Oggi siamo tornati sulla vicenda del piccolo Mariano, "Il capitano", che da poco è rientrato da Bologna con nuove speranze. Forse c'è un farmaco che può cambiare la sua vita. Nello scorso aprile avevamo raccontato la storia commovente di questo bambino prodigio, che affronta la propria malattia con coraggio esemplare e la grazia della fede, con l'affetto dei genitori e tanta solidarietà da parte di molte persone, alimentata dall'intervista di sua madre al nostro giornale. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria
da https://www.corrieredellacalabria.it/ 13\10\2023
La forza esemplare del piccolo Mariano, “Il capitano”. La madre: «Ora abbiamo una speranza»La storia del bambino di 9 anni ricoverato a Bologna per una malattia rara. «Tanta solidarietà dopo l’articolo del Corriere della Calabria»
di Emiliano Morrone
VENA DI MAIDAMariano è appena rientrato a casa: a Vena di Maida, nel Lametino. Il bimbo era stato di recente ricoverato nel reparto di Pediatria del policlinico Sant’Orsola di Bologna, per approfondimenti sulla malattia rara che l’ha portato a pesare 143 chili all’età di nove anni.Nell’aprile scorso, il Corriere della Calabriaaveva raccontato la storia del piccolo, di continua emigrazione sanitaria assieme ai genitori, gravi affanni quotidiani e uno straordinario coraggio personale. Era stata sua madre, l’avvocato Tamara De Fazio, a riassumerla inuna lunga intervista, che – oggi riferisce – «ha determinato una solidarietà enorme e cambiato la vita della nostra famiglia». «Da Bologna siamo tornati con delle speranze. Lì, i medici – riferisce la signora – ci hanno detto che un farmaco sperimentale potrebbe essere utile al futuro di nostro figlio. Percorriamo una strada nuova, sorretti dalla fede che ci accompagna e dall’umanità, dalla comprensione e dall’aiuto che riceviamo in paese e ovunque ci troviamo».Mariano ha una grande vivacità intellettuale. È estroverso, simpatico, espansivo. Ama leggere, vuole conoscere in profondità i vari argomenti, pone domande acute, suona diversi strumenti musicali e serve la messa. Il bimbo ha una forza d’animo esemplare, a scuola è il leader della classe e i suoi compagni l’hanno ribattezzato “Il capitano”, riconoscendogli la fermezza di chi guida una nave resistente alla tempesta.«Il nostro viaggio a Bologna è legato – precisa la signora De Fazio – all’attenzione pubblica, sulla vicenda di Mariano, suscitata dal vostro giornale. Appena uscì la mia intervista, intervenne la Garante regionale della salute, Anna Maria Stanganelli, ci fece ottenere dei presìdi indispensabili e accelerò l’arrivo di una sedia a rotelle per il nostro bimbo. Il chirurgo ortopedico Massimo Misiti ci mise in contatto con alcuni specialisti dell’ospedale Rizzoli di Bologna, che presto videro Mariano per migliorarne la deambulazione. Lì, al Rizzoli, viste la patologia complessa e l’obesità importante del bambino, crearono un ponte con il Sant’Orsola, in particolare con il dipartimento pediatrico, in modo che lo visitasse subito il professore Andrea Pession, luminare e direttore di quella struttura». E poi?«Al Rizzoli, i professori Cesare Faldini e Francesco Traina, che si erano ben documentati sulla storia di Mariano, avevano già preparato la strada per farci incontrare subito i pediatri del Sant’Orsola. Ricordo bene quel giorno. Era il mattino del 22 giugno scorso. Faceva caldissimo e venivamo da un viaggio estenuante in auto, poiché Mariano non aveva potuto prendere l’aereo. Il piccolo era sudato, stanco, privo di forze. Parcheggiamo la vettura all’ombra, vicino al Sant’Orsola, e io mi fiondo dal professor Pession. Lascio in auto mio figlio con mio marito. Parlo con gli specialisti e loro mi chiedono dove si trova Mariano per raggiungerlo alla macchina». Allora escono dall’ospedale? «Si, e vanno sino all’automobile, conoscono il bambino e ci propongono di ricoverarlo in giornata per avviare sofisticate indagini e studiare il caso. Manifestano una cordialità e un’umanità uniche. Noi non eravamo organizzati per il ricovero, avevamo programmato di rimanere a Bologna soltanto per le visite di quel giorno. Quindi il professor Pession e la sua équipe ci fanno rientrare di nuovo in Calabria e ci anticipano che, prima dell’inizio della scuola, Mariano potrà tornare per essere rivalutato. In effetti, arriva settembre, loro ci contattano e ci fanno partire il 14 del mese. Affrontiamo ancora una volta un viaggio complicato, sempre in macchina. Mariano adesso pesa 143 chili, necessita di pannoloni per la notte e tanto altro da portare. Arriviamo in ospedale nella giornata del 14 settembre. Dovevo restare io con il bambino, mio marito Dino aveva necessità di rientrare per lavoro. A Mariano danno una stanza singola e a me un posto accanto per fornirgli assistenza diretta».
Però qualcosa va storto?
«Sì, al punto che dobbiamo cambiare i programmi. Dopo dieci anni di viaggi della speranza, ci abbandona la nostra vettura, acquistata poco dopo la nascita di Mariano. Mio marito resta quindi a piedi, è costretto a tornare a Bologna, a chiamare un carro attrezzi e a lasciare in un deposito l’automobile, che attendiamo di riportare in Calabria con una bisarca. Dino arriva di nuovo in ospedale e ci ritroviamo in stanza con Mariano, con cui poteva restare soltanto un genitore, secondo le regole del reparto». Un’odissea, insomma. «Di più. Non c’erano posti negli alberghi vicini, pieni per un concomitante evento pubblico. Infermieri e medici sono gentilissimi, sorridenti, empatici. Capiscono la situazione, ci consentono di stare con Mariano e ci procurano due poltrone come letti. Per circa otto giorni, allora, riusciamo ad assistere il piccolo in ospedale e l’aiutiamo a spostarsi nei vari padiglioni, a sottoporsi agli esami previsti». Che cosa emerge? «I medici presumono che l’obesità di Mariano, con la quale combattiamo ormai da dieci anni, sia di origine genetica. Ci informano che, se l’ipotesi è confermata dagli accertamenti, forse per Mariano si può utilizzare un farmaco sperimentale, già commercializzato all’estero ma non in Italia, che potrebbe cambiare il destino, la vita di nostro figlio. Però ci vorrà ancora del tempo: si parla di dicembre o gennaio, per capire se si potrà utilizzare questa molecola innovativa, ora in uso in Germania e in Inghilterra». E nel frattempo? «Un dato è certo: adesso alle spalle abbiamo un pool di medici, dal genetista all’endocrinologo. Anche dal punto di vista respiratorio, Mariano è stato rivalutato, quindi il ventilatore polmonare col quale dorme di notte è stato riprogrammato. Il bambino è stato seguito e sorvegliato durante la respirazione notturna. Diversi parametri andavano aggiornati, modificati. Anche la mascherina che utilizzava doveva essere sostituita con una più adeguata. Ecco, adesso ci sentiamo più garantiti, sicuri: siamo seguiti da specialisti che, con controlli e ricoveri periodici, vogliono fare il massimo, il meglio per il nostro bambino. Abbiamo ricevuto, ribadisco, gentilezza, umanità e attenzioni meravigliose. Mariano ha mostrato la sua vivacità ai medici e agli infermieri che si sono presi cura di lui. Perciò, abbiamo un bellissimo ricordo di quei volti, di quelle persone, la gran parte di origini calabresi e siciliane».
Come siete ritornati?
«Viene il momento di rientrare a casa, noi non abbiamo più la macchina ma ci tocca riportare indietro tanta roba. Da Vena ci inondano di telefonate di solidarietà, al punto che non riusciamo più a rispondere al telefono. Quasi ogni giorno il telefono squilla tra messaggi e telefonate. Tutti vogliono sapere le condizioni del “Capitano” e le eventuali novità. Quando, poi, si diffonde anche la notizia che siamo rimasti a piedi, si scatena una solidarietà inimmaginabile». Cioè? «C’era chi sarebbe partito di notte per arrivare il giorno dopo; chi aveva noleggiato un furgone, chi aveva preso un’altra macchina per venirci a prendere. Ci ritroviamo alla fine con 10 o 15 persone pronte a noleggiare un mezzo per arrivare a Bologna e riportare a casa “Il capitano” con una macchina comoda, adatta alle sue esigenze. A un certo punto, ci assale pure l’imbarazzo: se dicevamo di sì a uno, magari l’altro ci restava male. Non avevamo nemmeno una data certa né l’orario delle dimissioni. Perciò fatichiamo a gestire questo aspetto. Inoltre, dobbiamo vedere, quando arriverà, di che morte dovrà morire la nostra macchina, che ci ha lasciato a piedi e senza parole. Anche in questa vicenda di sfortuna, abbiamo trovato affetto e solidarietà smisurati. Quando Mariano è poi rientrato a scuola, è stato accolto a braccia aperte con un cartellone enorme, una festa commovente. Stessa cosa hanno fatto in chiesa, perché Mariano frequenta la parrocchia». Che cosa ne ha tratto? «Niente è casuale, se credi nel Signore. Se non combattessimo ogni giorno, non sapremmo che ci sono persone così vicine, umane, premurose. Prima di partire, alcune mamme della classe di Mariano, diversi bambini e altre persone hanno voluto salutare di persona nostro figlio. La scuola sarebbe iniziata il 14 settembre e lui sarebbe stato assente per via del ricovero a Bologna. C’è stato anche chi, per il viaggio di Mariano, ci ha portato una crostata con marmellata senza zucchero. Siamo storditi da tanta amorevole partecipazione. Prima di partire, Mariano, che ama leggere anche in pubblico, ha voluto scrivere e recitare la preghiera dei fedeli, con cui ha augurato buon anno scolastico ai bambini e ragazzi della comunità di Vena». Quali sono, ora, i suoi sentimenti? «Si sono riaccese le nostre speranze e abbiamo potuto allacciare rapporti umani autentici, splendidi. L’informazione ha mosso le coscienze. Significa tanto, non solo per noi». (redazione@corrierecal.it)
sfide sempre più idiote per avere visibilità sui social ma anche no Ozempic challenge: la gara a dimagrire che beffa i diabetici Dopo il polverone sulla tragica challenge degli youtuber di Casal Palocco, di cui si è occupato anche il nostro blog in diversi post, se interessati li trovati in archivio , si è iniziato a parlare di challenge scommessa \ sfida chiamiamo le cose con il loro nome evitiamo inutili anglicismi quando si può trovare il corrispettivo italiano non imbastardiamo ed impoveriamo ulteriormente inultimente la nostra lingua e spesso a sproposito, come fa notare la famosa blogger << se le sfide virali lanciate sui social fossero la causa di ogni male. dA FQ del 20\6\2023vedere il Jepg al lato dell'articolo in questione >> Ovviamente non è così – ce ne sono di divertenti e innocue che fanno ridere o creano sconforto per dire che matti che sono a cosa su arriva pur d'avere un like , ecc . Qui si tratta diu una sfida e di una moda lanciata da vip e pseudo vip ( i cosi detti influenzer ) . che crea problemi chi uysa quel farmaco per necessità
A tal proposito, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” questo video ci lascia perplessi. Anche se non c’è alcun profilo di illegittimità se il paziente di 7 anni e i suoi genitori sono contenti e consenzienti non ci sono problemi, ma pubblicarlo su un social è amorale. Del resto oggi farsi pubblicità non è più un tabù. Forse bisogna interrogarsi sul buon gusto di queste immagini. A volte basterebbe il buon senso, ma 1 milione di like in poche ore valgono più del buon senso stesso 🧐😒😞😟🙄😧😲😢
ecco la storia presa da https://varesepress.info/ di agosto E’ tutta indiana l’idea di riprendere un intervento odontoiatrico e trasmetterlo su Facebook. Alcuni medici indiani hanno infatti deciso di pubblicare sul social un’inusuale operazione.
E’ tutta indiana l’idea di riprendere un intervento odontoiatrico e trasmetterlo su Facebook. Alcuni medici indiani hanno infatti deciso di pubblicare sul social un’inusuale operazione. L’11 luglio P. Ravindran di 7 anni, è stato portato al Saveetha Dental College and Hospital di Chennai, dove è stato curato per un gonfiore della mascella inferiore destra. Dopo aver effettuato una radiografia e una TAC, i medici hanno riscontrato una crescita simile a un tumore lungo la mascella inferiore destra che conteneva 526 denti. “Non abbiamo mai visto così tanti denti in nessuna bocca”, ha riferito al giornale Times of India, il dott. Pratibha Ramani, professore e capo del dipartimento di patologia orale e maxillofacciale. I dentisti hanno rimosso la “sacca” in una procedura di un’ora e mezza, gratuitamente. Non è chiaro cosa abbia causato questa inusuale e sproporzionata crescita numerica di denti, unica nel suo genere al mondo, ma i dentisti ritengono che potrebbe essere dovuto a fattori genetici o ambientali. La condizione è nota come odontoma composito composto*, lo riferisce il quotidiano indiano Times of India citando la fonte ospedaliera. Il video che immortala l’intervento con estrazione dei 526 denti, postato sui social, è diventato virale. A tal proposito, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” questo video ci lascia perplessi. Anche se non c’è alcun profilo di illegittimità se il paziente di 7 anni e i suoi genitori sono contenti e consenzienti non ci sono problemi, ma pubblicarlo su un social è amorale. Del resto oggi farsi pubblicità non è più un tabù. Forse bisogna interrogarsi sul buon gusto di queste immagini. A volte basterebbe il buon senso, ma 1 milione di like in poche ore valgono più del buon senso stesso.
A chi avendo letto il mio precedente post : come curare e tenere a bada senza farmaci ( se non in casi gravissimi ed estremi ) la depressione afferma che sono un ciarlatano , un complottista , populista e menate simili rispondo che : sono uno che crede , ed ha provato e lo fa continuamente , che certi problemi si combattono o s'attenuano( cioè non vuol dir e che non bisogna usare i farmaci ma usarli nei casi meno gravi ed estremi senza farmaci ma con una semplice analisi e auto analisi psicologica . Infatti
un abuso ed un uso scriteriato di farmaci non fa bene e creano gravi effetti collaterali ed assuefazione ed dipendenza , tant'è che molti parlano di droghe legalizzate . Inoltre è scientificamente provato che certi problemi di salute hanno un origine psicologica e come tale si può risolvere o quanto meno integrarla , ovviamente nei casi più gravi , con i farmaci .
Introduzione all'articolo
Ai vecchi lettori e fans che mi dicono che ho abbandonato il parlare di me , il mio personale questa storia è la mia risposta . Infatti anch'io soffro di problemi legati al cibo : colite , reflusso gastro esofageo ( ed è grazie alla lotta fatta di cadute e ricadute che non sono arrivato ai livelli del protagonista della storia sotto riportata ) , ed in particolare fame nervosa . Ecco quindi che come ci è riuscito lui , ci posso riuscire ion almeno a tenerla sotto controllo ed evitare di colmare i miei vuoti , le mie delusioni , le batoste e gli urti che ricevo dalla vita , ecc facendo come ha fatto lui ed accettando il rischio di cadere e di dover rincominciare da capo . Ma ora basta annoiarvi .ed eccovi la sua storia
la storia «Rischiavo di morire, ho perso 120 chili» Palestro. Il racconto di un 31enne che superava i due quintali: «Nessun intervento, in 8 anni ho ripreso in mano la mia vita»
PALESTRO. Ha perso 120 chili in otto anni. Dai 23 ai 31 anni è passato da 215 chili, distribuiti su un metro e 70 centimetri d'altezza, ai 95 attuali. Riccardo Silva fa il cuoco e vive a Palestro, dove è cresciuto ed è molto conosciuto. A 23 anni ha deciso di cambiare la sua vita. «Ho fatto tutto da solo, senza ricorrere a interventi chirurgici – spiega il giovane di Palestro – I medici mi hanno solo aiutato con una terapia farmacologica per la cura della tiroide, che aveva delle disfunzioni: per questo sono stato ricoverato in una clinica a Piancavallo, località nel territorio di Oggebbio, in provincia di Verbania. Quando sono entrato in clinica i medici sono stati chiari: mi hanno detto che se fossi andato avanti così non sarei vissuto a lungo». Riccardo Silva era arrivato a vestire la taglia 78 di pantaloni, ora è tornato ad una più onesta 54 di taglia: «Ho preso in mano la mia vita. Ho deciso di migliorarla in questi anni ed i risultati ora si stanno vedendo, anche se ho ancora molto lavoro da fare per perdere altri chili – sottolinea il 31enne di Palestro –. Adesso ricorrerò anche alla chirurgia, ma solo per la sistemazione della pelle in eccesso, che è rimasta in seguito al dimagrimento: sono in lista d'attesa per l'intervento». La cura alla tiroide è stata fatta durante quattro ricoveri, nel 2008, 2011, 2015 e 2016, nella clinica di Piancavallo: trenta giorni di ricovero ogni volta in cui Riccardo veniva seguito dai medici nel suo percorso. Ma qual è stato il segreto di questo dimagrimento che ha del miracoloso? «Davvero niente di particolare, ho solo seguito la classica dieta mediterranea: non ho utilizzato nessuna dieta miracolosa di quelle di cui si sente tanto parlare in giro – spiega Riccardo –. Ho iniziato con la nostra dieta tradizionale, quindi mangiando pasta, pesce, carne, frutta e verdura in dosi giuste: prima dovevo assumere 2400 calorie al giorno, poi la quantità di calorie è scesa ma ho comunque un'alimentazione equilibrata e che mi sazia: non mi sento come uno che fa una dieta restrittiva, una di quelle con tante privazioni. Tutto questo è stato abbinato ad attività fisica: vado in palestra a Robbio, dove faccio corsa, cyclette. Ora sto iniziando a tonificare anche la massa muscolare con gli attrezzi della sala pesi. La cura della tiroide, abbinata alla dieta mediterranea e alla palestra mi hanno salvato, ma più di tutto serve in questi casi cambiare mentalità: è quello che fa la differenza». Ma com'era stato possibile arrivare a pesare oltre 200 chili ed avere la taglia 78 di pantaloni? «Avevo una dieta sregolata: fast food, aperitivi e cibo fuori pasto in continuazione – risponde il 31enne di Palestro – Uno stile di vita che mi stava rovinando. Ora, dopo un lungo percorso, posso dire che la mia vita è cambiata in meglio: la forza di volontà è stata quella che mi ha permesso di farcela da solo». Ma in questi anni com'è cambiata la sua vita? «È cambiata totalmente. Prima non potevo prendere i vestiti che volevo ed ora sì: e questo è solo un primo esempio – risponde Riccardo –. Ogni incombenza della vita quotidiana era diventata un problema: dal fare le scale o anche solo prendere la bicicletta per fare un giro in paese. Ora invece riesco a fare tutto: faccio anche 40 chilometri in bicicletta e d'estate faccio faticose passeggiate in alta montagna, tutte cose che mi sarei sognato un tempo. Comunque ho ancora molto da fare, voglio arrivare a 80 chili».
Alledue di notte fisso ancora il soffitto e ascolto i lamenti dei malati riempiono le stanze. Il mio amico di camera dorme di un sonno stanco e gravoso da sopportare. Sono i principi attivi (5) che gli circolano, contemporaneamente, nel sangue attraverso diverse sacche di flebo, da mattino a sera, che non l’aiutano e giustamente, lui, si lamenta dal dolore. E allora, con la forza di mille agonie, cerchi, ti sforzi di pensare che il dolore è un dono di Dio che ti fa capire questioni che altrimenti avrei certamente ignorato. E così è stato. Voi non potete capire il supplizio di questo volto che recita un malato di aids in un ottimo film, l'avverti fino in fondo e lo senti fino in fondo, fino a poter capire che l'accrescere il proprio sapere, equivale ed aumenta il dolore. Ve l'assicuro come è vero che dopo, vorrei parlarvi di ravanelli da "tociare" in pinzimonio!
La malattia, è il business più grande
della nostra macro-economia
Ma la notte abbonda
la sua consistenza desolante con le sue freddezze e scheletriche immaginazioni. Tutto quel che ci circonda si dilata proprio quando un gemito si fa spazio fra i corridoi illuminati a neon spenti, gremendo spazi vuoti dove corrono le emergenze, perché è di notte che il tormento alza il volume dell'odissea e di notte il calvario fa più paura, non so perché.... Non so quanto tempo passa, che avverto l’amicizia del water. La prostata fa il suo lavoro, mentre impiego qualche minuto per arrivare ad espellere l’ultima goccia possibile d’urina dalla vescica, un lavoro assai impietoso per quello che m'invento di fare per raggiungere lo stimolo e espellere un poco di liquidi.
Questi sono gli orgasmirimasti in un periodo affannoso per quanto difficoltoso. Ma la notte in ospedale non scema affatto le sue mestizie, semmai le aggrava, le allarga fino ai ponti dell'acutizzazione di ogni singola particella corporea malata rafforzando la pressione che il dolore complessivo provoca. La rafforza, l'ingrossa, l'addiziona, l'incrementa senza alcuna spiegazione se non vacua. A volte penso: chissà come moriva la gente prima dell’invenzione di tante malattie? Mi accontento del pensiero di Louis Pasteur: "Noi beviamo, mangiamo o respiriamo il 90 per cento delle nostre malattie". Ha ragione, non si scappa.
Sono le tre...
Quando parte imperturbabile il prurito su tutto il tessuto corporeo dovuto ad una forma di Vasculite a causa della riattivazione del sangue, prendo la spazzola comprata in ferramenta con setole coriacee, per assicurarmi un deciso quarto d’ora di pace pur sapendo che un quarto d’ora dopo il prurito alienante tornerà. Il sangue, come saprete, va dovunque.
Gli piace così, girare a zonzo, da una vena a un'arteria, da un tessuto ai suoi vasi. Solo che grattarsi al centro della schiena, bisogna essere artisti autentici e io ci riesco perché ho le braccia lunghe e la schiena pure, per una lunghezza di 185 cm. La stamina viaggia dappertutto alla stessa velocità di una qualsiasi connessione Internet senza intoppi. È la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche. A volte credi d'aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno. Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano. L’uomo può essere il capitano del suo destino, ma anche vittima della sua glicemia.
Nivea a volontà
Gratto. Gratto. Gratto, ma mi accorgo però che la cute che gratto non è più prurito, ma è diventato bruciore. Basta. Appoggio la spazzola sul comodino, altrimenti va a finire che compare il sangue emi tocca chiamare una infermiera. Con una spugna passo sul corpo acqua fisiologica e un pizzico di bicarbonato, i rimedi della nonna... cercando di lenire le parti più lese per poi darmi un poco di Nivea.
Del resto, il rapporto che ho con le creme, da il senso d'accesso alla solitudine, mentre una malattia immaginaria trovo che sia peggiore di una vera malattia. Continuando nel mio casino mentale, arrivo a pensare che ci sia tanta salute nella malattia, com'è vero che non è il medico ma un altro malato che riesce a capire la sofferenza di un altro malato.
Gli antistaminici
sono acqua
fresca. Solo il Cortisone metterebbe a tacer tutto, ma a causa di effetti collaterali talmente insopportabili che preferisco tenermi il prurito rinunciando al Cortisone e i suoi fuochi d’artificio.
Passa il tempo. Non so quanto, intanto la scienza si consulta mentre il paziente può solo sopportare.
Fu per questo, forse, che Sigmund Freud una volta disse: "Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente bisogna morire". Nulla di originale...
Un po’ dormo,
un po’ no.
Nelmezzo notturno, mangio un’arancia. Sono le quattro di notte o forse solo le tre e penso a Bowie e capisco ancora più profondamente che una generazione, con lui, se n’è andata per davvero. Penso a Gesù, l’unica risposta a tanta tribolazione. Pensieri anarchici, bakuniani, contestatori, ribelli e sovversivi, che sfiorano le meningi a 38 di febbre. Dormo un’oretta forse più.
Lasapienza
deimalati
Sonole cinque e mi aspetto da un momento all’altro le luci del mattino e penso che tra un’ora, decisa, entrerà un’infermiera a prelevare un po’ di sangue da me e dal mio amico di camera, per vedere a che punto stanno i cd4 e la Viremia, e penso che gran parte di quello che i medici sanno è insegnato loro dai malati, consapevole del fatto che il miglior medicoè colui che con più abilità sa infondere la speranza.
Diceva Jannacci, medico pure lui:"da medico ragiono esattamente così, la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa".
Giovane in ospedale a letto mentre naviga in Internet per ricercare informazioni sulla sua malattia
Come ho sempre pensato, ogni medico dovrebbe essere ricco di conoscenze e non soltanto di quelle che sono contenute nei libri, ma i suoi pazienti dovrebbero essere i suoi libri. In buona sostanza, la malattia è un conflitto tra la personalità di entrambi e le loro anime. Non solo. Si arriva, col passar degli anni, e decenni poi, senza fare stupide e odiose apologie al suicidio, a pensare che la morte può essere una fonte di liberazione da una situazione che sai non potrà mai avere miglioramento, solo peggioramento.
Dallas Buyers Club: Matthew McConaughey dimagrito e pallido nei panni Ron Woodroof, un malato di Aids
Flebiti e farfalle
Mimetterà la “Farfalla”, un ago che s’infila nel braccio per non forare troppe volte la pelle e avere una via d’accesso costantemente pronta per gli aghi da dove passa tutta la chimica. E’ un condotto che mi porto attaccato alla perfezione al braccio per quattro o cinque giorni, per poi cambiarlo affinché non infetti la vena in questione. Che invenzione fantastica la “Farfalla”. Se non ci fosse saremmo pieni di flebiti, noi uomini spaventati. E quasi l’alba e l’infermiera di turno sta per iniziare il suo pellegrinaggio lungo la corsia. Eccola. Prima di vederla, vedo la luce al neon dell’anticamera, affinché troppa illuminazione non ci crei fastidio per noi esseri dormienti e stanchi di mille tempeste dove si sono persi senza domande.
Buona notte a tutti
BUONGIORNO! E’ il caloroso saluto della nostra amica infermiera, la risposta è un po’ più sonnolenta e ciancicata. Si sente appena, impasticciata quanto mescolata a chissà quali sogni e speranze. E’ partita la giornata di un reparto per persone con malattie infettive e anche di più. La giornata passa, ritorna la notte, la storia e circa simile a quella precedente. Buona notte, ricomincia il calvario dopo una notte di merda e un giorno uguale.
la storia di Chiara che ha scoperto di avere un tumore in gravidanza. È riuscita a diventare mamma e a guarire dal cancro. Ora con un progetto fotografico aiuta le donne a liberarsi dal peso della malattia e dalla paura di morire
Un figlio e il cancro: la sfida di Chiara
Viareggio: scopre il tumore in gravidanza ma riesce a sconfiggerlo. Ora con altre 11 donne si mette in gioco : «Possiamo vincere» di Valentina Landucci
VIAREGGIO. Nel suo grembo ha portato la vita e la morte: suo figlio e il cancro. Tra lei e il suo piccolo c'è stato, per così dire, uno scambio: lei gli ha donato la vita e da lui in qualche modo l’ha ricevuta in cambio.
Chiara Vogliazzo è una bella mamma di 43 anni di Massarosa. Sorriso luminoso, straordinario senso dell’umorismo e una piccola cicatrice sulla pancia, il segno della sua grande e indicibile paura: morire per quella malattia scoperta diventando madre. Un inferno vissuto nel silenzio, tra terrore e speranza. E quel bambino. «È lui che mi ha dato la forza, che mi ha ridato la vita» racconta a distanza di 4 anni dall'operazione: cancro al colon.
Ora Chiara sta bene. Si sottopone a controlli periodici, ma sta bene. E ha deciso di mettersi in i gioco con il sorriso e in modo originale ideando il progetto “Cicatrici di vita”: la sua e quella di altre 11 donne che come lei si sono fatte fotografare per un calendario mostrando i segni delle operazioni subite per combattere il cancro. Hanno sofferto e combattuto. E ora sorridono di fronte all’obiettivo, alla vita: hanno vinto loro.
«È vero le cicatrici sono profonde - spiega Chiara parlando del suo progetto - ma la rinascita è ancora più forte e dodici donne vogliono mostrare che dal cancro si può guarire e se ne può uscire con il sorriso facendo pace con le proprie cicatrici sia dell'anima che del corpo».
Come hai scoperto la malattia?
«Ho scoperto di aspettare un figlio, tanto desiderato, nella primavera del 2010. Durante uno dei controlli è venuto fuori che avevo una anemia molto forte. Mi ricoverano, faccio delle trasfusioni, scoprono che ci sono delle perdite e che sono necessari ulteriori accertamenti che decido di fare ma solo in parte perché il mio unico obbiettivo è portare a termine la gravidanza. Mi dico: “Una volta che ho partorito si vedrà”. E il 20 dicembre del 2010 nasce il mio bambino. Qualche settimana dopo il parto, come prevede la tabella dei controlli, vado dalla mia ginecologa che è anche il mio medico curante, per una ecografia per vedere se l'utero si è riassorbito. Mi dice che c’è una massa nell’intestino, è preoccupata: bisogna urgentemente fare una colonscopia e capire che cos’è. E gli accertamenti confermano che è necessaria un’operazione d'urgenza. Mi hanno spiegato che la situazione era grave ma potevo guarire».
Avevi un bimbo di poche settimane a casa ad aspettarti, come hai reagito?
«È stato come sprofondare nel baratro più profondo che si possa immaginare. Ho pensato subito al mio bambino. Ho pianto tutte le lacrime del mondo, vissuto momenti di puro terrore, avevo paura di morire. Pensare al mio bambino era la tragedia più grande ma allo stesso tempo è stato lui la mia più grande forza. Mi dicevo: oddio, rimarrà senza mamma. E insieme: ce la devo fare, devo crescere lui. Piangevo a dirotto ma dovevo pensare positivo». Il 2 maggio 2011 vieni operata al Versilia: c’è la conferma che si tratta di un cancro. E dopo l’operazione comincia un altro dolorosissimo percorso: la chemioterapia. Sei mesi. Come li hai vissuti ?
«La terapia non mi ha fatto perdere i capelli ma mi dava malessere e dolori che mi rendevano difficile prendere in braccio mio figlio. Lo guardavo negli occhi e la paura di morire si moltiplicava milioni di volte. In quel periodo gli ho scritto una lettera… per dirgli come mi sarebbe piaciuto che fosse da grande se io non ci fossi stata più».
E di tutto questo non ha mai fatto parola con nessuno. Almeno fino a un certo punto.
«Ho condiviso questo percorso con i familiari e le amiche più care. Ma come sempre nella mia vita anche di fronte al cancro avevo deciso di vivere il mio dolore in silenzio in contrapposizione con il mio carattere solare. Con il rientro al lavoro, a inizio 2012, decido di mettere “tutta questa roba” in uno sgabuzzino dicendomi “è passata così”. Ma cose così grandi - e forse è anche un bene - prima o poi ti presentano il conto. Nel mio caso è successo con un corso di fotografia che comincio a frequentare a inizio 2013 con il maestro Alessandro Citti. Che nelle sue lezioni non parla solo di tecnica ma anche di immagini e emozioni: in me si smuove qualche cosa. E mentre sono alla guida della mia macchina diretta alla cena organizzata per la fine del corso di fotografia mi viene in mente di chiedere al maestro se se la sente di fotografare le cicatrici di donne operate di tumore per farne un calendario a scopo benefico. Accetta subito. Mi si allarga il cuore: conoscevo il maestro da pochissimo tempo e subito aveva dato la sua disponibilità a realizzare gratuitamente le fotografie per aiutare a sensibilizzare il più possibile su questo argomento, far parlare di questo tema. Con lui siamo subito d’accordo anche su un altro fondamentale aspetto del progetto. Le immagini devono trasmettere un messaggio positivo, non vogliamo foto tetre, ma modelle che sorridono e che trasmettono un messaggio di fiducia e speranza».
A questo punto ti sei messa alla ricerca delle modelle. E tu sei una delle 12 protagoniste del calendario che dovrebbe essere pubblicata a ottobre, di cui peraltro ha già parlato, raccontando anche la tua storia, la direttrice del settimanale Donna Moderna. È stato facile trovare donne disponibili a farsi fotografare mostrando le proprie cicatrici ?
«È stata la cosa più difficile, psicologicamente. È stata la mia terapia. Dovevo raccontare ad altri quello che è successo a me. E sentire le loro storia. Ho ricevuto anche alcuni no, come comprensibile, ma soprattutto tanti sì dati subito e con entusiasmo. Mi ha riempito il cuore vedere la solidarietà che c'è tra chi ha passato questa cosa: tutte sentivano evidentemente la necessità di dare un messaggio positivo e di sensibilizzare su questo tema. Ricordo soprattutto l’incontro con la prima modella, una ragazza che portava il bimbo al nido con il mio. Non la conoscevo ma ho deciso di parlarle del mio progetto. E lei ha detto subito di sì: il suo entusiasmo, la sua commozione la sua gioia mi hanno dato il coraggio di andare avanti. Io inizialmente non intendevo farmi fotografare: mi vergognavo. Sono state le undici donne che ho incontrato in questo percorso a darmi la forza».
A che punto è adesso il progetto?
«Tra novembre 2013 e aprile 2014 abbiamo fatto tutti gli scatti. Il maestro Citti li sta rielaborando. Poi ci sarà il lavoro, anche il questo caso offerto gratuitamente, del grafico Rino D'Anna. Mi sono rivolta all’associazione “Per te donna” che da tanti anni opera con grande impegno sul territorio su questi temi. Mi è subito sembrata la realtà perfetta perché rispetta in pieno la filosofia del mio progetto e anche da parte loro l’adesione è stata entusiastica e immediata. Ho chiesto a loro aiuto per la realizzazione finale del calendario e insieme abbiamo inoltrato domanda di patrocinio a tutti i Comuni della Versilia, all'Asl e alla Provincia. Insieme stiamo cercando gli sponsor per riuscire a stampare il calendario che vorremmo presentare a ottobre. Non sarà in vendita ma raccoglieremo offerte libere per il calendario che si potrà trovare presso l'associazione e anche in occasione delle mostre delle fotografie che faremo sul territorio. Insommasiamo al punto di trovare le risorse necessarie per stampare calendari e pannelli per le mostre. Ci tengo a dire che abbiamo trovato qualcuno già disponibile ad aiutarci anche se per ora non basta. Cosa che mi dà tanta fiducia: ci sono tante persone generose e questo mi riempie il cuore».
Se oggi vi raccontassimo che 2persone hanno ideato una grande iniziativa di solidarietà che vuole dare un tetto a chi non ce l’ha,
senza gravare di un solo centesimo né sulle Istituzioni, né sulla
collettività, voi come reagireste? No, non si tratta di una burla, ma di
qualcosa di reale, pronto in realtà già da un anno, ma che per le
lungaggini burocratiche del nostro Paese ancora non ha potuto vedere la
luce.
Strano Paese il nostro, dove le truffe e
le illegalità trovano vita facile, mentre la burocrazia “s’impegna” al
100% a rallentare involontariamente progetti benefici come quello messo
in piedi da Fernando Barone e Fernando Ragazzoni, e che porta il nome di
Associazione Pro Tetto. Attraverso il recupero di
locali e palazzine in disuso appartenenti a enti pubblici o a normali
privati, l’Associazione Pro Tetto s’impegna a ristrutturale tali spazi, e
ad offrirli gratuitamente ai poveri, alle famiglie a reddito 0, ai
clochard, ed a tutti i senza tetto del nostro Paese, partendo da quelli
di Milano, città di nascita dei due fondatori del progetto, che
vorrebbero sfruttare l’Expo 2015 per far ricordare per
una volta l’Italia come protagonista di qualcosa di positivo, in
concomitanza con un evento di tale importanza.
Non solo, allo Stato, agli enti locali
ed ai soggetti privati proprietari di questi siti, verrebbe corrisposto,
sempre dall’associazione, un regolare affitto. E cosa stiamo aspettando
ancora? I tempi della burocrazia italiana, nonostante l’iniziativa sia
sostenuta dal Comune di Milano, Amsa, Caritas, Curia (nelle persone del
Cardinale Scola e del Monsignor Bressan), associazioni varie, aziende e
privati.
Un’iniziativa del genere creerebbe poi solo a Milano 250 nuovi
posti di lavoro, con l’auspicio di aumentarne il numero via via che
questo progetto si espanderà nel resto dello Stivale.
AIUTIAMOLI nel farli partire! Non
chiedono soldi, ma solo la possibilità di iniziare ad aiutare gli altri!
E’ questo il secondo inverno che molti senza tetto avrebbero potuto
passare al caldo, senza la lentezza della nostra macchina burocratica. http://www.comunicareilsociale.it/author/pro-tetto/
Leggendo la storia che trovate sotto mi chiedo , ma che se ne fa , una che è arrivata già malata a quell'età della vita , non è meglio stare come si sta ed acettare la situazione di fatto , senza ricorrere ad interventi o meno ?
unione sarda Martedì 02 dicembre 2014 16:56
.
La felicità dev'essere arrivata tutto d'un colpo, per la nonnina di 103 anni che dopo un delicato intervento è tornata a vedere i colori, i volti delle persone, i dettagli delle cose. L'anziana signora ha infatti riacquistato la vista, persa molti anni fa, grazie a un delicatissimo intervento chirurgico eseguito ieri nel Reparto di Oculistica della Casa di Cura Madonna del Rimedio di Oristano. La paziente era cieca a causa di una cataratta inveterata totale complicata all'occhio sinistro e di un'atrofia del nervo ottico all'occhio destro.
L'equipe del dottor Giorgio Mattana ha utilizzato la tecnica di "facoemulsificazione", che ha permesso di eliminare la cataratta e contemporaneamente di impiantare una lentina intraoculare di ultima generazione e il successo dell'intervento, spiega la Casa di Cura, è stato reso possibile "anche dallo spirito collaborativo e motivato della paziente".
io purtroppo per impegni di lavoro non posso parteciparvi . Comunque non mi costa niente fare un favore ad un amico che promuove simili iniziative .Voi mi direte ma come di ci d'essere contrario allo spam o pubblicità e poi ne fai uso ? . Innanzitutto non lo è perché 1) : << ( .... ) Il principale scopo dello spamming è lapubblicità, il cui oggetto può andare dalle più comuni offerte commerciali a proposte di vendita di materialepornograficoo illegale, come software pirata e farmaci senza prescrizione medica, da discutibili progetti finanziari a veri e propri tentativi ditruffa. Unospammer, cioè l'individuo autore dei messaggi spam, invia messaggi identici (o con qualche personalizzazione) a migliaia di indirizzi e-mail. Questi indirizzi sono spesso raccolti in maniera automatica dalla rete (articoli diUsenet,pagine web) mediantespamboted appositi programmi, ottenuti da database o semplicemente indovinati usando liste di nomi comuni.
Per definizione lo spam viene inviato senza il permesso del destinatario ed è un comportamento ampiamente considerato inaccettabile dagliInternet Service Provider(ISP) e dalla maggior parte degli utenti di Internet. Mentre questi ultimi trovano lo spam fastidioso e con contenuti spesso offensivi, gli ISP vi si oppongono anche per i costi del traffico generato dall'invio indiscriminato. (.... ) continua qui alla voce spam su wikipedia ., 2) qualunque cosa tu faccia devi promuoverla direttamente o indirettamente altrimenti nessuno o quasi sanno che esisti . Basta ed è questa la differenza dallo spam o dalla pubblicità selvaggia che siua etica , rispettosa e non ingannevole
Uno studio olandese afferma che la condizione
psicologica è un fattore determinante nei regimi per perdere peso;
sentirsi 'trasgressori' ci spinge a consumare alimenti più grassi e fa
fallire l'obiettivo del dimagrimento
ROMA - Il senso di colpa fa
ingrassare: consumare un pasto come se si stesse commettendo un reato
contro la propria linea aumenta le possibilità di fallire nell'obiettivo
di dimagrire sul lungo periodo. E' la tesi che conclude uno studio
condotto da un team di ricercatori dell'Utrecht University in Olanda. La
ricerca, pubblicata sulla rivista Psychology & Health, rivela che
non è importante soltanto mangiare in maniera più sana per perdere
qualche chilo in più, ma che conta anche lo stato d'animo con il quale
ci accostiamo al cibo.
Se dunque ci sentiamo in qualche modo
responsabili di una trasgressione quando, in regime di dieta, consumiamo
un pasto o mangiamo un alimento in particolare, questa condizione
psicologica ostacolerà tutte le nostre buone intenzioni, ribaltando
l'esito del nostro progetto: vogliamo dimagrire e invece saremo
destinati a veder crescere il nostro peso.
Secondo la ricerca
olandese, ciò avviene perché sentirsi colpevoli mentre si mangia induce a
mangiare di più e a mangiare cibi più grassi. Questa tendenza
all'assunzione di un numero maggiore di calorie, di fatto, aumenta se ci
concentriamo sulle potenzialità "ingrassanti" del pasto che ci
apprestiamo a consumare e ci sentiamo successivamente colpevoli di aver
"remato" contro l'obiettivo dimagrimento. La conclusione della ricerca è
semplice: serve equilibrio nell'approccio al cibo, ma ci vuole anche
serenità; altrimenti la perdita di peso resterà un miraggio