indigeni, sono elementi che appartengono. Non al paesaggio, ma alla terra e al suo farsi e modificarsi. Gli esseri umani ne sono parte, parte del sistema, se si vuole dell’eco-sistema. La differenza tra appartenenza e proprietà è così profondamente politica da segnare la politica, o l’assenza della politica, di questi quasi 80 anni.
Appartenenza o possesso. La differenza la descrive Sarah Ali, scrittrice, studiosa di letteratura inglese, palestinese di Gaza, ora a Cambridge per il suo phd – appunto – in letteratura inglese, mentre la sua famiglia ha vissuto questi maledetti quindici mesi a Gaza. Alcuni anni fa, una decina di anni fa, tra una guerra e l’altra su Gaza, Sarah Ali ha partecipato a un’antologia di giovani scrittrici e scrittori palestinesi di Gaza, riuniti attorno a Refaat Alareer, poeta, studioso, docente universitario. Una figura iconica, per generazioni di studenti e poi studiosi. Refaat Alareer è stato ucciso nel dicembre del 2023 dalle forze armate israeliane, una delle centinaia di vittime tra docenti e studenti, all’interno di uno scolasticidio che ha completamente cancellato tutte le 11 università di Gaza.
Nel suo racconto Sarah Ali parla degli ulivi di suo padre.
“Che un soldato israeliano possa abbattere 189 alberi di ulivo sulla terra che egli sostiene essere parte della ‘Terra donata da Dio’ è una ‘cosa che non riuscirò mai a capire’. Non ha considerato la possibilità che Dio si possa arrabbiare? Non si è reso conto che quello che stava distruggendo era un albero? Se mai venisse inventato un bulldozer palestinese (lo so!) e mi fosse data la possibilità di trovarmi in un frutteto, ad esempio ad Haifa, non sradicherei mai un albero piantato da un israeliano. Nessun palestinese lo farebbe. Per i palestinesi l’albero è sacro, così come la terra che lo ospita”.
È un racconto costante, continuo, quello sull’appartenenza, ma solo se stimolato. “Non abbiamo bisogno di dirlo, di spiegarlo, è così”, mi hanno detto gli studenti del Master in cooperazione internazionale dell’università di Betlemme quando, qualche mese fa, ho incentrato una parte del mio corso sulla storia raccontata dagli alberi, e cioè su una storia globale di cui gli umani sono solo uno degli elementi. Di certo il più distruttivo e dominante. Ma uno solo degli elementi. L’idea di una storia raccontata dagli alberi, dalla terra, dal nonumano, è stata accolta – lì, a Betlemme – come una pratica normale, per nulla straniante. Anzi, come uno strumento per dare finalmente dignità a una storia biografica, familiare, comunitaria, perfino nazionale. Una storia di relazione continua, lungo gli assi del tempo e dello spazio.
Gli studenti dell’università di Betlemme mi hanno confermato che parlare di sicomori, alberi antichi che non suscitano più quasi memoria in ciascuno di noi, mentre è in corso quello che per molti – studiosi di genocidio, giuristi, associazioni di difesa dei diritti umani – è un genocidio, non è sviare l’attenzione dalla sofferenza indicibile verso qualcosa che è considerato appendice alla vita umana. Alla dimensione umana. E’ esattamente il contrario. Cercare di raccontare una storia lunga e inclusiva, globale non solo in senso geografico ma interspecie, è semmai il modo ormai necessario per riumanizzare ciò che è deumanizzato. Inserire l’umano in una dimensione globale, sistemica – come da sempre è – consente persino di riumanizzare quei pezzi della nostra storia e della nostra cronaca in cui disconosciamo l’umanità e la consideriamo una mera pedina sulla scacchiera del potere. La strada che gli umani hanno inserito tra i mille fichi sicomori, tra Rafah e la città portuale e commerciale di Gaza, testimonia di una storia sistemica e globale. Inserisce, per esempio, i palestinesi nel farsi di una terra ben oltre i miseri confini statuiti e imposti nel 1948. Traccia i percorsi, i raccordi tra terra e umani, tra regioni e mare, tra commerci e alberi. Allarga lo sguardo, e così facendo libera gli umani. Libera soprattutto Gaza da quei 365 chilometri quadrati in cui la storia recente ha rinchiuso una terra ampia, terra di passaggi e raccordi, e dà a oltre due milioni di palestinesi rinchiusi in una prigione a cielo aperto, completamente serrata, la dignità a cui hanno diritto.

25.1.25

il fascismo di sinistra e gl insulti alla Segrè

Gentile compagno di strada  

non capisco questa contraddizione: gente di sinistra accusa la destra di essere fascista e razzista, ma coloro che hanno insultato, diffamato,minacciato Liliana Segre sono persone di sinistra che seminano antisemitismo e odio.Lei come se lo spiega?
                           Lettera  firmata

Caro ******
i progressisti o  almenola  maggior  parte   tacciano i conservatori di essere fascisti, ma i primi sono addirittura nazisti.   Alcune frange      della  sinistra  lo  hanno  mostrato, dal 7 ottobre del 2023, giorno dell'attacco di Hamas contro Israele, un'altra parte del suo deformato volto. L'antisemitismo  esiste    anche  a   sinistra. Lo vediamo ad ogni manifestazione, quando gli ebrei vengono insultati,mentre vengono sventolate bandiere della Palestina e bandiere pacifiste, come se chiedere la pace seminando odio e incitando alla violenza sia normale e credibile.
Ricorderai quanto è accaduto a Milano, quando, in occasione della prima alla Scala, nel dicembre del 2023, montò una polemica poiché per i radical-chic era inaccettabile che una vittima della persecuzione, la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio, sedesse accanto al presidente del Senato Ignazio La Russa, ritenuto e chiamato   da quella   che   molti defiscono  melma rossa «fascista». Poi si  è  scoperto che gli antisemiti,sempre  secondo   la  destra , quelli veri, non quelli inventati, sono proprio quelli di sinistra, i quali hanno mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti dei violenti che in questi mesi sono scesi in piazza non contro la guerra, contro Israele e il suo popolo, contro gli ebrei. In questo caso nessuno o quasi  è insorto, nessuno si è indignato.
La stessa Segre   verso la  quale  non condivido  a  la  difesa  ad  oltranza  del  governo  Istraeliano  è stata fatta bersaglio quotidiano di attacchi e violenza verbale, e lo è tuttora, tanto che ella, qualche giorno fa, a causa dell'acredine   e  dell'odio  che ha  ricevuto   per  la  proiezione nelle sale  cinematografiche  del suo biotopic  , ha deciso  (  anche  se  lei  lo ha  smentito ) di non partecipare all'inaugurazione, al Memoriale della Shoah di Milano, della mostra dell'artista Marcello Maloberti, dove la senatrice era attesa. Ed è ignobile che una donna che è sopravvissuta al campo di concentramento debba oggi, all'età di 94 anni, scegliere di stare chiusa in casa per proteggersi dalla medesima ferocia antisemita che la investì e contro la quale lottò decenni e decenni addietro, uscendone miracolosamente viva ma con ferite indelebili impresse nella carne, nelle ossa, nell'anima e nella mente.I 12 rinviati a giudizio perché accusati di avere perseguitato Segre sulla rete non sono  da  quel che ne  so  soggetti che appartengono alla destra, bensì gravitano all'interno della galassia di sinistra. Quindi è lecito domandarci: ma il vero razzismo, il vero fascismo, il vero nazismo, il vero antisemitismo sono di destra o di sinistra? La domanda ormai è divenuta addirittura retorica, in quanto  negli ultim   405  anni    la 
sinistra   (  soprattutto quella  istituzionale   )  sista  spostando  sempre  più  a destra  , come confermato  dal  notevole libro   Categorie  della  politica     dopo  destra e sinistra       di Vincenzo costa [  foto  a  destra  ]    in quanto mi pare evidente che il livore sia appannaggio dei sedicenti democratici, che lo adoperano alla stregua di uno strumento politico.
Persino i rappresentanti politici di sinistra (  ma    anche   della  destra  ) che siedono all'interno delle istituzioni sposano un atteggiamento alquanto equivoco: non condannano e non si schierano apertamente contro i criminali che intonano cori o vergano frasi antisemite sui muri poiché sanno che potrebbero perdere voti, insomma sanno bene che una parte del loro elettorato possiede uno spirito schiettamente nazista, che disprezza e odia a morte gli ebrei.
Trovo che questo sia alquanto grave, tanto più ove consideriamo che poi questi dem puntano il dito contro un uomo come La Russa che non ha mai smesso   anche se   a  scopo     di  trasformismo    il  cosidetto   fascismo in doppietto   ,  di esprimere sostegno, solidarietà e amicizia alla comunità ebraica, sempre più vittima di atti intimidatori e aggressioni in Italia come nel resto dell'Occidente.
Approfitto di questa occasione per manifestare la mia vicinanza alla senatrice, che ingiustamente sta patendo una seconda vergognosa caccia operata da chi si dice «democratico» e «antifascista». 

29.11.24

Diario di bordo n 89 anno II Spett.Liliana Segre ..... ., Ipocrisia culturale e letteraria italiana ., a babbo morto ed altre letture ., lasciare o restare per morire ? ed altro sul 25 novembre

 Iniziamo   questo  numero da  una  mia lettera  scritta    di getto    alla  Signora  Liliana Segre

in sottofondo    

Spett Liana segre 
Concordo  con lei   quando  dice  che  a    volte   soprattutto  se  manomesse  (  vedi il saggio  la  manomissione   delle  parole    di  G.Carofiglio )   le  parole  sono importanti  e  diventano clave , come  giustamente  ha  fatto  notare  nel  su  recente   intervento   ( corriere  della sera    del  29\11\2024  )  sull'abuso
presunto   della  parola  genocidio usata ormai  sempre più  per  descrivere  le atrocità che  Israele  ed  alcuni  suoi abitanti   i  cosidetti coloni  ,ha  compiuto e  sta    compiendo  . Ma   in realtà le  cose  son più complesse  e  come  giustamente    fa notare    in   suo  recente articolo    : <<  colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.  (...)   la cultura antifascista e antitotalitaria [  Sic  ] ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro >>.
Quindi  non usiamo la parola antisemitismo al posto della più corretta antiisraeliana : "L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo." . Si confonde  e  si  fanno tutt'uno   quelle  manifestazioni sono contro la scellerata politica estera di criminali di guerra quali il leader politico di Israele. Gallant etc. come ben chiarito anche dalla Corte Penale Internazionale su cui il vostro Leader osa discutere, così come nei confronti dell' ONU, il cui segretario generale, Antonio Guterres, è stato definito "persona non gradita". Avete scelto di cavalcare un'onda di crimini ingiustificati in nome di cosa? E la Comunità ebraica che posizioni ha preso?   Mi dispiace Sig.ra Segre,  anche  se   ha  la mia  piena  solidarieta   per  i  vergognosi  attacchi  antisemitici      che    ora  più che  mai sta  subendo  , ma si sbaglia perchè :  uno stato un altro popolo ovviamente  senza  generalizzare    che  si  comporta    in   quel  modo    verso un  altro popolo    ,  e   a  dirlo non sono  solo  i non ebrei  ma   sono anche alcuni esponenti  dellla  sua  stessa   religione ,  commette  appunto  un genocidio  . 

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La tragicomica la fuga di scrittori dalla  rassegna    «Più libri, più liberi», in programma a Roma dimostra   di come stia  scadendo    sempre  più la  nostra  cultura  . La pietra dello scandalo è   stata l’invito al filosofo Leonardo Caffo, sotto processo a Milano per maltrattamenti e  lesioni sulla sua ex compagna, in una  giornata  dedicata  a Giulia  cecchetin    e   alle  done  vittime di femminicidio e  violenza    di genere  . Si è si sta  verificando    quello che diceva Nanni  Moretti    anni fa     

Non è  bastato il suo ritiro, né l’appello alla presunzione di innocenza della direttrice  della kermesse Chiara Valerio, << a fermare  una disdetta vissuta >> secondo il giornale IL DUBBIO << dai più fanatici
come un’obbedienza alla purezza.  IL garantismo non c’entra – ha sentenziato uno dei vati del oralconformismo d’élite, Paolo Di Paolo – l’invito a Caffo era  inopportuno . Facendo intendere che
prima di scegliere gli ospiti, la direzione  avrebbe dovuto vagliare denunce, sospetti
e pettegolezzi sul loro privato. Ma  il più «dritto» di tutti è stato l’idolo delle  masse, il fumettista Zero Calcare. Il  quale ha annullato il suo dibattito con  questa motivazione su Instagram: «Mi è  sembrato evidentemente inopportuno  invitare a una fiera dedicata a Giulia  Cecchettin un uomo (confesso che non
sapevo manco chi 🤔 fosse) accusato  di violenza ai danni della sua compagna ». Ma non ha annullato il firmacopie a cui si sottopone  per ore, per la gioia  di pazienti file di fan  acquirenti. >> . Una prova di
quanti zeri e quanta ipocrisa si siano incrostati nelle condotte della cultura  di questo povero Paese ormai sempre allo sbando . 



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Ed   proprio  per    un  caso  che   fra  i  libri       da me  letti in  questo periodo   c'è ......   "A Babbo morto" è un libro di Zerocalcare che racconta la storia di Babbo Natale che muore e viene sostituito da un improbabile Figlio Natale Il libro è a metà tra favola cinica illustrata e fumetto, magistralmente colorato da Alberto Madrigal.
Natale… i regali, il cenone, i parenti… ma ci avete mai pensato alle condizioni di lavoro dei folletti

nella fabbrica di Babbo Natale? Zerocalcare sì, e vi racconta per la prima volta la scabrosa verità dietro al business della consegna dei regali. Bonus! Le anziane rider della Befana scioperano insieme ai minatori sardi (le cui miniere di carbone vengono chiuse perché nelle calze i bambini preferiscono trovare gli orsetti gommosi), per ottenere migliori condizioni di lavoro!Quando finirete di leggerlo vi ripeterete ad alta voce che Babbo Natale non esiste per sentirvi meno tristi !  Quind cari  :  Genitori  ‹‹  se  proprio    dovete fare  figli  ,  almeno dite  loro  la  verità  >>


Gli altri due libri sono due Noir
 Storico quello di Jacopo De Michelis con il suo nuovo thriller La montagna nel lago (Giunti editore) fresco finalista del Premio Scerbanenco, ambientato proprio in quel 1992, è andato invece a scavare nella vita precedente di Junio Valerio Borghese, prima che teorizzasse un colpo di Stato, quando era ancora il capo della X Mas, unità militare autonoma (anche se il Principe aveva aderito alla Repubblica di Salò), che si ritrovò ad avere una sorta di quartier generale, se non altro per la residenza dello stesso
Borghese a San Paolo, sull’isoletta del lago d’Iseo.
Il centro del racconto, però, è a Montisola, poco distante. Muore Emilio Ercoli, un industriale che ce l’ha fatta: subito dopo la seconda guerra mondiale ha costruito in fretta e con successo un impero sulle reti da pesca. Il suo retificio fattura parecchio e riesce a espandersi anche lontano dal lago d’Iseo. Viene accusato dell’omicidio l’ex amico diventato nel frattempo acerrimo nemico Nevio Rota. Così il figlio di Rota, Pietro, dopo una decina d’anni di lontananza (deliberatamente scelta) torna al paesello. È andato a Milano a cercare fortuna infatti, con il sogno di diventare giornalista. Ma alla fine si ritrova a scrivere per un settimanale scandalistico. Non proprio quello che avrebbe voluto. Addio sogni di gloria dentro una Milano in cui resistono i vizi e gli agi, nonostante gli arresti eccellenti, della città da bere (copyright dell’epoca del reflusso).


Ma siamo nel 1992 e piano piano il sistema dei partiti così come l’avevamo conosciuto sta crollando. La Prima Repubblica sta esalando i suoi ultimi respiri.
Il giornalista così si trasforma presto in investigatore e cerca di venire a capo dell’omicidio del rivale del padre, più che altro per cercare di scagionarlo dalle pesanti accuse.
E qui il thriller diventa anche storico, perché ci riporta proprio a quel 1944, quando la guerra stava ormai per concludersi, con la sconfitta ormai segnata di fascisti, repubblichini e degli ultimi irriducibili del regime e non solo. Tra gli irriducibili anche il principe Borghese che aveva fatto di Montisola e San Paolo un feudo personale e che dialogava senza problemi con i gerarchi nazisti, nonostante la diffidenza invece che gli ufficiali del Terzo Reich avevano nei confronti dei fascisti.
In questo libro i fantasmi del passato e i suoi orrori tornano a farsi vivi e soprattutto si agitano su un delitto che per la chiacchierata vittima – non è spoiler: uno che si sapeva muovere saltando da una parte all’altra della barricata, arrivando anche ad approvigionarsi al mercato nero – fotografa in quel 1944 quanto fossero pericolose e molto grigie diverse zone di un Paese lacerato. Anzi, dilaniato.
Un po’ come accade nell’Italia  oggi    dopo il  1989\1992  ,    uno  degli eventi spartiacquee   della  sua  storia   la prima  repubblica  ,   in cui si ritrova a indagare Pietro. I due livelli temporali, 1944 e 1992, squarciano il velo su altrettanti snodi cruciali della storia d’Italia, anche raccontandola (con la forma del romanzo, non necessariamente storico) e passando per il vissuto dei protagonisti.
Tra l’altro, anche qui non è spoiler, alla fine di quel 1992 tutta questa crime story che sarà risolta (andate a scoprire, leggendo questo libro, chi è l’assassino) diventa una trama perfetta da film. E nel 1992 siamo esattamente ai tempi di Twin Peaks, la perfezione di mistero e suspense firmata da David Lynch per la tv. Il produttore cinematografico nel libro di De Michelis – di fronte al dispiegarsi della storia – dice che l’attore che potrebbe interpretare il giovane reporter Pietro Rota potrebbe essere Kyle MacLachlan (il detective DaleCooper protagonista di Twin Peaks). Ma alla fine chi ha ucciso allora Laura Palmer ?

Medico   \  poliziesco  il secondo
di  Silvia  Marreddu   autrice sarda, esordiente, ha presentato al  suo primo romanzo,
L’Attesa, un thriller ambientato tra la Sardegna, precisamente a Olbia, e Bologna. La trama narra Josephine Orrù, una maestra vicina ai quarant’anni, si rivolge al polo sanitario all’avanguardia Fiat Lux di Olbia, dopo il rifiuto di un’ovodonazione da parte della sorella Michelle, affermata data analyst del Tecnopolo di Bologna. Decisa ad andare avanti, Josephine incorre in una complicanza durante un trattamento. Michelle torna in Sardegna per starle vicino, ma percepiscenell’ospedale un’oscura ambiguità e si scontra subito con il dottor Manca che ha in cura Josephine. Michelle ama il mare e ne conosce le insidie; deve addentrarsi in quelle acque per strappare la maschera al Fiat Lux, correndo un rischio che può esserle fatale. In questo avvincente romanzo Olbia appare luminosa e nel suo golfo incombe il Fiat Lux che come il mare, potente e infido, tradirà la promessa di una terra ospitale e accogliente


Una storia ricca di retroscena che rendono la narrazione avvincente e piena di tensioni.Un esordio  discreto  ma  niente  male    , anche se  ancora  un  po'acerbo   Ma  promettente . Sembra   Cosi  vero  e  autobiografico .  



concludo    con  un bellissimo racconto  e   su  una  riflessione   sul 25     novembre2024  appena  passato   perchè tali  giornata  \  settimana  essa non sia   solo una giornata  d'ipocrisia  o  di strumentalizzazione   ideologica   \  politica  






17.11.24

l'attrice israeliana Noa Cohen, per interpretare Maria di Nazareth: furia dei pro-Pal contro il film “Mary” di DJ Caruso su netflix

 
Pochi giorni fa Netflix ha pubblicato il trailer (  io  prefrisco  chiamarlo  promo  ma  fa lo stesso ) del film “Mary”, un’epopea biblica di formazione che racconta la figura di Maria di Nazareth. La pellicola sarà disponibile sulla piattaforma a partire dal 6 dicembre, ma non mancano le polemiche  e  le proteste  di boicottaggio  . Il motivo? La decisione di affidare il ruolo della protagonista all’attrice  israeliana Noa Cohen, già conosciuta per “Silent Game” e “Infinity”.  Tale   Una scelta che ha scatenato violente proteste sui social da parte degli attivisti pro-Pal, che ora chiedono il boicottaggio del film diretto da DJ Caruso.

L’attrice chiamata a vestire i panni di Maria è finita nel mirino degli haters sia perché israeliana, sia perché ebrea. I social sono stati invasi da commenti antisionisti e antisemiti.  del tipo  :  “Una disgustosa ebrea ha ottenuto la parte”, “Gli ebrei hanno creato questo e gli attori sono ebrei. No grazie”. E ancora: “Metà del cast è israeliano, inutile dire che è meglio evitare il film come la peste”, "La protagonista doveva essere palestinese", "Netflix fa schifo".
Molti hanno puntato il dito sul  genocidio in corso a Gaza, invocando una rivolta.Oltre alla già citata Cohen nei panni di Maria, da quel  che  ho apreso in  rete  ,   il cast comprende molti altri attori israeliani come Ido Tako, Ori Pfeffer, Mili Avital, Keren Tzur, Hilla Vido. Nel cast anche il due volte premio Oscar Anthony Hopkins, che interpreta Re Erode. Il film è stato girato in Marocco e, complice la tematica religiosa così delicata, il regista ha confermato che la scrittura e la produzione di “Mary” sono state realizzate con “grande cura” per creare “una storia che sembrasse sia sacra che moderna”. Interpellato da Entertainment Weekly, DJ Caruso ha post l’accento “sull’importanza che Maria, così come la maggior parte del cast, venisse selezionata da Israele per garantire l’autenticità”.
Evidentemente   la  maggior  parte di noi  pro-Pal ha teorie diverse…  . 
Ora Cari  amici\che  pro palestina   capisco  il vostro  odio   verso  la  stato d'israele  e  quindi  verso   il sionismo  per  la  sua  arroganza  verso  i palestinesi   la  cui  origine etnica  è  la stessa  degli ebrei non sionisti Premetto che  no ha   ancora  visto  ne  il   trailler  \  promo  del film e  vedendo ora  per la  prima  volta  una  foto   d'esso   quindi  riporto   il   commento un po'  aprioristico  su  Msn.it  \  bing  di     Annamaria Franzese
basta non guardarlo, al consumatore è rimasto questo potere ... a giudicare dalla foto, le stoffe, la copertina del bimbo...  anche i costumi sono di qualità "verosimile" :) ... non merita, si presenta come polpettone/soap

e quindi      se  anche   se  fosse  un polpettone   e  c'è un attrice  israeliana   perchè si  deve impedire  a  gli altri  di guardarlo     come sembra  propongono  di farlo alcuni  di   voi  pro palestina ?
Ma qui ( chiedo   scusa   a  chi   dovesse aver già  letto il precedente post  
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2024/11/belluno-coppia-di-tel-aviv-rifiutata-da.html ) ripeto    che   non bisogna  mai confondere i popoli con i loro governanti e con gli errori degli Stati. Ciò vale per gli israeliani come per i palestinesi . Lo dico da critico del governo israeliano e  di , ovviamente  senza  generalizzare  ,  di   alcuni israeliani  i cosidetti coloni  . 

14.11.24

Belluno, coppia di Tel Aviv rifiutata da un hotel: «Israeliani responsabili di genocidio, non sono ospiti graditi»

l'accaduto
«Buon giorno, vi informiamo che gli israeliani, in quanto responsabili di genocidio, non sono ospiti graditi nella notra struttura. Pertanto, se vorrette cancellare la prenotazione, saremo lieti di garantila gratuitamente». Il testo è il contenuto di un Whatsapp spedito dal
titolare dell'Hotel Garnì Ongaro di Selva di Cadore a una coppia di Tel Aviv, che, attraverso Booking, aveva prenotato e pagato due notti nell'albergo bellunese nei primi giorni di novembre. Il messaggio di Patrick Ongaro ha raggiunto la coppia alla vigilia della partenza del volo per l'Italia. In un secondo momento, fatto su cui non c'è però conferma diretta, albergatore e clienti si sarebbero risentiti via telefono e l'invito a rinunciare all'ospitalità concordata si sarebbe strasformato in un, se possibile, più perentorio: «Non fatevi vedere qui...». 

 cosa  ne  penso  

Mai confondere i popoli con i loro governanti e con gli errori degli Stati. Ciò vale per gli israeliani come per i palestinesi .lo dico da critico del governo israeliano e  di , ovviamente  senza  generalizzare  ,   di   alcuni israeliani  i cosidetto coloni  . Per  il resto sono cosi  triste   che non so che  altro ire  ,  se  non   che    questi atti  di discriminazioni  svegliano  l'orgoglio e la  dignità di quella  parte del  popolo israeliano ch  vuole  la pace  e  la  convivenza  \  cosesitenza    con  il popolo ebraico . 

30.6.24

il delirante e vergnoso attacco choc di chef Rubio alla Segre dopo le sue dichiarazioni sull'inchiesta di fan page sui i giovandi di FdI .

 Estremo cortocircuito a sinistra sull'antisemitismo. A portarlo avanti è chef Rubio, che dai social nelle ultime ore porta avanti una guerra contro l'estrema sinistra ma, soprattutto, contro Liliana Segre. L'ex cuoco ha sferrato un attacco choc contro la
senatrice a vita dopo le sue parole in merito all'indagine svolta da Fanpage su Gioventù Nazionale, costola giovanile di Fratelli d'Italia. Giustamente  Liliana Segre aveva  dichiarato : << Credo che queste derive, chiamiamole derive, che sono venute fuori in quest'ultima settimana così in modo eclatante ci siano sempre state, nascoste, non esibite, ma che in parte ci siano sempre state e che con questo governo si approfitti di questo potere grande della destra, che del resto è stata votata non è che è rivoluzionaria, non ci si vegogni più di nulla>> Parole che, evidentemente, non sono piaciute all'ex cuoco televisivo in quanto  dette   da un ebrea  sionista  . <<  "Povera stellina, che pensa solo a sé, che tutela solo gli interessi del sionismo, che vuole la medaglia d'oro della sofferenza. Gli unici cacciati dalla loro terra, la Palestina occupata da 76 anni
dai coloni ebrei che supporti, sono i nativi semiti palestinesi. Vergognati", ha dichiarato Rubio.>>    Inevitabili le polemiche per queste parole di Rubio da parte degli utenti, che non ritengono opportuno l'atteggiamento dell'ex chef. "Fratello mio, ti posso chiedere perché vai ad insultare una scampata ad Auschwitz solo perché è ebrea? Non sarà mica colpa sua se Israele va a bombardare la Palestina no? Ti prego, da persona filopalestinese, non essere antisemita", ha scritto un utente. A cui  << L’antisemitismo non esiste se non nella mente dei sionisti che lo usano come scudo per continuare a delinquere. Ps sei discretamente analfabeta funzionale se ci leggi insulti>>, ha replicato lo chef, che rifiuta l'esistenza dell'antisemitismo. Ma non solo, perché lo stesso ha scagliato il suo attacco contro il Collettivo autonomo lavoratori portuali, un'associazione di estrema sinistra a cui dovrebbe rifarsi idealmente anche Rubio, che non riconosce però il ruolo del collettivo nel supporto alla Palestina. "La mafia sionista che vi cagate sotto di denunciare è fascismo La colonia ebraica d’insediamento sostenuta dalle comunità ebraiche e da Liliana Segre, è fascismo. Per espellere il fascismo dalle nostre vite non basta essere in piazza. Serve la Lotta quotidiana", ha dichiarato lo chef. Una posizione ancora più estrema rispetto a quella del Calp, che evidenzia però un cortocircuito netto e discordante tra le ideologie di sinistra.
Quindi   Spett Chef Rubio    qui  ha  vergognosamente   sconfinato varcato , andando  oltre     con questa  sua  imbelle    replica  ,  il  labile  confine   tra   antionisionismo  e  antisemitismo     di cui  ho parlato  in un post precedente  , in quanto pur essendo vero   che   molti \ e  lo  confondono  con l'antisionismo   e  l'usano   strumentalmente  per  zittire  coloro  che  criticano la  politica  israeliana  . Ma    l'antisemitismo esiste  eccome    ed  spesso  è mascherato  è  fuso   con l'antisionismo   come   in queste  sue  dichiarazioni   purtroppo  .

1.11.23

oltraggiate le pietre d'inciampo dedicate a Giacomo ed Eugenio Spizzichino, arrestati e deportati nei campi di concentramento

 Dopo  le  stelle  di david  comparse  a  Parigi    , le  maifestazioni d'odio   contro il popolo  ebraico   toiccano il nosro paese  .  

 da  republica del 1\11\2023  



Non è più un caso isolato. Dopo il blitz della notte tra il 30 e 31 ottobre in via Dandolo a Trastevere, a poche centinaia di metri, esattamente in via Mameli 47, la notte successiva sono state sporcate sempre di vernice nera


 

altre due pietre d’inciampo. Le targhe d’ottone vandalizzate ricordano Giacomo e Eugenio Spizzichino, arrestati e deportati nei campi di concentramento. Giacomo Spizzichino nato nel 1920 venne arrestato il primo gennaio del 1944 e deportato a Mauthausen, dove fu assassinato il 18 aprile del 1945. Ed Eugenio Spizzichino, nato nel 1918, fu arrestato il 6 maggio 1944 e deportato ad Auschwitz, dove venne assassinato il 20 gennaio del 1945. In via Dandolo all’altezza del civico 6 erano state imbrattate le pietre d’inciampo in ricordo di Michele Ezio Spizzichino e Aurelio Spagnoletto deportati il 16 maggio del 1944 ad Auschwitz .

 

Per il momento l'unico politico   è stato ,  dai microfoni di Rai Radio 1  , la segretaria del Pd Elly Schlein   che  ha definito “inqualificabili questi gesti, degni veramente di una condanna fermissima da parte di tutti coloro che vogliono la pace, la democrazia, che conoscono l'errore, l'orrore anzi, di quello che è stata la dittatura nazifascista, per cui siamo tutti preoccupati da questo rigurgito di antisemitismo, che dobbiamo davvero contrastare con grande forza”. Oltre   a  lei , semre  secondo repubblica   ,  è anche il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, in un intervento pubblicato su La Stampa, sostiene che quando “un passante viene malmenato, una casa viene segnata, persino pietre d’inciampo deturpate, alla base di questi meccanismi perversi e distorti c'è qualcosa di molto più antico e profondo. In un pensiero diffuso che è inconscio per molti e invece consapevole in molti altri, l'ebreo che vive, con la sua diversità, ha una colpa esistenziale da scontare”. Infatti   Capisco  e  comprendo   (  non significa che    giustificare  ed  essere  d'accordo  )  per quelo che  sta  facendo in questo  periodo  . Ma   qui non si tratta   dìodiare uno stato o un istituzione  ma  odiare  un popolo  soprattutto vittime dell'olocausto anzi meglio shoah in questo caso . Alcuni dicono



  1. non abbiamo telecamere in zona per vedere chi è stato?

    è possibile dare un segnale forte, per esempio rintracciando i responsabili e multandoli, in modo che non passi l'idea che si può fare qualsiasi cosa con la scusa della causa palestinese?

    • Risposta di Teodora

      Mai visto vigili o forze ordine !! ! La sera Trastevere è terra di nessuno

    • Risposta di Gabriele_I

      La causa palestinese non è una scusante per queste azioni riprovevoli.

  2. Commento di patrizia2103

    Ohibò, non credevo di essere censurata solo perchè nel mio commento non reputavo quanto sta succedendo ora in Medio Oriente una guerra di religioni o meglio, contro una religione!

    • Commento di Francesco

      Atti ignobili. Punto.

      Ma non condivido il tentativo di metterla in politica, raffazzonato e arbitraria della Schlein. Libera di fare come crede, certo, ma liberi noi di dire che molto probabilmente l'oltraggio bieco e vigliacco puo' venire da fiancheggiatori di Hamas, che probabilmente si collocano nella galassia di sinistra.

      • Risposta di alemicheli2380

        Non condivide ii tentativo di metterla in politica,però tira in ballo la sinistra,perché anche se si parla del campionato del mondo di tamburello,va buttato là il termine sinistra,che per far polemica ci sta sempre bene...

      • Risposta di Antonio

        Questi atti sono tradizionalmente di destra, perché gli odiatori professionali li ritrovi lì. Salvo poi incolpare altri.



    • Questi atti sono tradizionalmente di destra, perché gli odiatori professionali al 90 %li ritrovi lì. Salvo poi incolpare altri. Ma    soprattutto   l'antisemitismo   di sinistra   , pur  esecrabile e becero ,   non ha    mai   che  io sappia  vandalizzato ed insultato  le  vittime   dei campi di concentramento  nazisti  .  

    emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

    Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...