Colonello dei carabinieri contro la paura: "La 'ndrangheta è un tumore, la Calabria merita di più"
Vista Agenzia Televisiva Nazionale
Pubblicato il 12 apr 2017
(Agenzia Vista) - Reggio Calabria, 12 Aprile 2017 - Si è rivolto ai ragazzi presenti in Chiesa per la commemorazione di Rosario Iozia, brigadierie ucciso a 25 anni dalla mafia, e ha scandito la parola 'ndrangheta: "Non abbiate paura di usare questa parola, diitela, non l'ha detta nessuno oggi in Chiesa". Così il colonnello dei carabinieri Giancarlo Scafuri ha voluto ricordare il collega e lanciare un monito contro la più potente organizzazione criminale italiana. /
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da Daniela Maria Tuscano
Profezia e Liberazione
Ieri alle 17:48
Milano - “Misericordia, riconciliazione e perdono” sono le basi sulle quali costruire una convivenza non solo “fra cristiani e musulmani”, ma fra tutte le etnie, le razze e le confessioni che animano il Libano e il Medio oriente. Tensioni, litigi, incomprensioni “accadono anche fra noi fratelli cristiani”, ma ciò che permette di “riconciliarci e continuare a vivere insieme è l’esperienza del perdono”. È quanto racconta Joseph Nohra (nella foto, il primo da sinistra), cristiano maronita libanese, che ha sperimentato in prima persona le violenze della guerra nel Paese dei cedri. “La mia casa sorge poco distante la chiesa di san Michele, dove ha avuto inizio e dove si è scritta la parola fine al conflitto. Io stesso sono stato ferito da un proiettile, ma mi sono salvato”.
AsiaNews lo ha incontrato a Milano (Italia), in occasione del convegno “Marhaba – Dio è amore” promosso ai primi di maggio dalla Fondazione Ambrosiana San Marco. All’evento sono intervenuti circa 50 fra sacerdoti, studenti e laici legati al seminario Redemptoris Mater del Libano, ispirato al Cammino neocatecumenale fondato da Kiko Argűello.
Come ripeteva san Giovanni Paolo II, il Libano “è questa missione di pace e di convivenza” e “io stesso ho sperimentato odio e ferite, fisiche e psicologiche”. “Tuttavia, in un secondo momento - aggiunge - ho sentito il bisogno di andare loro incontro, partendo proprio da quella chiesa e da quella parrocchia in cui sono stato colpito. Mi sono detto che questo è il luogo in cui voglio vivere la fede e compiere la missione di testimonianza verso i musulmani che mi hanno colpito”.
Joseph ha 59 anni ed è originario di Beirut, capitale del Libano, dove vive assieme alla moglie Barbara e ai loro tre figli. Membro della Chiesa maronita, la comunità cristiana più importante del Paese dei cedri, egli è responsabile dei neocatecumenali della parrocchia di Shiah, membro del consiglio economico pastorale e presidente dell’associazione commercianti di quartiere. Ed è uno dei fautori del trasferimento del futuro seminario Redemptoris Mater a Shiah: un luogo di frontiera fra la città cristiana e quella musulmana, antica linea di divisione fra libanesi un tempo nemici.
“La presenza cristiana in Medio oriente - sottolinea - è fondamentale. Io sono cristiano, provengo da una famiglia cristiana che vuole vivere in pace e sicurezza nel proprio Paese. La partecipazione alla vita e alle attività della parrocchia hanno dato un senso profondo alla mia vita”. “Il Libano, come gli altri Paesi del Medio oriente, non ha bisogno solo di politica - avverte - ma necessita di persone di fede che abbiano sperimentato il valore della riconciliazione e del perdono”.
“A causa della guerra - ricorda Joseph - volevo andarmene. Ma ho voluto ascoltare e credere alla parola di Dio, sperimentare la Sua presenza e la forza che deriva dall’appartenere alla Chiesa. Una fede rafforzata grazie all’incontro con i neocatecumenali e l’esperienza del cammino. Con i nostri gesti vogliamo essere esempio e testimonianza verso i nostri fratelli musulmani. Vogliamo mostrare che da un luogo di morte, può nascere un seme che porterà frutto nell’opera di evangelizzazione”.
Oggi il pensiero della fuga, della paura, è ormai alle spalle anche se le difficoltà non sono certo archiviate. “Qui, a Milano - conclude - mi sento come un pesce fuor d’acqua, perché sono lontano dal Libano, dalla mia terra, dal Medio oriente. Ogni volta che esco dai suoi confini ho paura: per questo non lo lascio mai per turismo, ma solo se viene chiesto da una missione di testimonianza. Certo, in Libano come in altre zone del Medio oriente ci sono famiglie cristiane che hanno paura di restare. La mia paura, invece, è proprio quella di dover abbandonare la mia terra”.
AsiaNews 15/5/2018
Ieri alle 17:48
Milano - “Misericordia, riconciliazione e perdono” sono le basi sulle quali costruire una convivenza non solo “fra cristiani e musulmani”, ma fra tutte le etnie, le razze e le confessioni che animano il Libano e il Medio oriente. Tensioni, litigi, incomprensioni “accadono anche fra noi fratelli cristiani”, ma ciò che permette di “riconciliarci e continuare a vivere insieme è l’esperienza del perdono”. È quanto racconta Joseph Nohra (nella foto, il primo da sinistra), cristiano maronita libanese, che ha sperimentato in prima persona le violenze della guerra nel Paese dei cedri. “La mia casa sorge poco distante la chiesa di san Michele, dove ha avuto inizio e dove si è scritta la parola fine al conflitto. Io stesso sono stato ferito da un proiettile, ma mi sono salvato”.
AsiaNews lo ha incontrato a Milano (Italia), in occasione del convegno “Marhaba – Dio è amore” promosso ai primi di maggio dalla Fondazione Ambrosiana San Marco. All’evento sono intervenuti circa 50 fra sacerdoti, studenti e laici legati al seminario Redemptoris Mater del Libano, ispirato al Cammino neocatecumenale fondato da Kiko Argűello.
Come ripeteva san Giovanni Paolo II, il Libano “è questa missione di pace e di convivenza” e “io stesso ho sperimentato odio e ferite, fisiche e psicologiche”. “Tuttavia, in un secondo momento - aggiunge - ho sentito il bisogno di andare loro incontro, partendo proprio da quella chiesa e da quella parrocchia in cui sono stato colpito. Mi sono detto che questo è il luogo in cui voglio vivere la fede e compiere la missione di testimonianza verso i musulmani che mi hanno colpito”.
Joseph ha 59 anni ed è originario di Beirut, capitale del Libano, dove vive assieme alla moglie Barbara e ai loro tre figli. Membro della Chiesa maronita, la comunità cristiana più importante del Paese dei cedri, egli è responsabile dei neocatecumenali della parrocchia di Shiah, membro del consiglio economico pastorale e presidente dell’associazione commercianti di quartiere. Ed è uno dei fautori del trasferimento del futuro seminario Redemptoris Mater a Shiah: un luogo di frontiera fra la città cristiana e quella musulmana, antica linea di divisione fra libanesi un tempo nemici.
“La presenza cristiana in Medio oriente - sottolinea - è fondamentale. Io sono cristiano, provengo da una famiglia cristiana che vuole vivere in pace e sicurezza nel proprio Paese. La partecipazione alla vita e alle attività della parrocchia hanno dato un senso profondo alla mia vita”. “Il Libano, come gli altri Paesi del Medio oriente, non ha bisogno solo di politica - avverte - ma necessita di persone di fede che abbiano sperimentato il valore della riconciliazione e del perdono”.
“A causa della guerra - ricorda Joseph - volevo andarmene. Ma ho voluto ascoltare e credere alla parola di Dio, sperimentare la Sua presenza e la forza che deriva dall’appartenere alla Chiesa. Una fede rafforzata grazie all’incontro con i neocatecumenali e l’esperienza del cammino. Con i nostri gesti vogliamo essere esempio e testimonianza verso i nostri fratelli musulmani. Vogliamo mostrare che da un luogo di morte, può nascere un seme che porterà frutto nell’opera di evangelizzazione”.
Oggi il pensiero della fuga, della paura, è ormai alle spalle anche se le difficoltà non sono certo archiviate. “Qui, a Milano - conclude - mi sento come un pesce fuor d’acqua, perché sono lontano dal Libano, dalla mia terra, dal Medio oriente. Ogni volta che esco dai suoi confini ho paura: per questo non lo lascio mai per turismo, ma solo se viene chiesto da una missione di testimonianza. Certo, in Libano come in altre zone del Medio oriente ci sono famiglie cristiane che hanno paura di restare. La mia paura, invece, è proprio quella di dover abbandonare la mia terra”.
AsiaNews 15/5/2018
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da
http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2018/05/16/
Taglia i ponti con lo Stato e si amministra da solo: ecco l'uomo che non paga ticket e imposte
Manzano, Giulio Michelizza ha scelto di diventare cittadino internazionale. Lo ha fatto per godere degli stessi diritti degli extracomunitari
di Luana de Francisco
MANZANO. A furia di assistere alle sfortune degli altri, rimasti senza casa, auto e dignità a causa dei debiti o della disoccupazione, ha maturato un sentimento di ripulsa al sistema, e in particolare al piano di accoglienza e assistenza agli immigrati, che lo ha portato a ribellarsi alle regole del Paese Italia e ad aderire alla lettera ai principi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Non sterili proteste, le sue, ma una cesura netta con il passato, per riappropriarsi della «legale rappresentanza del proprio soggetto giuridico», e poi, abbandonato lo status di “cittadino”, costituire un trust autodichiarato.
Da quel momento, Giulio Michelizza, 57 anni,
originario di Treviso e residente a Manzano, si amministra da solo. «Finalmente – afferma con soddisfazione – godo degli stessi diritti garantiti a chi sbarca con i gommoni».
Chi o cosa è lei, adesso?
«Sono diventato un soggetto di diritto internazionale, al pari degli extracomunitari. Per farlo, mi sono ripreso il soggetto giuridico che lo Stato aveva creato al momento della registrazione all’Anagrafe, con l’atto di nascita, rendendoci tutti debitori».
È provvisto di un documento d’identità?
«Certo: l’autocertificazione della qualità di legale rappresentante, riconosciuta dalla Prefettura e dal Comune di Manzano, in cui dichiaro di essere titolare unico e beneficiario universale del mio nome e cognome e di non riconoscere alcun contratto stipulato dalla “Republic of Italy corp” o terzo pretenzioso.
Perchè, ora, ad amministrarmi non è più lo Stato, ma il trust che ho costituito con alto obiettivo di scopo umanitario. E cioè, per proteggermi».
Cosa l’ha spinta?
«Premesso che è la nostra legislazione, con il Dpr 445 del 2000, a darci gli strumenti per farlo, ho cercato un modo per vedermi riconosciuti gli stessi diritti garantiti agli extracomunitari. Gente senza documenti che non paga i ticket in ospedale, viaggia gratis e riceve 35 euro al giorno».
Quindi non paga più le tasse?
«Io continuo a versarle, perchè sono un lavoratore dipendente (nel settore della sicurezza, ndr) e a farlo per me è il mio titolare. Ma molte altre persone che conosco non le pagano, perchè non esiste alcuna legge che obblighi a farlo. L’unica cosa che c’è è una Finanziaria che detta gli scaglioni. Alle Entrate, comunque, ho autodichiarato di essere esente da qualsiasi imposta».
Ha mai avuto problemi con la giustizia?
«Ho segregato tutti i miei beni nel trust, patente compresa. Finora sono stato fermato almeno cinque volte da polizia e carabinieri e a tutti ho esibito la comunicazione che ho presentato a prefetto e motorizzazione. In ospedale non sono ancora andato, ma quando capiterà, non pagherò il ticket.
Idem dicasi per i mezzi pubblici. La Dichiarazione universale dei diritti umani parla di salute e movimento, a prescindere dalla possibilità o meno di pagare il servizio».
“Eterna Essenza” e movimento no vax. Cosa ne pensa?
«In giro si trova di tutto. Ma molti dei genitori no vax hanno fatto una scelta oculata, creando un trust per inserirvi i soggetti giuridici dei propri figli e sottrarli così all’obbligo vaccinale».