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30.12.24

«Senza lavoro dopo una vita in fabbrica, mancava un anno alla pensione: a 61 anni dormo per strada, non ho più niente e nessuno».,Ispettore salva un bimbo da una casa-famiglia lager: 20 anni dopo, lui lo ricontatta per tenere a battesimo la figlia., ed altre storie


Mancava solo un anno per la pensione. Una vita di sacrifaci che si sarebbe dovuta concludere con il meritato riposo (e l'assegno) di chi, dall'età di 16 anni, aveva lavorato sempre. E invece per Andrea Baudissone quel momento non è arrivato. Lui, che per 20 anni, aveva caricato e scaricato i compressori della Embraco, nel 2018 si è ritrovato esodato. E oggi dorme per strada a Torino, in Galleria San Federico.
Baudissone è uno dei 537 esodati della fabbrica che produceva compressori per elettrodomestici, un ex «stabilimento d’avanguardia», chiuso a causa della crisi dopo mesi di lotte sindacali e manifestazioni. Aveva iniziato nello stabilimento a Riva di Chieri nel 1991, dopo due anni passati in un'altra azienda. «Guadagnavo due milioni di lire al mese. Lavoravo anche di notte. Era un periodo felice», racconta a La Stampa. «Mi occupavo di caricare e scaricare i compressori. L’ho fatto per quasi vent’anni. E guardi ora come sono ridotto».
Dorme per strada, raccimola qualche moneta dai passanto che gli fanno l'elemosina, mangia alla mensa dei poveri. «Ma spesso ci sono code lunghissime - precisa - e rischi di restare a pancia vuota. Nei fine settimana mangio se riesco: le mense sono chiuse». Qualche associazione di volontariato lo aiuta, ma non basta.
Quando la crisi della Embraco si fece acuta lo stipendio iniziò a diminuire, ma i politici passavano e facevano promesse: «Ricordo quello con l’allora sindaca Chiara Appendino. Venne da noi anche Alessandro Di Battista. Tutti ci hanno fatto grandi promesse. E tutte sono cadute nel vuoto».Il fallimento è arrivato e a Baudissone sonos tatai dati 30mila euro di Tfr,usati per saldare i debiti accumulati durante la crisi dell'azienda. «Per ripianarli sono rimasto quasi senza soldi. Ho perso anche la casa». E alla fine, rimasto solo e senza più un familiare in grado di aiutarlo, ha dovuto vivere per strada. Cerca ancora lavoro, per poter raggiungere quei contributi che gli mancano er la pensione. «Ma alla mia età chi volete che mi offra un impiego?».

video collegato


 


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Ispettore salva un bimbo da una casa-famiglia lager: 20 anni dopo, lui lo ricontatta per tenere a battesimo la figlia


L’ispettore Mario Giannotta, che 20 anni fa liberò un gruppo di bambini da una comunità-lager nell’Ennese, è stato ricontattato da uno di loro per un gesto speciale: battezzare la sua bambina.
Una storia di speranza e riscatto
Era un’operazione delicata quella condotta dall’ispettore Mario Giannotta vent’anni fa. All’epoca responsabile della Prima sezione della Squadra Mobile di Enna, specializzata nei reati contro i minori,
Giannotta guidò l’intervento che salvò un gruppo di bambini da una casa-famiglia dove subivano maltrattamenti, umiliazioni e venivano nutriti con prodotti scaduti.
Tra quei bambini c’era anche un giovane che, anni dopo, non ha mai dimenticato l’uomo che lo ha aiutato a cambiare vita. Ora padre, lo ha ricontattato per chiedergli di battezzare la sua bambina.
“Ho provato un’emozione unica e tanto orgoglio per quello che la Polizia ha fatto,” ha raccontato Giannotta, oggi dirigente della Polizia Stradale.
Il battesimo: un momento di riconoscenza
Il battesimo si è svolto in un piccolo paese della provincia di Enna, alla presenza di amici e parenti. “Ricordo quei bambini, i loro occhi quando ci hanno visto,” ha dichiarato l’ispettore. Il momento è stato un’occasione per riflettere sull’impatto che il lavoro della Polizia ha avuto sulla vita di quelle giovani vittime.
“Voglio dire grazie a questo ragazzo, oggi uomo, che mi ha restituito il mio impegno. È stato bello vedere che ce l’ha fatta, che ha costruito una vita per sé e per la sua famiglia.”
La rinascita di un giovane salvato
Il giovane padre, uno dei minori liberati dalla comunità-lager, ha raccontato di come, insieme ai suoi fratelli, sia riuscito a ricostruire la sua vita grazie all’intervento delle Forze dell’Ordine. Il legame con Giannotta è rimasto indelebile, tanto da volerlo coinvolgere in un evento così significativo come il battesimo della sua bambina.
Un esempio di dedizione e umanità
La vicenda non è solo una testimonianza dell’impegno delle forze dell’ordine, ma anche un esempio di come il coraggio e l’umanità possano cambiare il corso della vita di chi ha bisogno di aiuto.
“Il nostro lavoro spesso rimane nell’ombra,” ha sottolineato Giannotta, “ma momenti come questi ci ricordano perché facciamo ciò che facciamo.”


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Lascia tutti i suoi averi a «cani e gatti bisognosi», e il Tribunale di Firenze convalida le sue disposizioni testamentarie rigettando il ricorso di un parente che ne chiedeva l'annullamento. Con una sentenza storica, nei giorni scorsi, i giudici hanno spiegato le motivazioni della decisione presa, e il percorso giuridico seguito per arrivare a dirimere il singolare contenzioso giudiziario. 

Una signora fiorentina nel 2020 aveva redatto un testamento olografo e lo aveva depositato da un notaio: non avendo marito e figli stabilisce che tutti i suoi beni, mobili e immobili, debbano essere devoluti «a cani e gatti bisognosi». Nel 2023 muore e quindi il notaio invia il testamento al Tribunale fiorentino, dove si apre ufficialmente la successione nel mese di giugno dello stesso anno. Ad aprile scorso, però, viene fuori un parente, legittimato ad agire, che impugna il testamento chiedendone la nullità. 
Le sue argomentazioni sono molto forti perché a suo dire «i soggetti a cui era stato devoluto il patrimonio della donna sono privi di capacità giuridica a succedere», e inoltre il testamento era decisamente generico e non indicava precisamente a chi lasciare il suo patrimonio. 
Ma i giudici fiorentini, dopo aver analizzato il ricorso, sono arrivati a conclusioni differenti rispetto alle aspettative del parente. Per il Tribunale fiorentino, infatti, l’aspetto più importante dell’intera vicenda, pur ammettendo la genericità del testamento e le legittime contestazioni del parente, era rappresentato dal fatto di riuscire comunque a rispettare le volontà dell’anziana signora, che nel testamento erano molto chiare e poco interpretabili. Bisognava aiutare cani e gatti randagi con i suoi soldi e con i suoi beni, su questo le sue indicazioni erano state inequivocabili e perentorie. 
Il giudice Massimiliano Sturiale, della quarta sezione civile del Tribunale di Firenze, nella sentenza pubblicata nei giorni scorsi, dopo aver preso in esame tutta la documentazione processuale, leggi, sentenze, trattati e convenzioni, è arrivato alla conclusione che l’unico modo per dare seguito alle volontà testamentarie della donna fosse quello di affidare il suo patrimonio al Comune dove era residente, Firenze, che quando ne entrerà in possesso dovrà utilizzarlo per i canili comunali e per la tutela delle colonie feline. 
Anche perché la donna aveva nominato pure un esecutore testamentario, proprio al fine di vigilare sull’esecuzione del suo lascito. Insomma non aveva lasciato nulla al caso. «Se, come avvenuto in questo caso, non viene indicato l’ente specifico a cui si intende devolvere il proprio patrimonio, allora esso deve essere devoluto agli enti comunali di assistenza, e la devoluzione deve intendersi fatta a vantaggio del Comune in cui la donna aveva domicilio o residenza al momento del decesso». Questo perché, per legge, sono proprio i Comuni che si devono occupare di randagismo. 
Il tribunale fiorentino, dunque, non ha ovviamente attribuito diritti soggettivi agli animali, che non sono titolari di capacità giuridica, ma li ha riconosciuti invece in capo all’ente comunale «al fine di realizzare lo scopo previsto nel testamento dalla signora». In tal senso, quindi, per i giudici il testamento della signora fiorentina è assolutamente valido e legittimo, e il ricorso del parente è stato rigettato. 
Se non sarà appellata, la sentenza del Tribunale di Firenze nelle prossime settimane diventerà definitiva, e l’esecutore testamentario poi farà il resto come da verdetto.

8.7.22

Password del marito morto in eredità. Altro che i corpi, cremate gli account

 da  Il Giornale


Massimiliano Parente 5 h fa


Attenzione, signore e signori: anche gli «averi digitali» possono entrare a far parte dell'eredità, lo ha stabilito il Tribunale di Milano: una donna è potuta entrare in possesso di tutte le password del marito defunto, dell'account di posta e dei profili social.

Password del marito morto in eredità. Altro che i corpi, cremate gli account
© Fornito da Il Giornale

Io già immagino il terrore tra i coniugi, perché gli scheletri come si sa non si nascondono nell'armadio ma negli account e in ogni dispositivo elettronico.È successo anche a una mia zia, morto il marito ha trovato la password del cellulare e tutti i messaggi dell'amante, che si è presentata pure al funerale (ignara di essere stata scoperta, la storia durava da anni). Ma la privacy, direte voi? Tra coppie sposate non dovrebbe esistere, figuriamoci dopo morti, ragione ulteriore per pensarci bene prima di sposarsi. Tant'è che una mia amica, Klara Murnau, investigatore privato, mi ha spiegato che si può far pedinare legalmente il coniuge, ma non il partner o l'amante, è illegale. Se sei sposato invece non esiste privacy.In ogni caso le persone si preoccupano tanto di cosa fare dei propri corpi quando saranno morti (mai capito, il mio potete pure buttarlo in una discarica o imbalsamarlo come Tutankhamon in una piramide, è uguale): c'è chi si sceglie il loculo, chi ha una cappella di famiglia, chi vuole essere cremato e tenuto in un'urna sul camino, chi vuole che le sue ceneri siano disperse nel posto più amato, in mare, in montagna, se lo chiedessi a Vittorio Feltri mi risponderebbe di sicuro nella lettiera del suo amato gatto.Io vi do un consiglio: fregatevene del corpo, ci facciano quello che vogliono, tanto non ci siete più, ma lasciate disposizioni per cremare ogni vostro account e dispositivo elettronico perché qualcosa che non vorreste che fosse trovata lì si trova sempre, e non è mai un manoscritto di Kafka

22.2.17

ed io che credevo che tali storie fossero solo opere letterarie ed artistiche

http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/ del 22 febbraio 2017

Il vero padre era l'amico di famiglia: modenesi chiedono maxi risarcimento

Un medico facoltoso rivela al figlio di un amico poco prima di morire di essere il vero padre. Dopo il test del dna anche un fratello scopre la nuova paternità. I due avviano una causa civile per disconoscere il vecchio cognome e intanto fanno una seconda causa per ottenere il nuovo cognome e chiedono un risarcimento da 2 milioni di euro ciascuno alla erede. Ma i giudici li fermano: prima va riconosciuta e cambiata la vecchia paternità


                        di Carlo Gregori








MODENA. Un modenese ha scoperto di essere figlio di un facoltoso medico quando questi glielo ha confessato a pochi giorni dalla morte. La perizia del Dna ha accertato che lui e un fratello erano davvero suoi figli biologici, ma i due non hanno però potuto accedere alla cospicua eredità, anche se il padre naturale aveva confidato al primo di volerlo riconoscere. Per chiedere quanto spetterebbe loro - compreso un risarcimento di 2 milioni di euro a testa che chiedono all'erede - hanno intentato una causa civile per disconoscere il loro cognome ufficiale, quello che per decenni ha fissato la loro identità. La causa non è ancora terminata. Nel frattempo hanno già avviato una seconda causa per ottenere il riconoscimento della nuova paternità. Ma il Tribunale civile di Modena l'ha chiusa condannandoli a risarcire le spese. Li ha fermati ricordando che era prematura: prima devono cancellare il vecchio cognome.
Gli sposi e lo studente. Dietro questo importante caso in corso c'è una storia uscita da un romanzo d'altri tempi. Nel 2015 Roberto (i nomi sono di fantasia) avvia un'azione legale al Tribunale civile contro Paola, erede di un facoltoso medico da poco deceduto. Roberto chiede al giudice che venga riconosciuto che il suo vero padre è il defunto, e non più il marito di sua madre come si era sempre creduto e come risulta all'anagrafe.
Fin dall'infanzia Roberto aveva vissuto coi genitori e quattro fratelli senza che mai un sospetto lo turbasse. Poi nel febbraio 2015 incontra il medico, amico di famiglia, e questi, ormai vecchio e prossimo a spegnersi, gli confida una rivelazione sconvolgente: non è figlio di suo padre ma suo. Era un giovane studente universitario arrivato dal Sud Italia a Modena per studiare medicina, quando è stato accolto a casa dei suoi genitori. Ma tra lui e la donna che lo ospitava è nata una relazione passionale. La madre è rimasta incinta di Roberto. Per non destare scandali, la relazione è rimasta nascosta e la gestazione è proseguita come se il bimbo fosse stato del marito. Ma il marito sapeva del tradimento in corso e ha deciso di riconoscere ugualmente il neonato come suo figlio e lo ha iscritto col suo cognome allo Stato Civile. In quella famiglia nulla poteva fare insorgere sospetti. Infatti il rapporto clandestino è andato avanti mentre lo studente di medicina ha fatto da padrino al bimbo sapendo che era suo figlio. E ha continuato a frequentare la famiglia anche quando è diventato un importante e facoltoso medico.
La sconcertante verità. La confessione ha sconvolto Roberto. Ancora più impressionante è stato però il motivo della confessione fatta dopo tanti anni a un figlio segreto adulto: il medico gli aveva rivelato la verità per riconoscerlo come figlio a tutti gli effetti. Un atto riparatore che però non ha potuto portare a termine: è morto pochi giorni dopo. Roberto racconta, nel suo atto presentato ai giudici della Seconda Sezione Civile, di aver parlato di questa rivelazione sconcertante anche con Paola, la figlia del medico, mentre andavano nel Sud per trasportare le ceneri e dare l'addio a quell'uomo che li univa in modo così inatteso.
La svolta arriva però dalla decisione di Roberto di sottoporsi a una perizia genetica. Nel settembre 2015 lo farà con i quattro fratelli utilizzando campioni prelevati dalla salma del medico. La conferma arriva: è figlio naturale del medico. Subito dopo il colpo di scena: anche uno dei fratelli risulta figlio del medico. Con Paola però non arrivano a un accordo e parte la causa civile intentata da Roberto. Chiede ai giudici di cancellare il cognome dell'uomo che ha creduto suo padre per tanti anni: allo Stato Civile deve risultare il suo “nuovo” vero padre, il medico. A lui si unisce il fratello di sangue: anche lui fa causa.
La causa prematura. I fascicoli sono unificati e la causa risulta ancora in corso. Nel frattempo, però, i due fratelli avviano una seconda causa sempre contro Paola per far sì che il Tribunale riconosca con una dichiarazione giudiziale che sono figli effettivi del medico. Il Secondo Collegio del Tribunale Civile ha però giudicato inammissibile questa richiesta condannando i due fratelli a pagare 2.500 di euro per le spese. Il motivo è che, scrivono i giudici, un individuo non può essere figlio di due padri. In altre parole non può risultare contemporaneamente figlio di una coppia e anche figlio biologico di un terzo. Prima i due fratelli devono eliminare l'ostacolo giuridico, il fatto di risultare nati nel matrimonio, e quindi la prima causa deve concludersi a loro favore. Se ci sarà una dichiarazione giudiziale che è venuto meno il loro stato di figli nati dal matrimonio, potranno
essere riconosciuti figli naturali del medico, si farà l'importante variazione allo Stato Civile del Comune di Modena e alla fine godranno dei benefici. Compresa l'eredità. E potranno anche chiedere ed eventualmente ottenere il risarcimento dei danni quantificati in 2 milioni a testa.


17.12.15

storie varie di umanità ( generosità , ingratitudine dai beneficiari , barbiere alpinista, Avvocato in punto di morte salva un cliente )

Iniziamo dala prima



Pisa
Muore e lascia eredità ad ateneo, ma da mesi attende funerale
Da nove mesi ex insegnante è all'istituto di medicina legale



L'ospedale di Cisanello

PISA. Avere un patrimonio di tutto rispetto e compiere un gesto di grande generosità non basta per avere una degna sepoltura, per altro nel loculo precedentemente acquistato al cimitero. È la storia di Fiorella Fanali, ex insegnante elementare in pensione deceduta il 18 marzo scorso e da allora finita in una cella frigorifera dell'obitorio di Pisa.
La signora, vedova di Piero Consani, docente del liceo scientifico cittadino e cultore di Pisa e della pisanità, non ha eredi congiunti e ha lasciato tutto il suo patrimonio (due case e altri beni mobili per un valore stimato di circa 800 mila euro) in eredità all'università di Pisa per l'istituzione di borse di studio per studenti meritevoli ma indigenti e a due associazioni di tutela degli animali, una delle quali nel frattempo disciolta. Ma nessuno ha ancora dato esecuzione alle sue ultime volontà e con esse a una dignitosa sepoltura. Il testamento è stato reso pubblico nei mesi scorsi dal notaio Rodolfo Tolomei, ma da allora nulla si è più saputo nonostante l'impegno e risolvere l'impasse del vicepresidente vicario del consiglio comunale di Pisa, Riccardo Buscemi: "Fin dallo scorso marzo - racconta all'agenzia Ansa - mi sono attivato per dare sepoltura a Fiorella Fanali, segnalando la cosa alla Procura della Repubblica. A luglio ho scritto al rettore dell'università, ma l'ateneo mi ha fatto sapere che avrebbe dovuto riunirsi il consiglio di amministrazione per accettare l'eredità e alla mia richiesta se fossero stati disponibili a rimborsare integralmente le spese funerarie eventualmente anticipate da altri mi hanno risposto, con una lettera datata 17 agosto che eventualmente avrebbero rimborsato solo in quota parte, non essendo loro gli unici eredi".
Il notaio Tolomei dice di essere già stato pagato per la pubblicazione del testamento: "Per me è una questione chiusa, ma non so se poi il testamento è stato eseguito". "È una vicenda tristissima - conclude Buscemi - che fa riflettere: Fiorella Fanali è 'colpevole' di avere pianificato dettagliatamente la destinazione del suo patrimonio tra gli enti da lei ritenuti meritevoli, ma non di avere pensato a destinare una modesta cifra per le sue esequie. Forse confidava in un po' di riconoscenza e flessibilità da parte di chi ha beneficiato del suo lascito". Anche i vicini di casa, nel quartiere di San Giusto, dell'ex insegnante sono amareggiati:
"La casa è abbandonata da mesi, ma le utenze sono ancora tutte in funzione: aveva tutte le bollette domiciliate in banca e saranno state pagate regolarmente in questi mesi. Fiorella era una donna testarda, ma buona. Meriterebbe di riposare nella sua tomba e non dimenticata all'obitorio".


http://corrierealpi.gelocal.it/belluno/cronaca/2015/12/16/


Record di salite sui 4 mila per il barbiere alpinista
Il pedavenese Claudio Ceccato ha toccato tutte le 82 vette più alte del continente Trent’anni fa la prima ascensione. Una serata in biblioteca celebra le sue imprese







PEDAVENA. L’ultima è stata il Dent Blanche, 4.357 metri, Alpi Pennine nel Canton Vallese: è l’ottantaduesima vetta europea oltre i 4.000 metri che ancora mancava al curriculum alpinistico del pedavenese Claudio Ceccato, che di mestiere fa il barbiere, conquistata il 30 settembre. Senza dimenticare che alcune di queste cime sono state scalate più volte, come il Monte Bianco, da tre diversi versanti.
L’impresa del barbiere-alpinista sarà celebrata sabato alle 20.45 in sala Guarnieri in una serata dal titolo “4.000 passi oltre le nuvole (per 82 volte e più)”, organizzata dall’amministrazione tramite la biblioteca civica. Con la proiezione di alcune delle sue immagini più suggestive, sarà rivissuto il nuovo record di Claudio Ceccato, che ha scalato tutte le 82 cime europee oltre quota 4.000. Introduce Salvatore Liotta.
A partire dal 1987, il barbiere-alpinista di Pedavena ha raggiunto cinque cime sopra i 6.000 metri, ventuno oltre i 5.000, ben duecento sopra i 3.000 e appunto ottantadue oltre i 4.000.
«Ho iniziato trent’anni fa, spronato da alcuni amici», confessa Claudio Ceccato, che è persona schiva, non incline a vantarsi dei suoi meriti sportivi. «Da allora ho continuato a coltivare questa mia passione in maniera costante, salendo in montagna ogni fine settimana, e quando gli impegni di lavoro me lo permettono».
Ma di motivi di essere orgoglioso della sua carriera alpinistica il pedavenese ne ha molti, tra cui settanta vie classiche delle Dolomiti affrontate con successo, oltre cento cascate di ghiaccio e innumerevoli discese di sci alpinistico. Solo per fare alcuni esempi è salito su montagne-simbolo delle Alpi, come il Cervino (4.477 metri), il Grand Jourasse (4.806), l’Eiger che con i suoi 3.979 metri non è una delle cime più alte, ma sicuramente tra le più impegnative.
Ma si è spinto anche in aree montane extra-europee: in Argentina, sulla Cordigliera delle Ande, nel Circolo Polare Artico, in Messico, in Africa sul Kilimanjaro, in Malesia dove nel 2006 ha conquistato il Kinabaly (4.985 metri), la più alta vetta del sud-est asiatico. In Ecuador, nel 2007, ha scalato in solitaria il Chimburazo (6.310 metri); in Marocco, sempre in solitaria è salito sulle sette cime più alte, tutte sopra i 4.000, in soli venti giorni. E ancora: in Russia nel 2010 ha scalato le cime gemelle dell’Elbrus (5642 metri e 5621 metri).
«Tra i paesi che più mi hanno impressionato è la Bolivia, per i suoi stupendi paesaggi. Nel 2009 sono salito sul Parinacota (6.340 metri) e sull’Huayana Potosi (6.088 metri), anche se il mio cuore resta sulle Dolomiti», racconta
Ceccato, che non nega un pensierino a un 8.000: «È il sogno nel cassetto di tutti gli alpinisti, anche se questo richiede un’organizzazione particolare e costosa, oltre a una preparazione specifica. Però mai dire mai. Chissà, prima che “divente vecio del tut”…».

Raffaele Scottini






da  http://lasentinella.gelocal.it/ivrea/cronaca/2015/12/17

prima di perdere conoscenza: «Scade l’appello». Così il suo assistito ha evitato la galera
di Rita Cola    17\12\2015










IVREA.


Le sue ultime parole intelligibili, mentre era a terra, sofferente per quel respiro che si faceva sempre più affannoso, sono state per richiamare il lavoro che non ha mai terminato, un appello da presentare entro tre giorni. Bruno Delfino, 70 anni, per gli amici Beppe, avvocato del foro di Ivrea fin dal lontano 1981, se ne è andato così. Soccorso dal 118, è stato portato in ospedale a Ivrea in condizioni disperate, dove è morto alcune ore dopo, nella mattinata di sabato. Era gravemente ammalato, ma non lo sapeva o forse non ha mai voluto ascoltare i segnali che certamente ci saranno stati, ma che lui ha ignorato per continuare la sua quotidianità fatta di udienze, atti, scadenze. 
Il prodromo della morte dell’avvocato Delfino, una vita spesa per il suo lavoro fino davvero all’ultimo respiro, era avvenuto già mercoledì scorso, quando si era sentito male in aula, davanti al giudice Mariaclaudia Colangelo. Era in attesa che fosse chiamato il suo processo quando chi era lì racconta di averlo visto prima arrossire e poi sbiancare e afflosciarsi. Era stato subito soccorso, l’aula era stata fatta sgomberare ed era stata chiamata un’ambulanza. Lui si era ripreso dopo qualche istante e, come il suo fare riservato, da uomo attento e capace di osservare tutto fino ai dettagli ma lontano da tutto ciò che è ribalta, aveva minimizzato. «Sto bene, non è niente, è tutto passato, grazie», continuava a ripetere mentre tutti, compreso il procuratore capo Giuseppe Ferrando, lo invitavano a salire sull’ambulanza. 
Al pronto soccorso, dopo il malore in aula di quel giorno, l’avvocato Delfino ci è rimasto pochissimo. Di accertamenti da fare ce ne sarebbero stati molti, visto quanto successo 48 ore dopo, ma lui aveva solo una preoccupazione: tornare a casa e buttarsi sui suoi fascicoli. In una parola: lavorare. Ma il tempo, per lui, era finito. E due giorni dopo, venerdì, un nuovo malore. Lo ha trovatoFrancarlo Palazzo, venerdì, nel suo studio di Pavone. Era a terra, faticava a respirare. È stato Palazzo a telefonare al 118 e a raccogliere le ultime parole dell’avvocato Delfino: «Appello... appello che scade». 
Mario Benni è il presidente dell’Ordine degli avvocati: «Quando mi hanno chiamato raccontandomi che il collega era gravissimo in ospedale e che in quelle condizioni si era preoccupato dell’appello in scadenza per il suo cliente ci siamo subito attivati. Abbiamo chiamato il cliente e uno di noi ha redatto l’appello, in modo che potesse presentarlo in tempo (cioè lunedì 14, ndr)». Si trattava, per la cronaca, di un appello importante, legato a una sentenza senza i benefici della condizionale. 
Bruno Delfino è stato sepolto ieri, a Sezzadio, in provincia di Alessandria, suo paese di origine. Lunedì sera, sia a Sezzadio che a Ivrea, è stato recitato il rosario. L’avvocato Benni ha tracciato un ritratto del collega scomparso: «La sua vita professionale è stata sempre a Ivrea, fin dai tempi in cui è stato praticante dall’avvocato Campanale. Era un tipo solitario, di quella solitudine che induce al desiderio di protezione Lui ha sempre lavorato da solo, ed in realtà, ci ha fatto pensare che la nostra è una professione di solitudine, di decisioni, anche di angoscia rispetto alle scelte. Ci siamo subito attivati per quell’appello. Per noi è stato un modo per aiutare e onorare il collega

12.2.15

Trieste Eredita 900 milioni di lire. Bankitalia: "E' carta straccia"



Trieste Eredita 900 milioni di lire. Bankitalia: "E' carta straccia"

L'incredibile vicenda di un invalido triestino: il lascito dello zio era custodito in una cassetta di sicurezza. L'istituto centrale si rifiuta di convertire le banconote scadute in euro. Ma la Corte costituzionale potrebbe dare ragione al ricorrente.


Riceve in eredità dallo zio defunto 900 milioni di vecchie lire e vari titoli di Stato, ma scopre che non può incassarli. È la surreale vicenda che sta vivendo un triestino di 43 anni, Francesco Cantarutti, sordomuto dalla nascita e invalido al 100 per cento.
Lo zio materno, imprenditore edile che operava in città, morto recentemente celibe e senza figli, gli ha lasciato un "piccolo" patrimonio che però Bankitalia giudica come inesigibile per la scadenza dei termini di conversione lira-euro anticipata dall’ex premier Monti. La vicenda finirà davanti alla Corte Costituzionale.
Il lascito era custodito in una cassetta di sicurezza: oltre alle banconote in valuta italiana ormai scaduta, c'erano anche titoli di Stato. In corso una battagli legale per consentire all'invalido di incassare la cospicua somma.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...