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18.11.24

non sempre è necessario abortire la storia di laura malata di oloprosencefalia alobare, una malformazione congenita del cervello

 Le voci di Andrea Celeste e di Francesco si sovrappongono come in un concerto polifonico, senza mai prevaricare l’una sull’altra. Chi li interrompe è Lucia, la loro bambina. La sua vocina si inserisce nel racconto più di una volta. Forse desidera capire chi è che sta parlando con i suoi genitori e perché è proprio lei la protagonista della storia. O forse vuole solo le «coccole», la prima parola che è uscita dalla sua bocca, ancor prima di mamma e papà, e che continua a ripetere, insieme a «mi piace tanto tanto tanto» – riferendosi alla pasta al pesto che sta mangiando –, a «Parole, parole parole» (sì esatto, la canzone di Mina) e a «Volare» di Domenico Modugno. «Sono i suoi cantanti preferiti – spiega la mamma ridendo –. Non sappiamo proprio come si sia innamorata di loro...».Tante altre cose, in realtà, non riescono a spiegarsi. Perché Lucia è un vero e proprio miracolo. Non ci sono altre parole per descriverla. Non avrebbe dovuto nascere. Due terribili diagnosi prenatali rischiavano di segnarle la vita. Prima la scoperta dell’idrocefalia, l’accumulo di acqua cerebrale nei ventricoli, che «non viene smaltita e quindi ingrandisce la scatola cranica». E poi la diagnosi ancora più grave dell’oloprosencefalia alobare, una malformazione congenita del cervello. «Si tratta del livello più grave – dice Francesco –. Nel 40 per cento dei casi i bambini muoiono entro pochissimi giorni dalla nascita, quelli che sopravvivono non riescono a respirare autonomamente, a mangiare, a muovere le mani, a defecare, e nemmeno a piangere». E invece Lucia ha pianto. Nonostante i medici che avevano consigliato ai suoi genitori di abortire, «perché anche se ce l’avesse fatta dicevano che sarebbe cresciuta come un’ameba».1Tutti tranne uno. Il professor Giuseppe Noia, direttore dell’Hospice - Centro cure palliative prenatali del Policlinico Gemelli di Roma e promotore nel 2015, insieme alla moglie Anna Luisa La Teano e all’amica Angela Bozzo, della Fondazione “Il Cuore in una Goccia onlus”, di cui è presidente. Proprio ieri è iniziato, a Roma, il settimo raduno nazionale che ci conclude oggi con la Messa celebrata da Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma. Tanti volontari e famiglie da tutta Italia sono riunite per «rilanciare il concetto di custodia della vita umana in senso globale», spiega Noia. Con storie come quella di Lucia, che non appena è uscita dal grembo materno ha squarciato, tra la sorpresa di tutti, la quiete dei corridoi del Gemelli.
«La tentazione di abortire l’abbiamo avuta», ammettono entrambi i genitori. «Ma poi ho pensato – aggiunge Andrea Celeste – che nella vita la cosa più importante che ho ricevuto è stata l’amore. Se decido di abortire, mi sono detta, che cosa insegno a mia figlia? Che nella vita esiste solo la morte?». Francesco l’illuminazione l’ha avuta davanti al Santo Sepolcro di Gerusalemme: «Il Signore mi ha fatto capire che non poteva esserci dono migliore che potessi fare a mia figlia che farla nascere».
Poi l’incontro con Noia, «un angelo custode. Ci ha detto: “Le speranze di vita sono poche, e probabilmente Lucia avrà deficit neurologici molto gravi, ma tutti nasciamo malformati dalla storia, dal peccato e dalle sofferenze, eppure Dio ci ama». Lucia è nata al Gemelli un mese e mezzo prima del previsto con un cesareo. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Oggi ha tre anni e mezzo ed è stata operata già undici volte. La sua testa, per dimensioni, è quella di una bambina di 12 anni. Ma respira autonomamente, mangia, vede (nonostante non possieda la struttura cerebrale della vista). I medici non si spiegano come ci riesca. E sente, «anche meglio di me, che sono musicista», aggiunge la mamma. Per muoversi usa un deambulatore. Ma per i medici è solo questione di tempo: prima o poi camminerà da sola. Così come si riuscirà a toglierle il pannolino.
La sua storia insegna che «ci vuole uno sguardo umile e grato sull’esistenza, senza cedere alla tentazione dell’autodeterminazione assoluta», sottolinea Ambarus. «Il nostro intento – aggiunge Noia – è contrastare la cultura dello scarto con la scienza, l’umanità, la formazione e la ricerca». Lo dimostrano i numeri: «Sono 824 le famiglie che l’Hospice ha aiutato nei suoi anni – conclude il professore –. Il 40 per cento dei bambini sembrava non avere speranze. E invece oggi è in braccio alle proprie mamme».

2.11.24

diario di bordo n 84 anno II Infermiera tenta il suicidio sui binari del treno, il macchinista scende e la salva: «Oggi è mio marito e il padre dei miei figli»., «Io, operaia da 30 anni nella fabbrica di cioccolato, qui ho conosciuto anche mio marito. Ora la nostra vita è appesa a un filo»., La perdita di un figlio e la speranza: «L’amore è più forte della morte».,


L'amore arriva quando meno te lo aspetti, si dice. E lo può confermare Charlotte, che ha conosciuto il suo futuro marito sui binari del treno, in un momento particolarmente difficile della sua vita. La donna, un'infermiera di 33 anni, quella mattina voleva togliersi la vita a causa di diversi problemi di salute

mentale, tra cui un disturbo da stress post traumatico. Ma il macchinista si è fermato, è sceso, si è avvicinato e si è inginocchiato di fronte a lei. Poi le ha detto il suo nome, e ha chiesto quello di lei. Una scena che sembra provenire direttamente da un film. L'uomo è riuscito a placare la sofferenza di Charlotte e l'ha aiutata a rialzarsi, in tutti i sensi.
Il salvataggio e il matrimonio
«Trova qualcuno che ti guardi così, quando non te ne accorgi», scrive Charlotte Lay nella didascalia di una delle foto che la ritraggono assieme al marito il giorno delle nozze. Il loro amore è iniziato in un giorno nefasto, quando la donna ha agito d'impulso e mentre si stava dirigendo al lavoro si è seduta sui binari del treno, in attesa di essere colpita.
Ma alla guida di quel treno c'era Dave Lay, che è sceso e le ha tenuto compagnia per circa mezz'ora, riuscendo a calmarla, a guadagnare la sua fiducia e a farla salire a bordo. L'ha salutata alla stazione di Skipton, dove l'attendeva la polizia. Il giorno dopo Charlotte ha cercato quell'uomo su Facebook per ringraziarlo di ciò che aveva fatto, e i due hanno iniziato a scambiarsi messaggi, quasi ogni giorno.
Poi c'è stato il primo incontro faccia a faccia per un caffè. Il resto è storia: dopo tre anni si sono sposati, quando Charlotte era incinta del primo figlio. Ce ne sono stati altri due, da allora. La conversazione di quel giorno, da quello che ricordo, era sulle nostre vite, nulla di che, ma abbastanza per farmi superare il momento di crisi - racconta la donna -. Non sentivo più la vita così pesante», dice al Daily Mail.

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«Quando sono entrata per la prima volta in stabilimento avevo appena 18 anni, ero una ragazzina. Ho vissuto più di 30 anni a stretto contatto con il cioccolato, prima nel reparto modellaggio poi nel reparto fabbricazione. Ora la mia vita è in un limbo». Rossella Criseo è tra quei 115 lavoratori e lavoratrici che
non riescono a immaginare il proprio futuro anche solo tra qualche mese. L’azienda per cui lavora, la multinazionale svizzera del cioccolato Barry Callebaut, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, Verbano Cusio Ossola. «Da un giorno all’altro - dice -. A settembre ci hanno comunicato che la fabbrica avrebbe chiuso nel primo trimestre 2025. Poi la proprietà ha accettato di prolungare lo stop alla produzione al 30 giugno».
Ora si tenta la strada della reindustrializzazione, anche se l'azienda ha escluso l'apertura a eventuali competitor interessati. «Se non verrà trovato un acquirente? Anche mio marito è un dipendente, ci siamo conosciuti in reparto. Il destino della nostra famiglia è appeso a un filo. I nostri colleghi si trovano nella stessa situazione: lontani dalla pensione, con mutui da pagare e figli da mantenere». Rossella Criseo, nella Rsu Cisl da tre anni, è entrata per la prima volta in stabilimento quando la proprietà era ancora del marchio Nestlé. Poi la chiusura nel 1999 e il salvataggio di Barry Callebaut, che ha permesso alla fabbrica di raggiungere i cento anni di produzione. «Un anniversario che avremmo festeggiato proprio quest’anno – dice -. Invece abbiamo davanti lo scenario più desolante possibile».
Criseo è cresciuta con il profumo di cioccolato sotto il naso, che ogni giorno avvolgeva lo stabilimento. «Lo si poteva percepire già fuori alla mattina, prima di entrare in azienda, soprattutto con il vento. Era un odore che caratterizzava il quartiere. Una realtà che potrebbe non esistere più, ennesima chiusura in un territorio che in passato, invece, aveva una vocazione industriale». Dopo l’incontro di ottobre al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (in cui è stata delineata la strada della reindustrializzazione) lo stabilimento è ora nelle mani di Vertus, società incaricata da Barry Callebaut per trovare un nuovo acquirente. Giovedì 31 ottobre si è svolto l’incontro con la Regione Piemonte, dove il sindacato ha ribadito che sarebbe necessario aprire la possibilità di cessione a un competitor per facilitare il percorso di reindustrializzazione. Ci si aggiornerà nuovamente al prossimo tavolo, convocato per il 26 novembre.
Criseo, che ha partecipato ai comitati aziendali europei, racconta che l’intenzione di chiudere il sito di Intra non è mai stata manifestata: «La scorsa primavera abbiamo persino incontrato il direttore dell’area Sud Est Europa, Esteve Segura. Ci aveva rincuorato sul futuro di Intra. Nel 2024, oltretutto, abbiamo raggiunto volumi record chiudendo l’anno fiscale con oltre 67mila tonnellate». Cioccolato su cioccolato, quello liquido che nel reparto di Rossella Criseo si scarica dai serbatoi e si carica nelle cisterne per i clienti.
«Ci siamo sempre dati da fare, siamo stati disponibili a lavorare il sabato, la domenica, a fare le notti, a lavorare nei riposi compensativi. Siamo stati i primi in Italia a fare le “squadrette”, a lavorare 7 giorni su 7. E ora l’azienda ci ripaga così? Io, i miei colleghi e le mie colleghe, siamo delusi e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Di spostarsi non se ne parla, e neanche di cambiare settore dopo oltre 30 anni di lavoro

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«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?
Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».
Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».
Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»
Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».
La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».

29.9.24

Da Casnigo all’Università di Pavia, oggi ha 81 anni. Una vita racchiusa in un dipinto ex voto nella sacrestia del santuario della Madonna d’Erbia, a Casnigo:

Mi che riporto oggi mi ha commosso fino alle lacrime. Un chirurgo non può salvare tutti, ma ci deve provare. E questo primario l'ha fatto, anche con una sorella, che non ha potuto sopravvivere. Tanto onore

a lui... E alla moglie, che non era presente al momento in cui il giornalista l'ha incontrato, ma che di certo avrebbe avuto anche lei molte cose da raccontare .



da corriere  della sera  tramite   https://www.msn.com/it-it/notizie/italia/



Un uomo che cade da un ponte, un altro sfiorato da un fulmine, una donna a letto malata, e sopra a tutti una Madonna benedicente e salvifica. Gli ex voto tappezzano la sacrestia del santuario della Madonna
d’Erbia, a Casnigo: lo stile delle pitture è popolare e le dinamiche delle azioni improbabili, ma all’uscita viene da pensare alle storie di paura e sollievo che raccontano, e alle persone coinvolte, che non conosceremo mai.«Quello lì è il mio», dice una voce.
Fermi tutti, si torna indietro.
Nell’abside dietro l’altare, davanti al quadro di una sala operatoria con le finestre c’è un signore anziano appoggiato a un bastone.
In che senso, è il suo?
«Questo ex voto l’ho dipinto io, per ringraziare dopo 21 mila interventi. Quando mi lavavo le mani prima di operare pregavo la Madonna d’Erbia».
Si scopre così che il signore con il bastone è Luigi Bonandrini, ha 81 anni, è di Casnigo ed è stato primario di Chirurgia a Pavia, dove insegnava anche all’Università. Tre anni fa è stato premiato dall’ateneo di Bergamo tra le personalità «che si sono distinte per la loro attività e hanno portato in alto il nome di Bergamo nel mondo». Con lui c’era anche Franco Locatelli, insieme al quale ha studiato. Cominciamo dall’inizio: come si parte da Casnigo negli anni Quaranta per finire a insegnare a Pavia? «Mio padre era elettricista, è diventato direttore della centrale di Ponte Nossa, dove ci siamo trasferiti. Mia madre era sarta. Avevo due sorelle, una l’ho operata tre volte ma non ce l’ha fatta. I miei ci ha fatto studiare tutti e tre. Le medie a Gazzaniga, all’epoca c’era l’istituto del Sovrano Ordine di Malta, era territorio extraitaliano. Un rigore militare pazzesco. Poi il Sarpi e l’Università a Milano. Mio padre pensava che volessi fare Ingegneria». E invece: «L’idea del medico è maturata piano piano, ma ce l’avevo già nel cuore. Nessuno dei miei cinque figli ha fatto medicina ma li capisco: io e mia moglie eravamo reperibili quindici giorni ciascuno al mese, io in Chirurgia d’emergenza e lei in Ostetricia, ogni notte c’era qualcosa».Anche sua moglie è medico, quindi: «Si chiama Maria Luisa Pinetti: ci siamo conosciuti all’asilo di Ponte Nossa, abitavamo su due rive opposte del Serio e ci salutavamo dalla finestra. Abbiamo fatto insieme il Sarpi e l’Università. Ma non eravamo morosati, solo amici, la portavo in giro in Lambretta. Dopo laureati ci siamo detti che era il caso di sposarci».Romantico. «Certo, eravamo sotto l’arco di uno studentato delle suore a Pavia: la ospitavano perché le curava gratis. Era una cosa alla quale abbiamo sempre pensato tutti e due, ma senza dirlo. Volevamo prima laurearci bene e pensare al resto dopo. Ci sono stati cinque anni di specialità in cui non avevamo un soldo, tiravamo avanti con le supplenze. Poi abbiamo vinto insieme un concorso al vecchio ospedale San Biagio di Clusone. Ci eravamo andati d’estate da studenti, ci facevano fare le punture lombari e dei versamenti pleurici. Io o sono arrivato come primario di Chirurgia, lei di Ostetricia, è stata la prima donna in Italia ad avere quell’incarico».
L’ospedale non c’è più: «A Clusone mi odiavano perché volevo chiuderlo e trasferire tutto a Piario dove c’era un sanatorio bellissimo, aveva anche il teatro e il biliardo a cui aveva giocato Garibaldi. Avevo perfino proposto di spostare i confini di Clusone per includerlo. Poi ho vinto il concorso per Pavia e anche mia moglie. È stata la prima specialista in Ginecologia e la prima in Endocrinologia. Voleva laurearsi anche in Filosofia ma ha smesso, ormai avevamo cinque figli, lei teneva in piedi la baracca. Io andavo in giro per il mondo a vedere i grandi chirurghi e lei mi diceva: comoda così». Arriviamo all’ex voto. «Ci sono le finestre perché il San Matteo era l’unico al mondo con le finestre in sala operatoria. Facendo chirurgia d’urgenza non posso non avere perso dei pazienti, ma su 21 mila interventi non ho mai avuto conseguenze legali». Una storia su tutte? «Un mattino alle 4 sto andando a casa, sento una voce dalla sala operatoria che diceva: è morto. Entro come mi trovo, in maglione, c’è un ragazzo di 19 anni con un trauma cranico spaventoso. Mi faccio dare un bisturi, taglio i vestiti, squarcio il torace e prendo in mano il cuore. Ho fatto il massaggio cardiaco interno, io stesso ero sorpreso da quello che stavo facendo. Anche adesso che lo racconto stringo la mano come se tenessi quel cuore. Dopo 15 minuti è apparsa la fibrillazione, lui ha aperto gli occhi e ha detto una parola: “Aria”. Poi è morto. Ho fatto il volontario durante il Covid, riconoscevo lo sguardo spaventato di chi ha fame d’aria».È rimasto qualcosa del Covid? «Ho fatto realizzare nel piazzale del cimitero una cappella che è stata benedetta il 5 settembre per ricordare le vittime delle pandemie. Il ricordo è importante».

3.9.24

Esponente FdI celebra il matrimonio tra un ex missino e una donna transessuale: «Non è uno strappo alla linea di governo, è amore»

 Sonia Ghezzi, consigliera comunale ed esponente di Fratelli d'Italia, ha celebrato il matrimonio tra Marco Guidi, ex missino originario di Forlì, e Manuela Berretti, una donna transessuale, che ha completato la transizione un anno fa. La vicenda è stata additata come paradosso, conoscendo la linea del partito sui diritti Lgbtqi+.
FdI: «Non siamo contro le persone transex, ma contro l'educazione transgender nelle scuole»
Al centro dell'attenzione non c'è la sposa, questa volta, ma chi ha celebrato l'unione: è stata Sonia Ghezzi, consigliera comunale legata a FdI, ad aver sposato Marco e Manuela in Val D'Orcia (provincia di Arezzo).
Come spiega il Corriere della Sera, al neosposa è nata biologicamente uomo e ha intrapreso un percorso per la transizione e, il fatto che a celebrare le nozze sia stata un'esponente della destra, ha stupito il pubblico. «È una donna, non c’è molto da aggiungere», ha detto Ghezzi in difesa dell'amica Manuela.«Credo che il polverone creatosi sia il semplice esito di strumentalizzazioni politiche spesso provenienti da sinistra - ha continuato a spiegare al Corriere della Sera -. Non è uno strappo alla linea di governo o alla linea del partito. Anzi è parte di un percorso che questo partito sta compiendo. Fratelli d’Italia è un partito attento alle varie sensibilità delle persone e agirà nel rispetto degli sviluppi della società civile italiana. Non ci battiamo affinché persone come Manuela non siano definite donne. Noi siamo contro l’utero in affitto -  e contro l’educazione transgender nelle scuole, questo sì. Ma è un’altra questione».In realtà anche gli sposi hanno una "storia particolare": lui sembra essere imparentato alla lontana con Mussolini, mentre lei lavora nel settore dell'intrattenimento per adulti. «Non conosco Marco – ha dichiarato in conclusione Ghezzi – ma conosco Manuela Berretti e la sua famiglia. E certo è una famiglia di destra».

31.8.24

paraolimpiadi 20024 : quale linguaggio usare . amore in gara e nella vita , rifugiati , politica , ed altre storie

vedendo sia indiretta che in differita le gare delle paraolimpiadi mi chiedo quali espressioni , in questo mondo ricco di umanità, usare o non usare o cancellare al mio vocabolario frasi come handicappato, invalido, disabile, diversamente abile, meglio persona con disabilità... .
Ma sopratutto come parlare Come parlare delle donne e dei transgender \ lgbtq alle Olimpiadi senza sembrare un viscido retrogrado.Credo  che  proverò  a seguire quanto    consigliato  da  questi  due   articoli     che     ho  trovato   cercando  una riuspostra   al mio  dubbio  in rete   : <<   Paralimpici, via ai Giochi: quali parole usare. >>  da  La Gazzetta dello Sport   sule  paraolimpiadi    di Rio   se   ho letto   bene  e   un altro articolo molto interessante << Disabili o diversamente abili : cosa usare per parlare di disabilità?>>  da  disablog.it    in sintesi se  ho ben  capito ecco  evitare le parole passive e vittimistiche. Usare un linguaggio che rispetti le persone disabili come individui attivi con controllo sulla propria vita. Ecco un elenco delle parole da evitare e la loro terminologia corretta:
  • Da evitare: Handicappato, disabile; da usare: persone disabili.
  • Da evitare: afflitto da, soffre di, vittima di; da usare: ha (seguito dal tipo di disabilità).
  • Da evitare: confinato su una sedia a rotelle, relegato su sedia a rotelle; da usare: utente su sedia a rotelle.
  • Da evitare: handicappato mentale, mentalmente carente, ritardato, subnormale; da usare: con difficoltà di apprendimento.
  • Da evitare: paralizzato, invalido; da usare: persona con disabilità o persona disabile.
  • Da evitare: spastico o spastica; da usare: persona con paralisi cerebrale.
  • Da evitare: malato di mente, pazzo; da usare: persona con una condizione di salute mentale.
  • Da evitare: sordo e muto, sordomuto; da usare: sordo, persona con problemi di udito.
  • Da evitare: cieco; da usare: persone con disabilità visive, persone cieche, persone non vedenti e ipovedenti.
  • Da evitare: un epilettico, un diabetico, un depresso e così via; da usare: persona con epilessia, diabete, depressione o qualcuno con epilessia, diabete, depressione.
  • Da evitare: nano; da usare: qualcuno con crescita limitata o bassa statura.

Dopo    queste  precisazioni Eccoci  al il terzo giorno di Paralimpiadi .
Se vi era già venuta nostalgia delle nazionali italiane di pallavolo, soprattutto  quella  femminile,da ieri ne  abbiamo un'altra da seguire e  a  cui eventualmente appassionarci una  squadra molto detterminata  ed 
combattiva   visto  che ha  sconfitto  quella  Francese    per   tre set  a  0  . 
 In questi  giorni    si stanno svolgendo   anche le  gare  In questi giorni pieni di gare di atletica leggera forse qualcuno si sarà chiesto: perché “leggera”? Serve a distinguerla da altri tipi di atletica? C'è un'atletica pesante? In effetti sì, o almeno c'era: fino a qualche decennio fa infatti a livello internazionale gli sport di lotta e il sollevamento pesi erano gestiti da un'unica federazione di atletica pesante, che peraltro in Italia ha ancora una rappresentanza  rispetto a  gli altri paesi europei  . Infatti  Le Olimpiadi moderne si ispirarono ai Giochi dell'antica Grecia, in cui erano previste sia gare di lotta che di sollevamento pesi: tutte le gare che erano state ispirate a quel modello vennero comprese nella definizione di atletica, che poi si distinse in “leggera” e “pesante”: non è comunque così sorprendente che si usi la parola “atletica” anche per questi sport, visto che viene dal greco antico athlos, che significa proprio “lotta”, “combattimento”. Nel corso del Novecento le discipline dell'atletica pesante si organizzarono in federazioni distinte e quindi si smise di chiamarle con quell'unica definizione. Oggi la distinzione tra “leggera” e “pesante” di fatto non è più rilevante .



 dalla  newsletter  paris   de  ilpost.it




La partenza della finale dei 100 metri maschili T47 disputata ieri, tra le gare d'atletica (David Ramos/Getty Images)


Un po' troppo entusiasmo allo Stade de France

In diverse discipline per ciechi alle Paralimpiadi – ne avevamo già parlato – c'è bisogno che il pubblico faccia silenzio: tra queste c'è anche il salto in lungo, dove ogni saltatore o saltatrice ha una guida posizionata in prossimità della buca con la sabbia che dà un'indicazione sonora per far capire dove l'atleta deve indirizzare la corsa. Ciascuno ha un suo metodo: ci sono guide che battono solo le mani, altre che danno indicazioni con la voce e altre ancora che fanno entrambe le cose. La guida dell'italoalbanese Arjola Dedaj, per esempio, dice molte volte «vai!».
Più l'atleta si avvicina al punto in cui deve saltare, più la guida aumenta il ritmo del segnale acustico per farle aumentare anche il ritmo della corsa. La guida deve poi spostarsi in tempo dalla traiettoria di corsa per evitare che l'atleta le finisca addosso (alcune lo fanno molto all'ultimo momento).
Ieri durante la finale femminile della categoria T11 (che è appunto quella per saltatrici cieche) tutte queste operazioni sono state molto complicate: il pubblico dello Stade de France – dove si svolgono le gare – era molto esaltato per l'atletica, pure troppo, e faceva un gran rumore anche nei momenti in cui si chiedeva silenzio. Il personale sugli spalti non riusciva a zittire le persone, e alcune atlete hanno dovuto aspettare molto tempo prima di ogni salto. È stato forse il primo grande intoppo organizzativo di queste Paralimpiadi.
Arjola Dedaj è stata tra le atlete penalizzate da questa situazione e a tratti è sembrata piuttosto sconfortata. Alla fine è arrivata quarta con un salto di 4,75 metri, a un centimetro dal terzo posto: un ottimo risultato soprattutto se si considera che ha 42 anni e questa sarà con ogni probabilità la sua ultima Paralimpiade. Nelle sue gare Dedaj è spesso tra le più fotografate per via delle eccentriche mascherine che indossa sugli occhi: tutte le saltatrici cieche ne hanno una, ma nella gran parte dei casi sono oggetti del tutto anonimi. Ieri ne aveva una a forma di farfalla che è molto piaciuta (non è l'unica atleta fantasiosa, comunque).


La mascherina a forma di farfalla usata ieri da Dedaj (Julian Stratenschulte/dpa)




  Amore   e  amicizia 

Alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi Tony Estanguet, presidente del comitato organizzatore di Parigi 2024, aveva celebrato con una certa fierezza un record dell'edizione che si era appena conclusa: era stata, aveva detto, quella con più proposte di matrimonio di sempre, ben 6. Secondo Estanguet il record era da attribuire in qualche modo all'influenza di Parigi, che lui definiva la città dell'amore per eccellenza.
Lì per lì quella frase di Estanguet era sembrata semplicemente uno dei tanti espedienti retorici per celebrare i Giochi che lui stesso aveva organizzato, ma in effetti per qualche ragione difficilmente spiegabile a Parigi 2024 le storie d'amore e relazioni tra gli atleti sembrano molto più visibili del solito (i social c'entrano, certo), e la tendenza sta continuando anche a queste Paralimpiadi. C'è stata addirittura una storia che ha fatto da “ponte” tra i due eventi, molto raccontata: quella della recente campionessa olimpica di salto in lungo Tara Davis e del marito Hunter Woodhall, atleta paralimpico specializzato nelle gare di velocità. È probabile che il video di lui che segue molto emozionato la finale di lei, e che piange dopo la vittoria, vi sia già capitato sotto mano.
Dopo di loro è stata la volta dei nigeriani Christiana e Kayode Alabi, che sono sposati e sono entrambi nella nazionale di tennistavolo a queste Paralimpiadi: è una storia d'amore piuttosto normale, in realtà, ma anche questa è finita un po' ovunque.
(Alex Slitz/Getty Images)
 Poi sono cominciate le proposte di matrimonio anche alle Paralimpiadi: la prima l'ha fatta fuori dalla mensa del villaggio olimpico il triatleta spagnolo Lionel Morales Gonzalez; la seconda, in una location forse un po' migliore, è stata fatta sui campi da badminton ieri mattina dal brasiliano Rogerio de Oliveira, che dopo una partita si è inginocchiato con in mano un anello e un cartello che diceva «Edwarda vuoi sposarmi?». E siamo solo al secondo giorno.
 per  altre  storie   d'amore  ma  anche  d'amicizia  eccovi altri   url :

  come   nelle  olimpiadi non  paraolimpiche   anche   il quarto   posto  o   non arrivare  a medaglia   può  essere  prezioso     soprattutto  in queste  parolimpiadi  le  cose    storie   \  vicende    sono  più sofferte  di  noi    che  abbiamo  problemi non invalidanti  

   sempre  dalla  Nw   pari  de  ilpost.it 


Eliminata con stile


Se siete tra quelli che si erano appassionati all'inaspettata coolness di certi tiratori di pistola alle Olimpiadi, allora forse vorrete almeno sapere qualcosa di lei: Asia Pellizzari, 22enne tiratrice con l'arco trentina che stamattina è stata eliminata agli ottavi di finale della categoria W1. Anche se è molto giovane Pellizzari è già alla sua seconda Paralimpiade e ha diversi titoli nei tornei internazionali: non è difficile immaginare che la ritroveremo in altre edizioni dei Giochi. Nel frattempo potete cominciare ad appassionarvi alla sua posa molto fotogenica di quando fa scoccare la freccia dall'arco.

In quanto
(Dal sito del Comitato paralimpico italiano)


Il tiro con l'arco è il primo sport paralimpico di sempre, e anche quello dov'è ormai comune che gli atleti con disabilità gareggino con quelli normodotati.

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  da   Open 30 Agosto 2024 - 16:42

Paralimpiadi di Parigi, atleta tunisino boicotta la sfida di bocce con un israeliano: «È per la causa palestinese»

                         di Ugo Milano

EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON I Alcuni portabandiera durante la cerimonia di chiusura di Parigi 2024, Francia, 11 August 2024.




Achraf Tayahi non si è presentato alla gara con lo sfidante Nadav Lev



Un atleta tunisino, Achraf Tayahi, ha deciso di boicottare la gara di bocce contro lo sfidante israeliano Nadav Lev per dare voce alla «causa palestinese». Una scelta, quella portata avanti dall’atleta, che in modo automatico lo esclude dalle competizioni alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Decisione che per il tunisino «rappresenta una vittoria per la causa». A riferirlo è stata una fonte della delegazione tunisina al sito di informazione Al-Araby Al-Jadeed. Lev approda quindi alla fase successiva dove incontrerà stasera il brasiliano Maciel Santos. Non è la prima volta che lo scontro tra Tel Aviv e Hamas approda a Parigi. Già durante lo svolgimento delle Olimpiadi era circolato un video della propaganda iraniana in cui si criticava la partecipazione di Israele ai Giochi.


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Parigi, 30 agosto 2024 – Le Paralimpiadi di Parigi 2024, già alla seconda giornata di finali, hanno fatto segnare un momento storico, con la prima medaglia vinta dal Team Rifugiati. È accaduto nel parataekwondo femminile (categoria 47 kg), con il bronzo ottenuto da Zakia Khodadadi, ragazza afghana, nata e vissuta fino al 2021 nella provincia di Herat, da dove venne evacuata tre anni fa dopo il ritorno al potere dei talebani. Infatti Zakia Khudadadi porta con sé molti titoli che potrebbero
appesantirla nella vita quotidiana: rifugiata, donna, persona con disabilità.Anche a causa della sua disabilità (è nata senza l’avambraccio sinistro), e non solo per questioni politiche ma culturali, fatte di discriminazioni, già da ragazzina Khodadadi – che oggi vive e si allena proprio a Parigi – aveva dovuto vivere una quotidianità molto difficile in Afghanistan, sino a pensare addirittura al suicidio ancora bambina. “Ho combattuto per anni per dimostrare che quella non fosse una limitazione”, ha detto in una recente intervista al sito ufficiale delle Paralimpiadi, e se in qualche modo era riuscita a uscire da quella situazione, nulla ha potuto contro le privazioni imposte dal regime talebano.



Ma questo, a Parigi 2024, le ha consentito di realizzare il sogno di una medaglia paralimpica, e di farlo entrando appunto nella storia avendo portato il primo alloro al Team Rifugiati. Lo scorso 9 agosto, anche alle Olimpiadi era arrivata la prima medaglia nella storia del Team Rifugiati: a ottenerla era stata ancora una volta una donna, la pugile Cindy Ngamba (bronzo nei pesi medi), camerunense fuggita dal proprio Paese, dove avrebbe rischiato l’arresto a causa della sua omosessualità. Oggi vive in InghilterraQuando le è stato chiesto quale sia il titolo più pesante da portare, l'atleta nata in Afghanistan che giovedì (29 agosto) ha vinto la prima medaglia in assoluto per la Squadra Paralimpica dei Rifugiati, non ha esitato a rispondere: donna.
“Per me, il bronzo, è come l'oro perché vengo in Francia. Prima ero in Afghanistan e in Afghanistan non era possibile (praticare) questo sport”, ha dichiarato Khudadadi a Olympics.com dopo aver festeggiato la sua medaglia nel Para taekwondo K44, classe -47 kg.
L'atleta 25enne è stata evacuata dall'Afghanistan dopo che i Talebani hanno preso il potere nel suo Paese nell'agosto 2021. All'epoca, Khudadadi si stava preparando a fare il suo debutto Paralimpico a Tokyo 2020, dove è diventata la seconda atleta donna a rappresentare l'Afghanistan ai Giochi Paralimpici e la prima donna Paralimpica del Paese da Atene 2004.
Come atleta donna, Khudadadi ha subito minacce di morte in Afghanistan ed è stata evacuata da Kabul dopo la presa del potere, una settimana prima dell'inizio di Tokyo 2020, insieme al velocista Hossain Rasouli. In seguito si è stabilita a Parigi, in Francia, e ha partecipato ai Giochi Paralimpici del 2024 come unica atleta donna della Squadra Paralimpica dei Rifugiati, composta da otto membri.
Simbolicamente, è stata un'allenatrice donna, la medaglia d'argento di Rio 2016 Haby Niare, a guidarla verso lo storico podio. Niare è stata anche la prima a correre a congratularsi con un'emozionata Khudadadi dopo il suo storico risultato.
“Sono così emozionata. Sono così felice perché questo è il mio sogno”, ha detto Khudadadi. “Oggi ho vinto una medaglia di bronzo e sono la prima donna Paralimpica rifugiata (medagliata) al mondo e ho vinto una medaglia di bronzo. Questo per me è un sogno. E ora sono in un sogno”.


29.8.24

L’importanza della relazione l'esempio l'esempio, Julie Marano, che è guida della paratriatleta non vedente Annouck Curzillat.e della forza di volontà il caso di Sheetal Devi, l’arciera senza braccia

Da  Labodif





Come ad ogni Paralimpiade vedremo, insieme alle atlete e agli atleti dei Giochi Paralimpici, le loro guide. Quelle magnifiche persone che non vincono la medaglia, non appaiono sulla foto ufficiale.
Ma sono accanto.
Non dietro, accanto.
Come, ad esempio, Julie Marano, che è guida della paratriatleta non vedente Annouck Curzillat.
Julie si lancerà nella Senna insieme ad Annouck.
Ha messo la sua carriera “fra parentesi” per dedicarsi completamente alla coppia sportiva che forma con l’atleta di 32 anni, non vedente dalla nascita, vincitrice della medaglia di bronzo a Tokyo.
Insieme hanno vinto i campionati del mondo. Insieme a Parigi faranno 750m a nuoto, 20 km in bicicletta, e 5 km di corsa a piedi. “Lavoriamo tutti i giorni per sviluppare una buona comunicazione, per fare, in due, come fossimo una” dice Julie. Il nuoto sarà la prova più tecnica da affrontare in due: “Legate una all’altra da un elastico fissato sulla coscia, dovremo nuotare fianco a fianco, senza toccarci, senza intralciarci. Ogni volta che passeremo le boe, le indicherò come virare, a quanti gradi, e in quale direzione”.
Claudine Llop, sessantenne, è assistente di Aurélie Aubert, 26 anni, affetta da paralisi cerebrale dalla nascita. Gareggeranno insieme ai Giochi Olimpici nella disciplina bocce. Claudine sposta la carrozzina di Aurélie, prepara le bocce, gliele porge.
E molto di più: “Siamo in simbiosi. Quando qualcosa non le va, lo sento, e viceversa. Da febbraio, per i Giochi, siamo insieme 24 ore su 24, ci alleniamo 11 ore a settimana. Spero che i Giochi permetteranno di dimostrare che atleti e atlete paralimpici meritano tanto quanto gli altri”.
Diremmo che meritano persino di più.Perché svelano l’aspetto che ci affascina di più.
Rendere visibile l’importanza della relazione.

 e da  https://www.vanityfair.it/





Parigi sono iniziate le Paralimpiadi e ci sono tanti campioni a caccia di una medaglia. Tra loro, Sheetal Devi, una ragazza di appena 17 anni, ma con le idee chiare e tanta forza di volontà. Sheetal è un’arciera e farà del suo meglio per provare a portare a casa la medaglia d’oro. Nata nel distretto indiano di Jammu, al confine col Pakistan, questa atleta per scagliare le sue frecce usa la gamba destra, una spalla e la bocca. Sheetal, infatti, non ha le braccia a causa della focomelia, una malformazione congenita degli arti.La sua passione è sempre stata il tiro con l’arco e così, a forza di provare soluzioni, è arrivata a meta. Nel corso degli anni, alcuni allenatori avevano consigliato a Sheetal Devi di utilizzare delle protesi, ma la giovane indiana non è mai stata convinta che quella fosse la strada giusta da seguire.Poi, un giorno, ecco l’esempio perfetto. Matt Stutzman, un arciere senza braccia, conquista la medaglia d’argento alle Paralimpiadi di Parigi 2012 facendo il suo lavoro solo con le gambe.Da quel momento, tanti allenamenti e prove, forza di volontà e tenacia. E i risultati arrivano. Sheetal migliora così tanto da conquistare l’argento nell’ultima edizione dei campionati del mondo paralimpici svoltisi in Repubblica Ceca a luglio 2023.


«È incredibile, quando penso al passato e al percorso che ho fatto per arrivare fin qui. All’inizio pensavo fosse impossibile, quando mi allenavo le gambe mi facevano molto male. Adesso il mio sogno può avverarsi. Ho sempre pensato che il massimo sarebbe vincere un oro olimpico. Voglio salire sul gradino più alto del podio».Intanto, il Comitato Paralimpico l’ha nominata «giovane atleta dell’anno 2023» e il governo indiano l’ha premiata con il riconoscimento Arjuna per i suoi eccezionali risultati sportivi. «Sheetal non ha scelto il tiro con l’arco, è il tiro con l’arco che ha scelto lei», afferma Abhilasha Chaudhary, uno dei due suoi allenatori. «Credo che nessuno abbia limiti», dice Sheetal Devi, «si tratta solo di desiderare una cosa con tutto il cuore e impegnarsi al massimo. Se ce l’ho fatta io, può farcela chiunque».

19.7.24

diario di bordo n63 anni II . amore , matrimoni, divorzi . donne che Viaggiano da sola per il mondo, consigli per le ragazze, ubblicità non sessiste











Un video commovente che cattura l’apparente istinto protettivo di un cane nei confronti del suo fratellino felino ha conquistato TikTok. Il video è stato visto ben 2,1 milioni di volte dalla sua prima pubblicazione.


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La rivalità fra cani e gatti esiste davvero?
Un cucciolo protettivo

Nel filmato, un cane e un gatto sono sdraiati su un divano vicino a una finestra con delle grate. Un altro cane all’esterno preme giocosamente contro il vetro, provocando una risposta immediata dal cane all’interno, che abbaia.  se  non lo  doveste  vedere lo  trovate qui

@lydsbidss

thats her cat fr ♬ original sound - Ambaii Lewa Mundu

Accompagnando il post c’è una didascalia che afferma il legame tra il cane e il gatto, dicendo: «Questo è il suo gatto per davvero!» Questa dimostrazione di affetto non è del tutto inaspettata, poiché la ricerca suggerisce che, nonostante gli stereotipi secondo cui gatti e cani sarebbero nemici mortali, molti condividono relazioni armoniose quando vivono insieme.Sebbene cani e gatti possano “parlare” una lingua diversa, è comune che giochino e dormano insieme in modo abbastanza armonioso, suggerendo una comprensione reciproca.Gli utenti di TikTok sono stati rapidi nell’esprimere la loro adorazione per il momento commovente catturato nel video virale. Un video commovente che cattura l’apparente istinto protettivo di un cane nei confronti del suo fratellino felino ha conquistato TikTok.
Il video è stato visto ben 2,1 milioni di volte dalla sua prima pubblicazione.

Un cucciolo protettivo
Nel filmato, un cane e un gatto sono sdraiati su un divano vicino a una finestra con delle grate. Un altro cane all’esterno preme giocosamente contro il vetro, provocando una risposta immediata dal cane all’interno, che abbaia.l gatto, momentaneamente sorpreso dal trambusto improvviso, si ritrae prima che il video finisca.

Accompagnando il post c’è una didascalia che afferma il legame tra il cane e il gatto, dicendo: «Questo è il suo gatto per davvero!»
Questa dimostrazione di affetto non è del tutto inaspettata, poiché la ricerca suggerisce che, nonostante gli stereotipi secondo cui gatti e cani sarebbero nemici mortali, molti condividono relazioni armoniose quando vivono insieme.
Sebbene cani e gatti possano “parlare” una lingua diversa, è comune che giochino e dormano insieme in modo abbastanza armonioso, suggerendo una comprensione reciproca.
Gli utenti di TikTok sono stati rapidi nell’esprimere la loro adorazione per il momento commovente catturato nel video virale.
La maggior parte dei commenti ha elogiato la natura protettiva del cane e la reazione adorabile del gatto.

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 Un gesto d'amore fraterno che ha permesso alla giovane di potersi costruire una famiglia, di realizzare un desiderio che teneva nel cuore ormai da tempo: Adam ha

25 anni, di poco più piccolo rispetto alla sorella Jade, e ha donato il suo sperma affinché lei potesse avere un bambino con la moglie. Poco fa la gravidanza è giunta al termine e il ragazzo ha potuto conoscere suo nipote, che è anche suo figlio biologico, e tenerlo tra le braccia. Un incontro commovente, fatto di sorrisi e felicità: «È un neonato allegro, pieno di gioia, e questa esperienza mi ha fatto avvicinare ancor di più a mia sorella e alla sua partner». 

 

Il gesto di Adam

Jade e la sua compagna Eefje, di 30 anni, hanno provato per anni ad avere un bambino ma il processo per trovare un donatore si è rivelato estremamente complicato. Adam è stato loro accanto sin dall'inizio per offrire supporto e ha potuto assistere alla frustrazione delle due donne in prima persona, per questo la scelta di dar loro il proprio sperma è stata «semplice, la cosa più giusta da fare», racconta al New York Post. La sorella di Adam è una ricercatrice e sviluppatrice, mentre Eefjie una veterinaria, e non hanno mai rinunciato al loro desiderio di costruire una famiglia insieme e avere un figlio. Purtroppo, molti dei donatori che si sono fatti avanti insistevano per un concepimento "naturale" del bambino, anziché tramite inseminazione artificiale. Adam racconta che uno dei possibili donatori ha rescisso il contratto proprio per questo motivo: «Voleva andare a letto con la compagna di mia sorella, e loro non avrebbero mai potuto accettare una condizione simile».Jade ammette che è stato un percorso complicato, una montagna russa di emozioni: «È una situazione che ti rende aperta, vulnerabile. Essenzialmente stai accogliendo uno sconosciuto nella tua vita, e dipendi da quello sconosciuto per realizzare il tuo sogno più grande». Alla fine, la coppia ha proposto ad Adam di fare da donatore: «Avevano scherzato sull'argomento in precedenza, ma non credevo lo volessero sul serio. Per me è stato semplice, nulla di che. Sono anch'io queer e non penso avrò mai figli miei. Ora sono zio, ma mi chiama "bibi". È un bimbo molto allegro e vivace».


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Dubai, il divorzio social della principessa


La principessa di Dubai «ripudia» il marito con un post su Instagram: «Visto che sei impegnato con altre compagnie, divorzio»© Social (Facebook etc)

La principessa di Dubai divorzia dal marito. E lo fa con un post su Instagram. Negli Emirati Arabi Uniti, un Paese non certo all'avaguardia per quanto concerne i diritti civili, la mossa della principessa Sheikha Mahra bint Mohammed bin Rashid al Maktoum non passa di certo inosservata: «Caro marito - scrive in un post, in lingua inglese, su sfondo nero - visto che sei occupato a passare il tempo con altre compagnie dichiaro qui il mio divorzio. Divorzio da te, divorzio da te, divorzio da te. Stammi bene. La tua ex moglie».



Da parte del marito, l'imprenditore Mana bin Mohammed bin Rashid, non è al momento pervenuto alcun commento. Silenzio anche da parte della famiglia reale di

Dubai. Le parole usate da Sheikha Mahra, fra l'altro, non sono casuali: la ripetizione per tre volte della formula «divorzio da te, divorzio da te, divorzio da te» è quella del cosidetto «ripudio islamico», tradizionalmente riservato solo agli uomini. Le donne, a Dubai, normalmente possono chiedere il divorzio, ma solo con il «consenso» del marito. 

Regola che, evidentemente, non vale per la principessa. Sheikha Mahra è figlia del sovrano e presidente dell'Emirato di Dubai, Mohammed Bin Rashid al Maktoum, considerato uno degli uomini più ricchi al mondo e protagonista in passato di alcuni casi controversi di cronaca, alcuni dei quali legati alla gelosia per le sue figlie. Possibile, quindi, che dietro questo divorzio ci sia proprio lui. Sheikha Mahra e Mana bin Mohammed bin Rashid erano sposati da soli 3 mesi.


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«Il matrimonio più pacchiano di sempre: la sposa è cuoca ma quando abbiamo visto il "menù" siamo rimasti di sasso»



Quando si parla di matrimonio viene quasi naturale pensare a un budget consistente tra la location, i fiori, le decorazioni, il menù, l'abito, il fotografo e chi più ne ha più ne metta. Sembra quasi che per poter dichiarare il proprio per sempre non basti essere innamorati e pronti a cominciare una vita insieme, ma sia necessario fare un investimento, e se non si è in grado di sostenerlo si rischia di ricevere critiche e giudizi aspri. C'è chi però è più interessato al risparmio che agli eventuali commenti, come una coppia che è stata poi "denunciata" online per aver organizzato il matrimonio più pacchiano di sempre con un menù inaspettato e decisamente economico. 
Matrimonio all'insegna del risparmio
A un paio di invitati non è proprio andato giù il menù del matrimonio, e hanno deciso di lamentare la portata a sorpresa sul web. Migliori amici, sì, e sin dall'infanzia, ma anche i rapporti più duraturi e forti si possono incrinare: a quanto pare basta servire un pasto economico - e non il menù promesso - al banchetto di nozze. Come si può leggere nel racconto della donna, al momento di rispondere all'invito era stato chiesto agli ospiti di scegliere tra «pollo e pesce», mentre hanno ricevuto tutt'altro. Tutti in tiro ed eleganti, come specificato sull'invito, la coppia si è presentata alla cerimonia e si è trovata davanti un banacone per servirsi da soli e prendere del... «ramen istantaneo. Ci sono i noodles precotti, il prosciutto a cubetti, qualche verdura qui e là e delle buste di patatine formato bambini. La ciliegina sulla torta? Ognuno si sarebbe dovuto portare le bibite da casa. All'inizio abbiamo evitato di giudicare, pensando che gli sposi fossero in una brutta situazione...».

«E invece no! - continua la donna -. Hanno entrambi una carriera di successo (la sposa è una chef professionista, non è ironico?), hanno una casa di proprietà e se ne vanno a Cuba per la luna di miele. Sono stata a un sacco di matrimoni e non sono affatto una tipa snob, ma questo è il più pacchiano mai visto». Un utente ha fatto notare che forse c'è stato un problema col catering e hanno dovuto rimediare all'ultimo, ma la donna risponde: «Si potrebbe pensare, ma no, è venuto fuori che hanno organizzato un vero pasto per un gruppetto di persone e fregato tutti gli altri ospiti, senza avvertire né scusarsi».

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Viaggiare soli, per quanto affascinante e liberatorio, può essere una sfida non da poco. Ma oggi gli strumenti per prendere spunto da chi fa del viaggio zaino in spalla un vero e proprio mantra non mancano, tra social, blog e giornali. Tutto da prendere con le pinze, sia chiaro, perché la scelta del Paese (o dei Paesi) in cui decidere di trascorere giorni, settimane o mesi, dipende in gran parte da chi quel viaggio lo vivrà sulla propria pelle. E farlo da soli è una scelta che va ponderata bene. Tra chi ha deciso di dare qualche consiglio c'è Sierra Belle, creative account director statunitense di 26 anni che ha ha visitato tantissimi paesi in giro per il globo, decidendo di dare qualche suggerimento alle ragazze che come lei vogliano regalarsi una traversata in solitaria. Le sue parole, raccolte da Luxury Travel Daily e riprese dal Daily Mail, potrebbero rivelarsi molto utili. Sierra, inolte, racconta spesso i suoi viaggi e le sue avventure su Instagram, dove conta 22mila follower.

 

È giusto essere scortesi

Secondo la 26enne, «più sembri sicuro di te quando esplori un posto nuovo, meno sarai un bersaglio». Inoltre, è importante evitare di rivelare qualsiasi informazione che possa rendere più vulnerabili. «La quantità di informazioni che condividete dipende esclusivamente da quanto vi sentite a vostro agio nella situazione e il vostro istinto vi sarà di grande aiuto. Soprattutto come donna, è facile sentire la pressione di essere educati e dare alle persone il beneficio del dubbio», racconta.

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di Barbara Gubellini

In un periodo in cui, da ogni parte, sembra sgretolarsi la certezza di diritti conquistati da parte di noi donne, finalmente una buona notizia.
Stavo guardando la televisione, ieri, e sono rimasta piacevolmente sorpresa alla vista di due spot pubblicitari.
Si tratta di un famosissimo detersivo per il bucato. Ebbene, nel primo spot, una giovane donna si appresta ad uscire di sera, tutta in ghingheri. Si avvicina al marito che tiene in braccio un bambino piccolo. L’uomo dà per un attimo il bimbo in braccio alla madre dicendo “saluta la mamma” e il piccolo fa un rigurgito che compromette il vestito di lei. La donna si cambia e comunque esce. Il marito fa il bucato di corsa, asciuga a e stira il vestito. Quando, a fine serata, la donna rientra a casa, trova l’uomo appisolato sul lettone con il bambino sulla pancia e il vestito appeso e pulito. Nel secondo spot, c’è invece un uomo anziano che prepara con cura le divise di una squadra sportiva. Anche lui lava, stira e con orgoglio  ripone questi abiti negli spogliatoi. Quando finalmente entra la squadra, scopriamo che si tratta di atlete donne: tante ragazze accudite da un uomo
Io ho trovato questi spot un passo avanti enorme. Sono lo specchio della realtà? Sicuramente no. Non credo, ad esempio, sia così diffusa una coppia paritaria come quella mostrata, ed è proprio il motivo per cui c’è bisogno di esempi come questi, che, in modo subliminale, propongono un modello nuovo.La strada è in salita, ma almeno abbiamo iniziato a camminare.

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Giornalista, autrice e conduttrice tv.


«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...