DA https://www.galluranews.org
La storia di Luca Magellano, oggi 36 anni, inizia nel 2013. A raccontare questa vicenda sconcertante è la madre Giuseppina Mossa, 67 anni di Aggius, residente a Bonaita, una frazione circa 15 minuti di auto dal paese gallurese.
Ci siamo sentiti qualche settimana fa e si è deciso assieme di raccontare questa disavventura che a breve avrà anche dei risvolti giudiziari che non andremo a toccare. Ora come ora, è tutto ancora in evoluzione e sta agli avvocati e ai CTU sbrogliare l’intricata disavventura sanitaria.
” Il problema di mio figlio Luca – inizia il racconto la mamma – è stato curato al principio come depressione. Lui tendeva ad isolarsi quando siamo tornati in Sardegna, dopo aver vissuto per 30 anni a Gallarate dove ho lavorato come infermiera.
La scelta, non fu ottimale, sia Luca che mio marito sono del milanese e le abitudini sonio diverse. A febbraio del 2014, alla depressione si è aggiunto un grave problema agli occhi. Luca soffre di diplopia, vede doppio insomma da vicino e da lontano. Inoltre, vomito, mancanza di equilibrio, inappetenza.
La prima cosa che abbiamo fatto è portarlo al Pronto Soccorso del Paolo Dettori di Tempio. A Tempio, è il 15 febbraio del 2014 sono stati in gamba e umili, dicendoci che mancava il neurologo e ci hanno consigliato di andare a Sassari. Le visite a Tempio, effettuate al reparto di Otorino e anche la visita oculistica, hanno ribadito la necessità dello specialista
E’ necessario avere il conforto di ulteriori esami e strumentazioni che possono valutare la diplopia di Luca e capire se si tratta di un problema temporaneo, se grave o meno grave. Occorre avere certezze.
Mio marito lo porta a Sassari, due giorni dopo Tempio, il 17 febbraio. C’è bisogno di ricovero, il caso è urgente ma manca al momento li posto letto. Non essendoci il posto per il ricovero, Luca torna a casa.”
Il racconto di Giuseppina, prosegue senza pausa. Si capisce la sua voglia di non scordare alcun dettaglio, esamina per questo tutte le fotocopie della nutrita documentazione che ha con se e che mi lascerà alla fine. Il suo è uno sfogo ma è tanto arrabbiata e avvilita per quanto accaduto, ne ha ben ragione, trattandosi del figlio.
” Ho continuato a chiamare Sassari da casa per vedere se il posto letto si era liberato. Il ricovero urgente avrebbe dovuto avere priorità, ma veniamo chiamati solo dopo alcuni giorni. Tenga presente che Luca, a parte la diplopia e gli altri problemi, non ha nessun’altra patologia organica, è sostanzialmente autonomo, benché con equilibrio precario e uno stato depressivo.
Fanno una risonanza solo dopo 5 giorni dal ricovero, e diagnosticano una lesione grande come una noce nel tronco encefalico, si rende necessario l’esame del liquor cerebrale. La diagnosi parla di sospetto Medulloblastoma, un tumore cerebrale che colpisce i bambini, sino a 7 anni circa. Una diagnosi, dicono, verosimile, ma non certa.
Dopo un consulto con la neurochirurgia Luca viene trasferito dalla neurologia alla neurochirurgia del Santissima Annunziata di Sassari, il 28 febbraio. Qui, dal sospetto, si passa alla certezza della diagnosi della risonanza, già una cosa incredibile proprio perché non confortata al 100%.
Il 5 marzo sempre dello stesso anno, il 2014, Luca viene operato. Da tenere in considerazione che mio figlio è stato 5 giorni prima dell’operazione buttato su un letto senza che gli abbiano fatto nulla.
Mio figlio non aveva mai subito traumi, né incidenti, e non era urgente l’operazione. Quello che mi chiedo è perché, se la diagnosi era verosimile, non hanno fatto altri accertamenti a livello ematico, molecolare, biologico, genetico o strumentale? Una PET per esempio? Una PET avrebbe dato la diagnosi corretta di mio figlio che era ed è un linfoma. Ma vuol mettere un caso rarissimo di un giovane di 31 anni con un medulloblastoma? Decisamente “appetibile” per un neurochirurgo (dice questo con sarcasmo e rabbia)”.
La rabbia e il dolore
Mentre il racconto entra nel vivo, Giuseppina si lascia andare a considerazioni sul fatto che troppi pensano che noi sardi siamo ignoranti e che qualsiasi cosa ce la beviamo, anche se non si tratta di vino buono ma di veleno.
” Dopo l’intervento Luca è stato in rianimazione per 12 ore e poi portato in reparto. Muove le mani bene, ha reazioni normalissime, resta la diplopia che ci avevano detto, col tempo, potrebbe andar via.
La via crucis di Luca inizia nel post operatorio, tolgono sondino naso gastrico e catetere subito, senza sapere se mio figlio può mangiare e urinare spontaneamente senza il catetere.
Il 7 marzo gli do io da mangiare cibi semi solidi. Il dottore si arrabbia di brutto e lo mette a digiuno, con mio figlio affamato e nutrito, da quel momento in poi, per via parenterale (flebo).
Addirittura vogliono rimettere il sondino naso gastrico che mio figlio rifiuta ed anche il catetere, anche questo rifiutato. Viene chiamato l’urologo che consiglia ginnastica vescicale e nuovamente il catetere. Quel che mi domando perché allora gli fu stato tolto?
Luca ha la sua prima consulenza oncologica il 23 di marzo. Nel frattempo, io recupero l’istologico dalla Oncologia di Sassari.
La diagnosi è Linfoma, nessun medulloblastoma. Decido e affronto il neurochirurgo. Mi lamento della disorganizzazione del reparto, della diagnosi errata e dell’intervento che non era necessario. Apriti cielo!
Il medico sbraita e urla confermando, anche dinanzi al mio referto di linfoma che Luca aveva un medulloblastoma.
Cerca di mandarmi via a me e a Luca dal reparto. Aggiunge frasi sui sardi e sulla nostra presunta ignoranza.
Mio figlio resta nel reparto per due mesi, con sofferenze indicibili. senza lo psicologo, nel suo caso indispensabile. Imbottito di psicofarmaci.
Era sempre intontito, uno zombie. I suoi angeli custodi sono stati gli altri pazienti della stanza., da cui sapevo tutto quando non ero presente con lui. Ho lottato per avere lo psicologo, ho preteso la fisioterapia per Luca che era immobile sul letto.
Per venire da Bonaita prendevo ogni giorno il bus alle 5.00 del mattino per venire a Tempio e da Tempio il bus per Sassari delle 7.00 e restavo tutto il giorno fuori dal reparto. Dentro non ero ben vista e non mi volevano. Ero la madre che si lamentava. Si rende conto? Con mio figlio che aveva ed ha bisogno di me?
Secondo consulto oncologico ad aprile. Tenga presente che lo SDO, Scheda Dimissione Ospedaliera, non contiene la diagnosi di linfoma ma quella di medulloblastoma dovuto a traumatismo.
Ha capito? Non era linfoma ma quello che loro volevano che fosse e che apparisse nel foglio. Le ho già detto che Luca non ha mai subito alcun trauma.
Non hanno voluto dichiarare che era una neoplasia”.
Il racconto di Giuseppina ora diventa vera rabbia, una diagnosi errata, riportata tale e con anche un origine traumatica inesistente.
“Mi avessero detto…Non abbiamo la PET, lo avrei portato a Milano. Restando in Sardegna, c’è a Nuoro e a Cagliari.
Con quell’esame avremmo avuto la corretta diagnosi di neoplasia e tutta una terapia diversa. Non un intervento sul cranio. Il radiologo non poteva avere certezza della diagnosi esatta.
Un neuro-radiologo si. Avrebbe evidenziato il tumore e non la diagnosi di medulloblastoma che il radiologo diede come sospetta, non come certa.
Tra le altre cose, le lesioni erano due e a Luca ne è stata asportata solo una.
Luca non era in pericolo di vita insomma, l’intervento non era necessario e la diagnosi era sbagliata. Altra cosa, mentre era in sala, addormentato, sotto i ferri, perché non eseguire una biopsia intro operatoria? bastano pochi minuti.
Lo so – continua Giuseppina – perché ho lavorato in Anatomia Patologica e con quell’esame, avrebbero avuto la certezza, non assoluta ma quasi, che era un linfoma e non un medulloblastoma.
A quel punto, si chiudeva l’intervento e Luca sarebbe andato in radioterapia per il tumore.
Il chirurgo però, nonostante aveva a disposizione ogni strumento per l’esatta diagnosi, è partito con la sola medulloblastoma e da lì non è uscito”.
Dopo il periodo post operatorio a Sassari, Luca viene portato a Macomer per la riabilitazione. Qui viene rimesso in piedi e Luca va al San Raffaele di Milano per avere conforto del Linfoma che viene puntualmente diagnosticato.. Non le dico che cosa ho dovuto fare con Luca, dopo il dramma di assari che Luca solo al pensiero di quel periodo, tremava.
A Milano, nel centro anti tumori del San Raffaele, si conferma il linfoma.
Come tale viene trattato e curato. E oggi siamo qui a raccontarle questa assurda storia.
Concludo solo ribadendo che essere dei luminari nel mondo medico, indica che prima bisogna essere umili e consapevoli. Ammettere che non si hanno tutti gli strumenti idonei per avvalorare una diagnosi presunta, vuol dire essere dei grandi uomini non dei cattivi medici. Nella nostra strada, Luca ha incontrato un luminare che non era umile e con il suo intervento, ha compromesso la vita e il futuro di mio figlio, ora invalido al 100%, con la diplopia e con sintomatologia che prima non c’era”.
Considerazioni finali
Durante il racconto, Luca rimane in silenzio ascoltando la madre. Ogni tanto accenna a confortare quanto dice la madre con cenni di assenso e con alcune frasi sui giorni vissuti nel reparto di Sassari. Tra dolori, lacrime e totale impotenza.
Cosa c’è di meglio che un paziente trattato in sicurezza, senza sofferenze, senza inutili interventi delicati al cervello?
Cosa importa ora sapere che nel 2010 fu fatta anche una interrogazione dai consiglieri del territorio di allora, Biancareddu e Planetta, per dotare Sassari della PET che sarebbe servita per Luca ma che il destino ha fatto arrivare alcuni mesi dopo (settembre 2014) che lui aveva già vissuto la sua odissea sanitaria.
La signora allora non denunciò l’accaduto, ha fatto passare 3 anni per star dietro al figlio che necessita di attenzioni sempre. Ogni sei mesi al San Raffaele di Milano, radioterapia. Luca vive a Bonaita, attende qualche progetto per essere incluso in percorsi di recupero e di stimolo fisico e psicologico. Il territorio non risponde al riguardo. Ha giusto qualche uscita con una donna che lo segue quando la madre non può farlo.
Non può lavorare, non ha stimoli ed è continuamente arrabbiato col mondo per quanto ha passato. Col destino vive un dissidio perenne, non ha mai subito traumi per cui ha subito quella diagnosi e quell’intervento inopportuni che hanno compromesso equilibrio fisico e psichico. Le lesioni erano comunque due e una gli è rimasta, inoltre ha sempre diplopia.
Ora la vicenda è diventata causa ed è in mano agli avvocati, tra cui un medico legale di parte che ha dato ragione a Luca.
La storia, per quanto riguarda galluranews, finisce qui. La causa è in corso, i nomi vengono omessi dei protagonisti, eccezion fatta per Luca Magellano e la madre Giuseppina Mossa.
Se esiste giustizia da qualche parte, presto verrà alla luce l’intera vicenda. Speriamo solo che Luca possa riprendere in mano la sua vita, è giovane e merita di viverla al meglio. Al suo fianco la madre non molla di un passo.
E’ forte, per quanto provata, e vuole che in Sardegna si abbia la stessa qualità di assistenza sanitaria che esiste altrove. Lei conosce la sanità, ci lavorava.
La cosa che più sente offensiva, oltre naturalmente quanto successo a suo figlio, è che i sardi sono visti come asini da macello.
Questo no, non lo accetta, né lei né nessuno che ha a cuore la nostra meravigliosa terra.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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14.3.19
20.9.18
Tempio Pausania, «Non ho saputo da nessuno che mio padre fosse morto», la storia incredibile di un 51enne campano
in sottofondo Giacomo Spano - Eremo
Questa che trovate sotto storia raccontata da Antonio Masoni di www.galluranews.org Mi a portato a riascoltarmi questa canzone di De andre ed accorgemi che alcuni versi in particolare questi
quando la morte mi chiederà
di restituirle la libertà
forse una lacrima forse una sola
sulla mia tomba si spenderà
forse un sorriso forse uno solo
dal mio ricordo germoglierà
se dalla carne mia già corrosa
dove il mio cuore ha battuto un tempo
dovesse nascere un giorno una rosa
la do alla donna che mi offrì il suo pianto
quando la morte mi chiamerà
nessuno al mondo si accorgerà
che un uomo è morto senza parlare
senza sapere la verità
che un uomo è morto senza pregare
fuggendo il peso della pietà
Una storia d'altri tempi da telenovele \ soap opere latino americane \ spagnole come il segreto o fiction tipo un posto al sole per rimanere in ambito italiano
Tempio Pausania, «Non ho saputo da nessuno che mio padre fosse morto», la storia incredibile di un 51enne campano.
Tempio Pausania, 17 set. 2018-
“Buongiorno signor Antonio, potrei chiederle una informazione?”, tutto nasce da una richiesta via Messenger di un signore di Torre del Greco, nativo di Portici, che sul suo profilo si chiama Gianni “Napoli”. Di solito, la prima cosa che fai quando ti arrivano messaggi da chi non conosci è accettare la richiesta e poi andare a sbirciare sul suo profilo facebook per capire con chi hai a che fare. Normalmente accetto anche quando arrivano richieste strane, bizzarre-erotiche o magari legate alla partecipazione a qualche concorso fotografico dove ti si chiede di votare qualcuno o qualcosa. Eppoi, “Napoli”, che cognome sarebbe in un campano? Sicuramente è legato al tifo per la squadra del Napoli, si sa che moltissimi lo usano per identificarsi ancor di più con il calcio per il quale, spesso, si trascende, Capita ovunque e per qualsiasi squadra. Gianni “Napoli”, mi chiede una informazione relativa ad un certo Giorgio Galdi che, sul momento non collego a nessuno di mia conoscenza, non penso di aver mai sentito quel nome e così rispondo:
“No guardi non lo conosco e non ho mai sentito il suo nome – rispondo sospettoso – perché lo sta cercando attraverso me?”
” Mi è stato detto che vive in via Istria, n. 15, e lessi un articolo vostro che parlava di alcune case pericolanti in via Istria”.
E’ vero, tempo fa scrissi delle case popolari più a valle del n. 15, quelle rosse per intenderci che erano pericolanti e i residenti lo volevano segnalare. Inoltre, effettivamente abito nello stesso quartiere a poco più di 200 metri da Via Istria.
Il giorno dopo Gianni mi riscrive chiedendomi se era venuta fuori qualcosa.
“Mi perdoni, ho chiesto a qualcuno del quartiere, ma nessuno sa chi sia”. Insomma, se non vado a cercare in via Istria 15 col cavolo che riesco a dare notizie a questo Gianni “Napoli” che a dire il vero si mostra educatissimo e assolutamente non fastidioso, anzi gentile e grato perché mi sto interessando a dargli questa notizia.
Sabato faccio un salto in via Istria, sulla strada davanti all’ingresso dello stabile con quel numero, il 15, un signore che conosco e che abita proprio nello stesso condominio.
“Scusa, lo conosci un certo Giorgio Galdi?”
” Certo, il signor Giorgio, abitava qui, è morto 4 o 5 anni fa – risponde – lavorava in banca a Tempio. Guarda che era quel signore magro, napoletano, che era sempre gentile ed educato con tutti. Un brav’uomo”
Un flash, quella sommaria descrizione mi fa collegare immediatamente ad un signore che andava giù e su su via Istria quando passavo in macchina su quelle vie che portano a casa, lo vedevo sempre con una busta della spesa, d’inverno con un loden verde e nelle giornate fredde con un borsalino in tinta. Come non ricordarlo? Certo, lavorava in banca a Tempio perché era capitato di vederlo quando ancora era in servizio.
Nel frattempo io e Gianni “Napoli” ci eravamo scambiati il numero di telefono. Lo chiamo e gli do la notizia.
“Senta Gianni, ho appena saputo che Giorgio Galdi è morto 4 o 5 anni fa. Ma lei che rapporti aveva con lui, per curiosità intendo, visto che lo sta cercando?”
“Giorgio Galdi era mio padre”, mi risponde. Resto muto, ghiacciato col sole caldo che picchia sugli occhi. Piango, in risposta al pianto a dirotto che sento al telefono dall’altra parte. Un silenzio irreale spegne le parole di entrambi. Non potevo credere che un figlio non sapesse del padre morto anni prima. Com’era possibile?. Gianni, a fatica, mi ringrazia del tempo che ho dedicato a questa breve ricerca. Sono io ora che sento di aver sbagliato.
“Non potevo immaginarlo Gianni, se solo lei me lo avesse detto prima!”
“Ha ragione, signor Antonio, voi (?) avete fatto anche troppo. E pensate (sempre il voi) che io mio padre non lo vedo da quando avevo 7 anni. Andò via di casa,- prosegue tra le lacrime – non andava d’accordo con mia madre e se ne andava spesso di casa anche quando era nata mia sorella, più grande di me di 6 anni. Quando nacqui io sembrava tornato tutto in armonia ma il rapporto con mia madre era sempre pessimo e alla fine andò via definitivamente. Mi è rimasta una sua foto con me in braccio a 6 anni, dopo che fui operato alle tonsille. Dopo un anno se ne andò via e non ho più saputo nulla di lui. Mia madre non ci permetteva di parlarne, anche per lei era morto, dopo che ci aveva abbandonato così piccoli”Tento di interromperlo ma se lo facessi cadrei nell’errore di troncare un suo legittimo sfogo, un misto di lacrime e rabbia. Aspetto che si calmi un po’ e chiedo ancora scusa per essere stato un messaggero di una così dolorosa notizia.“E come potevate saperlo che si trattava di mio padre? No, voi non avete colpe. Sono io che ho sbagliato a non dirlo subito. Vi chiedo una cortesia. Sapreste trovarmi una sua foto o magari dirmi dove riposa, se con la donna che sapevo viveva con lui avesse avuto figli, quando è morto. Sono 44 ani che voglio saperlo ma per rispetto di mia madre non l’ho fatto. Ora lei, mia madre, vive a Roma, non è più in se con la testa. A Roma ci vive anche mia sorella. Potete farmi questa cortesia di darmi notizie?”Mestizia, il sentimento che prevale, sento il dovere di sapere tutto di Giorgio Galdi, quanto mi sarà possibile. Parto dal cimitero di Tempio, non prima di chiamare al telefono il mio amico Tino che ci lavora. E’ domenica e lui è in ferie, però mi indica dove si trova la tomba di quell’uomo perché lui ricorda tutti o quasi e sa perfettamente dove sono sepolti i morti senza controllare il relativo registro. La ricerca ha esito positivo immediato. Ecco la tomba di Giorgio Galdi, deceduto in data 30/10 2011, quindi quasi 7 anni fa. Una semplice croce senza la data di nascita che ho saputo essere il 23 o 30 marzo del 1933. Un abitante del palazzo, mi dice che lui era per le cose semplici. Una croce basta e avanza, qualche pianta resistente messa a dimora, qualche altra, nessun fiore, delle erbacce e una foto che il tempo aveva staccata dal precario incollaggio col biadesivo.E questo era Giorgio Galdi, bancario che è stato a Tempio tantissimi anni e che riguardandola in tanti risaliranno a lui.Ecco cosa ci ha raccontato il figlio di Giorgio Galdi, Gianni. Il suo è un ritratto di puro sentimento, intriso dall’amarezza di non avere vissuto accanto al padre. Gianni traccia il suo profilo, come se ci fosse stato allora, che ci sia ancora oggi e sempre resterà ora che non c’è più. Ora parlano le sue lacrime, i suoi emozionanti pensieri a lui, a quell’uomo che non rispondeva alle sue telefonate, che gli rispondeva seccato, che aveva voluto restare lontano dai suoi figli, che non li ha visti crescere, diventare adulti, avere dei figli, lasciandoli anche a macerare un rancore inevitabile per un’assenza immotivata. Ogni altra parola è superflua, così come appare superfluo, ed anche ingiusto, scrivere della compagna di vita di Giorgio che ho accompagnato in tutti questi anni a Tempio, per quasi 30 anni.
La madre di Gianni oggi vive a Roma, così come la sorella. La compagna di vita di Giorgio, della quale manteniamo la doverosa privacy, a Calangianus. Lei, prima di conoscere Giorgio, ha avuto un marito di cui era vedova e ben 9 figli. Gianni ha un desiderio, venire a Tempio a vedere la tomba del padre, sente di doverlo fare e lo farà, forse entro quest’anno. Mi ha promesso così ed io gli farò vedere la città, lo accompagnerò per le vie e per tutti i posti dove suo padre ha vissuto. Non servirà certo a fargli riavere il tempo che non c’è stato, quello con Giorgio, ma potrà riceverne serenità e pace. Giorgio è sepolto qui, a Tempio, dove ha vissuto una nuova vita. Nessuno provi a giudicare quanto male possa aver fatto. A Tempio, tutti lo ricordano come un uomo rispettoso, gentile, educato, cordiale. E questo basta. Il resto è nostalgia, rimpianti e tenerezza di un figlio che non ha vissuto suo padre. Un grazie a Gianni ed un abbraccio da questa comunità a lui, ed alla sua famiglia.
Gianni Galdi e sua moglie Nunzia. |
« Mi chiamo Gianni Galdi e sono Figlio del signor Giorgio Galdi,
Vorrei dire un pensiero su questa mia storia, che ha inizio nel 1960 quando si unirono in matrimonio mio Madre e mio Padre, un matrimonio portato, così si dice dalle mie parti, nel senso che mia madre era innamorata di un altro. Ricordo infatti ancora oggi una foto di mia madre con mio padre che si avviano verso l’altare con una faccia da funerale, comunque dopo un anno nasce mia sorella, e subito i rapporti tra i miei iniziano a rovinarsi, con fughe da parte di mia madre, che si allontanava per non subire. Nel 1966 c’è una pausa, perché mio padre e mia madre cercano di ricominciare con la mia nascita nel 1967. Dopo alcuni mesi, però, si ricomincia, delle volte penso che la mia nascita sia un segno del destino, si continua con alti e bassi, stavolta è mio padre che si allontana da casa anche per delle settimane, e queste cose me le racconta mia madre. Io, però, riesco già a ricordarle e per me sono i primi dolori della mia fanciullezza. A 6 anni vengo ricoverato ed operato alle tonsille e ricordo che lui mi teneva in braccio. Questa è la mia ultima immagine, la sola istantanee che ho. Un anno dopo, a 7 anni, in seguito all’ennesimo litigio con mia madre, era il 1974, un pomeriggio di Aprile, chiamò mio padre dal lavoro. Gli chiesi un modellino di un auto piccola, volevo la Fiat 126, mi ricordo anche il colore che doveva essere verde, ma quella macchinetta non è mai arrivata perché da allora mio padre è andato via è non l’ho visto mai più. Nonostante mi avesse abbandonato, io non mi sono perso d’animo, ho iniziato a prendere informazioni, e sono riuscito a chiamarlo erano gli inizi degli anni ’90. Lui fu freddo con me, senza chiedermi se mi fossi sposato o avessi avuto dei figli. Rammento bene la chiamata che durò una decina di minuti appena, perché lui subito mi liquidò. Piansi amaramente, passarono altri anni ed io non mi arresi mai anche se lui non mi aveva cercato. Avevo ancora il suo numero e lo richiamai nel 2006, lo sentii un po’ stanco, ma anche in quella occasione fu freddo nei miei confronti, senza chiedermi di mia sorella o dei miei figli o che facessi nella vita. A quel punto mi arrabbiai un po’, e lui mandandomi a quel paese mi chiuse il telefono in faccia. Piansi tre volte tanto rispetto alla prima volta, non potevo pensare perché fosse così duro nei miei confronti. La mia domanda era sempre la stessa : MA CHE GLI HO FATTO ? Dalla rabbia buttai via il suo numero, e non lo chiamai più. Da allora non ho avuto più notizie, fino a sabato scorso quando ho saputo che non c’era più, e pensai : Mio Padre e morto due volte ... .L’ho visto adesso sulla foto che mi ha inviato, Antonio, Una persona Gentile, cortese, cordiale, diciamo un Angelo che ho incontrato, che non finirò mai di ringraziare per quello che ha fatto per me.Papà io io ti ho perdonato, perché non ci dovrà più essere né odio, né rabbia…., e sono sicuro che anche Dio ti ha perdonato.E lo stesso Dio credo che ti permetterà di ascoltare queste mie parole :
PAPA’ TI VOGLIO UN MONDO DI BENE.
Ciao Papà mio, tuo figlio Gianni».
Non sempre quindi è necessario andare a chi lo ha visto o simili . Basta fare (come si faceva un tempo ) una semplice, con il rete è un po' più facile , una telefonata ad un cronista locale : Oppure ed qui mi hano fatto ritornare alla mente un vecchio episodio più precisamente il n 42 di questo mio cartone animato della mia infanzia oppure andarlo a cercare o " lanciare un message in a bottle parafrando una famosa canzone dei police "
9.9.17
Tempio Pausania, Allevamento Amatoriale La Piuma Dorata: « Senza amore, non si può fare questo mestiere», Bartolomeo Addis e i suoi amati animali.
ringrazio Antonio Masoni di Gallura news per le storie che ci racconta
Sono passati quasi due anni da dicembre 2015 quando, incuriosito più dal nome dell’allevamento che dal genere di animali di cui si occupava, ho incontrato Bartolomeo Addis, 51 anni, un lavoro da vetraio alle spalle per circa 25 anni e da qualche anno alle prese con degli animali straordinari, a torto assimilati a semplici essere viventi non certo annoverati tra quelli esaltati per intelligenza o per capacità di interagire con l’essere umano. “La gallina – diceva quella canzoncina – non è un animale intelligente, lo capisci da come guarda la gente”.
Sono passati quasi due anni da dicembre 2015 quando, incuriosito più dal nome dell’allevamento che dal genere di animali di cui si occupava, ho incontrato Bartolomeo Addis, 51 anni, un lavoro da vetraio alle spalle per circa 25 anni e da qualche anno alle prese con degli animali straordinari, a torto assimilati a semplici essere viventi non certo annoverati tra quelli esaltati per intelligenza o per capacità di interagire con l’essere umano. “La gallina – diceva quella canzoncina – non è un animale intelligente, lo capisci da come guarda la gente”.
.« Posso assicurati – dice Bartolomeo – che non c’è nulla di più sbagliato. Sono sensibili e intelligenti, ti riconoscono e se dai loro amore, te lo ricambiano fidandoti di te».Dice questo mentre prende in braccio Rufus, il suo preferito tra i galli e che accarezza come un cagnolino. L’immagine che ne ricevo è quella di empatia tra lui e il suo allevamento, un trasporto totale che lo porta a trascorrervi anche 13 ore al giorno tra i suoi animali a due zampe senza sentire fatica né il peso delle cure maniacali che pone verso di essi, un misto tra avvertirne la responsabilità ed assecondarne l’indole, quella che li vuole liberi e sempre in grandi spazi.« Pensa alla tristezza dei loro simili allevati in batteria, senza possibilità di conoscere lo stato brado dove loro si esaltano e riescono a vivere senza mai litigare, lo spazio è fondamentale per farli vivere al meglio. Io non intervengo nella loro fisiologia e nel loro ciclo naturale, danno le uova che devono e non quelle che potrebbero darmi. Questo significa guadagnarci meno ma per me è un valore altissimo perché ne rispetto la loro vera natura. Qui la chimica non entra, qui i rimedi quando stanno male sono naturali, tutto è legato a cure con prodotti naturali e ad alimentazione non OGM».
18.2.16
Tempio Pausania, “Una dì ci tocca a tutti”, mi disse. Il giorno è arrivato. Ciao Zio Mario!
da http://www.galluranews.org/?p=13128
Tempio Pausania, “Una dì ci tocca a tutti”, mi disse. Il giorno è arrivato. Ciao Zio Mario!
Tempio Pausania, 18 feb. 2016-
“E cosa vuole! Mi ha lasciato sino a quasi 98, i miei anni li ho vissuti”, mi ha detto quel 27 dicembre 2015, quando, ultimo e orgoglioso testimone, ho presentato ai pochi che non lo conoscevano, Mario Aisoni (Pirredda). Lo stavo “braccando” da tempo e mai ero stato fortunato nel trovarlo nel suo appezzamento, appena fuori Tempio, sulla strada Aggius-Sassari, in località Rinaggeddu. Fu l’amicoSergio Todesco ad indicarmelo perché ne aveva testato nel tempo la saggezza e la conoscenza fuori dal normale di tanti segreti della campagna, ad iniziare proprio da quella “devozione” che sentiva per il suo mondo semplice, frugale, privo del tutto di fronzoli ed apparati inutili.
Era domenica dopo Natale, e quello lo ritengo uno dei giorni più belli della mia vita. L’intervista ad un personaggio singolare, con un bagaglio di conoscenza straordinaria su ciò che riguarda piante e frutti. Una vita da nomade consapevole, per libera scelta, che ho cercato di svelare attraverso quella sua sapienza, mica tanto antica, che faceva di lui un uomo moderno e al corrente di quello che stava accadendo nel mondo. Oggi se n’è andato, nel silenzio con cui ha voluto vivere da mezza vita. Quella campagna, era la sua vita e in essa ha buttato ogni residua energia sino a lavorarla ancora, non con la stessa forza ma certo con lo stesso immutato amore.
Ciao Zio Mario Aisoni, persona difficile da scordare. Impossibile da non voler bene. Le condoglianze del blog a Giuseppe, suo figlio, con Isabel, alla sorella e ai parenti tutti.
Vi lascio in sua memoria questa intervista che conservo tra i miei ricordi più importanti ed emozionanti.
27.11.15
Priatu, ” La mia vita era persa, ma il destino non voleva che quella parola fosse pronunciata”. La storia di Veronica Gelsomino, sopravvissuta a Monte Pinu.( alluvione Olbia 2013 )
sule note di Domani ( versione italiana ,versione sarda ) leggo su Gallura News di Antonio Masoni la bellissima news del ritorno alla vita di http://galluranews.altervista.org/home/Veronica Gelsomino della sopravvissuta alla tragedia di Monte Pino / alluvione di Olbia 2013
Ci sono storie scritte per il cinema, altre che solo il prosieguo della nostra vita può determinarne l’importanza e il pieno significato.
Veronica Gelsomino ha oggi 26 anni,
è una giovane madre di Francesco, appena due mesi e mezzo e tanta
voglia di sorridere e di esserci. Veronica ha visto la morte in faccia
quel tragico 18 novembre del 2013, data impossibile da scordare per lei e per tutti i sardi. La Gallura pianse, come una buona fetta di Sardegna, i danni tragici di quel terribile ciclone Cleopatra. Sedici furono i morti e anche Tempio ebbe la sua parte con le morti di Bruno Fiore, Sebastiana Brundu e Maria Loriga.
In quell’elenco ci sarebbe dovuta essere anche lei, Veronica. Miracolosamente scampò alla morte. Fu soccorsa da tre coraggiosi uomini, persone di cui la storia dovrebbe ricordarsi
perché, in spregio al rischio di calarsi in quell’oscuro baratro, hanno
sentito delle grida giungere da quel buio fossato di morte, da cui
proveniva solo l’impetuoso passaggio dell’acqua, e hanno tratto in salvo
lei, Veronica Gelsomino.
La abbiamo rincorsa per molto tempo,
abbiamo trovato il contatto giusto e finalmente, dopo tanta attesa,
siamo riusciti ad incontrarla. Lei, inseguita subito dopo la tragedia
da media famelici che in gran parte ne hanno distorto la reale
vicenda, è stata felice di raccontarci quella storia. Oggi, ci ha
rilasciato questa bella intervista, con in braccio Francesco, frutto del
suo amore con Tomaso Abeltino, con cui già conviveva prima di quella data fatidica.
“Sembrava un film – dice – e
non la fine della mia vita. Ho cercato in tutti i modi di farmi sentire
da qualcuno prima che l’acqua, arrivasse a ricoprirmi del tutto. Avevo
la sola faccia fuori da quel fiume di fango e pioggia che era caduta per
tutto il giorno. Pensa che ho avuto fango per tanto tempo. Mi usciva da
ogni poro del corpo. Non sono riuscita a pulirmi i capelli anche quando
li lavavo. Erano sempre sporchi di terra. Nonostante quel momento
drammatico, oggi sono qui. Mi sono sposata dopo appena un mese da quei
fatti, il 21 dicembre del 2013. Oggi sono madre, di questo bambino che
ho chiamato come un mio amico, per me un fratello, a cui ero legata da
amicizia rara e straordinaria. In punto di morte di Francesco, questo
mio amico sfortunato e affetto da una bruitta malattia, ho promesso che
mio figlio si sarebbe chiamato così“
E’ dolce Veronica, sorridente anche
quando rievoca un giorno drammatico che l’accompagnerà per il resto
della sua vita. Un braccio ha recuperato la sua funzionalità, l’altro
ancora è fuori uso ma ne ha ripreso almeno il controllo, muove le dita.
Le ferite si cicatrizzano tutte, però quel braccio che fa male è il
tatuaggio di quel giorno.
Ascoltate la sua intervista che propongo
come testimonianza di forza e di speranza. Nelle sue parole troverete
anche amarezza perché nessuno ha ancora pagato per quella tragedia. La
giustizia non è di questo mondo.
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