Pisa
Muore e lascia eredità ad ateneo, ma da mesi attende funerale
Da nove mesi ex insegnante è all'istituto di medicina legale
L'ospedale di Cisanello
PISA. Avere un patrimonio di tutto rispetto e compiere un gesto di grande generosità non basta per avere una degna sepoltura, per altro nel loculo precedentemente acquistato al cimitero. È la storia di Fiorella Fanali, ex insegnante elementare in pensione deceduta il 18 marzo scorso e da allora finita in una cella frigorifera dell'obitorio di Pisa.
La signora, vedova di Piero Consani, docente del liceo scientifico cittadino e cultore di Pisa e della pisanità, non ha eredi congiunti e ha lasciato tutto il suo patrimonio (due case e altri beni mobili per un valore stimato di circa 800 mila euro) in eredità all'università di Pisa per l'istituzione di borse di studio per studenti meritevoli ma indigenti e a due associazioni di tutela degli animali, una delle quali nel frattempo disciolta. Ma nessuno ha ancora dato esecuzione alle sue ultime volontà e con esse a una dignitosa sepoltura. Il testamento è stato reso pubblico nei mesi scorsi dal notaio Rodolfo Tolomei, ma da allora nulla si è più saputo nonostante l'impegno e risolvere l'impasse del vicepresidente vicario del consiglio comunale di Pisa, Riccardo Buscemi: "Fin dallo scorso marzo - racconta all'agenzia Ansa - mi sono attivato per dare sepoltura a Fiorella Fanali, segnalando la cosa alla Procura della Repubblica. A luglio ho scritto al rettore dell'università, ma l'ateneo mi ha fatto sapere che avrebbe dovuto riunirsi il consiglio di amministrazione per accettare l'eredità e alla mia richiesta se fossero stati disponibili a rimborsare integralmente le spese funerarie eventualmente anticipate da altri mi hanno risposto, con una lettera datata 17 agosto che eventualmente avrebbero rimborsato solo in quota parte, non essendo loro gli unici eredi".
Il notaio Tolomei dice di essere già stato pagato per la pubblicazione del testamento: "Per me è una questione chiusa, ma non so se poi il testamento è stato eseguito". "È una vicenda tristissima - conclude Buscemi - che fa riflettere: Fiorella Fanali è 'colpevole' di avere pianificato dettagliatamente la destinazione del suo patrimonio tra gli enti da lei ritenuti meritevoli, ma non di avere pensato a destinare una modesta cifra per le sue esequie. Forse confidava in un po' di riconoscenza e flessibilità da parte di chi ha beneficiato del suo lascito". Anche i vicini di casa, nel quartiere di San Giusto, dell'ex insegnante sono amareggiati:
"La casa è abbandonata da mesi, ma le utenze sono ancora tutte in funzione: aveva tutte le bollette domiciliate in banca e saranno state pagate regolarmente in questi mesi. Fiorella era una donna testarda, ma buona. Meriterebbe di riposare nella sua tomba e non dimenticata all'obitorio".
http://corrierealpi.gelocal.it/belluno/cronaca/2015/12/16/
Record di salite sui 4 mila per il barbiere alpinista
Il pedavenese Claudio Ceccato ha toccato tutte le 82 vette più alte del continente Trent’anni fa la prima ascensione. Una serata in biblioteca celebra le sue imprese
PEDAVENA. L’ultima è stata il Dent Blanche, 4.357 metri, Alpi Pennine nel Canton Vallese: è l’ottantaduesima vetta europea oltre i 4.000 metri che ancora mancava al curriculum alpinistico del pedavenese Claudio Ceccato, che di mestiere fa il barbiere, conquistata il 30 settembre. Senza dimenticare che alcune di queste cime sono state scalate più volte, come il Monte Bianco, da tre diversi versanti.
L’impresa del barbiere-alpinista sarà celebrata sabato alle 20.45 in sala Guarnieri in una serata dal titolo “4.000 passi oltre le nuvole (per 82 volte e più)”, organizzata dall’amministrazione tramite la biblioteca civica. Con la proiezione di alcune delle sue immagini più suggestive, sarà rivissuto il nuovo record di Claudio Ceccato, che ha scalato tutte le 82 cime europee oltre quota 4.000. Introduce Salvatore Liotta.
A partire dal 1987, il barbiere-alpinista di Pedavena ha raggiunto cinque cime sopra i 6.000 metri, ventuno oltre i 5.000, ben duecento sopra i 3.000 e appunto ottantadue oltre i 4.000.
«Ho iniziato trent’anni fa, spronato da alcuni amici», confessa Claudio Ceccato, che è persona schiva, non incline a vantarsi dei suoi meriti sportivi. «Da allora ho continuato a coltivare questa mia passione in maniera costante, salendo in montagna ogni fine settimana, e quando gli impegni di lavoro me lo permettono».
Ma di motivi di essere orgoglioso della sua carriera alpinistica il pedavenese ne ha molti, tra cui settanta vie classiche delle Dolomiti affrontate con successo, oltre cento cascate di ghiaccio e innumerevoli discese di sci alpinistico. Solo per fare alcuni esempi è salito su montagne-simbolo delle Alpi, come il Cervino (4.477 metri), il Grand Jourasse (4.806), l’Eiger che con i suoi 3.979 metri non è una delle cime più alte, ma sicuramente tra le più impegnative.
Ma si è spinto anche in aree montane extra-europee: in Argentina, sulla Cordigliera delle Ande, nel Circolo Polare Artico, in Messico, in Africa sul Kilimanjaro, in Malesia dove nel 2006 ha conquistato il Kinabaly (4.985 metri), la più alta vetta del sud-est asiatico. In Ecuador, nel 2007, ha scalato in solitaria il Chimburazo (6.310 metri); in Marocco, sempre in solitaria è salito sulle sette cime più alte, tutte sopra i 4.000, in soli venti giorni. E ancora: in Russia nel 2010 ha scalato le cime gemelle dell’Elbrus (5642 metri e 5621 metri).
«Tra i paesi che più mi hanno impressionato è la Bolivia, per i suoi stupendi paesaggi. Nel 2009 sono salito sul Parinacota (6.340 metri) e sull’Huayana Potosi (6.088 metri), anche se il mio cuore resta sulle Dolomiti», racconta
Ceccato, che non nega un pensierino a un 8.000: «È il sogno nel cassetto di tutti gli alpinisti, anche se questo richiede un’organizzazione particolare e costosa, oltre a una preparazione specifica. Però mai dire mai. Chissà, prima che “divente vecio del tut”…».
Raffaele Scottini
da
http://lasentinella.gelocal.it/ivrea/cronaca/2015/12/17
prima di perdere conoscenza: «Scade l’appello». Così il suo assistito ha evitato la galera
di Rita Cola 17\12\2015
IVREA.
Le sue ultime parole intelligibili, mentre era a terra, sofferente per quel respiro che si faceva sempre più affannoso, sono state per richiamare il lavoro che non ha mai terminato, un appello da presentare entro tre giorni. Bruno Delfino, 70 anni, per gli amici Beppe, avvocato del foro di Ivrea fin dal lontano 1981, se ne è andato così. Soccorso dal 118, è stato portato in ospedale a Ivrea in condizioni disperate, dove è morto alcune ore dopo, nella mattinata di sabato. Era gravemente ammalato, ma non lo sapeva o forse non ha mai voluto ascoltare i segnali che certamente ci saranno stati, ma che lui ha ignorato per continuare la sua quotidianità fatta di udienze, atti, scadenze.
Il prodromo della morte dell’avvocato Delfino, una vita spesa per il suo lavoro fino davvero all’ultimo respiro, era avvenuto già mercoledì scorso, quando si era sentito male in aula, davanti al giudice Mariaclaudia Colangelo. Era in attesa che fosse chiamato il suo processo quando chi era lì racconta di averlo visto prima arrossire e poi sbiancare e afflosciarsi. Era stato subito soccorso, l’aula era stata fatta sgomberare ed era stata chiamata un’ambulanza. Lui si era ripreso dopo qualche istante e, come il suo fare riservato, da uomo attento e capace di osservare tutto fino ai dettagli ma lontano da tutto ciò che è ribalta, aveva minimizzato. «Sto bene, non è niente, è tutto passato, grazie», continuava a ripetere mentre tutti, compreso il procuratore capo Giuseppe Ferrando, lo invitavano a salire sull’ambulanza.
Al pronto soccorso, dopo il malore in aula di quel giorno, l’avvocato Delfino ci è rimasto pochissimo. Di accertamenti da fare ce ne sarebbero stati molti, visto quanto successo 48 ore dopo, ma lui aveva solo una preoccupazione: tornare a casa e buttarsi sui suoi fascicoli. In una parola: lavorare. Ma il tempo, per lui, era finito. E due giorni dopo, venerdì, un nuovo malore. Lo ha trovatoFrancarlo Palazzo, venerdì, nel suo studio di Pavone. Era a terra, faticava a respirare. È stato Palazzo a telefonare al 118 e a raccogliere le ultime parole dell’avvocato Delfino: «Appello... appello che scade».
Mario Benni è il presidente dell’Ordine degli avvocati: «Quando mi hanno chiamato raccontandomi che il collega era gravissimo in ospedale e che in quelle condizioni si era preoccupato dell’appello in scadenza per il suo cliente ci siamo subito attivati. Abbiamo chiamato il cliente e uno di noi ha redatto l’appello, in modo che potesse presentarlo in tempo (cioè lunedì 14, ndr)». Si trattava, per la cronaca, di un appello importante, legato a una sentenza senza i benefici della condizionale.
Bruno Delfino è stato sepolto ieri, a Sezzadio, in provincia di Alessandria, suo paese di origine. Lunedì sera, sia a Sezzadio che a Ivrea, è stato recitato il rosario. L’avvocato Benni ha tracciato un ritratto del collega scomparso: «La sua vita professionale è stata sempre a Ivrea, fin dai tempi in cui è stato praticante dall’avvocato Campanale. Era un tipo solitario, di quella solitudine che induce al desiderio di protezione Lui ha sempre lavorato da solo, ed in realtà, ci ha fatto pensare che la nostra è una professione di solitudine, di decisioni, anche di angoscia rispetto alle scelte. Ci siamo subito attivati per quell’appello. Per noi è stato un modo per aiutare e onorare il collega