Visualizzazione post con etichetta cancro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cancro. Mostra tutti i post

10.10.24

«Mi rimanevano 3 anni da vivere a causa di un tumore terminale, ma una nuova passione mi ha rimesso al mondo»

 Un tumore terminale che le lasciava tre anni di vita: «Pensavo che la mia vita fosse finita», ricorda la giovane mamma con angoscia. Poi qualcosa è cambiato e una nuova passione le ha permesso di rinascere, di riprendere in mano il suo futuro e combattere per rimanere il più a lungo

possibile con la sua famiglia, per veder crescere i suoi figli e trovare la felicità, giorno dopo giorno. Ora Michelle sogna di diventare un'atleta e partecipare al triathlon, nonostante non sapesse né nuotare né andare in bici, e questo obiettivo le ha dato modo di esplorare una nuova prospettiva: «Il cancro non mi definisce».

Il viaggio di Michelle

Michelle Hughes aveva 34 anni quando, dopo la nascita del suo terzo figlio, è collassata in casa. Non ci è voluto molto per la diagnosi: numerosi tumori ai polmoni e 15 cisti al fegato. Inoperabili. I dottori le hanno detto che le rimanevano tre anni. La prima reazione è stata terribile: «Improvvisamente ho perso la vita che avevo immaginato per me e la mia famiglia». Poi un sogno l'ha fatta uscire dal tunnel e ha iniziato un percorso per diventare una triatleta, pur non essendosi mai dedicata né alla corsa né al nuoto. Eppure da allora ha preso parte a 12 eventi podistici, tra cui una mezza maratona. Ad agosto ha completato un mezzo triathlon - come riporta il DailyMail - ripercorrendo il tragitto dall'ospedale dove ha ricevuto la diagnosi fino alla sua casa estiva. Proprio quest'impresa è stata trasformata in un breve documentario. Sui social scrive: «Tenevo in braccio il mio bebè di tre settimane ed ero seduta accanto a mio marito quando l'oncologo ha detto che mi restavano cinque anni di vita, probabilmente tre. Le mie bambine avevano cinque e due anni all'epoca». La consapevolezza di non avere molto tempo a sua disposizione l'ha spinta a vivere il più intensamente possibile: «Non avevo capito, allora, che la mia vita era appena iniziata. Mi era stato fatto il dono di sapere che sarebbe stata più breve di quella di molti altri, e dovevo smettere di stare seduta ad aspettare la morte». Alla Michelle è stato diagnosticato un raro sarcoma chiamato emangioendotelioma epitelioide (EHE), che ha origine nelle cellule che rivestono i vasi sanguigni, più comune tra i giovani, gli adulti di mezza età e le donne.Oggi ha 37 anni, sono passati tre anni dalla diagnosi, e ha realizzato il suo sogno: «A tutti i miei compagni che lottano contro il cancro, ai ai sopravvissuti, ai vincitori e a quelli che il cancro ha rubato, lo faccio per voi. Per noi. Ora sono una triatleta».

18.1.23

in una regione in cui la sanità pubblica e ormai in mano ai privati Una notizia bella, da un ospedale sardo…

 da   Maria Giuseppina Careddu 


Il casco refrigerante per chi fa chemioterapia e permette di non perdere i capelli…… due pazienti sulle tante , potranno usufruirne: grazie a contributi pubblici e privati! Elogio e plauso a chi ha permesso questa opportunità. Con l’augurio che diventino di più e che tutte le donne possano usufruirne


In realtà perdere i capelli è nulla , di fronte al rischio di perdere la vita…
Ma è un trauma, perché rende visibile la fragilità della malattia a tutti…
Un trauma, pur sapendo che poi i capelli ricrescono…
🌺
Esiste ancora la generosa comprensione!
❤️❤️❤️👏🏽👏🏽👏🏽❤️❤️❤️

5.1.23

laura '75 dopo aver sconfitto un tumore ha fatto karate è arrivata a conseguire la cintura blu.

 Dall'account stesso della protagonista

Laura, classe 75, ha iniziato a praticare il Karate non più giovanissima, nonostante ciò dopo un percorso di formazione costante è arrivata a conseguire la cintura blu. Una strada non sempre facile considerando varie problematiche legate anche a problemi di salute seri a cui è dovuta andare incontro durante questo cammino. Un tragitto di grandi insegnamenti che, grazie al supporto dei due tecnici del "Martial Club Tempio Pausania" : Giuliano Addis e Pietro Manueddu, è riuscita a portare avanti nonostante le difficoltà. Questa esperienza vuole essere una testimonianza per tutte quelle persone che pensano non sia possibile seguire un percorso formativo, come quello del Karate, in età adulta e un'esortazione affinché si portino avanti i propri obbiettivi con determinazione e assiduità. Quello che sento di dire a tutte le persone che affrontano una difficoltà è di non arrendersi mai davanti ai problemi, fissare degli obiettivi e portarli a termine seguendo la propria linea di pensiero e concentrandosi sul traguardo da raggiungere.

24.12.22

la storia di Annalisa sanna Sconfigge il tumore e riprende a cavalcare l’abbraccio ai medici dalla sella di Macrusa

 Sassari «Sono qui per dimostrare alle pazienti del reparto di Oncologia che c’è sempre un domani dopo la malattia». Si asciuga le lacrime che per l’emozione le scendono sul viso Annalisa, poi con dolcezza bacia e riempie di carezze sulla criniera la sua Macrusa, la cavalla purosangue inglese che ha avuto un ruolo da protagonista nel suo viaggio di ritorno verso una vita normale, dopo l’incubo del tumore, la chemioterapia e l’intervento al seno. Ha voluto regalare a tutti un messaggio di speranza e di incoraggiamento ieri mattina Annalisa Sanna, sassarese di 41 anni, operata nel 2017 per un tumore alla

mammella dai medici del reparto di Oncologia del “Santissima Annunziata” di Sassari e ora tornata a sorridere e a cavalcare dopo la grande paura. A metà mattina insieme a tre amici della scuola di equitazione “Associazione Ippica il Monello” di Sant’Orsola la 41enne ha indossato un costume da elfo e si è diretta al trotto verso l’ingresso dell’ospedale di via De Nicola per portare un piccolo dono a chi sta affrontando le cure alle quali lei si era sottoposta cinque anni fa. Scortati dagli agenti della polizia locale i tre elfi e babbo natale a cavallo sono partiti dalla chiesa di San Pietro in Silki e hanno raggiunto al trotto - tra lo stupore de passanti - l’ingresso dell’ospedale. Ad accoglierli il direttore del reparto di Oncologia Medica Antonio Pazzona, il presidente dell’associazione “Mariangela Pinna Onlus” Antonio Contu e tutti i medici, gli infermieri e il personale del reparto. «Ho attraversato un periodo di grande difficoltà e di paura - racconta Annalisa - eppure qui in ospedale ho trovato non solo ottimi medici che mi hanno curata e che ancora seguono il mio percorso terapeutico, ma una grandissima umanità e tantissime persone speciali. Per questo - aggiunge - ho voluto riabbracciare chi mi ha restituito la speranza e dire a chi sta lottando con il tumore che c’è sempre un domani e che non bisogna mai arrendersi». Appassionata di cavalli sin da bambina, Annalisa ha vissuto un periodo della sua vita in Inghilterra e anche lì ha continuato a cavalcare. Quando nel 2017 ha scoperto di avere un tumore è stato naturale per lei cercare un supporto, anche psicologico, nel mondo dell’equitazione. «È stato proprio nell’associazione Ippica il Monello - racconta - che ho incontrato la mia Macrusa, una splendida cavalla di 17 anni che è stata sempre al mio fianco anche durante la malattia. Due mesi fa ho subito un secondo intervento per la sostituzione della protesi - spiega la donna - e anche se i medici non erano proprio favorevoli ad accelerare i tempi, dopo un mese ho ripreso ad andare a cavallo, che è un cosa che mi fa sentire bene. E anche grazie a Macrusa - aggiunge accarezzandola con amore - se oggi ho ripreso a sorridere».  Inoltre  





3.10.22

Scopre di essere incinta e di avere un tumore nello stesso giorno. Nasce la bimba, lei muore a 36 anni

 in sottofondo 
wise  one -   gli anelli del potere  Stagione 1 

 dalla  èagi.na F acebook    La sensibilità dell'anima  appendice  di https://lasensibilitadellanima.blogspot.com/

È una storia d’amore e di speranza quella di Elisabetta e di suo marito Matteo. Lei è morta di tumore lo scorso luglio a 36 anni, lui ha deciso di raccontare la loro storia per dire “a chi sta combattendo la stessa guerra di non arrendersi”. A raccogliere il racconto di Matteo Grotti è il quotidiano Ravenna Today.
Matteo Grotti, 35enne originario di Rontagnano, nel Cesenate, vive a San Zaccaria. Il 31 luglio scorso ha vissuto il giorno più brutto della sua vita: sua moglie, la 36enne ravennate Elisabetta Socci, è morta a causa di un tumore che le era stato diagnosticato un anno e 5 mesi prima. Elisabetta muore lasciando sua figlia Cecilia, di soli 10 mesi. Elisabetta – Elisa per suo marito – e Matteo si erano conosciuti nel 2015 al matrimonio di un amico in comune: si innamorano e dopo un anno e mezzo vanno a vivere insieme. Poi, nel 2018, il matrimonio. La loro era una vita tranquilla: lei lavorava come architetto a Cervia, lui come magazziniere a Pievesestina. Provano ad avere un figlio, che inizialmente non arriva. Poi nel giorno del suo compleanno, nel 2021, Elisabetta si accorge di avere un nodulo al seno. È un tumore maligno. "Ci è caduto il mondo addosso – ha raccontato Matteo – In ospedale a Forlì le hanno prescritto alcuni esami e le hanno detto di fare prima un test di gravidanza per accertarsi che non fosse incinta. Figurati, ci avevamo provato per due anni…". E invece, quello stesso giorno in cui scopre di avere un tumore, la giovane donna fa il test di gravidanza che dà esito positivo. Elisabetta viene subito operata per cercare di rimuovere il tumore. "Non ha mai vacillato un attimo, era convinta che la gravidanza fosse la luce in questo periodo di tenebre e, nonostante tutto, ha scelto di portarla a termine e di curarsi, seppur parzialmente, con terapie che non danneggiassero una creatura così intensamente desiderata. Prima dell'operazione ci hanno fatto vedere la bambina, anche se essendo a una settimana di gravidanza era appena un puntino, perché ci hanno detto che c'era la possibilità di perderla. E invece così non è stato. I medici sono stati bravissimi a trovare una soluzione per operare mia moglie salvando al contempo nostra figlia”. Ma purtroppo l’intervento non basta, il tumore c’è ancora e lei, al terzo mese di gravidanza, inizia la chemioterapia. A otto mesi nasce la piccola e poco dopo subisce la mastectomia totale. “Ma al primo esame scopriamo che la malattia era migrata: il tumore si era esteso al fegato. Ogni volta che facevamo un esame e andava male lei diceva ‘Andrà meglio il prossimo, non può sempre andare male’. Quindi abbiamo sempre vissuto nella speranza, perché si può sperare e continuare a vivere anche se poi il finale è brutto. E lei ha fatto così, sempre godendosi il presente, tutti sapevano che era malata ma ci ha fatto vivere il periodo della sua malattia come se non fosse nulla, è stata una guerriera. Elisa ha continuato con le terapie, ma il cancro non si è mai fermato. Fino a quando il 31 luglio scorso, dopo un anno e 5 mesi dalla diagnosi, si è spenta”, il racconto del marito.

Che ora si ritrova a crescere senza la sua compagna la loro bambina tanto desiderata. “A 35 anni non bisognerebbe mai vedere la morte della propria moglie, crescere una figlia da soli e sapere che non potrà mai davvero sentire l'affetto di sua madre”, le parole del giovane papà, che ha detto di voler crescere sua figlia ricordandole “sempre della madre fantastica che ha avuto e soprattutto dire al mondo intero quanto fosse speciale”.
E se oggi Matteo ha deciso di raccontare la loro storia è perché spera di aiutare le persone che stanno vivendo una situazione simile. "Non voglio raccontare tutto questo per ricevere compassione o pietà, ma solo per dire a chi sta combattendo la stessa guerra di non arrendersi. Combattete come ha fatto Elisa. Si può vivere felici anche nella malattia, provando ogni tanto a dimenticarsela, a stare bene e a fare cose normali”.

da repubblica online

RAVENNA - Una storia d'amore e di morte, di malattia e coraggio. Di speranza, nonostante tutto. E' la storia di Elisabetta Socci, morta di tumore lo scorso luglio a 36 anni, e di suo marito Matteo Grotti che ha deciso di raccontarla. Non per ricevere compassione, non per muovere a pietà. "A 35 anni non bisognerebbe mai vedere la morte della propria moglie, crescere una figlia da soli e sapere che non potrà mai davvero sentire l'affetto di sua madre - dice - Ma voglio dire  a chi sta combattendo la stessa guerra di non arrendersi. Combattete come ha fatto Elisabetta. Si può vivere felici anche nella malattia, provando ogni tanto a dimenticarsela, a stare bene e a fare cose normali. Pensare: forse questa cosa non potrò farla domani, e allora facciamola oggi". 

Elisabetta Socci e Matteo Grotti il giorno del matrimonio (da Facebook) 

La storia è stata raccolta da Chiara Tadini di Ravenna Today. Lei architetto a Cervia, lui magazziniere originario di Rontagnano, nel Cesenate. Si conoscono a un matrimonio di un amico comune, si innamorano. Una volta sposati vanno a vivere San Zaccaria nel comune di Ravenna. Sono felici, hanno la vita davanti. Poi arriva il giorno nero: la diagnosi di tumore che Elisabetta riceve nello stesso giorno in cui scopre di essere incinta. Da lì comincia la sua battaglia che combatte facendo, lei, coraggio a tutti. Al terzo mese di gravidanza inizia la chemioterapia e a otto mesi dà alla luce una bellissima bambina. Racconta Matteo a Ravenna Today: "Non ha mai vaccilato un attimo, era convinta che la gravidanza fosse la luce in questo periodo di tenebre e, nonostante tutto, ha scelto di portarla a termine e di curarsi, seppur parzialmente, con terapie che non danneggiassero una creatura così intensamente desiderata".Dopo un anno e cinque mesi, quando la piccola ha 10 mesi, Elisabetta non ce la fa. E Matteo, a 35 anni, si ritrova a dover crescere sua figlia da solo. "La crescerò raccontandole quanto sua madre fosse speciale. Abbiamo sempre vissuto nella speranza, perchè si può sperare e continuare a vivere anche se poi il finale è brutto. E lei ha fatto così, sempre godendosi il presente, tutti sapevano che era malata ma ci ha fatto vivere il periodo della sua malattia come se non fosse nulla, è stata una guerriera". Il messaggio che ora Matteo vuole dare: non arrendersi.



2.2.22

matrimoni in punto di morte

 

  dall  account  istangram  di  gianluigi.nuzzi
Verificato

Le aveva promesso di sposarla quando sarebbe guarita dal cancro. Purtroppo le cose non sono andata proprio come avrebbero sperato. I medici, infatti, le hanno dato soltanto pochi mesi di vita. Lui, per tutta risposta, ha deciso di rimboccarsi le maniche riuscendo a organizzare tutto in meno di 3 settimane. E l'ha sposata.


Dietro il dolore, dietro la paura, ma comunque il il giorno più felice della loro vita.
Una settimana dopo lei non c'era già più, ma questa foto ancora oggi, riesce a strappargli un sorriso.
Una storia intensa, emozionante, che ho letto e volevo condividere con voi. Attimi di felicità anche nei momenti più bui, anche davanti alle ingiustizie della vita.

1.11.20

cancro ai tempi del covid . “Operata a mie spese per guarire dal cancro ai tempi del Covid la storia di Marina Gazzini



da repubblica online la storia che è riuscita ad affrontare un simile problema senza farsi prendere dal panico e dalla paura con intelligenza e coraggio. Tale signora ha Un carattere forte e solare. Lei comunque ha potuto pagarsi l'operazione (anche se non è giusto dovrebbe essere lo stato aiutare il cittadino non solo il privato ), lei è stata fortunata perchè purtroppo c'è chi muore perchè non può pagare di tasca sua non è solo sulla coscienza di chi ci amministra, ma anche di chi evade le tasse e/o ruba impunemente soldi pubblici.



L'8 marzo non è solo la data del lockdown a Milano. È anche il giorno in cui Marina Gazzini riceve la diagnosi di tumore al seno. "Il secondo. L'altro l'avevo curato cinque anni prima. È un cancro nuovo, del tutto indipendente dal primo. Mi hanno spiegato che è un caso raro, non sono stata fortunata". Le sfortune, in quei giorni, Gazzini, 55 anni, di Milano, professoressa di storia medievale alla Statale,




sembra raccoglierle tutte. Le porte della sala operatoria le si sbarrano davanti a causa del Covid. E per chi vuole sapere cosa voglia dire curare una malattia grave in piena emergenza pandemia (sono mille le nuove diagnosi di cancro in Italia ogni giorno), lei è disposta a raccontare tutta la sua storia. Lo fa anche come testimonial dell'Airc, l'Associazione italiana per la ricerca del cancro, che da domani e per una settimana organizza i suoi tradizionali "Giorni della ricerca", con la maratona Rai e la possibilità di acquistare i Cioccolatini della ricerca, stavolta online tramite Amazon, per sostenere lo studio della malattia. Perché, come ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell'ospitare al Quirinale i membri dell'Airc: "C'è il Covid, ma le altre malattie non sono finite in lockdown. Troppi screening e troppe cure vengono rinviati a causa della pandemia".


Lei ne sa qualcosa. Come si è sentita quel giorno?

"Avevo una visita di controllo. Ormai erano passati cinque anni dal primo tumore del seno, ed è arrivata la sorpresa dall'altro. Il medico ha provato a scherzare: meno male che ne ha solo due".

Immagino non avesse voglia di ridere.

"Nell'ospedale pubblico che mi stava seguendo il Covid è entrato subito e in modo pesante. Le sale operatorie sono state immediatamente chiuse. Impossibile eseguire interventi. Idem per la chemio e tutto il resto. Mi hanno detto che se ne sarebbe riparlato a giugno. Ma conosco i tempi di attesa e ho pensato che non avrei potuto aspettare".

Come ha fatto?

"Sono andata in clinica. Ho pagato completamente di tasca mia, perché non ho un'assicurazione. Ero almeno tranquilla, visto che mi ha operato la dottoressa del primo tumore. A Pasqua ero già fuori".

Oggi com'è la situazione?
"Migliorata. Ho ripreso le cure e i controlli nell'ospedale pubblico, dove hanno compreso benissimo la mia scelta. L'attenzione per il coronavirus è estrema, le distanze sono rispettate in modo rigoroso, all'ingresso distribuiscono mascherine nuove, per evitare che qualcuno si presenti con quelle strausate. C'è il disagio di non poter essere accompagnati, soprattutto per i pazienti che vengono da lontano. Ma nel complesso ci si sente in un luogo sicuro. Certo, il clima è diverso".

In che senso?
"L'ospedale è vuoto. Ci sono solo i pazienti. E il personale è stremato. Si vede chiaramente".

Anche l'intervento l'ha affrontato da sola.

"È stato un momento di enorme tristezza. In fondo però non si è mai davvero soli. Si parla con gli altri, si formano legami di solidarietà".

Come ha fatto ad affrontare una tale serie di colpi avversi?

"Mi ha aiutato il lavoro. Non ho mai smesso, mi ha permesso di non pensare. Con la didattica a distanza nessuno si è accorto di niente. Solo alla fine ho raccontato tutto ai colleghi. Non perché avessi dei problemi a rendere pubbliche le mie vicende. Ma loro sono persone splendide e mi avrebbero chiesto di non lavorare. Io invece ne avevo bisogno".

Ma il coronavirus non le fa paura?
"No, per nulla. Non voglio essere fraintesa. Mi rendo perfettamente conto della sua gravità e seguo con attenzione ogni precauzione. Qui in Lombardia è stato uno tsunami, una tragedia. Il lockdown, chiusa in casa con mia madre e mia figlia, è stato pesante, come per tutti. Ma no, non riesco a provare paura. Vorrei anzi dare un messaggio di speranza a chi comincia oggi la sua storia contro il tumore. Il momento per ammalarsi non è certo ideale. Ma oggi non è come un tempo. Ci sono macchine e terapie che cinque anni fa, quando ho avuto la prima malattia, non erano nemmeno immaginabili. Ed è tutto merito della ricerca".

7.5.17

come sfidare la censura a volte stupida ed idiota e fare prevenzione sui tumori al seno in maniera creativa ed intelligente e Twitter meglio dello psicologo. Una cagliaritana spiega come si diventa star del web

Sappiamo , o almeno dovremo saperlo , che Uno dei metodi più utili per prevenire il tumore al seno è l'autopalpazione. Per evitare la censura dei social network, una ong argentina ha ideato una campagna speciale




:il petto di un uomo (   qui    a  qualcosa   serviamo  😅😆😇😊 )  per aiutare le donne!  Ringrazio la  nuova   utente  facebookiana   , alla  quale  dò la benvenuta  , claudia.zedda


Twitter meglio dello psicologo. Una cagliaritana spiega come si diventa star del web


Un’immagine di Valentina Serra tratta dal suo profilo Facebook

"L'amore è quella cosa che tu sei da una parte, lui dall'altra e gli sconosciuti si accorgono che vi amate": un aforisma di Massimo Troisi, secondo alcuni; di Alda Merini, secondo altri.
In realtà, ad averlo partorito è ValeSantaSubito, al secolo Valentina Serra: ha scelto quel nickname (soprannome) perché "mi sono resa conto di aver avuto troppo pazienza nella mia vita". E, grazie ai suoi pensieri in 140 battute, è diventata una tweetstar, una delle persone più seguite in Italia su Twitter, grazie ai suoi 41 mila follower.
LA STORIA - Cagliaritana, 50 anni compiuti a marzo, Serra vive da una vita ("26 anni, per l'esattezza") lontana dalla sua città. Scelta quasi scontata se, come è capitato a lei, ci si ritrova ad amare un calciatore: nel 1989 si innamorò di un giocatore del Cagliari, Mauro Valentini, e lo seguì nei suoi trasferimenti. "Non a caso il mio primogenito, Andrea, è nato a Cagliari mentre la seconda, Giulia, è nata a Bergamo". Appese le scarpette al chiodo, Valentini tornò insieme alla sua famiglia a Viterbo.
LA SVOLTA - Una vita normale. Con un piccolo neo. "Ero la moglie di, non Vale". Nel 2011 si iscrive a Twitter: il social network diventa una sorta di psicanalista virtuale. "Stavo attraversando un momento di forte disagio, mi sono rinchiusa in casa. E ho cominciato a scrivere i miei pensieri su Twitter". Niente di banale, i tweet sono un mix di autoironia e intelligenza. Anche la fine del suo rapporto con Valentini è raccontata con un tweet. "Ho dato a Mauro la possibilità di essere ancora amato: io non riuscivo più a farlo".
LA SCALATA - In quei tweet c'è tutta la ValeSantaSubito. "Non scrivo per aumentare i follower. E non faccio quello che altri fanno: seguono altri utenti per essere, a loro volta, seguiti. Quando scrivo le mie stupidaggini poi mi metto a ridere da solo". Nessuna ricerca di fama. "Ma grazie a Twitter ho conosciuto tante persone fantastiche". Non solo. "Sono diventata la social media manager di un'azienda proprio grazie ai miei tweet".
Una carrellata? "Ma la notte non potrebbe portare solo il sonno. Chi sarà l'idiota che le ha chiesto i consigli" o "50 sfumature di materia grigia che avete perso andando a vedere il film". Battute taglienti, aforismi. Ma anche impegno sociale: "La vera tragedia", parlando delle donne, "è che, per farci rispettare, noi si debba fare sciopero". Filosofia in 140 battute. "E pensare che, a scuola, facevo temi di otto pagine", conclude.







28.4.17

elaborare il lutto aiutando gli altri ed amare la propria terra senza paura di allontanarsi

Perde la figlia e si dedica al ricamo, la storia di Lucia: «Così ho donato 40 mila euro al Cro»
L’iniziativa di una pensionata che ha raccolto i fondi per il centro oncologico di Aviano con i ricavati dei suoi lavori. «L’ho fatto in ricordo di mia figlia, scomparsa a 37 anni»
di Piero Cargnelutti



Con quelle mani segnate dall’ago e dal filo, in 12 anni di ricami solitari ha raccolto la ragguardevole cifra di 40 mila euro che ha donato al Cro di Aviano per la ricerca contro il cancro.
La storia è quella di Lucia Feregotto, 74enne di Gemona, che dal 2004 realizza merletti, pupazzi e creazioni artigianali in stoffa che vende nei mercatini o nell’ambito di diversi festeggiamenti, per raccogliere fondi che poi ha sempre messo a disposizione del Cro, con tanto di documentazione.
Quest’anno, con la vendita delle sue ultime creazioni, ha ricavato ulteriori proventi che le hanno consentito di raggiungere la cifra complessiva di 40 mila euro, e lunedì prossimo, in occasione dei festeggiamenti del primo maggio a Campagnola, consegnerà ufficialmente ai rappresentanti del Centro di Aviano, che hanno accettato di intervenire personalmente, il contributo con il quale raggiungerà quella fatidica cifra nel corso di un incontro che sarà realizzato grazie alla collaborazione del comitato di borgo.
Quella di Lucia è una storia che ha inizio in un momento difficile, ovvero la perdita improvvisa per una malattia incurabile della figlia Milly, mancata all’età di 37 anni. «Quando andai in pensione – racconta Lucia Feregotto –, poiché avevo più tempo a disposizione, cominciai a dedicarmi al cucito e alla creazione di abbellimenti in stoffa. Mia figlia Milly mi diceva spesso che quelle che realizzavo erano belle creazioni che meritavano di essere vendute, io le rispondevo che lo facevo per passione, e non mi interessava guadagnarci perché fortunatamente riuscivo a vivere con la mia pensione. Allora Milly si prese l’impegno di organizzare la mia prima bancarella, ma poi mancò improvvisamente».
Era il 2 settembre 2004 quando la figlia fu colpita da una malattia che se la portò via in una notte. Lucia reagì a quel duro colpo, portando a termine quello che Milly aveva cominciato, e decidendo di destinare tutto il ricavato alla ricerca contro il cancro. Cominciò quell’autunno alla sagra della Beata Vergine della Salute di Maniaglia e poi continuò tra mercatini e festeggiamenti vari, dove poteva organizzare il suo banchetto colorato: nel corso degli anni, tante persone l’hanno aiutata portandole stoffe e materiali che lei riciclava creando merletti e ricami e lavorando a mano sino a mezzanotte, dopo essersi assicurata che la sua abitazione fosse in ordine come fa un’ottima donna di casa.
In questi anni, neppure i cinque interventi in anestesia che ha subito l’hanno fermata: per lei la cosa importante era che ci fosse il nome di Milly in quella busta che ogni anno andava a consegnare di persona al Cro. «Ho sempre donato sino all’ultimo centesimo raccolto – dice Lucia – e non ho mai tenuto niente per me. Di certo non avrei mai pensato di arrivare a questa cifra. Ora
che ho raggiunto 40 mila euro continuerò a cucire, ma non so se riuscirò a partecipare a molti mercatini in futuro: sono tornata tante volte a casa con la gonna bagnata dalla pioggia e la mia età non se riuscirò a partecipare a molti mercatini in futuro: sono tornata tante volte a casa con la gonna bagnata dalla pioggia e la mia età non mi permette di affrontare facilmente le intemperie».




Il lontano Perù dei bimbi tra Lima e l’Amazzonia

La storia di Martina Uda, architetto che lavora a progetti di cooperazione Costruisce scuole per le bidonville e i villaggi dei nativi che abitano la foresta 
 di Enrico Carta






ORISTANO. L’altra parte del mondo non è solo un luogo geografico. Non è fatta solo di alberi diversi, di città che hanno nomi dal suono magari un po’ strano. L’altra parte del mondo è fatta di volti, modi di vivere, persone. È lontana, ma non per chi la vuole scoprire e fare propria. Non è solo lo spirito di avventura, ma anche la voglia di conoscenza e di mettersi in gioco ad aver spinto Martina Uda sino al Perù dell’immensa capitale Lima e delle vastissime propaggini della foresta amazzonica.
Architetto di 30 anni di Santa Giusta, ha fatto le valigie qualche tempo fa quando ancora era studentessa. «Dopo l’esperienza universitaria di Cagliari, ho proseguito gli studi con un master preso tra Alghero e la Cina. A quel punto ero pronta per il lavoro, però avevo il desiderio di fare un’esperienza nell’ambito della cooperazione». Facile? No, per niente. Il settore è povero e per un anno le risposte non sono arrivate. L’occasione però passa e chi la sa attendere viene ripagato. «Attraverso il servizio civile sono stata inserita nell’associazione peruviana Semillas fondata da Marta Maccaglia e a quel punto ho fatto i bagagli».
Era l’ottobre del 2015 e il Perù è diventata la terra di Martina Uda per undici mesi divisi a metà tra Lima e l’Amazzonia. «Il mio lavoro – racconta – si è svolto in due diverse fasi. La prima nel sobborgo di Huaycon, una bidonville simile alle più conosciute favelas brasiliane, ma con una densità di popolazione inferiore». È allora che, anche nel lontano Perù, spunta fuori l’architetto: «Mi sono occupata di attività di doposcuola con i bambini e tra queste c’erano proprio laboratori di architettura, naturalmente adattata allo spirito dei piccoli alunni e orientata allo sfruttamento delle potenzialità che anche una periferia di una città come Lima offre loro».
La compagnia di quattro donne si è poi spostata verso la foresta, quella terra mitica che porta il nome di Amazzonia e che rimanda indietro sino alle storie dei primi colonizzatori e all’instancabile amore per la propria terra dei nativi. «Lì il nostro lavoro è cambiato – spiega Martina Uda – perché le scuole in molti villaggi da loro abitati proprio non esistevano. Per progettarle e costruirle servono soldi e a questo, io e le mie compagne, ci siamo dedicate a lungo». Poi è iniziata la fase di costruzione, mai banale come si potrebbe pensare osservando tutto ciò con gli occhi da europei benestanti. «Il primo passo – prosegue – è quello di analizzare il luogo, studiarne le esigenze e capire se la nostra iniziativa è accolta con favore. Una volta superata questa fase si parte: loro prestano la manodopera per abbattere i costi di realizzazione e noi mettiamo a disposizione le nostre conoscenze. L’associazione ha costruito quattro scuole – racconta–. Io mi sono occupata della costruzione di una scuola elementare iniziata ad agosto del 2016. Si chiama Jerusalem de Minaro e ospita duecento bambini, una sala mensa e un locale per assemblee. È fatta
principalmente di legno ed è stata editifacata con un mix di tecniche moderne e tradizionali». Ora Martina Uda è pronta per il nuovo viaggio, quello che porta alla conclusione dell’opera. Ci si può chiedere perché e la risposta è di una semplicità imbarazzante: «Lascio il futuro lì. A loro».
«Amo la mia terra ma non ho paura di allontanarmi»
Si pensa che chi abbia la valigia sempre pronta abbia un legame non strettissimo con la propria terra, invece quella è una valutazione frettolosa. «Non mi spaventa affatto allontanarmi – afferma
Si pensa che chi abbia la valigia sempre pronta abbia un legame non strettissimo con la propria terra, invece quella è una valutazione frettolosa. «Non mi spaventa affatto allontanarmi – afferma Martina Uda – e infatti nell’attesa di concludere il progetto in Perù, cosa che avverrà in questi giorni, ho vissuto a Genova col mio ragazzo dove ho continuato a svolgere la libera professione. Eppure l’idea di avere un giorno la Sardegna come base per tutto ciò, è sempre presente». È un po’ come avere un’anima divisa in due: «Adoro le cose che faccio dall’altra parte del mondo però gli affetti sono qui in Sardegna, il cui maggior problema è la mancanza di coesione e di fare rete. Percepisco che ci sono tanti aspetti che le persone invidiano a noi sardi come il nostro stile di vita però siamo poco uniti e il campo lavorativo non fa eccezione. La strada che dobbiamo percorrere è quella del lavoro in studi associati, del co-working utilizzando il termine inglese». E intanto il Perù si riaffaccia nell’orizzonte di Martina Uda e dell’associazioneSemillas che sta portando avanti una raccolta fondi per regalare ai bimbi della scuola amazzonica un parco giochi in bambù. il progetto si chiama Parquebambu che ha anche una pagina Facebook, mentre l’aiuto all’associazione si può dare attraverso la pagina internet www.semillasperu.com










mi permette di affrontare facilmente le intemperie».

17.2.16

Terra dei Fuochi, «quello che non ho potuto dire da Vespa» di Anna Spena vita il 16 febbraio 2016 e ECCO CHI ERA ROBERTO MANCINI, IL POLIZIOTTO EROE CHE SCOPRÌ LA TERRA DEI FUOCHI

da http://www.vita.it/it/article 16\2\2016



Ieri [ in realtà era avantieri ] a Porta a Porta








ospiti in studio due mamme che vivono in Campania e hanno perso i loro figli per colpa di un tumore. Eppure il conduttore durante la trasmissione non ha mai usato la parola cancro. Marzia Caccioppoli: «In trasmissione per esempio non sono riuscita a parlare del problema dell'evasione fiscale o del fatto che in Campania non esiste la terapia del dolore. In queste terre la camorra esegue quello che lo Stato colluso le comanda». L'intervista


Marzia Caccioppoli con suo figlio Antonio morto a nove anni e mezzo


Ieri in seconda serata è andata in onda una puntata di Porta a Porta dove si è parlato di Terra dei fuochi. Tra gli ospiti in studio Beppe Fiorello, protagonista della prima puntata della fiction andata in onda in prima serata, sempre su Rai1, “Io non mi arrendo” che nella mini-serie interpreta il ruolo di Roberto Mancini, il poliziotto che per primo indagò sulla questione dei rifiuti tossici in Campania, Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore della Sanità e la moglie di Roberto Mancini Monika Dobrowolska. Poi due “mamme delle terra dei fuochi” che fanno parte dell’associazione “Noi genitori di Tutti”, Anna Magri e Marzia Caccioppoli; i loro figli sono morti a 22 mesi e nove anni e mezzo per colpa di un tumore.
Ma alle due mamme è stata davvero data la possibilità di denunciare tutto?
Vita.it intervista Marzia Caccioppoli che racconta quello che avrebbe voluto aggiungere…



Dopo la puntata di Porta a Porta si sono sollevate alcune polemiche. Prima tra tutte, il conduttore Bruno Vespa non ha mai utilizzato, neanche una volta, la parola cancro o tumore. Ha sempre parlato di malattia grave e ha sottolineato più volte che la percentuale della terra inquinata “è solo una piccolissima parte della Campania”…
Quando io e Anna Magri abbiamo accettato l’invito eravamo consapevoli che non avremmo avuto modo di ribattere molto o di raccontare la gravità dei fatti. Queste sono le regole di quel format televisivo.

Allora perché avete accettato lo stesso l’invito?
Per due ragioni. La prima è che se non fossimo andate noi avrebbero potuto invitare qualcuno dei medici negazionisti che non fa altro che peggiorare la nostra situazione. La seconda è che il nostro obiettivo è mantenere alta l’attenzione mediatica sulla tragedia che si consuma ogni giorno nella nostra terra. Saremmo volute andare in trasmissione con qualcuno dei dottori che collabora con l’associazione. Ma questo non è stato possibile.

Cosa avrebbe voluto aggiungere ieri sera?
Che quel 3% di cui tanto si parla e che si tende a banalizzare come una percentuale piccolissima non è poi così insignificante se si considera che è tutta concentrata tra i comuni a Nord tra Napoli e Caserta.
Che quello per cui ci stiamo battendo non è solo il numero di morti per tumore ma soprattutto il numero dei bambini morti per tumore. Sono due cose differenti. Ieri è stato ripetuto da Loredana Musmeci, dirigente di ricerca all’Istituto Superiore di Sanità, che ci sono altre zone d’Italia come Brescia, Gela, Taranto, nella stessa situazione della terra dei fuochi…Il problema è anche questo: la Campania non è una regione industrializzata. Qui si vive ancora di agricoltura. Com’è possibile che ci si ammali allo stesso modo? I rifiuti tossici sono stati sversati per 30 anni tutti i giorni in queste terre. La camorra ha eseguito ed esegue quello che lo Stato colluso le comanda.

Quale altra questione doveva essere approfondita?
Quella dei roghi. Che invece di diminuire aumentano. Avevano parlato di 800 militari da mandare nelle Terra dei Fuochi. Io non ne ho visto nemmeno uno. Però quello che penso io è che le forze dell’ordine devono essere rafforzate sul posto. E che quei soldi invece potrebbero essere investiti nella prevenzione della salute dei bambini.




Anche ieri sera, durate la trasmissione, si è sottolineato più volte che non è scientificamente provato un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale e le morti per tumore…
Tutti continuano a ripeterlo. Invece di parlare venissero a vedere questo nesso al dipartimento di oncologia del Pausilipon o del Santo Bono di Napoli. Negano l’evidenza. Se non c’è questo nesso allora perché nel corpo della maggior parte dei campani che abitano quei comuni c’è piombo, arsenico, diossina. Dicono che la Campania è la regione più giovane d’Italia. Ma se i vecchi muoiono perché sono vecchi e i giovani ce li continuano ad ammazzare, che saremo una regione deserta? Faranno quello che vogliono con questo territorio.

Che vuol dire?
Che hanno deciso di condannarci a morte. A questo punto almeno ci dessero un giorno stabilito. È peggio svegliarsi ogni mattina con la paura di avere un cancro. Qua è diventata una roulette russa.

Qual è la verità che si tiene sempre nascosta?
Il problema principale è l’evasione fiscale. Se tu prendi e arresti uno che sta sversando rifiuti tossici, non fai altro che toccare l’ultima ruota del carro. Magari un rom o un poveretto senza lavoro che si sta guadagnando la mazzetta. Ma a chi appartengo quelle gomme? E quei pellami? Ecco noi mettiamo i microchip ai cani e non riusciamo a tracciare un camion di rifiuto tossici?

Di cosa ha bisogno questa terra?
Di fondi per tutelare i bambini che la abitano. Di controlli più seri. Di qualcuno che ci venga incontro e capisca la necessità di proteggerli. Se a mio figlio Antonio avessi fatto un esame tossicologico forse avrei potuto prevenire la sua morte. Ma l’hanno ammazzato silenziosamente e omertosamente il mio bambino. Questa è una guerra silenziosa.

Tra chi?
Tra lo Stato e noi poverini che subiamo. Lo Stato li avrebbe dovuti proteggere questi bambini. Invece ha ammazzato i figli delle madri di queste terre. Qua se vai a prenotare una visita per un nodulo sospetto c’è una lista d’attesa di cinque mesi. In cinque mesi il cancro ti uccide. Se sei povero nella Terra dei fuochi muori due volte. Quando mio figlio si è ammalato, l’ho preso e l’ho portato fuori dalla Campania. Qui non fanno neanche una terapia del dolore adeguata.

Anche questo avrebbe voluto dire…
Li fanno morire nel dolore. Un’altra delle nostre bambine l’hanno fatta morire con gli arresti cardiaci. L’altro giorno è arrivata all’ospedale Pausilipon una ragazzina di 12 anni con forti dolori alla pancia. La mamma credeva fossero i dolori mestruali. Invece era un cancro metastatico in una delle tube. Abbiamo delle bombe in corpo.

da http://www.famigliacristiana.it  mercoledì 17 febbraio 2016


ECCO CHI ERA ROBERTO MANCINI, IL POLIZIOTTO EROE CHE SCOPRÌ LA TERRA DEI FUOCHI
15/02/2016 La Rai gli dedica una fiction con Beppe Fiorello, ma Roberto Mancini ha fatto fatica a veder riconosciuto il lavoro che gli è costato la vita.
950600Invia Ad Un Amico
Riduci CarattereIngrandisci CarattereStampa La Pagina

Elisa Chiari


Aveva un nome famosissimo Roberto Mancini, ma era la fama di un altro, colpa di un’omonimia che portava altrove alla zazzera al vento dell’allenatore dell’Inter e poi del Manchester City e poi di nuovo dell’Inter. La beffa di un destino sgarbato.
Il Roberto Mancini, di cui parliamo, invece, non lo conosceva nessuno e capelli non ne aveva più, portati via dalle cure per il linfoma non Hodgkin con cui aveva combattuto per anni, dopo averne combattuto la causa: i rifiuti tossici, che oggi tutti ricollegano alla Terra dei fuochi, e che Roberto Mancini, da poliziotto, aveva scoperto prima degli altri, rendendone conto in una informativa che risale al 1996.
Quelle carte però restarono in un limbo (che fece dire a un Mancini demoralizzato: “Se fosse stata presa in considerazione forse non avremmo avuto Gomorra”), finché il Pm Alessandro Milita della Dda di Napoli, anni dopo, non la trovò. Chiamò Roberto Mancini e chiese la trascrizione delle registrazioni contenute in quell’informativa vecchia di parecchi anni, servivano per portare a giudizio una trentina di imputati per reati che vanno dall’associazione mafiosa al disastro ambientale, processo tuttora in corso davanti alla Corte d’Assise di Napoli.
Roberto Mancini a quell’epoca è poliziotto da un pezzo, entrato all’inizio degli anni Ottanta, passando per vari uffici, tra cui la Criminalpol e la Catturandi, con indagini su camorra infiltrazioni dei clan nel Basso Lazio, tra il 1997 e il 2001 Mancini collabora con la Commissione rifiuti della Camera, fa tra missioni e sopralluoghi in Italia e all’estero, si espone ai rifiuti tossici e alle loro esalazioni, e nel 2002 si ammala di linfoma. Nel 2010 Comitato di verifica del Ministero delle Finanze mette nero su bianco che la sua malattia viene da una “causa di servizio”, l’indennizzo, 5.000 euro, è poca cosa.
La richiesta di risarcimento danni che Mancini avanza alla Camera per “malattia professionale” si scontra con la burocrazia: l'attività svolta non ha determinato un rapporto di lavoro con la Camera. La risposta che arriva nel luglio del 2013 non è quella sperata, gli si dice che nel periodo della Commissione Mancini, pur collaborando con la Camera, ha continuato a fare il poliziotto, inquadrato nell’Ispettorato di Polizia presso la Camera, e che sarebbe toccato alla Polizia informare Mancini dei rischi diversi da quelli “tipici e propri delle sue mansioni professionali” e cioè dalla pallottola o dall’esito nefasto di una colluttazione più prevedibili nella vita quotidiana di un agente di Polizia.
Mancini non si arrende e non si arrendono neppure i suoi amici: nel novembre 2013 Fiore Santimone, amico di lunga data di Roberto Mancini, lancia una petizione su Change.org, la raccolta di firme schizza, il 6 marzo del 2014 Roberta Lombardi, con un’interrogazione parlamentare, porta il caso all’attenzione del Ministero dell’Interno. E in aprile il caso diventa una manifestazione pubblica in piazza Montecitorio. Roberto Mancini muore il 30 aprile 2014, le firme raccolte intanto sono 75.000, i promotori della petizione le consegnano alla Camera, che poco dopo invia al Ministero dell'Interno tutta la documentazione relativa alle indagini di Roberto Mancini sui rifiuti tossici.
La Presidente della Camera dà mandato perché parta l’istruttoria sulla vicenda. Nel settembre 2014 a Roberto Mancini viene riconosciuto lo status di “vittima del dovere” che non solo certifica la connessione tra la malattia e il servizio prestato ma riconosce alla sua famiglia il diritto al sostegno previsto dalla legge. Roberto ha infatti lasciato una moglie Monika e una figlia, Alessia, che oggi ha 15 anni. Come ha scritto Monika nel messaggio di ringraziamento alle persone che hanno messo quelle 75.000 firme non ci sono medaglia d’oro al valor civile né risarcimento che possano restituire l’affetto perduto ma: “Il suo importantissimo lavoro sul traffico di rifiuti tossici è servito a molte cose e adesso questo è ufficialmente riconosciuto. E’ giusto che chi ha dato la propria vita per il bene di tutti, venga almeno omaggiato dalle Istituzioni”.

22.7.15

Viareggio Un figlio e il cancro: la sfida di Chiara Viareggio: scopre il tumore in gravidanza ma riesce a sconfiggerlo.

canone   consigliata  durante la lettura
IL mondo  --  Csi  

la storia di Chiara che ha scoperto di avere un tumore in gravidanza. È riuscita a diventare mamma e a guarire dal cancro. Ora con un progetto fotografico aiuta le donne a liberarsi dal peso della malattia e dalla paura di morire

Un figlio e il cancro: la sfida di Chiara
Viareggio: scopre il tumore in gravidanza ma riesce a sconfiggerlo. Ora con altre 11 donne si mette in gioco : «Possiamo vincere» di Valentina Landucci





VIAREGGIO. Nel suo grembo ha portato la vita e la morte: suo figlio e il cancro. Tra lei e il suo piccolo c'è stato, per così dire, uno scambio: lei gli ha donato la vita e da lui in qualche modo l’ha ricevuta in cambio.
Chiara Vogliazzo è una bella mamma di 43 anni di Massarosa. Sorriso luminoso, straordinario senso dell’umorismo e una piccola cicatrice sulla pancia, il segno della sua grande e indicibile paura: morire per quella malattia scoperta diventando madre. Un inferno vissuto nel silenzio, tra terrore e speranza. E quel bambino. «È lui che mi ha dato la forza, che mi ha ridato la vita» racconta a distanza di 4 anni dall'operazione: cancro al colon.
Ora Chiara sta bene. Si sottopone a controlli periodici, ma sta bene. E ha deciso di mettersi in i gioco   con il sorriso e in modo originale ideando il progetto “Cicatrici di vita”: la sua e quella di altre 11 donne che come lei si sono fatte fotografare per un calendario mostrando i segni delle operazioni subite per combattere il cancro. Hanno sofferto e combattuto. E ora sorridono di fronte all’obiettivo, alla vita: hanno vinto loro.
«È vero le cicatrici sono profonde - spiega Chiara parlando del suo progetto - ma la rinascita è ancora più forte e dodici donne vogliono mostrare che dal cancro si può guarire e se ne può uscire con il sorriso facendo pace con le proprie cicatrici sia dell'anima che del corpo».

Come hai scoperto la malattia?

«Ho scoperto di aspettare un figlio, tanto desiderato, nella primavera del 2010. Durante uno dei controlli è venuto fuori che avevo una anemia molto forte. Mi ricoverano, faccio delle trasfusioni, scoprono che ci sono delle perdite e che sono necessari ulteriori accertamenti che decido di fare ma solo in parte perché il mio unico obbiettivo è portare a termine la gravidanza. Mi dico: “Una volta che ho partorito si vedrà”. E il 20 dicembre del 2010 nasce il mio bambino. Qualche settimana dopo il parto, come prevede la tabella dei controlli, vado dalla mia ginecologa che è anche il mio medico curante, per una ecografia per vedere se l'utero si è riassorbito. Mi dice che c’è una massa nell’intestino, è preoccupata: bisogna urgentemente fare una colonscopia e capire che cos’è. E gli accertamenti confermano che è necessaria un’operazione d'urgenza. Mi hanno spiegato che la situazione era grave ma potevo guarire».

Avevi un bimbo di poche settimane a casa ad aspettarti, come hai reagito?

«È stato come sprofondare nel baratro più profondo che si possa immaginare. Ho pensato subito al mio bambino. Ho pianto tutte le lacrime del mondo, vissuto momenti di puro terrore, avevo paura di morire. Pensare al mio bambino era la tragedia più grande ma allo stesso tempo è stato lui la mia più grande forza. Mi dicevo: oddio, rimarrà senza mamma. E insieme: ce la devo fare, devo crescere lui. Piangevo a dirotto ma dovevo pensare positivo».

Il 2 maggio 2011 vieni operata al Versilia: c’è la conferma che si tratta di un cancro. E dopo l’operazione comincia un altro dolorosissimo percorso: la chemioterapia. Sei mesi. Come li hai vissuti ?


«La terapia non mi ha fatto perdere i capelli ma mi dava malessere e dolori che mi rendevano difficile prendere in braccio mio figlio. Lo guardavo negli occhi e la paura di morire si moltiplicava milioni di volte. In quel periodo gli ho scritto una lettera… per dirgli come mi sarebbe piaciuto che fosse da grande se io non ci fossi stata più».

E di tutto questo non ha mai fatto parola con nessuno. Almeno fino a un certo punto.

«Ho condiviso questo percorso con i familiari e le amiche più care. Ma come sempre nella mia vita anche di fronte al cancro avevo deciso di vivere il mio dolore in silenzio in contrapposizione con il mio carattere solare. Con il rientro al lavoro, a inizio 2012, decido di mettere “tutta questa roba” in uno sgabuzzino dicendomi “è passata così”. Ma cose così grandi - e forse è anche un bene - prima o poi ti presentano il conto. Nel mio caso è successo con un corso di fotografia che comincio a frequentare a inizio 2013 con il maestro Alessandro Citti. Che nelle sue lezioni non parla solo di tecnica ma anche di immagini e emozioni: in me si smuove qualche cosa. E mentre sono alla guida della mia macchina diretta alla cena organizzata per la fine del corso di fotografia mi viene in mente di chiedere al maestro se se la sente di fotografare le cicatrici di donne operate di tumore per farne un calendario a scopo benefico. Accetta subito. Mi si allarga il cuore: conoscevo il maestro da pochissimo tempo e subito aveva dato la sua disponibilità a realizzare gratuitamente le fotografie per aiutare a sensibilizzare il più possibile su questo argomento, far parlare di questo tema. Con lui siamo subito d’accordo anche su un altro fondamentale aspetto del progetto. Le immagini devono trasmettere un messaggio positivo, non vogliamo foto tetre, ma modelle che sorridono e che trasmettono un messaggio di fiducia e speranza».

A questo punto ti sei messa alla ricerca delle modelle. E tu sei una delle 12 protagoniste del calendario che dovrebbe essere pubblicata a ottobre, di cui peraltro ha già parlato, raccontando anche la tua storia, la direttrice del settimanale Donna Moderna. È stato facile trovare donne disponibili a farsi fotografare mostrando le proprie cicatrici ?
«È stata la cosa più difficile, psicologicamente. È stata la mia terapia. Dovevo raccontare ad altri quello che è successo a me. E sentire le loro storia. Ho ricevuto anche alcuni no, come comprensibile, ma soprattutto tanti sì dati subito e con entusiasmo. Mi ha riempito il cuore vedere la solidarietà che c'è tra chi ha passato questa cosa: tutte sentivano evidentemente la necessità di dare un messaggio positivo e di sensibilizzare su questo tema. Ricordo soprattutto l’incontro con la prima modella, una ragazza che portava il bimbo al nido con il mio. Non la conoscevo ma ho deciso di parlarle del mio progetto. E lei ha detto subito di sì: il suo entusiasmo, la sua commozione la sua gioia mi hanno dato il coraggio di andare avanti. Io inizialmente non intendevo farmi fotografare: mi vergognavo. Sono state le undici donne che ho incontrato in questo percorso a darmi la forza».

A che punto è adesso il progetto?

«Tra novembre 2013 e aprile 2014 abbiamo fatto tutti gli scatti. Il maestro Citti li sta rielaborando. Poi ci sarà il lavoro, anche il questo caso offerto gratuitamente, del grafico Rino D'Anna. Mi sono rivolta all’associazione “Per te donna” che da tanti anni opera con grande impegno sul territorio su questi temi. Mi è subito sembrata la realtà perfetta perché rispetta in pieno la filosofia del mio progetto e anche da parte loro l’adesione è stata entusiastica e immediata. Ho chiesto a loro aiuto per la realizzazione finale del calendario e insieme abbiamo inoltrato domanda di patrocinio a tutti i Comuni della Versilia, all'Asl e alla Provincia. Insieme stiamo cercando gli sponsor per riuscire a stampare il calendario che vorremmo presentare a ottobre. Non sarà in vendita ma raccoglieremo offerte libere per il calendario che si potrà trovare presso l'associazione e anche in occasione delle mostre delle fotografie che faremo sul territorio. Insommasiamo al punto di trovare le risorse necessarie per stampare calendari e pannelli per le mostre. Ci tengo a dire che abbiamo trovato qualcuno già disponibile ad aiutarci anche se per ora non basta. Cosa che mi dà tanta fiducia: ci sono tante persone generose e questo mi riempie il cuore».

23.9.14

"Sfavorita perché non faccio la chemio" La storia Giuditta doi Matteo insegnante di 47 anni malata di cancro

"Questo articolo non vuole invitare nessuno a servirsi della cura di cui si parla. È solo la storia di una donna che vuole essere libera di curarsi come crede senza per questo perdere buona parte del suo stipendio, senza il quale non potrebbe pagarsi la cura né vivere dignitosamente". Infattti l'Italia è  strano paese "La legge italiana tutela solo i malati di cancro che si curano con la chemioterapia - dice - Perché mi viene negato il diritto di curarmi come voglio?".    si  -. Infatti si da  l'ok   a pseudo cure fatte da ciarlatani come Vanoni il metodo stamina ( cercate in archivio i mie precedenti post ) e si penalizza chi fa cure alternative aver provato quelle ufficiali ( chemioterapia e trapianto di midollo osseo ) . Ora la terapia di Genson anche he se , a differenza con la stamina , con pochissime basi
Corsia di un ospedale ( immagine simbolo )
scientifiche sarà anche un effetto placebo , ma perchè punire in quel modo la persona ? Ok lo stato non ti garantisce il rimborso per quella curae lamette a carico del paziente e fin qui d'accordo perchè << Secondo una notizia divulgata dalla BBC nella clinica dell'Istituto in Messico vengono offerte "istruzioni terapeutiche" ad un costo di 4.900 dollari la settimana, mentre nel documentario Dying to Have Known Steve Kroschel (autore dello stesso) afferma che il costo è di 1.000 dollari. Alle cliniche, presenti in diverse località, si aggiungono le attività di formazione e le conferenze a pagamento, condotte in tutte le parti del mondo, che fanno della diffusione di questa presunta terapia, priva di riscontri scientifici, un'impresa economicamente importante.>> ma perchè discriminare non dando la possibilità di lavorare , come nel caso di riportato sotto , per potersela pagare ?

 La storia di questa donna e il suo appello - chiede che anche chi sceglie ure alternative per il cancro possa per esempio avere un'estensione del periodo di malattia retribuito al 100%

daunione sarda del 23\9\2014  


22.12.13

Cancro come Hiroshima . da http://mattax-mattax.blogspot.it/


Pensare ilcancro

di Matteo Tassinari

Pensare il cancroCome ogni grande e mortale malattia della terra e dell'uomo, il cancro è prima di tutto un "oggetto" da pensare per volgere ad un possibile miglioramento. Un corpo estraneo, vivace, sconosciuto prima, neoplasia (néos “nuovo”, plásis, “formazione”) o tumore (dal latino tumor, “rigonfiamento”), indica una massa anormale di tessuti che crescono in eccesso ed in modo scoordinato rispetto ai tessuti normali e che persiste in questo stato quando va bene, quando va male degenera fino all’approdo di buona speranza, all’epilogo della partita si spera giocata bene, come le poesie Marco di Van Basten o Michel Platinì nel rettangolo verde dove il vento scombina i capelli, mai le idee.
L'uomo nel sacco

 Ripensando alle bufere





L'argomentare dell'oncologo e della letteratura medica, non è sufficiente, come non fornisce neppure un modo di pensarlo, un modo non dico di discuterci, ma di viverlo come parte di me, non chiamandolo più "corpo estraneo" come spesso i dottori dicono. Mi rimane indigesto, mi fa paura,  percepire il tumore come evento generico, incorporeo, elusivoimprecisato, astrattofumosoapprossimativosommario. Come le collezioni di dati, bioritmi, scopie, tomografie assiale computerizzate, geometria proiettiva, rotazione del tubo radiogeno, liquidi di contrasto e su quei dati un nugolo di mosche che discutono, confronti, idee terapeutiche, ricerche, novità, speranze, sudore, pianto. Tutto questo non arriva a formare un pensiero. La religione ripete macchinalmente le sue formule, perché è necessaria una lunga vita di tormento morale per sentire la volontà di Dio come qualcosa di reale e di presente provvidenza e misericordia che non corrispondono a quanto umanamente s'intende con queste parole. La filosofia scantona, non ce la fa nonostante le sue spalle grosse. Dai guadagni stratosferici di Big Pharma International sul cancro non si direbbe l'indotto economico che arreca il tumore come fonte a cui attingere. Il pensiero ha indugiato l’affronto di più sulle grandi pandemie. La peste nera e quella bubbonica, il vaiolo, il colera, la sifilide, oggetto di storici, filosofi, pensatori, romanzieri, cronisti dei tempi in cerca di esplicazioni razionali per cercare di non abbandonarsi troppo all’insondabile mistero della vita. La forza del male obbliga tutti alla sottomissione per quanto energica la nostra risposta di fronte a ciò che fugge per vite intere. Tocca a chi tocca.














Dai al cancro la giustizia che invoca

Si entra in una killing zone, battuta, illimitata, dall'artiglieria atomica e antica, senza la minima speranza. Un chemioterapico sa bene che la cura spesso è peggio del male, nell’atroce prolungamento del dolore con l’aggiunta di altro vomito e tempo da vivere con pruriti insopportabili o escoriazioni nate dal nulla sulle gambe  e ventre. Voler pensare, il cancro, per cercare di spiegarlo. Ma spiegare cosa? Che i linfonodi hanno bisogno di una piallata a base di sedute di radioscopiche? Ripensare il cancro è anche ricordare gli amici colpiti, senza illusioni per me stesso, imbarcato da più di 30anni su questa comune barca da naufragio sicuro, morti di aids o tumori causati dalle difese immunitarie basse o cd4 vicino allo zero quando dovrebbero essere 1200 copie. Pensarlo, sbagliando, sia pure. Se si rifiuta il rischio di errore si è già rinunciato a qualsiasi pensiero sul cancro e la bestia ha già vinto. Questo mai! Quel che conta è uscire dalla nefanda e sinistra passività del silenzio metafisico, dare al tumore la giustizia che invoca, famelico, la giustizia della definizione astratta, il diritto di cittadinanza in un perimetro sacro, in cui l'odore d'ospedale non sia accolto insieme all'eterna verità. Trattarlo con riguardo perché è un enigma che la sfinge cosmica propone ai crocicchi, quando meni una vita non normale (secondo gli altri) perché farselo nemico è la fine prematurata. Non è servilismo, ma chi conosce personalmente Hiv e Cancro sono aspetti importanti, se non altro per il tempo che dedicano a te. Non ti lasciano mai solo, aspettano il momento migliore, per loro, per te il peggiore.
Cellule in stato iniziale di decomposizione tumorale ai polmoni
















“La diffusione 

mondiale del cancro”

La terra contiene la vita, può contenerla e generarla senza essere vivente, perché separiamo natura organica da natura inorganica? L’inorganico io lo penso come qualcosa di puramente immateriale. Sento la musica rock come una proiezione dell'inorganico, come leggo un romanzo di Baricco per saggiarne l’inconsistenza assoluta. Anche le città invase dalle macchine subiscono un'invasione dell'inorganico. Dal mondo non vivente a quello pulsante, sono fatte di metalli e di plastica e hanno bisogno di energia inorganica. La terra è tutta organica, tutta vivente, interamente pulsante. Anche nel pavimento che costò il rogo a Michel Serve (teologo, umanista e medico spagnolo, oltre che dedito allo studio della Bibbia) si interessò a scienze astronomiche, meteorologia, giurisprudenza, anatomia e matematica. Fu rogato nell’ottobre del 1953 dai calvinisti. Tutta vivente, la terra, come la vide Bruno, non come lo vedono i tecnocrati dello sfruttamento e della distruzione. E come essere vivente parlo di vita come cicli, assoggettamento alla morte, morte periodica e morte definitiva. La terra è un essere mortale, è la scoperta che ci spetterà a seguire questo on the road.


Tomografia compiuterizzata assiale
Linfoma biosfera

Il sole agonizza
e agonizzerà ancora per molti decenni. I raggi cosmici, sfilacciandosi, i gas di schermo della biosfera bombardano cancro sui tessuti viventi, sui deserti, gli oceani, i ghiacciai silenziosi come i veri predatori della natura, quando sferrano l’attacco è il caos, il nulla, perché ormai è già tardi. Solo chi è stato azzannato alla gamba da un coccodrillo guatemalteco può capire, gli altri stiano zitti. Spesso ho pensato alla morte per cancro della terra, anche se non l'abitassero che i bei sauri di cui ammiriamo i meravigliosi scheletri, appare sempre meno contestabile che il suo cancro primario abbia nome uomo. La terra è piena di metastasi, molte sono già esplose come Hiroshima.













Non esiste
cancro soggettivo

Ora, penso che sarebbe stato più semplice per me e per voi che leggete questo trattato di medicina empirica, mi era più semplice romanzare le ore vissute con Valerio colpito da aids e tumore, chi si piace si prende e ancora per molti mesi agli infettivi. Ma deprecavo l’idea di fare retorica, o quasi, su un argomento così serio da farti piangere alle 4 di notte in bagno, perché intuisci dove ti sei cacciato, o meglio, dove la vita t’ha cacciato. Non mi pareva il caso a giocare al Balzac su questo argomento e allora ho scelto più un taglio metafisico, alla Ceronetti, dove capisci solo dietro ad una vasta concentrazione sul testo, ma è un capire profondo, non un comprendere teorico, serve sensorialità, tanta. Tutte le epidemie si presentano velate. Chi riesce a strappare il velo e dice, senza inorridire, la faccia che ha visto, non è creduto. La prima volta che mi arrivò una voce sul cancro come evento epidemico mondiale fu negli anni ‘70, leggendo qualcosa. Si trattava dell'opinione di un cancerologo francese che commentava l’atomica di Hiroshima più o meno cosi: “E’ cominciata la diffusione mondiale del cancro”. Ce l'ho dentro ancora quella voce, quelle parole, quella infallibile profezia. Ed ero bambino. Ma è già, subito, un difficile lavoro per il pensiero operare l’allacciamento, in termini speculativi, tra lo bomba di Hiroshima e il cancro mondiale.
Era il 4 dicembre 1993, venti anni fa. Frank Zappa morì a Los Angeles per un cancro alla prostata. Negli ultimi tempi della sua vita, non rinunciò alla sua vena polemica annunciando di volersi candidare alla presidenza degli Stati Uniti in totale dissenso con la politica dell’ex presidente Reagan e con quella di George Bush. Il suo biglietto da visita o slogan era: "Potrei mai far peggio di Ronald Reagan?". Geniaccio!

Il cancro in guerra

Siamo ad un caso si direbbe di pestilenza che segue il carro della guerra, ma con due differenze importanti: nell'area atomizzata siamo già fuori della guerra, siamo nella passività assoluta. e già nel cuore di tenebra della peste e nell'epidemia di cancro abbiamo ormai oltrepassato ogni limite storico di tempo. Dunque, se il cancro epidemico è figlio di Hiroshima, non lo è per cause materiali. Può esserlo per cause metafisiche e se oggi dicessi che lo è lo direi da filosofo quale non sono, non da medico certo. Cinquant'anni dopo, il velo non si è ancora alzato sull'enigmatica faccia, nessuno parla ragionevolmente, di epidemia mondiale di cancro, ma soltanto, eufemisticamente, di pericolo di una diffusione sempre maggiore del carcinoma. Sarebbe troppo rischioso dire che il tumore e pandemico. Alzando senza paura il velo, la faccia, è là. Siamo noi, viviamo, ci muoviamo, parliamo, leggiamo, scriviamo, cerchiamo di superarci senza riuscirvi, con mille possibilità di morire in altro modo perché la Moira permane come realtà generatrice d'infinite cose, in un universo battuto da un’epidemia di tumori maligni. Un vaso di Pandora ancora da scoperchiare, chi lo alzerà quel coperchio? L'uomo cancerifica la terra con la sua presenza in eccesso e la sua attività di delirio consumistico, coi suoi pensieri criminali e con la sua impossibilità di amare al di là di quel che più strettamente gli somiglia. Solo tre o quattro poeti fra tutti hanno sperimentato l'amore infinito, gli altri hanno amato donne, uomini, vino, oppio, qualche gatto e la terra gli salda il conto, d'accordo col cielo e il sole, inondando di cancro l'uomo. “La misura della vita è dunque la differenza che esiste tra lo sforzo delle potenze esterne e quello della resistenza interna. L'eccesso di quelle annuncia la sua debolezza; il predominare di questa è l'indice della sua forza
L'angelo sterminatore
Il deserto si allarga

Mentre l'angelo sterminatore tende a far morire tutto quel che è vivente, gas, petrolio, inquinamenti titanici, elefantiasi della globalizzazione, minacciosi quanto spaventosi inquina le falde terrene per entrare per nostra volontà nel corpo delle generazioni future. Il vile atto di chi ha il senso innato del diabolico. Guardate il lavoro dell'intelligenza, il travaglio della ragione: salvo qualche apparenza e poche eccezioni, è ormai rotto lavoro e travaglio per far crescere e accelerare la morte. Il deserto si allarga e l'allargarsi del deserto è uno stretto luogo dove l'uomo sempre più incapace di pensare la vita, si nasconde per darsi la morte. Guardate le stesse ricerche sul cancro. Non sono anticancro che per chi non vuole pensare, e per chi accetta la spennellata di morte che insita nei luoghi comuni dei “come stai”? Quando sai che hai un cancro e altro di debolezze? Non c’è nulla in quegli immensi apparati tecnologici ed elettronici, in quelle colossali statistiche, in quelle schedature frenetiche, in quelle sperimentazioni su sventurati animali, nulla dico che abbia la faccia della vita. Sono sforzi di beccamorti che s'ignorano. C'è una predestinazione quando si prendono vie errate e qualcosa impedisce che s’imbocchi la giusta, una predestinazione alla bancarotta del vivente. Questa bancarotta non è muta, anzi assume in tutto la forma di un grido, di un'immagine Geschrei dell'onda sonora ben più vasta e prolungata di quella sonnambulicamente trascritto da Edvard  Munch, che se fosse percepito ci sarebbe insopportabile e ci costringerebbe a"fare qualcosa" per placarlo.












Le stelle inacessibili
Senza percepirlo arrivo a conoscerlo, come gli astrofisici arrivano alla conoscenza esatta di presenze stellari inaccessibili per mezzo del calcolo e posso assicurare che non ci sono limiti al suo strazio, più forte di un milione di Ecube e di Racheli, ma mi è impossibile rendermi credibile dal momento che parlo dalla riva di un sistema di pensiero assassinato. Credo di poter dire che lo stato della terra sia attualmente molto peggiore di quello che viene descritto dalla scienza dominante più pessimistica, perché il grido, l'incessante lamento di Munch che non può essere percepito delle forme viventi visibili e non visibili, non è oggetto misurabile, perché interiore e senza canali di comunicazione nervosa esterna, come succede che di certi esseri che ci passano accanto non udiamo nulla, neppure un sospiro, eppure gridano a volte con la forza di mille agonie. 













Enigma cancro

È un sos come il mondo dei segnali a distanza, non ne ha mai conosciuti. Se un Dio all'improvviso ci bucasse gli orecchi, cesseremmo di occuparci d'altro, di nazionalismi o di Etruschi, di carriere dei figli o di mafia, di scacchi e Carmelo Bene e anche di cancro. Solo allora avremmo la percezione di realtà e di forze, di sofferenze e di sciagure, di rimedi dell'irrimediabile e di dicibilità dell'indicibile in cui ci sarebbe una nicchia illuminata, e in questa nicchia, in una luce pallida, lo spirito del cancro riscatterebbe, con qualche parola sommessa ma udibile, tanta cieca solitudine, tanta disperazione davanti agli enigmi da lui piantati all'interno dei corpi, in figura di cellule irriducibili e di degenerazioni organiche interne la cui origine vera è altrove, neppure spazialmente altrove, ma nell'esterno dell'interno là dove i limiti fisici del corpo si perdono nell'illimitatezza cosmica della mente. Alla malattia infettiva e contagiosa per impiantarsi è sufficiente la debolezza fisica a causa di una fragilità immunodepressa, il cancro invece è attratto soprattutto dal sovraccarico di attività psichica, dal dinamismo mentale dissennato, dagli sconvolgimenti dell'anima all'esasperazione mentale.
















Ldolce agonia

E’ questa la cifra totale della sofferenza che ognuno di noi porta in grembo, alcuni riescono a gestirla, altri no. Qui entrano in azione le cliniche della "dolce morte" (mai come in questo caso la parola dolce è stata usata a sproposito) pronte a venirti in aiuto ammazzandoti. Infilare una flebo con cobalto 12 e plutonio concentrato nelle vene di una persona disperata non ci vuole molto, sai quanta gente trovi che lo farebbe, perché è questo il terribile fatto, quanta gente farebbe il serial killer dal camice bianco. Ormai alle follie dell'uomo e della donna sono abituato, c'ho fatto quasi il callo, meno alle sue consistenze. Voglio dire che l'inquietudine sta più nella quantità di persone dedite a devianze mostruose, non tanto le devianze mostruose, per quanto orribili, ma il livello espansionale.













Il pane nella goccia

Pensare al cancro. Appropriarselo come pensiero per respingerlo come paura. Chi pensa opera, non stramazza di passività. Ma un pensiero schiavo dei dati e depurato di qualsiasi relazione col mistero, che mai ci sarà rivelato, del mondo, è un pensiero inoperante, un pensiero morto e che fa morire. Uno straordinario amico Veneto e che il cancro mi sottrasse giusto un paio di un paio d’anni fa, del quale incessantemente rimpiango la lucidità tranquilla anche a malattia inoltrata, la grande cortesia e sollecitudine fino all’estremo anelito mentale, avrebbe immediatamente compreso e condiviso questo mio ragionare del cancro universale che per molti, i più, non sarà così, c’è altro a cui pensare, ora. Sia dunque dedicato a tutti. Sia dedicato anche a tanti volti cari che là, nelle penombre, nelle stanze visitate, non raggiungibili da altri conforti, patiscono e tremano per sé e per altri. Getto il tuo pane sull’acqua e dopo molti giorni lo ritroverai per sfamarti. Acqua e pane. La vita. "Come una goccia di splendore", di Alvaro Mutis, poeta colombiano morto pochi mesi fa che consiglio.

Ma che fatica scrivere 'sto post!

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...