Visto che nessuno per le celeberazioni per il 100 di Matteotti ha trattato questi temi tabù con profondità è evidente che fu : << Un eretico, inviso a destra e a sinistra >> ( articolo de il sito www.quotidiano.net/ del l 31\5\2024 ) . Infatti mi chiedo se avrebbero , fatto più bella figura a coltivare come fanno sempre l'oblio o a gettargli fango , che fare celebrazioni ipocrite di Giacomo Matteotti . Forse sarebbe stato meglio affidare un ritratto privato di Matteotti a Bruno Vespa . Ma a cosa serve informare 100 anni dopo la nazione che “l’insospettabile carica erotica delle lettere di De Gasperi alla moglie è assente in quelle di Matteotti”? Indegno anche Luciano Violante. L’ex magistrato, già responsabile giustizia del PCI, avrebbe potuto accennare al ruolo fondamentale dei giudici nel caso. Se sappiamo oggi molte cose sull’omicidio lo dobbiamo ai giudici Del Giudice e Tancredi. Mussolini li fece promuovere e sostituire con il cognato di Farinacci. Invece di ricordare l’importanza dell’autonomia della magistratura (tema attuale) Violante ha preferito fare esattamente quel che ci si aspetta ormai da Violante: un bel discorso sull'accettazione della diversità in Parlamento con la citazione di due nemici della democrazia. Prima il cattivo Hitler subito bilanciato dal cattivo Lenin.
Alla Camera Ignazio La Russa, Giorgia Meloni FOTO ANSA
E poi il richiamo all’insegnamento dell’ex MSI Pinuccio Tatarella. Magari c’entrava poco con Matteotti ma certo era musica per le orecchie di Meloni e La Russa.Lo storico Emilio Gentile è partito bene, a parte forse il plurale: “si conoscono esecutori, mandanti e moventi dell'omicidio di Matteotti”. Peccato che poi abbia messo tra parentesi la questione principale (“c’è chi dubita ancora che sia stato Mussolini a volerne la morte”). Gentile ha perso un’occasione. Non gli capiterà più di avere seduta davanti Giorgia Meloni, attenta come una scolaretta, alla quale spiegare perché era una bestemmia quel che disse nel lontano 1996 a 19 anni: “Mussolini è stato un buon politico”. Non gli capiterà più di poter svelare a La Russa che il mandante dell’omicidio del padre della democrazia è proprio quel signore pelato del quale conserva il busto in salone.Tutta la celebrazione di ieri è stata centrata sul discorso del 30 maggio 1924. Qualcuno ha fatto intendere che sia il movente. Nessuno ha detto che le ricerche dello storico Mauro Canali (non a caso mai citato) dimostrano il contrario: i killer arrivarono a Roma una settimana prima. Il movente non può essere quello anche se piace a tutti i politici. Alla fine il clima ipocrita della celebrazione ci rende simpatici i due studenti che si sono addormentati in tribuna. Uno si è svegliato solo quando il compagno - per evitare foto o reprimende - lo ha preso a gomitate. Forse il suo sonno critico era più degno di Matteotti di tanti discorsi.Degnissimo di Matteotti ieri è stato Alessandro Preziosi. La sua interpretazione magistrale del discorso del 30 maggio ha fatto rivivere il leader socialista sul suo scranno. E vedere Meloni e La Russa ascoltare quel Matteotti risuscitato denunciare una a una le violenze del fascismo è stata una scena indimenticabile. Immaginare Matteotti gridare quelle denunce nel 1924 davanti a quel Parlamento è stata una formidabile cartina di tornasole dello scarso coraggio di chi ieri aveva parlato prima di lui.
La cerimonia in Aula con Mattarella, diversi ministri ed ex premier. Standing ovation per l’attore Preziosi che ha letto un estratto dell’ultimo discorso del deputato socialista pronunciato il 30 maggio 1024
Il centenario di Matteotti alla Camera, Meloni: “Uomo libero e coraggioso, ucciso da squadristi fascisti”
di Concetto Vecchio
L’ha detto. Giacomo Matteotti “uomo libero e coraggioso”, venne ucciso “da squadristi fascisti”. Giorgia Meloni nomina le cose col loro nome, a Montecitorio, nel giorno del centesimo anniversario dell’ultimo discorso in Parlamento del deputato antifascista ucciso dalle squadracce di Mussolini. Un piccolo passo avanti. Un’affermazione ovvia, ma che ai tempi della destra fa persino notizia. “La lezione di Matteotti ci ricorda, oggi più che mai, che la nostra democrazia è tale se si fonda sul rispetto dell’altro, sul confronto, sulla libertà, non sulla violenza”.Montecitorio onora Matteotti. Cent’anni dopo. Il 30 maggio 1924 qui fece il suo ultimo discorso: una denuncia dei brogli e delle violenze dei fascisti alle elezioni dell’aprile precedente. Chiedeva l’annullamento del voto. Fu subissato di insulti dai fascisti. Venti giorni dopo, il 10 giugno, l’omicidio.In aula c’è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a cui il presidente Fontana fa vedere la piccola mostra di cimeli allestita in Transatlantico. Ci sono anche Ignazio La Russa e Giorgia Meloni, ma come un passo indietro. Tutti gli sguardi sono per lei, Giorgia. Che farà?
Parte la cerimonia. Parla Fontana. Dice che fu vittima dello squadrismo fascista. Poi l’annuncio: “Il posto che occupava Matteotti non sarà più assegnato ad alcun deputato”. Quarta fila da basso, a sinistra della presidenza. Il banco rimarrà vuoto. Come quando una società ritira la maglia di un campionissimo che ha dato tutto. “La sua morte non è stata vana”. Poi tocca a Bruno Vespa. Ne traccia un profilo intimo, familiare. Ricordo il Polesine poverissimo, la terra di Matteotti, nel quale si moriva di pellagra, tubercolosi, e da dove si emigrava in massa. Matteotti era un ricco che stava dalla parte dei poveri. Meloni sembra distratta, altrove. Nel successivo video si vede Sandro Pertini, che prese la tessera socialista nei giorni successivi alla morte di Matteotti, mentre dice: “Per la libertà bisogna pagare qualsiasi prezzo, anche quello della nostra vita”. Rumori sulle tribune. Possibile che Matteotti si riduca all’intimità, al biografismo familiare?
"Io vi accuso", i misteri e i segreti sulla morte di Giacomo Matteotti in un libro inchiesta che parla all‘Italia di oggi
Tocca allo storico Emilio Gentile inquadrare il delitto nella violenza fascista. “Si conoscono esecutori, mandanti e moventi. C’è chi dubita ancora che non sia stato Mussolini volere la morte del deputato socialista, ma non vi è dubbio che lo stesso Mussolini in questa aula il 3 gennaio 1925 si dichiarò orgogliosamente reo confesso per tutti i crimini e delitti commessi dal fascismo”. Molti, a destra, per anni hanno escluso una responsabilità del Duce. “Fu il delitto, con le sue conseguenze, a spingere il fascismo sulla via del totalitarismo o il delitto fu una conseguenza dello Stato asservito al partito fascista come lui lo definì?”. Gentile cita un articolo del Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, in cui il 3 maggio 1923 Matteotti venne definito “spregevole” e si minacciava di spaccargli la testa. Gentile quindi dà la risposta: il fascismo era già violenza vile con Matteotti in vita.Quindi tocca a Luciano Violante, che dice: “Proprio la storia di Matteotti ci insegna che le democrazie incapaci di decidere aprono i cancelli all’autoritarismo”. Le dittature non tollerano i Parlamenti. A un certo punto cita Pinuccia Tatarella che un giorno gli disse che “un conflitto in Parlamento ne evita uno nel Paese”. Meloni e La Russa sembrano rianimarsi. Si scambiano un’impressione. Finalmente si risentono a casa.
Quando l’attore Alessandro Preziosi, che legge l’ultimo discorso, ricorda che Matteotti chiedeva ai fascisti che lo contestavano di parlare “parlamentarmente”, l’aula scoppia in un applauso. La Russa non si accoda. E così finisce la giornata per Matteotti alla Camera. Martedì Mattarella deporrà una corona di fiori ai piedi del monumento sul Lungotevere dove venne assassinato. Dal fascismo.
IL primo caso si può riassumere oltre che per l'url recedente in due righe oppure da questo suo intervento
Varoufakis ostracizzato dal governo di Berlino per non farlo parlare su Gaza in una università , fa causa alla Germani . Eccole le famose " democrazie liberali "
il secondo riguarda la cancel culture in questo caso la storia italiana
https://www.larena.it 04 maggio 2024
Scritte del Ventennio sui caseggiati: Roverè non è l’unico caso In Val d’Illasi due citazioni di Mussolini dedicate all’impero d’Africa. Nella Bassa un motto dal suo diario di guerra
Scritte del ventennio
Scritte murarie e motti di propaganda che riconducono al Ventennio fascista campeggiano anche su altri edifici del Veronese. Sono quelli che alcuni chiamano i muri del Duce. Più di un esempio fa eco alla frase «Credere, obbedire, combattere» che si legge nella piazza di Roverè: esito di un recente restauro conservativo del caseggiato in via Dante Alighieri. Operazione che, tra l’approvazione e lo sdegno, ha fatto discutere. Nel Veronese si osservano varie testimonianze grafiche del Ventennio davanti alle quali passiamo magari distrattamente. Quando ancora non esisteva la pubblicità, questi strumenti propagandistici erano virali in tutta Italia. Di slogan se ne vedevano dappertutto. Dovevano essere leggibili, catturare l’attenzione. Si trattava di imperativi che dai luoghi chiusi delle adunate erano usciti all’aperto, arrivando nei centri abitati a tappezzare i muri degli immobili più in vista sia pubblici, dal municipio alle scuole, sia privati. Con il passare dei decenni, molte massime sono finite nell’oblio e non ne esiste un «inventario», conferma Federico Melotto, direttore dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza. Altre sono ormai sbiadite, soffocate da tinteggiature, sbriciolate assieme agli intonaci. Altre sono sopravvissute a quasi un secolo di vicissitudini. Le altre scritte «La vittoria africana resta nella storia della patria integra e pura come i legionari caduti e superstiti la sognavano e la volevano».
È l’estratto, suggellato dalla firma con la emme puntata, di un discorso pronunciato da Benito Mussolini, il 9 maggio 1936, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma in occasione della proclamazione dell’Impero in Africa Orientale. Questo estratto è visibile su un edificio all’incrocio tra via Marconi e via Decima di Colognola ai Colli. Nel medesimo comune e riferito allo stesso momento, all’incrocio tra via Cavour e via Santa Maria della Pieve, spicca la scritta: «Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi». Dalla Val d’Illasi a Cerea. Si nota su un muro di mattoni in via San Zeno l’esortazione «Vincerà chi vorrà vincere»: è tratta dal diario di guerra di Mussolini del 7 aprile 1916 e suggellata, pure qui, dalla una emme puntata.
Ora viene spontanea la domanda : Cancellare queste scritte? «Sarebbe sbagliato», ha riposto sempre dala stessa fonte citata ( e con cui concordo ) lo storico Stefano Biguzzi. «Non ha senso rimuovere le tracce del passato», spiega, «che sono invece da recuperare e inquadrare in una cornice storica». Come è stato fatto con il Monumento alla Vittoria di Bolzano, ricorda: « Opera di Marcello Piacentini posta sotto tutela, che è stata mantenuta come è e completata da un museo sui totalitarismi del Novecento e sull’invadenza di un approccio oppressivo alle minoranze ».
Preservare un oggetto e trasformarlo in un monito «su quello che è stato e non bisogna ritornare a essere» con una contestualizzazione critica: questa la chiave di lettura da estendere alle testimonianze che riportano al Ventennio fascista. «Il passato c’è», rimarca Biguzzi, «tutto dipende da come lo si rielabora e incornicia». Sono tracce di storia che continuano a parlarci anche oggi, conclude: «Memoria storica da custodire e su cui continuare a meditare». Per l'onomastica dipende se sono vie nuove o vie vecchie . Le vie nuove sono contrario anzi ultra contrario perchè la menoria diventa esaltazione di abberanti ideologie . Per le vecchie si possono sempre lasciare ovviamente scrivendo un riferimento a chi era o a quela battaglia si fa riferimento . Per le cittadinanze applicare la legge delle onorificenze . cioè decade quando uno muore . Pewr gli edifici restaurarli e destinarli ad altri usi . esempio nella mia città c'è un vecchia caserma fascista ora ristrutturato ed usato come sede per l'agenzia delle entrate .
Dopo il post sul 27 gennaio ( olocausto \ shoa ) e i due ( III ) : sul 10 febbraio ( foibe ed esodo Istriano ) , cioè le due giornate sulla memoria \ ricordo ecco a mente fredda una mia riflessione su questo secondo evento
Ogni volta che amici che : non s'ineressano di storia e di politica , che sento o leggo delle foibe e dell'esodo o d'altre stragi e genocidi mi chiedo nnostante sappia già in partenza che è una illusione se sarebbe possibile comprendere le uccisioni e le violenze sia quelle precedenti degli italiani sugli slavi e poi d'essi sugli italiani nell’autunno 1943 e della primavera-estate 1945, e così il lungo esodo degli istriano-dalmati verso l’Italia nel secondo dopoguerra, senza considerare il contesto ed le cause in cui avvennero e che sono all'origine ? Si possono astrarre dei fatti dalla storia? A mio avviso Il Giorno ( ormai diventata settimana ) del Ricordo, come di altre giornate memoriali, ci dimostra come tale tipo d’operazione possa dovrebbe essere sì fatta, anche senza il beneplacito delle istituzioni , solo ricordando \ celebrando ed parlarne a 360 gradi o quanto meno contestualizzando i fatti in questione . Quindi Ricordare si e celebrare si , ma la memoria condivisa è impossibile ed utopistica soprattutto quando c'è ed c'è ancora un uso stumentale ed ideologico di tali eventi dolorosi ed drammatici . Non basta quanto ciò è stato fatto per tutta la guerra fredda e nei primi ( ed in parte continua ancora oggi a fine guerra freda ) anno dell'istituzione della giornata del 10 febbraio
Ecco che tale Giornata , diventata settimana , celebrativa ( pulicoscienza ) entrata in vigore nel 2004 con la legge n.92, la giornata istituita “per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” è divenuta estremamente esemplare non solo del funzionamento della memoria nazionale italiana ma anche purtroppo dell’uso politico del passato da parte di partiti e istituzioni .
Purtroppo Agendo su “un lutto non elaborato”, infatti, tale giornata – con gran parte delle sue iniziative, istituzionali e non – lascia spazio ad “un uso prepotentemente politico della storia” dimostrando ancora una volta come la memoria di un gruppo (così come quella dei singoli) funzioni come una sorta di filtro.
A far scattare i meccanismi della violenza (tutt’altro che unica) virulentemente scoppiata fra il settembre e l’ottobre ’43 e nella primavera/estate ’45 fu il regime fascista, attivo in periodo di pace con le sue politiche di snazionalizzazione e ancor più ferocemente impegnato, in periodo di guerra, nel costruirsi il suo “spazio vitale” a scapito delle popolazioni balcaniche. In due fasi precise e differenti, una volta rovesciate le sorti del conflitto, gli italiani vennero così travolti dalle conseguenze fisiologiche di uno scontro mai visto come fu appunto la Seconda guerra mondiale. Uno scontro esacerbato dall’odio e dall’ideologia.
Nel mese di vuoto istituzionale fra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conquista tedesca dell’Istria (ottobre 1943), in primo luogo, a essere colpiti (in un numero che gli storici concordano possa variare dalle 500 alle 700 unità) dal movimento di liberazione furono i “nemici del popolo” – categoria che l’Istituto regionale per la storia della Resistenza del Friuli-Venezia Giulia, nel suo Vademecum per il Giorno del ricordo, descrive come composta da “segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere”.
A cavallo della vittoria degli Alleati (e tra questi dell’Esercito popolare di Liberazione della Jugoslavia), nella primavera/estate 1945, a venir travolti sono invece i nemici, presenti e futuri, della Jugoslavia, in una vera e propria “pulizia politica” che investe circa 9000 sloveni filo-nazisti, almeno 60mila ustascia, i fascisti croati, e qualche migliaio di italiani. In questo caso, nonostante le difficoltà nel tirare un bilancio complessivo, le stime operate dagli storici concordano su un massimo di 5000 vittime italiane totali, fra il 1943 e il 1945.
Ciò che avvenne nel contesto della risistemazione confinaria, infine, coinvolse circa 300mila italofoni, protagonisti di un lungo esodo concluso solo alla metà degli anni ’50. Anche in questo caso, osservata con la lente dell’odio etnico, l’immagine del dramma di queste popolazioni finisce per distorcere la comprensione del fenomeno, privilegiando la spiegazione etnica a quella politica. Più che una presunta politica anti-italiana della Jugoslavia di Tito, a portare migliaia di italofoni nella penisola furono la perdita di un ruolo privilegiato e dominante da una parte e la scelta, in grandissima parte scartata, di rimanere in una società socialista dall’altra.
Se il Giorno del Ricordo, come indicato da più parti, andrebbe quindi (per lo meno) ripensato, la direzione presa a livello istituzionale appare ben diversa. La pubblicazione nell’ottobre 2022 da parte dell’allora ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi delle Linee guida per la didattica della frontiera adriatica, ultimo atto del governo Draghi, illumina su come e quanto sia distorta la narrazione ormai dominante sui fatti dell’Alto Adriatico. Le leggi approvate in Friuli-Venezia Giulia e Veneto che limitano la ricerca storica, imponendo una sorta di “Verità di Stato” rendono il quadro ancora più inquietante.
Queste mie riflessioni sulla giornata del 10 febbraio \ giorno del ricordo vogliono oltre a coltivare il ricordo \ celebrazioni di questi eventi a 360 gradi e di contrastarne l'uso strumentale ed ideologico anche interrogarsi sul senso, le potenzialità e i rischi dell'insistenza sull'uso strumentale della memoria nello scenario pubblico. La sua prorompente ascesa, infatti, si è accompagnata alla parallela scomparsa o alla riduzione dello spazio delegato alla Storia, come analisi critica del passato. Memory consiste nel mostrare come le “tessere” della memoria – i ricordi – non coincidano mai perfettamente tra loro ed non esiste come ho già detto ed è impossibile una memoria condivisa soprattutto quando il ricordo e imposto obbligatoriamente a senso unico . Quindi per rispondere alla domanda del titolo : << Come si possono comprendere i fatti che commemorano? È possibile spiegarli astraendoli dal loro contesto e osservandoli con la sola lente delle “vittime ? >> secondo me No non si possono comprendere e spiegare bene i fatti soprattutto quelli cosi complessi e su cui ancoira non si è fatto completamente i conti , a meno che non si vogliono celebrare \ ricordare solo una parte d'essi . Infatti come ha dichiaritoi Pennacchi uno degli attori del film Rosa d'istria : << revisionismo potrebbe rappresentare un pericolo ? : “Il revisionismo può diventare un pericolo ma tutto dipende da come si racconta la storia. Quando fatto bene, con la verifica delle fonti permette di avanzare nella comprensione del passato. Il revisionismo diventa un male quando è fatto al servizio di una bandiera”.
Tali di chiarazioni rilasciate da Penacchi in una intervista promozionale de La rosa dell'istria che andrà in onda il 5 febbraio , mi fanno venire alla mente una mia risposta data qualchje tyempo fa ( e che trovaste sottto ) a mia nipote su tali argomenti
----- le foibe dono state un genocidio o sostituzione etica ?
----- La tua domanda riguarda un tema storico molto delicato e controverso, che ha suscitato molte polemiche e dibattiti. Cercherò di darti una risposta il più possibile obiettiva e basata sui fatti.
Le foibesono dei grandi inghiottitoi carsici, tipici del territorio della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia, dove furono gettati i corpi di alcune vittime (o, in alcuni casi, le stesse ancora in vita) di massacri avvenuti durante e subito dopo la seconda guerra mondiale da parte dei partigiani jugoslavi e dell’ OZNA, l’organizzazione di sicurezza jugoslava Tuttavia, il termine “foibe” è diventato anche sinonimo di tutte le uccisioni e le deportazioni che colpirono migliaia di civili e militari italiani autoctoni di quelle regioni, anche se la maggior parte delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi .
La questione se questi massacri possano essere definiti come un genocidio o una pulizia etnica è molto dibattuta e non esiste un consenso unanime tra gli storici. Alcuni sostengono che si trattò di una violenza di Stato e di una epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali al comunismo titino, e che le vittime furono scelte secondo criteri politici, ideologici e sociali, e non in base alla loro appartenenza etnica o linguistica . Altri invece ritengono che ci fosse una volontà di eliminare o espellere la popolazione italiana dalle zone occupate dai jugoslavi, e che le vittime fossero prevalentemente di etnia e lingua italiana.Al massacro delle foibe seguì l’ esodo giuliano dalmata, ovvero l’ emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia, dal Quarnaro e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’ Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia tramite i trattati di pace di Parigi del 1947. Spero con questi link di averti fornito una risposta esaustiva e imparziale. --- ok grazie
Mi spiace deludere IL Signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma come ormai d’abitudine, ogni anno la commemorazione della strage di Acca Larenzia diventa l’occasione per una celebrazione neofascista, e non accade solo sotto questo governo di estrema destra, cosa che dovrebbe farci seriamente riflettere sulla maturità delle nostre istituzioni democratiche. nel silenzio ( totale o quasi ) , nell’indifferenza e nell’impunità generale In centinaia, disposti in formazione militare, con il braccio teso in un saluto romano al grido di “presente” per ricordare i camerati caduti in via Acca Larentia, a Roma.Tutti lo sanno, ma nessuno interviene, come se fosse un normale raduno di militanti.Ma questo non è raduno, questo è un ritrovo dichiaratamente fascista. Questo è un reato, un crimine, una scena
semplicemente intollerabile in un Paese civile e democratico.
Sarebbe ora di di dire basta ma con i fatti non a parole a questa Ridicola la parata con procedura militare che irreggimenta le presunte truppe: chiede l’attenti, poi per tre volte ripete “per tutti i camerati caduti” e la risposta in coro è “presente”, con l’enfasi del saluto romano. Infine autorizza il “riposo” e scioglie i ranghi. Grotteschi nell’aspirazione di sentirsi per qualche minuto milizia fascista; grotteschi e ridicoli, certo, eppure non meno inquietanti.
Vedere che questa messa in scena accade autorizzata, tutelata e agevolata dalle istituzioni, dovrebbe spaventare ma ormai ci s'è assueffatti . Nulla c’entra una parata neofascista con il ricordo delle vittime del terrorismo. Lo stesso paese che procede all’identificazione di chi alla Scala grida “viva l’Italia antifascista”, che manganella studenti, che condanna al carcere chi organizza rave party, permette sul suolo pubblico questo tipo di eventi. Tutto in coerente continuità con la trasformazione autoritaria del nostro paese, dove queste pagliacciate servono a carezzare il pelo delle frange radicali di estrema destra che si sentono sempre snobbate e tradite dai “camerati” che hanno raggiunto poltrone di potere, ma che, incredibilmente, hanno ancora bisogno dell’appoggio di questi esaltati . Infatti . Come dice Lorenzo Tosa
Questa non è l’Italia di Giorgia Meloni.
Questa è l’Italia punto. Che è e resta, come sempre, all’estremo ma anche in parte dei suoi apparati, fascista.E il governo Meloni, attenzione, non è la causa di questo scempio qui sotto, semmai la conseguenza. E la sua legittimazione.Lo voglio dire chiaro e a scanso di equivoci.Giorgia Meloni è, rappresenta, incarna politicamente e storicamente le immagini raccapriccianti di Acca Larentia.Ma quelle immagini lì, quel raduno, quegli avanzi di fognatura che fanno il saluto romano disposti in parata militare c’erano ieri, c’erano l’anno scorso, e c’erano tutti gli anni precedenti (come dimostra questo scatto) quando Giorgia Meloni neanche sognava di diventare Presidente del Consiglio. E tutti i maledetti anni pochi di noi hanno continuato a mostrarlo e denunciarlo senza che NESSUNO - destra, sinistra, centro, di sotto, di lato - abbia mai fatto nulla per impedirlo, perseguirlo o condannarlo. Tutti sapevano, ma nessuno ha mai fatto nulla. Troppo facile svegliarsi oggi e gridare allo scandalo dell’Italia ai tempi di Giorgia Meloni, troppo comodo, auto-assolutorio.Questa non è l’Italia di Giorgia Meloni. Questa è l’Italia punto. Che è e resta, come sempre, all’estremo ma anche in parte dei suoi apparati, fascista.E il governo Meloni, attenzione, non è la causa di questo scempio qui sotto, semmai la conseguenza. E la sua legittimazione.Prima lo capiamo tutti, meglio è.
La vicenda che riporto nel post odierno dimostra che la memoria condivisa non esiste ed un utopia . Al contrario esistono più memorie su detterminati eventi del secolo scorso come fa notare quest'articolo : << La memoria condivisa non esiste >> de Il Foglio di qualche anno fa
La giustapposizione delle targhe al binario 21 dello scalo milanese, da cui partivano i convogli della morte della Shoah. Lo storico Filippi: «Così l’Italia (non) fa memoria» Ai viaggiatori che sbarcano a Milano da fuori città, la Stazione Centrale dà il benvenuto con un strano minestrone: di Storia e di memoria. Per lo meno a quelli non distratti da smartphone e bagagli che alzano lo sguardo sul complesso di targhe che domina l’ultimo avamposto della stazione: il famigerato binario 21. Situato all’estremità destra del grande scalo ferroviario, il binario apre la via a quelle che oggi sono le ultime tre aree di partenza di treni, per lo più regionali: i binari 21, 22 e 23. Ma nella memoria collettiva, quel nome corrisponde soprattutto al luogo di partenza dei vagoni della morte che gli occupanti tedeschi organizzarono tra il 1943 e il 1945 per deportare verso i campi di sterminio migliaia di nemici del Reich. Stipati in quei carri bestiame, partirono dal “centro di smistamento” ferroviario di Milano a centinaia e centinaia gli ebrei e gli oppositori politici rastrellati dai nazifascisti in tutto il Nord Italia. Per destinazioni a loro ignote – che rispondevano a nomi come Auschwitz e Mauthausen – da cui nella maggior parte dei casi non avrebbero mai fatto ritorno. Tra le eccezioni più note, quella di Liliana Segre, partita sul convoglio stipato all’inverosimile del 30 gennaio 1944 È stata proprio la senatrice a vita, il 27 gennaio di quest’anno, a dare ulteriore rilevanza al grande progetto di memoria che sorge nelle viscere della Stazione Centrale proprio per ricordare quel crimine: quel Memoriale della Shoah quotidianamente visitato da scolaresche di tutta Italia che Segre ha voluto fosse teatro dell’intervista-testimonianza con Fabio Fazio trasmessa in diretta tv su Rai1 nell’ultimo Giorno della Memoria. Ma che tracce restano del buio del Novecento sul “vero” binario 21, quello situato sopra terra da cui transitano ogni giorno migliaia di pendolari e viaggiatori? Molte, varie e contrastanti.
All’imbocco del binario, sorge in effetti una targa che commemora «il lungo viaggio di uomini, donne e bambini, ebrei e oppositori politici deportati verso Auschwitz e altri lager nazisti» dai sotterranei della stazione. «La loro memoria vive tra noi insieme al ricordo di tutte le vittime dei genocidi del XX secolo», richiama solennemente la stele, apposta sulla grande parete del binario 25 anni fa, il 27 gennaio 1998. Peccato che a pochi metri di distanza, prima di altri spazi murari dedicati ai ferrovieri caduti nella Prima Guerra Mondiale e in quella di Liberazione, giaccia un’altra targa, destinata questa volta a ricordare la «guerra italo-etiopica». Ovvero quella campagna d’invasione voluta da Benito Mussolini nella quale – pur di conquistare un “posto al sole” tra le potenze coloniali del mondo – le forze armate italiane non esitarono a sterminare migliaia di etiopi, civili compresi. Con una mobilitazione di uomini e forze straordinaria che comprese, come ormai ampiamente provato dagli storici, l’utilizzo di armi chimiche come l’irpite, usata senza troppi complimenti tra il 1935 e il ’36 per spegnere brutalmente i resistenti etiopici che difendevano più strenuamente le posizioni. Possibile un tale omaggio campeggi proprio a fianco del richiamo universale a custodire, nel nome di Primo Levi, «il ricordo di tutte le vittime dei genocidi del XX secolo»? Possibile. Tanto quanto lo è il lapidario (letteralmente) omaggio d’accompagnamento al “Capitano Giovanni De Alessandri, Medaglia d’Oro”. Chi era costui? Un valente combattente della guerra anti-etiopica, già distintosi nelle operazioni di contro-guerriglia in Libia durante la Prima Guerra Mondiale, e autore poi di altre “valorose” azioni di polizia coloniale in Etiopia vent’anni dopo. L’ultima delle quali, un violento combattimento con le formazioni partigiane locali, gli costò infine la vita. «Rimproverato alla vigilia di un aspro combattimento dal comandante perché nella lotta si esponeva troppo – si ricorda nella solenne motivazione della medaglia d’oro attribuita nel 1937 – estraendo dal portafoglio il ritratto della figlia “le giuro su questa”, disse, “ch’ella non avrà a lamentarsi di avermi ricevuto alla banda. Non ci sarà nessuno domani davanti a me e farò vedere come combattono gli italiani”. E mantenne la promessa. In un furioso attacco contro un nido di mitragliatrici scatta per primo, si slancia con pugnale e bombe a mano, è ferito più volte, cadono i suoi intorno a lui ma in un ultimo sforzo giunge all’arma nemica, pugnala il tiratore, col nome della figlia sulle labbra, sorridente si abbatte. Il corpo è crivellato di ferite, l’anima è in Cielo, il nome è di un eroe». Un perfetto eroe di un’epoca fortunatamente alle spalle, orgogliosamente fascista e razzista. Il cui ricordo resta a tutt’oggi evocato però proprio a fianco di quello dei cittadini italiani, ebrei e non, perseguitati, deportati e infine assassinati – non di rado proprio col gas – a prodotto compiuto proprio di quell’epoca e di quegli “ideali”. Poco più sotto, sulla stessa targa – verosimilmente aggiunto in un secondo momento – campeggia infine il ricordo «di tutti i ferrovieri che in servizio e in armi caddero per il supremo ideale della patria negli anni dal 1940 al 1945»: dalla guerra voluta dal Duce al fianco dei tedeschi a quella di Liberazione contro il regime stesso, dunque. Il minestrone di Storia è servito. Proprio a pochi passi da quel totem multimediale – voluto da Ministero della Cultura, Gruppo FS e Memoriale della Shoah stesso – inaugurato appena tre mesi fa alla presenza del ministro Sangiuliano, del sindaco Sala e dell’Ad di Ferrovie Luigi Ferraris per ricordare a tutti i frequentatori, con la viva voce di Liliana Segre, la tragedia che su quel binario si svolse e lo straordinario patrimonio del Memoriale distante appena pochi isolati. «Più che di bisticcio di memoria parlerei di sovrascrittura di memoria», commenta con Open lo storico Francesco Filippi, che alla memoria abiurata o distorta dei crimini coloniali italiani ha dedicato diversi studi, confluiti da ultimo nel volume Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Bolinghieri, 2021). «La stratificazione di questo muro racconta molto dell’Italia – ragiona Filippi – Quella targa nasce con ogni probabilità nel momento in cui l’Italia si voleva imperiale e imperialista, per celebrare pubblicamente i trionfi della guerra di aggressione in Etiopia. Ma da un giorno all’altro, dopo il 1947, quella memoria per l’Italia non fu più comoda da indossare, e venne semplicemente amputata, o abbandonata a se stessa come in questo caso, sovrascrivendo la nuova memoria, quella della Resistenza. Senza nessuna preoccupazione di metabolizzare o contestualizzare la cesura. Come emerge plasticamente dall’accostamento alla Stazione Centrale di due azioni antitetiche: la condanna dello sterminio di altri uomini da parte di un regime totalitario da un lato, la sua esaltazione lì a fianco». «Quello che più stupisce dell’approccio italiano alla memoria pubblica – conclude Filippi – è la totale incapacità di vedere la bruttura, la stonatura, di un’associazione come questa. Neppure oggi, a 80 anni di distanza, tutto ciò dà fastidio». Fino a prova contraria, s’intende.
a freddo dopo la sbornia retorico celebrativa sia del 27 gennaio sia di quella del 10 febbraio pubblico questo interessante articolo di Massimo Castoldi
Il giorno della liberazione di Auschwitz è la data simbolo per non
dimenticare lo sterminio degli ebrei per mano di nazismo e fascismo. Ma
occorre evitare la vuota ritualità e restituire complessità ai fatti.
Ridestando interesse e sgomento
Il giorno della Memoria — 27 gennaio, in ricordo del
27 gennaio 1945, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz — non
è una festa nazionale come sono il 25 aprile, festa della Liberazione, e
il 2 giugno, festa della Repubblica, ma un giorno di lavoro, di studio,
che dovrebbe essere pretesto per cercare di comprendere le ragioni
storiche di quanto è avvenuto nel nostro Paese e in Europa tra anni
Venti e anni Quaranta del secolo scorso. La legge del 2000 che lo
ha istituito invita a riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico
e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti [...] affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Ho sempre trovato molto velleitaria questa proposizione finale, la
quale presuppone che possa crearsi una consapevolezza così diffusa di
quanto avvenuto, che le aberrazioni del passato non possano ripetersi. La
storia conferma che non è così e la cronaca lo rende tragicamente
tangibile. Ciò non toglie opportunità e necessità all’operazione della ricostruzione storica delle dinamiche che
hanno consentito l’affermazione di quelle dittature, fascista e
nazista, delle quali lo sterminio di massa organizzato è stato la più
macroscopica conseguenza. Mi chiedo, tuttavia, se e fino a qual
punto questa riflessione sia stata fatta fuori dall’ambiente degli
specialisti, o se invece ci siamo il più delle volte limitati a una narrazione rituale,
nell’inesorabile affermarsi di “Un tempo senza storia”, come Adriano
Prosperi ha intitolato un suo libro recente (Einaudi, 2021).I
dati che l’Eurispes ci fornisce sono eloquenti. Se nel 2004 il 2,7 per
cento della popolazione italiana credeva che la Shoah non fosse mai
esistita, nel 2020 questa percentuale è salita al 15,6. Se dovessimo
estendere l’inchiesta dalla Shoah alla deportazione politica, che
peraltro in Italia è fenomeno più rappresentativo (circa 24.000
deportati politici, circa 8.000 ebrei), queste percentuali di ignoranza
salirebbero in modo esponenziale. L’istituzione del giorno della Memoria
non ha evidentemente ottenuto gli effetti sperati.
Anzi si potrebbe dedurre che alla ritualità delle commemorazioni
corrisponda un incremento di atteggiamenti razzisti e neofascisti. Occorre restituire complessità storica al fenomeno, per ridonargli interesse. Invito a vedere il film documentario del 2016 “Austerlitz” di Sergei Loznitsa,
che il regista girò con una telecamera fissa posta in alcuni luoghi del
campo di Sachsenhausen. In una serie di lunghe sequenze passano turisti
intenti compulsivamente a fotografarsi nei luoghi di tortura e di morte
nella generale incoscienza della storia, che le guide meccanicamente
raccontano.È il percorso inverso rispetto a quello fatto da
Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo di Winfried Georg
Sebald (Adelphi, 2002), che attraverso una faticosa ricerca storica e memoriale
prende coscienza da adulto di essere uno di quei bambini ebrei giunti a
Londra in treno durante la guerra, mentre i suoi genitori venivano
deportati in un campo di sterminio. Osservando il film, ho notato nella sconcertante babele turistica, in due momenti diversi, nello sguardo di due ragazze un lampo di sgomento e un istante di confusione. Due bagliori improvvisi che indicano, con Prosperi e Sebald, una strada.
Inizialmente stavo pesando a qualcosa di simile all'articolo sotto vista l'età 13\14 del ragazzo in questione . Ma poi vista : 1) l'obbietà dell'articolo che collima con il mio intento che coltivo dall'istituzione di tale giornata palla ma che ormai dopo anni di silenzio a livello della pubblica opinione
è diventa una delle date fondanti della Repubblica. Insieme al 27 gennaio ( anche se sarebbe stato meglio il 16 ottobre deportazione degli ebrei romani ma va beh ) , 8 marzo , il 25 aprile , il 1 maggio , il 2 giugno , il 4 novembre , Il 12 dicembre 2) la sagacità del ragazzo quando : << [...] ma come sta mettendo sullo stesso piano violenze fasciste e violenze comuniste , lager e foibe [...] >> di cui parlavo nel post precedente : il 10 febbraio e la questione del confine orientale spiegata ad un adolescente ho cambiato idea . Perché anche se come tutti gli eventi storici è difficile come ho detto nel post : << 10 febbraio ( e non solo ) e impossibilità della memoria condivisa>> trovare una memoria condivisa , non significa che certi eventi debbano essere dimenticati o silenziati e gli orrori che ne sono alla base siano ripetuti anche se in maniera diversa .
Ma soprattutto visto che Il tema delle foibe e dell’esodo giuliano è da sempre un argomento molto delicato, affrontato da alcuni con reticenza e da altri con una certa strumentalizzazione politica ed ideologica . Qui come potete vedere nei mie post per il giorno \ settimana dl ricordo sia recenti sia passati c'è l’intento di fare il più possibile chiarezza su quei tragici avvenimenti, raccogliendo a 360 gradi e non a senso unico l’invito della stessa legge istitutiva del Giorno del Ricordo che, testualmente, invita a “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale " Il mio obbiettivo è certamente quello di ricordare quei tragici avvenimenti che causarono tanti dolori e lutti ma anche quello, affrontandolo dal punto di vista storico, di cercare di comprenderne le origini, le cause e le conseguenze.
Solo in questa maniera può essere possibile difendere degnamente la memoria delle tante vittime e dei tanti profughi. e di cui ha subito sulla propria pelle gli effetti nefasti e brutali del nazionalismi e delle aberrazioni ideologiche de secolo corso . Ma ora basta parlare io , vi lascio all'articolo in questione
l'espresso 5 febbraio 2023
Il confine orientale Dove corrono i tormenti del ’900
di PIERANGELO LOMBARDI *
Il Giorno del Ricordo rievoca le vicende avvenute nel secolo scorso nell’Alto Adriatico. La memoria
di questa tragica pagina di storia è difficile. E spesso strumentalizzata per scopi politico \ ideologici [ corsivo mio ]
IL 10 febbraio è una data del calendario civile italiano: il Giorno del ricordo. Nel corso di formazione [ foto a sinistra dell'edizione di quest'anno ]
per insegnanti organizzato l’autunno scorso dall’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la sfida è stata quella
di andare al di là delle sovraesposizioni mediatiche e delle ingerenze politiche, che non aiutano, ma al contrario allontanano la piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’Alto Adriatico. Il ragionamento di lungo periodo, proposto
agli insegnanti, è stato quello di riflettere
sul tema che proprio la legge istitutiva del
Giorno del ricordo, del 2004, indica come
«la tragedia degli italiani e di tutte le vittime
delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli
istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Perché in questa tragica pagina di storia non c’è solo una memoria
difficile e complessa, ma, come ha suggerito
Guido Crainz, c’è in «quel confine tormentato tutto il nostro Novecento».
Ci sono i nazionalismi e i processi di nazionalizzazione, dove uno spirito discriminatorio e per nulla inclusivo troppo a lungo ha soffiato sul Vecchio Continente; c’è il trauma della Prima guerra mondiale, con la «italianizzazione forzata» imposta dal fascismo alle popolazioni slovene e croate; ci sono la violenza e la brutalità dell’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia
nel 1941; c’è la tragica lezione della Seconda guerra mondiale, una guerra totale, in cui veniva meno la distinzione tra militari e civili, dove l’imbarbarimento del conflitto, specie sul fronte orientale, è stato
massimo. Ancora: c’è l’incontro tra violenza e ideologia politica che si fa devastante e dove, in un clima torbido e inquietante, s’intrecciano il giustizialismo politico
e ideologico del movimento partigiano titino, il nazionalismo etnico e, soprattutto in Istria e nelle aree interne, la violenza selvaggia tipica delle rivolte contadine.
Ci sono le violenze contro le popolazioni italiane del settembre del 1943 e del maggio-giugno del ’45, di cui le foibe, gli arresti e il clima di terrore che spinge all’esodo forzato migliaia di italiani sono simbolo ed espressione; c’è la volontà di Tito e del comunismo jugoslavo di annettere l’intera Venezia Giulia, con un’epurazione volta a eliminare – senza andare troppo per il sottile – qualsiasi voce di dissenso. Ci sono, infine, le logiche della Guerra fredda e della radicalizzazione dello scontro ideologico nell’immediato Dopoguerra. Il tutto sulla pelle di decine di migliaia di persone.
Un vero e proprio tornante di fughe e di espulsioni in tutta Europa, infatti, si accompagna agli esordi della Guerra fredda e a una più generale ridefinizione dei confini europei e dei loro significati. Diventa, quindi, sempre più necessario, nell’affrontare questa pagina di storia, contestualizzarla con grande rigore, respingere tesi negazioniste o riduzioniste, così come le banalizzazioni e le verità di comodo più o meno finalizzate a uno scorretto uso pubblico della storia. Occorre assumere un ruolo attivo nel processo di rivisitazione critica, che sola può portare al superamento delle lacerazioni del passato. Anche perché le vicende dell’area giuliano-dalmata costringono chi le affronta a misurarsi con temi assai più generali e con fenomeni centrali per la comprensione della nostra contemporaneità.
* Presidente di ISTORECO Pavia A cura della Biblioteca Civica Vigevano, Rete Cultura Vigevano e dell’Istituto pavese per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea )
Piero Riccardo Pavia era solo un bimbo quando arrivarono le leggi razziali. I genitori gli avevano aperto un libretto - ritrovato solo poco tempo fa - al Banco di Chiavari che oggi gli offre 800 euro, lui chiede mezzo milione
Il signor Piero Riccardo Pavia oggi ha 81 anni. Ne aveva appena 3 quando il Governo fascista, con lo strumento delle leggi razziali e attraverso la prefettura di Genova, nel procedere alla confisca di tutti i beni degli ebrei e quindi anche di quelli della sua famiglia, si appropriò del libretto di risparmio numero 3142 che i suoi genitori gli avevano aperto all’allora Banco di Chiavari e che conteneva 11 mila lire. Era il 6 aprile del 1944. Oggi, 78 anni dopo, una giudice del tribunale di Genova deve decidere sulla richiesta di risarcimento depositata dal signor Pavia attraverso il suo legale, l’avvocato Mauro Frigerio. Se Piero Riccardo Pavia si è mosso solo dopo così tanto tempo è perché lui neppure sapeva di quel libretto. Lo ha ritrovato di recente, rimettendo in ordine antichi ricordi, documenti e cimeli di famiglia. E quella carta antica e scolorita ha riportato alla luce angosce, sofferenze e una richiesta di giustizia ancora, dolorosamente, vive. Molteplici sono le sfumature di questa vicenda storico-giudiziaria che ruota attorno ad una cifra, o meglio due. Da un lato gli 838,96 euro che il Banco Bpm (che oggi ingloba l’antico Banco di Chiavari e della Riviera Ligure) ha offerto al signor Pavia come rimborso per le 11mila lire “rivalutate dalla data del sequestro ad oggi”.
La sede dell'ex Banco di Chiavari oggi Bpm in via Garibaldi (bussalino)
Dall’altro la richiesta, in base a conteggi effettuati da consulenti, avanzata dal signor Pavia che ammonta a 420mila 748,68 euro. La citazione, in solido, riguarda, oltre a Bpm anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri, incarico in questo momento ricoperto da Giorgia Meloni, al quale, in gioventù, aderì al Msi, partito fondato da Giorgio Almirante, convinto fascista che della Repubblica Sociale Italiana fu un importante esponente. Un incrociarsi di vicende storiche e personali che riduce le distanze temporali. Tornando alla somma richiesta come risarcimento, seppur importante, non è il cuore di questa causa sul tavolo della giudice Barbara Romano. In tempi di revisionismo e omologazioni diffuse, sono utili, per capire lo spirito che permea questa causa, le parole che pronunciò Tina Anselmi nella sua veste di presidente della Commissione che tra il 1998 e il 2001ebbe il compito di ricostruire, e lo fece in 500 pagine, quella gigantesca rapina dello stato fascista che fu il decreto legislativo di Mussolini con cui si stabilivano le “Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica”. Scrive Tina Anselmi: “Prima di essere un affare di denaro, la spoliazione è stata un persecuzione il cui obiettivo finale era l’annullamento morale e quindi lo sterminio”. Un concetto che ribadisce il signor Pavia: “Vede, sicuramente a differenza di tante altre famiglie ebree e non solo, la mia è stata anche più fortunata, tocca dire così di fronte all’orrore di quanto accaduto. Noi venimmo derubati dallo stato fascista e per salvarci, con un viaggio rocambolesco non privo di sofferenze e umiliazioni riuscimmo a raggiungere la Svizzera. Ma quelle confische furono il primo atto concreto di aggressione e credo sia un mio dovere, oggi, chiedere un risarcimento che non può essere solo simbolico ma contenga in sé una sorta di monito rispetto alle leggi razziali” La causa è già stata avviata e il primo febbraio del 2023 ci sarà un’udienza decisiva poiché la giudice dovrà decidere se vada accolta la richiesta dell’Avvocatura di trasferire il processo a Roma dove aveva sede l’Egeli, ovvero “Ente di gestione e liquidazione immobiliare” al quale Mussolini aveva affidato la criminale classificazione e reimpiego dei beni delle famiglie ebraiche italiane. Ma quel che più conta è che un giudice dovrà dire se il signor Pavia abbia solo diritto a recuperare quegli 800 euro come se il suo caso sia omologabile a una negligenza, un errore, una frode nel peggiore dei casi, o se invece le 11 mila lire di quel bimbofossero solo il primo, barbaro passo compiuto da una dittatura per sterminare un intero popolo ed appropriarsi, come l’ultimo dei briganti, dei loro beni.
La storia che riporto oggi è la tragedia personale di un giovane che paga due volte il prezzo del sanguinario colonialismo italiano. Nato da un etiope al confino e una donna locale nella Sila degli anni Trenta, quando finalmente sembra arrivare il momento del suo riscatto la sorte gli predispone una trappola beffarda. E gli fa saldare un conto rimasto in sospeso tra due popoli.
Durante il fascismo a Longobucco vennero confinati 35 personaggi di primo piano del regno di Etiopia. Tra questi il ras Ubie Manghescià, ex ambasciatore etiope a Roma ed ex governatore della provincia Uellega Occidentale. Questo ras ebbe una relazione con una donna di Longobucco, che aveva il marito in guerra, che andava a fare le faccende a casa sua. Dalla relazione nacque un bambino di carnagione nera, che il marito della signora – tornato dalla guerra – riconobbe, Michele Antonio Scigliano. Dopo qualche anno arrivò al comune di Longobucco una lettera dell’ambasciata etiope che chiedeva notizie sul ragazzo. Avutele, il ras richiamò presso di sé in Etiopia il giovane. Di seguito la storia raccontata da testimoni diretti e articoli sui confinati etiopi dal fascismo.
Fra i notabili etiopi inviati al confino in Italia dopo l’attentato, ad Addis Abeba, al viceré Graziani (19 febbraio 1937), vi era pure ras Mangascià Ubié, ricco sfondato e onnipotente, nonché particolarmente caro al negus Selassié che prima lo aveva messo al vertice del tribunale per l’abolizione della schiavitù, poi lo aveva nominato governatore della Uollega occidentale e, infine, lo aveva incaricato di aprire una legazione diplomatica a Roma; incarico, quest’ultimo, che, certo per colpa del ponentino romano inducente al douce vivre, egli aveva assolto consumando i giorni fra case d’appuntamento e tabarins, tanto che il Ministero degli Esteri italiano si era sentito in dovere di «consigliare» alle autorità etiopi di richiamare in patria il dissoluto diplomatico «la cui sola attività è quella d’accumulare debiti».
E anche a Longobucco — sua sede di confino – egli non si smentì, solo che dovette accontentarsi di quel che passava il convento, e, a parte la frequentazione assidua di terragne femmes de chambre, strinse una relazione stabile, col tempo non priva d’una qualche sfumatura d’innamoramento reciproco, con Giuseppina Blaconà, donna che gli sbrigava le faccende di casa, nonché moglie di Vincenzo Scigliano, un contadino che s’era fatto la campagna di guerra in Etiopia ove sognava di ritornare per crearsi un destino meno pidocchioso; e fu, certo, a questo scopo, o, comunque, per poterne ricavare un qualche utile, che egli, lo Scigliano, favorì la stessa relazione, nel pieno rispetto del credere popolare secondo cui ai meschini sono offerte due sole strade per mutar stato: «o travatura o incornatura»” (O il ritrovamento d’un tesoro o la moglie mantenuta da qualcuno); tant’è vero che quando dalla stessa relazione – notoria a tutto il paese e dintorni oltre che alle autorità di polizia – nel febbraio 1939 nacque «’na creatura nira nira», egli non solo ne riconobbe la paternità, ma, dandogli il nome Michele Antonio, «alzò» il nome del proprio padre, così offrendosi «cornuto e contento» alla considerazione paesana.
Poi, dopo l’8 settembre 1943, i confinati etiopi poterono ritornare in patria, e Mangascià chiese insistentemente a Giuseppina d’andarsene con lui o, almeno, d’affidargli il figlio, che lo avrebbe fatto studiare e crescere da gran signore; ma lei oppose un netto rifiuto, dietro il quale non si sa cosa intravedere. E negli anni successivi i destini dei protagonisti di questa strana storia restarono in qualche modo e per qualche tempo cuciti assieme con refe d’ordinaria qualità: Mangascià Ubié si fece ancora vivo con la donna, inviandole denaro e rinnovandole la richiesta di raggiungerlo o di affidargli Michele, ma poi, come dice la canzone, la lontananza e come il vento, anche perché egli teneva pensiero ad altro, s’andava facendo vieppiù ricco e potente (fra l’altro, fu pure ministro delle poste e consigliere della Corona), e finì per sposare la principessa Zauditù, imparentata con l’imperatore, e dalla quale ebbe due figli maschi che si rivelarono la deboscia in persona; Vincenzo Scigliano s’andò consumando nell’acidità e nel rancore verso tutto e tutti, specie verso il figlio-nonfiglio; Giuseppina Blaconà, come voleva la sua cultura, si vestì del ruolo di presenza muta che si trascinava sulle spalle sghembe tutti i peccati del mondo e, forse, pure il ricordo d’una specie d’amore, unica, grama consolazione d’una vita di travaglio in virtù della quale una come lei diventava gozzuta e sdentata a manco quarant’anni; Michele Antonio, lapidato dalle prese in giro dei compaesani, crebbe strànio e selvatico fra i boschi, senza manco un giorno di scuola, consapevole d’essere il «figlio della colpa» per giunta «diverso», ma anche una specie di re, guadagnandosi la campata coi lavori più umili, appartati e solagni – il pastore, il carbonaio, il boscaiolo …-, e ad appena diciott’anni si sposò con una meschina più meschina di lui, pensando, forse, di esorcizzare l’infelicità o, per lo meno di dimezzarla, che aver compagni al duol…, e, invece, da quell’analfabeta che era non sapeva che la matematica non è un’opinione, e infelicità più infelicità fanno un’infelicità doppia; e quando gli nacque un figlio pensò bene di non scontentare nessuno, «alzando» il nome di tutt’e due i suoi padri, chiamandolo Mangascià Antonio.
Finché non si ebbe il colpo di scena tanto colpo di scena da far pensare a William, il Bardo, là dove dice che la vita è una storia raccontata da un ubriaco: nei primi anni ’60 ras Mangascià Ubié, da tempo vedovo, morì lasciando tutti i suoi averi a quel figlio naturale che non sapeva nemmeno come fosse fatto, e lo fece forse perché preso dagli scrupoli, forse per giocare un brutto tiro ai suoi due figli debosciati, forse perché non aveva mai scordato quella sua amante sottomessa, dalle parole in bocca contate e che non gli aveva mai chiesto niente, forse …
Certo è che un giorno i carabinieri di Rossano, attivati dal Ministero degli Esteri, salirono in montagna, ove Michele era a pascolar pecore, e lo informarono che era diventato un miliardario e bastava solo che raggiungesse Addis Abeba per poi poter volare sui tappeti, come i principi delle fiabe ricchi sfondati e, perciò, si potevano permettere cose negate ai cristiani normali, tanto più se miserabili.
E fu come se in cielo fosse apparsa una stella cometa che s’andò a posare sulla cupogna (grotta) d’un novello redentore le cui carni, però, puzzavano di strame e di lecciata: tutti – nobili e plebei, potenti e stracciati, abbienti e non… – ossequiarono e riverirono Michele (quando l’avevano crocifisso fino a un attimo prima!), gli fecero grandi festeggiamenti, programmarono con lui iniziative e intraprese che avrebbero rivoltato da così a così Longobucco; e lui promise, acconsentì, progettò, intanto spendendo e spandendo sulla parola, che nessuno gli negava niente sperando di intingere il pane in quella succulenta minestra (in primis la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania che gli concesse fido illimitato contando, tramite lui, di aprire una filiale nella capitale etiope) e consentendogli di far debiti per oltre due milioni d’allora.
E un giorno egli partì per Addis Abeba, dopo aver promesso a tutti, famiglia compresa, di sistemar le cose là e ritornare, ma già nel cielo di Roma, sull’aereo su cui era imbarcato, svaporò ogni traccia di Michele Antonio che lasciò il posto a Micael Mangascià (identità che avrebbe preso di lì a poco, non appena rinunziato alla cittadinanza italiana per assumere quella etiope), il quale, buon sangue non mente, nella stessa Addis Abeba si diede subito alla bella vita, rinnovando pari pari i fasti prima romani e, poi, calabresi del genitore, abbandonandosi a una sorta di delirio fottitorio; e quando tempo dopo la moglie, accompagnata dal figlio, andò a trovarlo anche per richiamarlo ai suoi doveri coniugali, egli promise, firmò – ovviamente con una croce – impegni di mantenimento poi tutti disattesi, e la mise pure incinta; e non mosse un dito né scucì un tallero quando il figlio, in palese stato di denutrizione, stette male e gli italiani là residenti dovettero ricorrere a una colletta per poterlo far ricoverare.
Ma l’ubriaco non aveva ancora finito di raccontar la sua storia.
La perfida, intrigante sorella di Mangascià Ubié, non rassegnata al vedere i nipoti esclusi dall’eredità in favore, oltretutto, d’un bastardo mezzosangue, e lei dalla gestione del potere e dei privilegi a nome e per conto loro, fece causa per far annullare il testamento in favore appunto del bastardo, sempre tutto compreso nel suo delirio carnale, e riuscì ad averla vinta – figuriamoci, con le sue relazioni! – e Micael si ritrovò col culo per terra peggio di prima; il quale Micael, secondo alcune fonti finì ucciso da un sicario della controparte – a che prò considerato che l’avevano restituito all’originario stato minimale? Solo per il gusto del coltello sempre nell’ombra? – mentre, secondo quelle più attendibili, preferì scendere sempre più giù nei bordelli di Addìs Abeba, fino a mendicare, letteralmente, un po’ d’amore carnale e fino a consumarsi giorno per giorno l’ossa, piuttosto che ritornare vinto e umiliato e indebitato a Longobucco.