Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere
di Viola Giannoli
«Bevevo da 12 anni e bevevo male. Sulle Pagine gialle, quand’erano ancora cartacee e ti arrivavano a casa, ho trovato un trafiletto che parlava degli Alcolisti anonimi. C’era un indirizzo, l’ho ritagliato e messo via in un cassetto del comodino. L’ho guardato per anni, poi un giorno sono andata. C’erano una quarantina di persone assiepate in una stanzina piena di fumo, ho attraversato la nebbia, mi sono seduta e ho detto: “Ciao, sono Chiara, e ho un problema"». Erano gli anni Ottanta, Alcolisti anonimi era sbarcata da poco in Italia.
430 gruppi in Italia
Adesso, che la rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto compie cinquant’anni e si è ritrovata per un bilancio di questo primo mezzo secolo a Rimini, oggi è l’ultimo giorno di incontri, sono 430 i gruppi sparsi in tutta Italia e più di seimila le presenze fisse.
Ci s’incontra nei locali messi a disposizione dalle parrocchie o dai Comuni, si paga l’affitto con i contributi volontari dei partecipanti. Tutti alcolisti, non «ex alcolisti», né «persone con l’alcolismo», perché la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno. «L’unico requisito per entrare in un gruppo di Alcolisti anonimi è il desiderio di smettere di bere, ma il difficile non è quello, è continuare a non bere», sottolinea Eugenio, l’ultimo bicchiere venticinque anni fa.
Gli artisti salvati dal gruppo
Ai partecipanti non si chiedono nomi, cognomi, documenti. Chi racconta di far parte di un gruppo lo fa per libera scelta, come Tiziano Ferro che tra i «per fortuna» della sua vita ha messo l’incontro con gli Alcolisti anonimi. O Asia Argento che a giugno ha festeggiato un anno di sobrietà. Degli altri si sa la biografia che durante gli incontri decidono di narrare. E non c’è nemmeno un registro per sapere poi come a ognuno sia andata.
I coordinatori gestiscono gli interventi, ma non si è obbligati a raccontarsi, qui si viene e si resta perché si vuol restare. Non ci sono professionisti, non è un approccio sanitario bensì spirituale che passa anche attraverso la meditazione e la preghiera a un dio qualunque.
I 12 passi
E si basa su 12 passi, una sorta di progressione attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Si parte dall’accettazione di essere alcolisti, impotenti davanti alla bottiglia. Un giorno alla volta, un passo per volta, tenendosi lontano dal primo bicchiere per 24 ore. E poi per altre 24. E ancora e ancora. Fino a rompere l’isolamento, a ricostruire le relazioni sociali, a tornare attivi perché, spiegano, «sarebbe assurdo togliere l’alcol e non mettere altro dentro alla propria vita».
In questo cerchio di sconosciuti ci si riconosce, si parla la stessa lingua, fatta di solitudini e di fragilità. «Prima di arrivare qui chiunque di noi ha parlato con un’amica, un familiare, un prete: bevi un po’ meno, ti dicono. Ma uno non vuole smettere per tenere a bada le transaminasi, ma perché ha toccato il fondo», dice ancora Chiara. Ci si apre «perché scatta un’identificazione che altrove non c’è, perché nessuno giudica, perché qualcuno sta meglio e se ce l’ha fatta lui, che è come me, allora magari ce la faccio anche io».
L'alcolismo femminile
In origine di donne ce n’erano pochissime, «arrivavano quando erano alla frutta, portate di peso dai loro compagni. Poi anche loro sono uscite di casa, hanno capito che potevano chiedere aiuto e abbiamo scoperto la reale dimensione dell’alcolismo femminile», spiega Chiara. C’erano pure pochi giovani. «Io mi definisco un’alcolista col pedigree – continua lei – È l’alcol il mio grande amore. I ragazzi invece sono pluridipendenti. Entrano nei gruppi, fanno una pulizia veloce, escono. Ma poi ritornano».
In pandemia i gruppi virtuali
La pandemia non ha aiutato. «Ci siamo ritrovati su Zoom, sono nati gruppi solo virtuali, i più anziani ancora continuano a vedersi dallo schermo, altri hanno smesso e si riuniscono in presenza», dice Eugenio mostrando il logo, un triangolo con tre parole: unità, servizio, recupero. «È come uno sgabello a tre gambe, non sta in piedi con due: con il recupero e l’unità raggiungiamo insieme la sobrietà, con il servizio cerchiamo di aiutare gli altri, di trasmettere il nostro messaggio a chi soffre ancora».
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Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"
Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti" "Abbiamo subito due furti e il primo motivo per cui abbiamo deciso di diventare cashless è stata la sicurezza, dell'attività ma soprattutto di chi ci lavora". Vittorio Borgia è il titolare della catena Baunilla, che a Milano ha fatto molto parlare di sé per la scelta di non accettare più i contanti come metodo di pagamento. La sua idea ha diviso il pubblico dei social con commenti talvolta positivi e talvolta offensivi."C'è un diffuso senso di complottismo - racconta -, sono haters e terrappiattisti. Siamo passati dai no-vax ai no-pos". Si schierano invece con Borgia i clienti abituali della pasticceria, situata a pochi passi da piazza Gae Aulenti, in una delle parti più moderne della città. "Maggiore velocità nei pagamenti, approviamo", dicono due ragazzi che lavorano in un ufficio nei paraggi. Matteo Salvini, in un post, ha criticato la scelta. "Nell'era digitale - replica Borgia - non mi aspetto dichiarazioni simili". "Vado avanti con determinazione", conclude
di Andrea Lattanzi