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27.10.22

"Grazie all’affido sono riuscito a lasciare il campo rom": la vita nuova del giovane Rambo un anima salva di de andrè


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 de  andrè  aveva  ragione 

A otto anni è finito in una comunità, poi in una nuova famiglia. Ieri l'ultimo esame in Scienze dell'educazione: "Ho una moglie, un figlio, un lavoro: aiuto i ragazzini a liberarsi come me". Ieri la maggioranza di centrodestra in Piemonte ha votato la legge "Allontanamento zero" che privilegia le famiglie d'origine ostacolando affidi e adozioni


"Partiamo dal mio nome. Mi chiamo Rambo. Rambo Bologna Halilovic. Sono rom e sono nato 34 anni fa in Italia. Sono stato fino a sette anni nel campo di strada dell'Arrivore, a Torino, quando poi è successa una cosa che tra i rom non è accettabile: i miei genitori si sono separati e questo è stato l'inizio di tutto" . Rambo - che ieri ha superato l'ultimo esame a Scienze dell'educazione, lavora già da anni nelle comunità, si è sposato e ha un figlio piccolo - racconta le sue tante vite, prima e dopo quel giorno in cui la madre, intorno agli otto anni, gli ha detto "Andiamo da Michela", che era l'assistente sociale.





Rambo ha protestato ma la donna non ha ceduto e si sono ritrovati in un ufficio dei servizi sociali, "lo stesso in cui vent'anni dopo mi sono trovato a lavorare come educatore. Non può essere una coincidenza" . Neanche un saluto da sua madre. "Mi ha detto 'giavtar', che vuol dire 'vado via', una cosa che vuol dire tutto. Lei è uscita e io sono rimasto lì con l'assistente sociale. Ero un po' triste, mi sentivo liberato per tutto quello che avevo vissuto ma un po' preoccupato per quello che mi sarebbe da allora in poi".
Quella sera Rambo viene accompagnato in una comunità a Torino, dove resta un paio d'anni. Poi arriverà un affido da parte di una coppia di torinesi, che alcuni anni fa si è trasformato in un'adozione. Al suo cognome si è aggiunto anche quello della coppia che gli ha cambiato la vita. "Li ho sempre chiamati per nome, usavo 'mamma' e 'papà' solo quando facevo il ruffiano per avere qualcosa - sorride - . Ma socialmente erano i miei genitori, alla gente li presentavo come mia madre e mio padre, non li ho mai chiamati affidatari".





Sono passati 25 anni e il bilancio della sua esperienza "è positivo". Lo spiega bene nel giorno in cui la maggioranza di centrodestra della Regione Piemonte ha votato la legge sull' "allontanamento zero" che che privilegia le famiglie d'origine ostacolando affidi e adozioni. "Non sarebbe servito dare soldi ai miei familiari d'origine, a me sarebbero arrivate le briciole. E lo vedo anche da educatore: non dico che un contributo non allenti le tensioni di chi fa fatica a pagare l'affitto, ma ci sono situazioni in cui, di 500 euro, 300 vanno nelle slot machine e 200 nell'alcool". E anche misure più blande dell'allontanamento "a volte possono essere utili, ma non sempre. Io ho seguito l'affido diurno di alcuni ragazzi rom: con me imparavano le tabelline, ma quando io non c'ero seguivano altri che andavano a rubare".
Otto figli: questa era la famiglia di Rambo. "Una sorellina è morta piccola, quattro sono stati dati in adozione e non so che fine abbiano fatto, mia sorella grande è stata in comunità ma non si è trovata bene e a 16 anni è tornata al campo e si è sposata. Mio fratello è stato dato in affido e io ho fatto un po' di comunità e un po' di affido: chi vuole sapere di diritto, basta che studi la mia famiglia". Lo racconta ridendo Rambo, ma non è stato sempre facile. "Quando sono andato in comunità i primi tempi si organizzavano visite in luogo neutro con i miei, che però non si presentavano. Ero triste e arrabbiato e quando tempo dopo mi hanno cercato non volevo più saperne".


In comunità c'erano tante storie simili alla sua. "Io prima di arrivare lì ero andato non più di dieci volte a scuola. In comunità ho avuto insegnanti che mi seguivano, andavo in piscina. Avevo educatori meravigliosi che ora sono miei colleghi. Posso dire che tra tutti i ragazzi che c'erano lì, nessuno aveva voglia di tornare a casa". Poi un giorno è arrivata la proposta di un affidamento. "Per la prima volta avevo un armadio tutto mio, non dovevo dividere lo spazio con nessuno. E poi la casa aveva il giardino, avevo la mia bici, lo skate, facevo aikido e canottaggio. Cosa pensavo? Che mi era andata di culo!". Anche se Rambo restava sempre il rom: "Da qualcuno venivo trattato con razzismo, da altri con curiosità per la mia cultura. Ma io ne vado fiero, mi piace essere diverso".





C'è stato un momento, dopo i vent'anni, in cui ha pensato che forse quella vita era stata solo una bella parentesi. "Volevo essere indipendente, ho salutato i miei e sono andato a vivere al campo in una roulotte con mia sorella e mio cognato. Stavo anche per sposarmi con una ragazza che mi piaceva, la sua famiglia era d'accordo. Ma era quello che volevo davvero? Una sera dico a tutti che non mi sposo più. Nasce una rissa nel cuore della notte e alle tre del mattino torno a casa dai miei nuovi genitori con la maglietta strappata. Di lì in poi sono arrivati il lavoro, l'università, ho conosciuto mia moglie e ho avuto un figlio. A volte la mia vita sembra un film".

  de  andre  aveva ragione


19.6.16

Si ammalò poco prima della diffusione del vaccino. Dopo la morte la sorpresa: la scienziata Elena Cattaneo, senatrice a vita, nominata erede

Ecco un esempio  in cui  la solitudine non è  separazione dal mondo:ma partecipazione  in  esso  .  Peril  protagonosta della storia  che leggerete  nele righe seguenti   la  solitudine  e  la relativa morte  è stata la conclusione nobile di un'esistenza.  Una testionianza  che  conferma  quando diceva  un  poeta    cantautore    questa  canzone  



  e in questo discorso 




Non riuscendo  piàù a scrivere di tale vicenda  , senza  farmi venire le lacrime a  gli  occhi  , copio ed  incollo  l'articolo di repubblica  di oggi 19\6\2016
 "Lascio tutto alla ricerca". La generosità di Franco che ha lottato contro la polio
Si ammalò poco prima della diffusione del vaccino. Dopo la morte la sorpresa: la scienziata Elena Cattaneo, senatrice a vita, nominata erede

                                
Tutto vero. Quell'ignoto signore di Molinella, pianura bolognese, morto il 21 maggio scorso dopo avere convissuto per 64 anni con la malattia, nato nel 1952, lo stesso anno in cui Jonas Salk e Albert Sabin iniziavano a gareggiare per il vaccino che avrebbe sradicato la poliomielite dal mondo, arrivato troppo tardi per liberarne lui, ha affidato personalmente a lei, le ha versato nelle mani, il patrimonio d'una vita, denaro, titoli, alcuni immobili, per un valore di più di un milione di euro, e lo ha fatto
senza porre condizioni oltre la sua fiducia assoluta in una scienziata mai vista di persona. "Avrei voluto parlargli, conoscerlo, capire da lui perché quella scelta, perché proprio io...", commenta lei ancora interdetta, "ma forse le cose che danno più soddisfazione nella vita sono quelle che fai per gli altri senza che loro lo sappiano".
Di Franco Fiorini sanno poco anche a Molinella, che pure è una cittadina di poche migliaia di anime, immersa nel Novecento di Bertolucci (ricordi di paludi e di mondine, qui c'è ancora il Psdi). Da quindici anni, lasciato il posto di direttore amministrativo di un'azienda edile, viveva segregato nella sua villetta bianca, moderna, a due piani, vicina al centro del paese: rare uscite, vita minimale, poche spese, non aveva neppure una sedia a rotelle, nel suo studio di mobili sobri e solidi s'aggirava a bordo di una sedia da regista alle cui gambe il padre aveva applicato quattro rotelle.
 "La sua è stata una vita di affetti, i genitori lo hanno accudito, protetto, magari un po' chiuso in una campana di vetro..." racconta di lui l'avvocato bolognese Paolo Ghedini, una relazione di lavoro diventata amicizia, "il padre lo portava tutti i giorni a lezione, e poi al lavoro, issandolo con le sue braccia, finché ha potuto". Dopo la morte dei genitori, solo l'aiuto di una badante. "Discutevamo di politica, di libri, neppure a me aveva detto nulla della sua idea", racconta Ghedini. Gli aveva semplicemente affidato, poco prima di morire, la busta chiusa con il testamento, l'ultimo di una serie, senza dirgli nulla del contenuto. "Non parlava mai della sua malattia, non ha mai imprecato contro il destino che lo ha fatto nascere qualche anno troppo presto. Era una persona serena". Ma in quella solitudine da eremita possedeva una finestra sul mondo. Un computer, Internet. "Sempre informatissimo". Dobbiamo immaginarcelo così, il volto illuminato dalla luce azzurrina dello schermo, mentre cerca notizie su quella malattia così feroce, poi debellata dalle vaccinazioni di massa degli anni Sessanta, la malattia di cui è stato, per una congiura implacabile della cronologia, per una manciata di anni, uno degli ultimi bersagli; e sulle altre afflizioni degli uomini, e su chi le combatte in nome della vita. Così deve avere incontrato il nome di Elena Cattaneo, così deve essersi convinto, leggendo, studiando, che fosse lei la persona giusta. Così deve avere preso la sua solitaria decisione. Capita a chi ha sofferto di donare i propri averi a chi combatte il suo nemico invisibile. "Ma Franco", osserva la scienziata, ormai per lei è Franco, l'amico sconosciuto, "non ha legato il suo lascito alla sua malattia. Il suo gesto non sembra una rivincita, né un risarcimento simbolico... Immagino un uomo che riconosce nella sofferenza degli altri il suo stesso bisogno e pensa che nel mondo ci sia necessità di più studio, di più sapere". La senatrice fa una pausa, e una cosa non riesce a non dirla: "Ha ragionato come spesso la politica non sa fare. Ha scommesso sulla libertà e sulla responsabilità della ricerca scientifica". Ma donare a una persona fisica e non a un'istituzione, non suona sfiducia? "Ma io sono le istituzioni, università, parlamento, sono quanto di più pubblico ci sia...". Presto parlerà di lui proprio nell'aula del Senato, "voglio che la sua storia sia un esempio". Cosa accadrà dopo, è presto per dirlo. Martedì la senatrice Cattaneo sarà a Molinella per accettare formalmente il lascito, ma saranno da avviare stime e inventari, e da attendersi (succede spesso in questi casi) l'impugnazione del testamento da parte dei parenti. Per la beneficiaria poi non sarà facile gestire un lascito che sul piano legale entra nel suo patrimonio personale. "Da cui dovrò immediatamente separarlo", annuncia, "voglio che tutto sia pubblico e trasparente". Su quel "destini come meglio crede" ci sarà da ragionare, "chiederò consigli, magari borse di studio, una fondazione, sarebbe bello trasformare in luogo d'incontro la casa dove viveva Franco". Per ora resta una punta di rimpianto, "se mi avesse chiamato, fatto capire meglio...", ma anche l'ammirazione, "la solitudine non è sempre separazione dal mondo: Franco ha partecipato al nostro mondo illuminandolo. Per lui è stata la conclusione nobile di un'esistenza. Per me sarà un secondo incarico a vita".



21.11.14

le nuvole di De Andrè - di matteo tassinari

  nei momenti di crisi  o per  evadere   nom  solo uso  i fumetti o la  fantasia  , ma  anche  la musica  . Ed  è  leggendo questo articolo \  post  delll'amico  Matteo  che sono andato a riascoltarmi il disco  anime  salve 




















Vanno , vengono...

di Matteo Tassinari


Il problema vero è stato quello di concepire un album come Le nuvole, dove chi critica la società in cui vive ne è più che discretamente coinvolto e in parte responsabile. La contraddizione era in effetti solo apparente e derivava dal fatto di non volerla accettare mendicando dall'inconscio pudibondi istinti di dissociazione e di auto assoluzione.

"Afferrato il problema,
mi è stato facile
sdoppiarmi da un punto di vista oggettivo e quindi oggettivamente descrivere la vita dei porci continuando soggettivamente a fare il porco, tanto più che nessuno potrebbe descrivere il porcile meglio del maiale. Tenendo semmai presente soltanto una distinzione di carattere più quantitativo che non qualitativo: vale a dire che io, piccolo suino, avrei descritto i sentimenti e i comportamenti di suini molto più grandi di me", disse alla presentazione della conferenza stampa del cd Le nuvole come riferimento costante e misterioso sul senso della vita, oltre quelle bambagia, cosa c'è, già si chiedeva Aristofane? "Le nuvole sono un teatro permanente, uno schermo su cui proiettare le nostre visioni, ossessioni, premonizioni, profili e cornici tra la terra e il cielo", dichiarò Faber al Rockstar Magazine, ancora con la paura di dire una stronzata da dare in pasto ai critici musicali. Lui era molto vanitoso, come tutti, come te e tu e me, come loro e come essi.
Scritto con
Mauro Pagani,
una sorta di Brian Eno italiano, con interventi di Massimo Bubola (in Don Raffae'), il disco nasceva dopo due anni passati in Sardegna e le voci all'inizio del disco sono anche un omaggio all'inimitabile dizione profonda, scandita come la pietra, della gente di Sardegna. Per Faber era un momento difficile, tormentato. Nel 1989 era morto l'amico Emilio Fassio, e pochi giorni dopo a Bogotà anche il fratello Mauro. Il 7 dicembre dello stesso anno Fabrizio e Dori Ghezzi si sposarono dopo quindici anni di convivenza, in una cerimonia riservata. Il rapporto tra i due era profondo e stimolante, ammirevole per tutti quelli che avevano il piacere di condividere alcuni momenti con loro. Dori era la consigliera, l'altra faccia, la sponda, l'intimità, consolidata nei giorni del rapimento, giorni e notti passati insieme in una specie di capanno improvvisato.










La mel odia del 
mediterraneo
In quello     stesso anno Creuza de mà, venne definito il miglior disco italiano del decennio. Faber e Pagani venivano da un'esperienza decisiva. La ricerca e l'approdo al disco-capolavoro avevano radicalmente trasformato la storia musicale di De André, l'approccio da cantautore che bene o male era stato dominante. Non che De André non avesse sempre applicato la massima attenzione alla scrittura musicale, tutt'altro, ma Creuza era un enorme salto in avanti, era una sinfonia del Mediterraneo, un disco dove per la prima volta non era così determinante capire il testo, che infatti molti non capivano, visto che il dialetto genovese è una lingua a sé. Ma importava poco.
Creuza de mà scalinata che va al mare
Il disco    suggeriva
una inedita visione o revisione addirittura della musica italiana, come fosse bagnata dal mare, mossa e maestosa come una barca a vela, ricca di strade, rotte da riscoprire, frutto di un'etnia che come un doppiofondo viveva nei ritagli del paesaggio postindustriale italiano. Un traghetto che collegava porti lontani, immaginati come perle salgariane della fantasia esotica. Per una volta De André era stato veramente Ulisse, quello dantesco che va oltre le Colonne d'Ercole, nel senso del viaggio verso una meta non prevedibile, corsara, colma di sorprese tiranne e clementi, e quello omerico che gira l'universo per poi tornare a casa, forse più conciliante umanamente, ma profondamente diverso da appena 30 anni fa quella stessa visione. Difficile ipotizzare un seguito a un disco che, come all'unanimità si ritiene, ha segnato in modo indelebile la musica italiana. De André non rinunciò a quanto aveva acquisito, ma ora c'era di nuovo bisogno di parole, c'era bisogno di raccontare quello che stava diventando l'Italia. 
Per questo   Le nuvole è    meno
omogeneo, organico, indifferenziato di Creuza, va da sé, ma proprio in questa polifonia di toni è il suo fascino.  Si mettono lì, tra noi e il cielo, come stormi d'uccelli neri che volano compatti e senza paure. De André, perennemente autocritico, rimpiangeva la mancanza di unità dell'album, doveva essere un'intera opera, un concept, poi il filo si disperse in mille rivali creando un disco dai molteplici volti, disunito forse, ma ricco. Di dialetti ce ne sono ben tre diversi. C'è il nuovo De André con la sua nuova fonetica dialettale.



Ottocento
Così Mauro Pagani, che ha curato gli arrangiamenti e strumentistica varia adoperati in quel capolavoro che è 800, il tratto di satira più bello e creativo di questi ultimi anni, pur nella tragicità dei trattati, traffico d'organi, prostituzione, droga, ipocrisia, intellettuali che parlano solo per il loro "Io" vergognosamente dilatato (e mai che che nessuno paghi), spiega la genesi dell'album de Le nuvole:
"Tutto quello che avevamo tra le mani di nuovo trovò peso e collocazione, dai ricchi ateniesi di Aristofane, così simili ai nostri, all'ignavia di Oblomov, dall'incanto malinconico di Čajkovskij alla saggezza un po' guittesca e senza tempo del secondino Pasquale Cafiero". Il dove stavolta finì per essere l'Ottocento, l'Ottocento cattolico e borghese delle grandi utopie, del colonialismo e delle guerre senza senso, così simile per contenuti e scelte ai tempi odierni, in fondo solo un po' più veloci e molto più isterici. In Creuza in fondo ci eravamo divisi i compiti, lui i testi, io le musiche. Quando cominciammo a lavorare al disco nuovo ci rendemmo conto invece che con il passare degli anni il nostro rapporto si era fatto più profondo, che le nostre conoscenze sempre più si influenzavano e si intrecciavano a vicenda. Così stavolta tutto prese forma e identità davvero a quattro mani, chiacchierando, inventando, facendo e rifacendo. Soprattutto guardandoci intorno, con una attenzione al mondo del tutto diversa da quella del disco genovese.

OTTO

CENTO
Il primo brano de Le nuvole la parola è ironicamente aulica, la struttura ricorda l'opera buffa o la versione moderna de La gatta Cenerentola di Roberto De Simone nel 1976. In particolare il verso “quante belle figlie da sposar” ricorda da vicino il canto delle sorellastre di Cenerentola, ma il pezzo va da tutt'altra parte. Dietro lo stile antico c'è l'attuale.




 *Cantami di
questo tempo*

                                                                 *L'astio e il malcontento
*Figlio bello e audace

*Bronzo di Versace

*Figlio sempre più capace 
Di giocare in borsa 
Di stuprare in borsa











 La caduta morale
C’è tutta  l’Italia rampante del craxismo, quella che nella modernizzazione dettata dai tempi e i modi della crescente globalizzazione sta perdendo identità e senso della direzione. C’è l’orrore contemporaneo del commercio di organi, la caduta amorale nella turpitudine dell’opulenza, un frammento elegiaco del padre che ha perso il figlio suicida, ma è accecato dalla sua fraintesa condizione sociale “per ferirmi, pugnalarmi nell’orgoglio, a me che ti trattavo come un figlio”, una feroce danza macabra del gruppo sociale imbellettato che culmina in un grottesco canto jodel. Poi affonda nei vizi dilaganti del paesaggio sociale, come la corruzione politica, culturale ed economica. Doveroso ricordare che 800 è in ricordo all'amico poeta Ferdinando Carola, oppure versi tipo "la verdura di papà" è la maniera in cui Carola chiamava i figli, come anche "cantami di questo tempo/l'astio e il malcontento/di chi è sottovento/e non vuol sentir l'odore di questo motor,/che ci porta avanti/quasi tutti quanti/maschi femmine e cantanti,/su un tappeto di contanti/nel cielo blu", sempre per la propensione del poeta amico scomparso nel non divenire volutamente visibile e non entrare quindi nel meccanismo dei diritti d'autore e di prostituzione poetica.
*Moglie dalle larghe maglie
*Dalle molte voglie
*Esperta di anticaglie,
*Scatole d’argento ti regalerò!

*Ottocento, Novecento
*Millecinquecento, scatole d’argento
*Fine Settecento ti, regalerò!

*Quanti pezzi di ricambio,
*Quante meraviglie,
*Quanti articoli di scambio,
*Quante belle figlie da sposar!

*E quante belle valvole e pistoni,
*Fegati e polmoni,
*E quante belle biglie a rotolar!!!





















800,
Collasso sociale 

indolore
Era il momento adatto per farla - spiega De André. Anche perché nonostante la lucidità che ti permette di intravedere l'avvicinarsi di un collasso della nostra società, di questa società di cui fai comunque parte anche se non vuoi, le maggioranze inglobano a priori del tuo pensiero". L'aspetto satirico era ribadito sulla copertina del live del 1991, con un profluvio di maschere. Pulcinella? Certo, c'è l'irriverenza delle maschere italiane della commedia dell'arte, ma un più antico senso della rappresentazione per metafora dato dal riferimento ad Aristofane. Certo, le nuvole per Aristofane sono occasione di un racconto acuto e persuasivo sui temi della società, la giustizia, il conflitto tra generazioni, il giusto e l'ingiusto, vita, filosofia, Dio, la campagna, la città, vita di risparmio e lusso sfrenato, il vecchio che si dimentica del nuovo come il fumo passa ogni fessura. Le nuvole sono come il fumo, divinità antiche, totem semoventi e mutevoli passaggi evanescenti, attimi di vita, periodici, storie, tutto e niente, libri e ridicoli tentativi di capirli.

























Lirismo d'Ottocento 
Ottocento è un brano decisamente antiquatofuori epocainattualepassato, un'opera buffa che miscela numerosi ispirazioni musicali, il pezzo finisce con un brano cantato in jodeltirolese. Anche l'interpretazione vocale di De André è piuttosto anomala. Impostandola come si faceva nelle opere buffe con frack e papillon, al punto che il cantautore gioca a darsi aria di lirismo, coerente con l'andamento pseudo-operistico predominante nel brano. Ecco cosa disse De André alla presentazione del disco a Milano le motivazioni di questa scelta:
 Omero e la Musa. Cantami o diva del pelide Achille...
"E' un modo di cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l'immaginario falso-romantico di un mostro incolto e arricchito"
A De André è successo
di   essere divorato da una passione inarrestabile, di percepire come nessun'altro il potere della parola, la magia di lavorarla, levigarla laddove ci fosse il bisogno, svezzarla fino al punto giusto, in questo nessuno gli era sopra, fatto riconosciuto dai suoi stesi colleghi e amici, nonostante le tante rivalità e freddezze gratuite o vanitose, finché non emergeva "la parola", quella giusta, quella che aveva maggior potenza e significato, quella parola, non un'altra,  fusa ad una nota che ne svelasse le risonanze, che ne amplificasse la vibrazione lirica e la completezza. Si pensa soprattutto al poeta, ma ci si dimentica che De André era la sua voce, una voce nitida che chiunque di noi ha in questo in testa, ferma, profonda, scolpita, diamantina come un bassorilievo che nei dischi e nei concerti riempiva l'aria con un'autorità che pochi hanno dimostrato, anzi, se paragonati a lui, direi proprio nessuno.





La sua   storia è quella di un artista a tutto tondo (per dire che lo era anche nella vita) che aveva capito un grande segreto a cui i suoi colleghi non c'erano arrivati: la trasformazione della canzone o canzonetta, capire che con la musica si poteva far molto di più che passare 4 o 5 minuti ad ascoltare "acqua azzurra, acqua chiara" o "tutto il resto è paranoia", da eccesso di uso di cocaina. Ormai gli aveva scavato una parte della cartilagine destra del naso, come mancasse la parte ultima e sappiamo che i grandi consumatori hanno grossi problemi coi loro naselli, sgocciolano sempre, il fazzoletto sempre in mano, la paura che sia rimasto sul naso o labbra un pò di bamba e per questo lo gratti come avessi la mania di strofinarti le parti facciali centrali. I vizi si pagano, non solo coi soldi, quella è la meno, tutto è nella testa, tua, mia, vostra, nostra. 

Illusi d’esistenza 















Il Capoclan e il Brigadiero

Don Raffae' è una tarantella brillante dalla prima nota, prodigiosa per l'idea, dotata di un'illuminate bizzarria, tutt'altra che tarantella, ha un livello di profondità che solo i poeti sanno raggiungere nel nostro pensiero. Stravagante, inatteso, lucente fra una un caffè e un Martini o una spremuta. Un affresco di una vita (?) che si svolge in carcere, fotografata con una precisione stilistica ed obiettiva, alata e ammirevole per la realtà dei contenuti del brano Don Rafaè. Un momento dei tanti, chiusi e ambientati tutti, carcerati e guardie a Poggioreale di Napoli. C'è un brigadiero e un capoclan, l'incontro fra due realtà apparentemente diverse, ma così non è. Il contropotere della camorra e l'assenza dello Stato sono temi antichi ormai. La vergogna ci sovrasta. Il brano era in qualche modo ispirato a Raffaele Cutolo, il quale spedi, conseguentemente, a De André tre lettere e un libro di poesie.
Tra le sue varie insoddisfazioni
c'era soprattutto La domenica delle salme. Era contento del testo (“Era tutto quello che avevo dentro e che sentivo di dover dire, un brano che mi soddisfa molto, fatto che capita raramente”) e ci mancherebbe che non lo fosse stato, ma lamentava una eccessiva semplificazione musicale. Qualcosa comunque che non andava, c'era sempre. E' il virus dei perfezionisti, gli insicuri, dei tenaci, che temono lo sbaglio, quindi anche orgogliosi fino al midollo, questi sono gli artisti fino in fondo. Penso a quanti brani di Fabrizio ci hanno aperto la mente, quante novità ha portato quando si era fermi al ciarpame e vecchiume di Claudio Villa o più beat alla Domenico Modugno, dove un briciolo di rivolta già s'intravvedeva. Essere artista non l'ha mai saputo nessuno chi sia. E' vero invece che ci sono diversi artisti, ognuno è un folle alla sua maniera. Come fai paragonare Van Gogh che si tagliò un'orecchio e il godurioso e ridondante Oscar Wilde? O come metti sullo stesso bilancino il ruvido Bukowski con il metafisico Kafka? Non c'è l'artista, ci sono gli artisti.


 Il rispetto della parola
In realtà, se La domenica delle salme risalta come il testo più forte, quasi agghiacciante, dell'intera opera di De André, lo si deve anche alla sua scarna e spigolosa semplicità: un arpeggio di chitarra su cui il cantautore riversa una valanga di immagini violente, cupe, sferzanti. L'assenza di orpelli ne esalta la cattiveria, non ci si può distrarre in alcun modo. Le parole sono li, pesanti come macigni. Mauro Pagani sottolinea che la lentezza con cui procedeva il lavoro era dovuta alla precisione maniacale di De André e soprattutto al suo rispetto della parola.














Quanto giusto pensate che sia

Le virtù profetiche
di Faber

Ne avvertiva tutta la responsabilità, sapeva che dietro ogni parola ci poteva essere un senso, e questa tensione si avverte costantemente nella costruzione dei versi. Se il suo verseggiare è forte, carismatico, contagioso lo si deve al fatto che si percepisce perfettamente come ogni parola fosse meditata, pesata, metabolizzata a fondo. E per questo La domenica delle salme è una canzone che fa male, quasi fisicamente, e ha virtù perfino profetiche. De André sembra un predicatore amareggiato, a cui hanno tolto il beneficio della speranza. L'Italia pare sprofondare in una malsana palude di corruzione. Il potere qui è sinistro, malevolo, nudo, non ha maschere grottesche con cui coprire le sue vergogne.
Troie    di regime
Vivandieri di cose vietate, portaborse, galoppini, lacchè, fiduciari, adulatori, scagnozzi, e lustrascapre, troie di regime, addetti alla nostalgia che accompagnano tra i flauti il cadavere dell'Utopia, Milano che galleggia in una bottiglia di orzata, viandanti che si rifugiano nelle catacombe. Dopo Anime salve, De André chiamò Mauro Pagani per un nuovo progetto, che doveva essere un Requiem dedicato al secolo che finiva e allo sfacelo sotto cui viviamo. Una parodia della nostra vita quotidiana, ignobile e ripugnante. Non fece in tempo a farci anche questo regalo. La malattia aveva già ideato il titolo per il Requiem di Faber: Le nuvole.

25.5.12

ricordo per chi non c'è più


Non restare a piangere sulla mia tomba.
Non sono lì, non dormo.
Sono mille venti che soffiano.
Sono la scintilla diamante sulla neve.
Sono la luce del sole sul grano maturo.
Sono la pioggerellina d’autunno.
Quando ti svegli nella quiete del mattino…
Sono le stelle che brillano la notte.
Non restare a piangere sulla mia tomba.
Non sono lì, non dormo
antonio  Ronchi  di radio faber  

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...