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8.9.12

quando l'incultura diventa cultura il caso dei lucchetti dell'amore di Moccia [ reprise \ parte 2 ] ]

Ringrazio vivamente marino niola per avermi mandato via email l'articolo di repubblica da lui scritto il 7\IX\2012 e precedentemente  citato tramite  collegamento ipertestuale   nel mio post precedente . Esso conferma   quello che  ho scritto  nel precedente  post


Via i lucchetti dell’amore da Ponte Milvio. Stanno meglio al museo. Il comune di Roma ha deciso di trasferire la ferraglia che appesantisce il celebre monumento per restituire dignità a uno dei luoghi più rappresentativi  di Roma. 


Fin qui tutto bene. Il problema è la destinazione scelta per ospitare la singolare collezione. E cioè lo storico museo Pigorini, tempio della preistoria, dell’etnografia e dell’arte primitiva. È una decisione che lascia più che perplessi. Perché per un verso considera i catenacci lesivi del decoro del ponte. E per l’altro li ritiene degni di entrare in un museo. Trattandoli dunque come oggetti d’arte. Delle due l’una. O i ferri sono delle testimonianze puerili. Delle forme oggettive di vandalismo, come dice chiaramente il codice. E allora il loro posto non è certo il Pigorini ma la fonderia. O sono arte. E allora perché non lasciarli là dove l’ingombrante installazione collettiva si è accumulata?
È l’ennesimo schiaffo al patrimonio artistico, all’idea stessa di bene culturale, in nome di una malintesa patrimonializzazione degli usi e costumi di una tribù giovanile. Neanche di tutte. Con questo criterio qualunque comportamento diventa una testimonianza da salvaguardare. Anche una moda. Anche una sottocultura. Rimosse in nome del decoro monumentale e promosse in nome dell’antropologia. Di un’idea malintesa dell’antropologia che invece è una cosa seria. E prima di parlarne alla leggera bisognerebbe aver letto più libri di quanti ne abbia scritti il simpatico Moccia. Altrimenti si rischia di nobilitare come cultura popolare quel che è semplicemente sottocultura. Che non va né blandita, né assecondata, ma chiamata col suo nome.
Oltretutto la musealizzazione dei pegni d’amore diventa la legittimazione ufficiale di un fenomeno incivile che molte amministrazioni cercano faticosamente di arginare. Come quella di Firenze che ha proibito tassativamente di catenacciare Ponte Vecchio. In questo modo si dà licenza d’uccidere ai futuri lucchettatori. Che torneranno in massa a ingombrare Ponte Milvio e altri luoghi d’arte sentendosi per di più esaltati come espressionisti dei sentimenti. Dei Duchamp del batticuore. Per guadagnarsi così una corsia preferenziale per il museo. Con l’avallo di autorevoli studiosi pronti a cavalcare l’onda giovanilista. E a riconoscere significato artistico e dignità culturale a qualsiasi esternazione adolescenziale.
Ma quel che stupisce non è tanto il popolo del lucchetto, che una sua ragion d’essere ce l’ha. Da che mondo è mondo i ragazzini fanno i ragazzini. E qualche volta i ragazzacci. Sono invece le autorità che non possono fare ragazzate. E usare il museo per risolvere cerchiobottisticamente una questione imbarazzante. E trasformare una istituzione gloriosa in una discarica. Mostrando di confondere l’arte primitiva con un’idea primitiva dell’arte.

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