riordinando i giornali per la diferenziata ho trovato che nei giorni scorsi c'è stata la conclusione della vicenda processuale della professoressa di Prato che ha avuto un figlio da un suo alunno 14enne. La vicenda ha suscitato molto scalpore in Italia e ha avuto una vasta copertura mediatica. La donna è stata condannata a sei anni di carcere per atti sessuali e violenza sessuale per induzione su minore
I giornali ed i media parlano anche della reazione del marito per le reazioni " non violente " nei confronti ella moglie e del ragazzo minorenne . Il marito della donna, come riportato da Internapoli.it e Fanpage.it, ha dichiarato di voler crescere il bambino come se fosse suo . Infatti a Vanityfarair ha dichiarato : «Non mi piace passare per quello che non ha colpe, in passato avevo commesso errori anche io. Abbiamo parlato dopo lo scandalo, come si fa fra persone civili. Tutto si può salvare se si analizza. Stiamo insieme sin da giovani, ne abbiamo passate tante».Uno di quei pochi uomini che , non a parole , a saputo mettere in pratica il perdono ed la comprensione , è riuscito lucidamente senza farsi trasportare dall'odio ed dal rancore la situazione anche analizzandosi senza scaricare tutto su di lei ed a mettere da parte la sua mascolinità e il suo orgoglio ferito .Un altro l'avrebbe lasciati al loro destino ( nei migliori dei casi ) oppure insultata ed stalkerizzata se non addirittura uccisa\i ( nel peggiore dei casi ) . Un uomo cosa , rara parlo per esperienza personale , che mette da parte il suo orgoglio ferito da un tradimento .Molto saggia la ecisoe : « Molti pensavano che avrei lasciato mia moglie, ma il nostro rapporto, invece, si è rafforzato. Tutto si può salvare se si analizza. Stiamo insieme sin da giovani, ne abbiamo passate tante», spiega il marito della donna pratese al Corriere della Sera. Egli dovrà badare da solo a due bambini, il quindicenne di cui è padre biologico e il bambino di 5 anni di cui ha rivendicato la paternità. «Ma per me non esiste differenza, sono i miei figli», precisa immediatamente.
Gli alcolisti anonimi e il circolo che batte il diavolo nel bicchiere di Viola Giannoli
Si conclude il raduno a Rimini dei 430 gruppi per i 50 anni dell'associazione. Dal 1972 in Italia aiutano a smettere chi dipende dall’alcol. “Era considerato un vizio, ma è una malattia” .
«Bevevo da 12 anni e bevevo male. Sulle Pagine gialle, quand’erano ancora cartacee e ti arrivavano a casa, ho trovato un trafiletto che parlava degli Alcolisti anonimi. C’era un indirizzo, l’ho ritagliato e messo via in un cassetto del comodino. L’ho guardato per anni, poi un giorno sono andata. C’erano una quarantina di persone assiepate in una stanzina piena di fumo, ho attraversato la nebbia, mi sono seduta e ho detto: “Ciao, sono Chiara, e ho un problema"». Erano gli anni Ottanta, Alcolisti anonimi era sbarcata da poco in Italia.
430 gruppi in Italia
Adesso, che la rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto compie cinquant’anni e si è ritrovata per un bilancio di questo primo mezzo secolo a Rimini, oggi è l’ultimo giorno di incontri, sono 430 i gruppi sparsi in tutta Italia e più di seimila le presenze fisse. Ci s’incontra nei locali messi a disposizione dalle parrocchie o dai Comuni, si paga l’affitto con i contributi volontari dei partecipanti. Tutti alcolisti, non «ex alcolisti», né «persone con l’alcolismo», perché la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno. «L’unico requisito per entrare in un gruppo di Alcolisti anonimi è il desiderio di smettere di bere, ma il difficile non è quello, è continuare a non bere», sottolinea Eugenio, l’ultimo bicchiere venticinque anni fa.
Gli artisti salvati dal gruppo
Ai partecipanti non si chiedono nomi, cognomi, documenti. Chi racconta di far parte di un gruppo lo fa per libera scelta, come Tiziano Ferro che tra i «per fortuna» della sua vita ha messo l’incontro con gli Alcolisti anonimi. O Asia Argento che a giugno ha festeggiato un anno di sobrietà. Degli altri si sa la biografia che durante gli incontri decidono di narrare. E non c’è nemmeno un registro per sapere poi come a ognuno sia andata. I coordinatori gestiscono gli interventi, ma non si è obbligati a raccontarsi, qui si viene e si resta perché si vuol restare. Non ci sono professionisti, non è un approccio sanitario bensì spirituale che passa anche attraverso la meditazione e la preghiera a un dio qualunque.
I 12 passi
E si basa su 12 passi, una sorta di progressione attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Si parte dall’accettazione di essere alcolisti, impotenti davanti alla bottiglia. Un giorno alla volta, un passo per volta, tenendosi lontano dal primo bicchiere per 24 ore. E poi per altre 24. E ancora e ancora. Fino a rompere l’isolamento, a ricostruire le relazioni sociali, a tornare attivi perché, spiegano, «sarebbe assurdo togliere l’alcol e non mettere altro dentro alla propria vita». In questo cerchio di sconosciuti ci si riconosce, si parla la stessa lingua, fatta di solitudini e di fragilità. «Prima di arrivare qui chiunque di noi ha parlato con un’amica, un familiare, un prete: bevi un po’ meno, ti dicono. Ma uno non vuole smettere per tenere a bada le transaminasi, ma perché ha toccato il fondo», dice ancora Chiara. Ci si apre «perché scatta un’identificazione che altrove non c’è, perché nessuno giudica, perché qualcuno sta meglio e se ce l’ha fatta lui, che è come me, allora magari ce la faccio anche io».
L'alcolismo femminile
In origine di donne ce n’erano pochissime, «arrivavano quando erano alla frutta, portate di peso dai loro compagni. Poi anche loro sono uscite di casa, hanno capito che potevano chiedere aiuto e abbiamo scoperto la reale dimensione dell’alcolismo femminile», spiega Chiara. C’erano pure pochi giovani. «Io mi definisco un’alcolista col pedigree – continua lei – È l’alcol il mio grande amore. I ragazzi invece sono pluridipendenti. Entrano nei gruppi, fanno una pulizia veloce, escono. Ma poi ritornano».
In pandemia i gruppi virtuali
La pandemia non ha aiutato. «Ci siamo ritrovati su Zoom, sono nati gruppi solo virtuali, i più anziani ancora continuano a vedersi dallo schermo, altri hanno smesso e si riuniscono in presenza», dice Eugenio mostrando il logo, un triangolo con tre parole: unità, servizio, recupero. «È come uno sgabello a tre gambe, non sta in piedi con due: con il recupero e l’unità raggiungiamo insieme la sobrietà, con il servizio cerchiamo di aiutare gli altri, di trasmettere il nostro messaggio a chi soffre ancora».
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Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"
Milano, nella pasticceria che non accetta contanti: "Mi scrivono 'socio delle banche' ma vado avanti"
"Abbiamo subito due furti e il primo motivo per cui abbiamo deciso di diventare cashless è stata la sicurezza, dell'attività ma soprattutto di chi ci lavora". Vittorio Borgia è il titolare della catena Baunilla, che a Milano ha fatto molto parlare di sé per la scelta di non accettare più i contanti come metodo di pagamento. La sua idea ha diviso il pubblico dei social con commenti talvolta positivi e talvolta offensivi.
"C'è un diffuso senso di complottismo - racconta -, sono haters e terrappiattisti. Siamo passati dai no-vax ai no-pos". Si schierano invece con Borgia i clienti abituali della pasticceria, situata a pochi passi da piazza Gae Aulenti, in una delle parti più moderne della città. "Maggiore velocità nei pagamenti, approviamo", dicono due ragazzi che lavorano in un ufficio nei paraggi. Matteo Salvini, in un post, ha criticato la scelta. "Nell'era digitale - replica Borgia - non mi aspetto dichiarazioni simili". "Vado avanti con determinazione", conclude
di Andrea Lattanzi
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Il formaggio che costa 300 euro al chilo: dalla Valtellina un "pezzo della storia della montagna"
L’hanno chiamato Storico Ribelle, questo formaggio d'alpeggio che segue alla lettera gli antichi disciplinari e che si è ribellato al consorzio del Bitto, il celebre formaggio della Valtellina, oggi prodotto con il solo latte vaccino. "Il nostro è invece il bitto come si faceva una volta, con l’80% di latte vaccino e il 20% caprino, prende vita in alta montagna a latte crudo, è una produzione di nicchia che ha costi molto alti", raccontano i ragazzi del Presidio Storico Ribelle della Valtellina. Che al mercato di Terra Madre Salone del Gusto 2022, insieme alla loro storia, hanno portato anche qualcosa di molto prezioso, una forma del 2007, con 15 anni di invecchiamento, tantissimi per un formaggio, e un prezzo da record: 300 euro al chilo.
"Ma non bisogna fermarsi alle apparenze, bisogna guardare il lavoro e il valore che ci sono dietro - continuano - È costoso, è vero, ma la politica del prezzo è l'unico modo che abbiamo per portare avanti una produzione che si basa su numeri piccolissimi. È come se fosse il Barolo dei formaggi. Selezionatissimo: una sola forma sulle mille che produciamo all'anno ha le caratteristiche per arrivare a stagionature del genere. Chi lo assaggia sa di avare in mano un pezzo di storia della montagna, così come le rocce o i boschi".
Servizio di Giulia Destefanis
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L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella
dalla nostra inviata Brunella Giovara
A Nardò gli alberi vengono verniciati di bianco e trasformati. Il progetto di Ulderico Tramacere: “Li preserviamo per la memoria, pur sapendo che moriranno”
NARDO' (Lecce) In principio, l’hanno preso per matto. E chi era quell’uomo che saliva su una scala traballante e verniciava gli ulivi di bianco? Un artista, si è saputo dopo un po’. Poi uno ha fermato l’Ape al bordo del campo e si è fatto avanti. La volta dopo ci si è messo anche lui, a pittare gli alberi, e poi un altro si è offerto di portare l’acqua, mille litri per volta, e gratis. Uno di Copertino ha cominciato a potare, che è un mestiere difficile, arrampicandosi a piedi nudi sui tronchi, come si è sempre fatto da queste parti.
Il Campo dei Giganti
Land Art, ma a partecipazione popolare, e se anche i contadini del Salento non sanno esattamente che cos’è, di sicuro hanno un altissimo concetto del bello, essendo nati e cresciuti in cotanta bellezza, purtroppo morta o moritura a causa della Xylella. Un vero dolore, passare attraverso gli scheletri di migliaia e migliaia di alberi uccisi dal batterio, persino il turista più svagato non può non accorgersi di come il panorama del Salento sia cambiato per sempre, tragicamente. Poi Ulderico Tramacere, fotografo e artista di 47 anni, ha comprato il primo sacco di calce ed è andato da solo nel campo che oggi si chiama il Campo dei Giganti, il fondo di un amico, Simone Tarantino, agricoltore e tassidermista per musei, anche lui desolato di fronte all’uliveto semimorto, 50 piante ultracentenarie, seccate ma ancora in piedi, pochi i polloni ancora vivi. Altri defunti, eppure monumentali, censiti dalla Regione Puglia nel 2007, quando “ce li vendevamo alle ville del Nord e della Sardegna”, spiega Tramacere, perciò i tecnici li fotografarono e numerarono, guai a cercare di esportarli, “ma è arrivata la malattia, ed eccoci qui”.
Nel vento della sera, nella luce che cade veloce, ecco la parata emozionante dei giganti imbiancati, alcuni così grandi che non si riesce ad abbracciarli neanche in due, o in tre. “Questa è la campagna che ci ha dato vita e ombra, e amori”, tutti i vecchi del posto lo sanno. Prima del grande boom del turismo – “Salentu, sule mare e ientu”, c’era solo l’olio su cui campare, “e ognuno di questi alberi dava un camion di olive”. Oggi sono un peso, anche psicologico, e un problema. Cosa farne? Abbatterli, e non pensarci più. Qualcuno non va più nel podere, perché è troppo triste vedere che quella bellezza è finita, e li lascia lì in agonia. C’è chi gli dà fuoco, come in un grandioso rito primitivo, finale. O chi li pota, testardo, sperando in una cura che non arriva mai. E chi se li vende (a poco o niente) ai boscaioli, che giusto in questi giorni lavorano a segare e trasportare grandi carichi, la legna di ulivo si compra a 10-12 euro al quintale, tanta ce n’è.
Un grande cimitero monumentale
“E’ un grande cimitero monumentale”, dice Tramacere tra i Giganti, persi in una campagna dalle parti di Boncore, nella zona che si chiama Terra d’Arneo, terra rossa, e ribelle. “Il luogo esatto non lo abbiamo ancora reso noto perché vogliamo aprire il posto alle visite solo sarà finito il primo lotto di 50 alberi” (e già qualcuno interessato di arte e ambiente, con il passaparola, vaga tra le masserie, cercando il biancore lucente). Per ora, piccoli eventi e passeggiate su invito, chi c’è stato è rimasto meravigliato da questa nuova bellezza, “però non è solo una memoria funebre”, perché il progetto artistico prevede una cura - la calce che disinfetta, e prima, la potatura del secco – “ed è come stare con un anziano, che morirà, ma tu te ne prendi cura perché quella sua vita ha un grande valore”. E’ anche un’operazione di imbalsamatura, “li preserviamo per la memoria, pur sapendo che moriranno. Qualcuno getta nuovi polloni, ma noi sappiamo che questo non li salverà”.
Ci crede Tramacere, e la sua compagna Chiara Agagiù, e gli altri soci dell’impresa, che sono il potatore acrobatico e artistico Donato Nestola (uno che riconosce gli innesti), Loredana e Lillino, e Biagio, “l’uomo della calce, che sa usare il compressore ma sa che il pennello va meglio, dura di più”. E Cosimino Rolli, scultore del legno e agricoltore alle Fattizze, e “il signor Carlo, che 50 anni fa si è innamorato della sua futura moglie proprio in questo uliveto. Un grande oratore, ci aiuta nello sconforto con fichi, fichi d’India e birrette”. Ci crede anche la galleria Artscapy di Londra, che segue Tramacere nei suoi lavori, e altri che hanno comprato le mappe a tiratura limitata dell’opera, si “adotta” un albero e si contribuisce alla sua trasformazione artistica, come si capisce dalle pagine Facebook e Instagram “Il Campo dei Giganti”. Poi, si cercano altri finanziatori/benefattori, facendo bene attenzione a scansare operazioni di greenwashing. A ogni gigante sarà affiancata una pianta nuova, scelta tra le essenze locali. Più avanti, ogni albero sarà fotografato (bianco/nero), e nel frattempo Tramacere progetta di allargare l’opera ad altri cento alberi di un podere vicino, alla fine saranno 150 piante, “ricostruirò il Campo in maniera digitale, e chiunque potrà essere il tutore di un ulivo, garantendo che non vada perduto questo suo passato così ricco”. O prendere un pennello in mano, e giù calce, in questo gran vento.