La memoria ha i suoi tempi. Entrambe le cose — memoria e tempo — , si possono manipolare, manomettere, trasformare. A maggior ragione dopo una “sconfitta”. La Grande Sconfitta, da qualcuno mai digerita, del 25 aprile 1945. In questo processo revanscista di rewriting, anche la storia, insieme alla memoria, diventa materia plasmabile. Non occorre essere campioni di revisionismo: basta muoversi dentro il cavallo di Troia della democrazia, coperti dal mantello dei diritti che essa garantisce, ed ecco che la verità storica è piegabile alla propaganda.
Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?
In un anno e mezzo di governo-Meloni la destra e il partito di maggioranza relativa hanno portato a compimento il più duro attacco politico e “ideologico” mai mosso, dal Dopoguerra ad oggi, ai fianchi della Memoria; la memoria di chi ha dato la vita per liberare l’Italia dal nazifascismo e restituirci l’aria tolta dal regime diMussolini. L’operazione condotta dal melonismo bifronte — postura neoconservatrice e insieme mantenimento della matrice identitaria di una comunità politica che da settantotto anni si tramanda il simbolo della fiamma che arde dalla tomba di Mussolini e che, ad eccezione di Forza Nuova, è stato utilizzato da tutti i partiti neofascisti e post fascisti — appare come un combinato di revisione storica e di omissione sul ventennio fascista. Così come sul neofascismo degli anni ’70. Le note ambiguità, ogni volta rilanciatecome successo l’ultimo 25 aprileche ha confermato l’indisponibilità a dirsi antifascisti; gli affondi mirati, l’esaltazione dei “nostri morti” — formula cara anche ai gruppi di ultradestra; modifiche e atti legislativi, toponomastica; il tutto all’insegna della surreale equiparazione tra fascisti e comunisti italiani, i repubblichini al servizio dei nazisti e i partigiani, e dunque boia e vittime, Salò e Resistenza. Obiettivo: slavare la Memoria, spiantare l’antifascismo. Ovvero sradicare la radice della nostra democrazia e della Costituzione.Un “cambio di narrazione” previsto. Finanche annunciato dalla premier Meloni quando ancora non era a palazzo Chigi e già prometteva. «Sogno una nazione nella quale le persone che hanno dovuto abbassare la testa per tanti anni, facendo magari finta che la pensavano in maniera diversa, sennò sarebbero stati tutti cacciati, possano dire come la pensano e non perdere il posto di lavoro per questo». E ancora, sempre Meloni: «Noi non tradiremo». Già. Sfrecciando su un terreno già arato dall’afascismo di altri — prima Berlusconi, quindi il più estremista Salvini — , il gruppo dirigente post-fascista del partito locomotiva della destra ha messo la marcia a tutta dritta. Lo stesso hanno fatto, a cascata, le organizzazioni giovanili. Per avere conferma di questa azione erosiva della memoria non c’era bisogno di attendere l’ultimo dribbling di Giorgia Meloni che ha furbescamente sbrigato la pratica 25 aprile senza dispiacere ai suoi. Né occorreva registrare la scomposta polemica contro gli “antifa” uscita dal cilindro nero di Lollobrigida, quello del monumento al maresciallo Graziani e del mito della “sostituzione” diffuso tra suprematisti e neonazi. Scontate anche le sgrammaticature equiparazioniste su «anticomunismo» e «dittatura comunista in Italia» (quale?, quando?) di Sangiuliano seguito a ruota dal collega leghista Valditara («fascista è oggi una certa estrema sinistra»). Ci ha pensato Mattarella a richiamare — chissà con quale esito — i revisionisti al «dovere dell’antifascismo».E però va detto era già tutto scritto. Se questa destra affamata di rivalsa nel 2024 emette un francobollo dedicato a Giovanni Gentile che il ministro Urso accosta a Matteotti in forza di «una memoria collettiva da ricomporre», non è solo perché fingono di non ricordare che il filosofo e ministro della Pubblica istruzione del governo fascista — oltre a ideare il Manifesto degli intellettuali fascisti — , giurò fedeltà al regime, aderì alla Rsi e fu ammiratore di Hitler. Lo fanno perché c’è un filo nero da seguire. Una linea. È la direzione indicata anche ai baby-meloniani. Eccolo dunque, Giovanni Gentile. La foto su una parete nel video con cui il responsabile del circolo di Gioventù Nazionale di Mazara del Vallo mostra pochi giorni fa la nuova sede. Il “filosofo idealista” è una delle figurine di arredo. In buona compagnia. C’è Evola, c’è il picchiatore missino Grilz e un altro santino più impegnativo, Ernst Junger in divisa nazista della Wehrmacht. I famosi “cambi di narrazione”.La melodia del «non restaurare, non rinnegare», ché poi qua e là un po’ di restaurazione, se si pensa a cos’erano il Msi e Colle Oppio, la si vede. Il punto è che, a colpi di contro-racconto, la memoria repubblicana antifascista l’hanno messa nel mirino. Prima e dopo il giuramento al Quirinale del 22 ottobre 2022. Esempi. Il 9 marzo 2022 il Comune di Orbetello intitola l’ex idroscalo all’aviatore e gerarca Italo Balbo, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Cinque giorni dopo si scopre che a Balbo è intitolato l’Airbus blu dell’Aeronautica che fa volare le alte cariche dello Stato nato dall’antifascismo. Clamore. Il nome di Balbo viene rimosso e sulle chat di FdI montano le proteste. “Chi vola vale!” scrivono citandolo. Miti da onorare. Grosseto, Massa Carrara, Pescara, Gioia del Colle, Teramo, Sant’Anastasia. Sono solo alcuni dei Comuni che, con la destra al governo, hanno sentito l’urgenza di avere almeno una strada o una piazza o una rotonda dedicata a Giorgio Almirante. Il segretario di redazione della Difesa della razza, fucilatore di partigiani e collaborazionista dei nazisti.Laddove ci si mettono di traverso quei rompiscatole degli antifascisti la destra usa l’escamotage subdolo e peloso delle soluzioni “pacificatrici”. A Grosseto alla fine delle polemiche è saltata fuori via della Pacificazione: una strada a Almirante e una a Berlinguer. Con il melonismo le commissioni toponomastiche hanno un gran daffare. Perché si sa, la storia la (ri)disegnano anche le targhe sull’asfalto. A Lucca ci sono voluti mesi, e una vergogna nazionale, prima che la giunta ostaggio di una destra estrema rinunciasse alla pregiudiziale contro l’intitolazione di una strada a Sandro Pertini. L’altro giorno, festa della Liberazione, quegli stessi assessori neri sono usciti dai radar per 24 ore. La titolare FdI all’Istruzione Simona Testaferrata non ha partecipato a iniziative e come lei anche i consiglieri comunali del partito. Se le «radici non gelano» — cit. Isabella Rauti in ricordo del Msi fondato da fascisti e repubblichini — quelle della Repubblica chissene importa. «Il 25 aprile festeggio San Marco». A dare nuova linfa all’anti-antifascismo fu, nel 2021, con un cartello, una certa Rachele Mussolini. Idem Tommaso Foti, oggi capogruppo dei “patrioti” alla Camera. «Neanch’io festeggio il 25 aprile!», fece eco La Russa che nel 2020 propose di intitolare il 25 aprile ai «caduti di tutte le guerre» esortando a intonare la canzone del Piave. L’anno scorso, da presidente del Senato, ribadì: «La parola antifascismo non è in Costituzione». Quando non spara a palle incatenate la destra usa il fioretto delle mozioni. Strumentalizzando celebrazioni e doverosi ricordi. Prima in Friuli-Venezia Giulia e poi in Veneto FdI ha fatto approvare in consiglio regionale la sospensione di contributi a associazioni che «si macchiano di riduzionismo o negazionismo sulle foibe». Il nemico non dichiarato erano e sono la ricerca e la divulgazione sugli eccidi nazifascisti. «Sotto le insegne dell’Anpi si nascondo i crimini del comunismo», ringhiano i colonnelli veneti di Meloni. Di che stupirsi in fondo se, nel 2021, l’assessora regionale Elena Donazzan decide di celebrare la Liberazione alla foiba Buso de la Spaluga, sul monte Corno, dove furono uccisi 14 soldati nazisti. Lontani dal verdetto della storia, lontani dall’aula. Da poco il consiglio comunale di Vicenza ha reintrodotto dopo 8 anni la clausola antifascista per la concessione di aree e luoghi pubblici: i meloniani sono usciti dalla sala consigliare. C’erano tutti invece, il 20 agosto 2022, nel circolo FdI di Velletri inaugurato qualche anno prima dalla Lady M. Appeso al muro spicca il vessillo del Msi intitolato al gerarca Ettore Muti, segretario del PNF nel periodo delle leggi razziali. “L’uomo userà la velocità, non il contrario!” dicevano i futuristi. Velocemente, nel solco del “non restaurare non rinnegare”, era tornato persino Marcello De Angelis, ex terrorista di Terza Posizione, amico di Giorgia e autore del brano ‘Claretta e Ben’. Quando si sono accorti che era troppo l’hanno dovuto lasciare a casa. Per compensare l’album di famiglia un mese fa Lollobrigida ha assunto come portavoce Paolo Signorelli jr, nipote del cofondatore di Ordine Nuovo. E sì, la memoria ha i suoi tempi.
Ora Il 25 aprile è una festa. È la festa , o al,meno dovrebbe essere , di tutti gli italiani, festa della libertà e della democrazia.Libertà, democrazia, italiani: tre parole che non possono che essere patrimonio di tutti. Non ci si dovrebbe dividere nemmeno su una di queste parole che sono fondative della nostra Repubblica e della nostra Costituzione e che sono soprattutto fondative della nostra possibilità di essere quello che siamo oggi: donne e uomini liberi. Ecco perché mi auguro illudendomi che questo 25 aprile
2024 non ammetta distinguo.Sappiamo bene che il clima politico nel quale stiamo vivendo non promette niente di buono ma a maggior ragione sarebbe importante che noi tutti, cittadini di questo Paese,
fossimo consapevoli del significato di questa data e cercassimo di onorarla senza se e senza ma. In una democrazia compiuta devono esserci valori non discutibili e condivisi: primo fra tutti, il ricordo di quel giorno che ha restituito dignità a un’Italia che aveva conosciuto la vergogna del fascismo, l’orrore della violenza e delle leggi razziali, che aveva scelto l’alleanza con i nazisti, che aveva patito la tragedia della guerra in cui il regime ci aveva trascinato.Il 25 aprile ci ha portato la libertà ma soprattutto ci ha regalato il futuro. Un dono prezioso, pagato col sangue di migliaia di innocenti e con quello di ragazze e ragazzi, in molti casi ragazzini, che hanno sacrificato la loro esistenza per il nostro futuro. Molti di loro quel giorno non hanno visto il sole che splendeva ma hanno dato la loro vita perché potessimo vederlo noi.Noi che oggi abbiamo il diritto e la possibilità di pensarla diversamente, di esprimere le nostre opinioni liberamente. Per questo la reticenza con cui alcune cariche pubbliche non riescono a esprimersi chiaramente sul fascismo, per non parlare di coloro che, pur avendo giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza, non riescono a definirsi antifascisti, è inammissibile.Sarebbe bello che potessimo ritrovarci tutti insieme nei valori che il 25 aprile rappresenta: sarebbe importante, sarebbe naturale perché la libertà è come l’aria che respiriamo. È la stessa per tutti.
ecco due storie ed una bibliografia se pur sommaria e in parte capziosa per alcuni libri prese dal settimanale
Oggi
Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO G. PAVESI
A 11 anni, Gustavo Ottolenghi diventò un partigiano. Dormiva nei fienili, faceva la staffetta. I genitori l’avevano lasciato per salvarlo: «Ci vediamo a fine guerra». Non aveva nulla. Solo un appuntamento
- Gustavo Ottolenghi che a 11 anni diventò partigiano di Fiamma Tinelli
- Sandra Gilardelli che conserva ancora una rosa di Fiamma Tinelli
- I libri: vedi alla voce Liberazione di Valeria Palumbo
Mi dicevano: “Vai là, a piedi”. Ero una staffetta ma non lo sapevo, mi nascondevano i messaggi negli zoccoli — G. Ottolenghi
Gustavo Ottolenghi aveva 11 anni quando si unì ai partigiani. Che nome di battaglia vuoi?, gli chiesero. E lui: «Robin. Come Robin Hood». Oggi, Ottolenghi di anni ne ha 92 e vive a Sanremo con la moglie, Maria Pia, in una casa che guarda il mare. Medico, nella vita ha fatto molto: è stato primario di Radiologia, ha partecipato alla guerra dei Sei giorni («Perché quella volta avevano ragione gli israeliani»), attraversato lo stretto di Bering con le spedizioni di Overland. «Ma senza la Resistenza, non
sarei qui».
Figlio di Raimondo, ebreo, e di Letizia, cattolica, con le leggi razziali suo padre perse il posto alla polizia municipale di Torino e Gustavo venne espulso da scuola. Era battezzato, ma bastava il cognome. Per sfuggire alle retate la famiglia si rifugiò nel Monferrato. A fatica, il padre aveva trovato lavoro nella ditta di un amico. Finché, nel 1944, quello gli disse: “Mi dispiace, a tenerti qui rischio troppo”. «Senza lavoro, coi repubblichini addosso, non sapevamo cosa fare. Così, una sera, mio padre convocò me e mia madre con aria grave. “Vi devo parlare”».
Che cosa vi disse?
«“Se stiamo insieme ci ammazzano, l’unica via è dividersi”. Aveva dei contatti coi partigiani dei dintorni, ci saremmo uniti a loro in tre luoghi diversi. Ci diede un appuntamento: “Se questa guerra finisce, ci vediamo sotto la statua del Duca d’Aosta in piazza Castello, a Torino”».
E lei partì.
«Mi affidarono a Guido e Sergio, due 20enni della brigata
Cossolo. Ci nascondevamo nei fienili, si mangiava quel che c’era. Li seguivo dappertutto, come un cagnolino. Finché si resero conto che ero sveglio e cominciarono ad affidarmi dei compiti».
Quali?
«Dovevo far la guardia, in cima al campanile. “Se vedi camion tedeschi o fascisti corri giù e ci avverti”. Poi, cominciarono a mandarmi in giro per i paesi. Camminavo per chilometri con un paio di sabot di legno ai piedi. Ma non capivo il perché».
Messaggi.
«Esatto, facevo la staffetta e non lo sapevo. Avevano fatto un buchino nel tacco, ci infilavano dentro i biglietti. Arrivavo da tizio, da caio, e quelli mi dicevano: “Togliti gli zoccoli all’ingresso, che sono sporchi”. E poi mi davano la merenda in cucina, pane e formaggio. L’ho capito dopo, che intanto prendevano il pizzino e lo sostituivano con un altro».
Aveva dovuto rinunciare alla scuola.
«Mi davano una mano i partigiani laureati, chi m’insegnava geometria, chi grammatica. Quando arrivai all’età della terza media mi dissero: “Meglio che tu faccia l’esame, almeno un pezzo di carta ce l’hai”. Mi presentai a Torino, alla scuola Cavour, da privatista. Il preside che faceva l’appello quando arrivò al mio cognome lo pronunciò con la faccia scura: “Ottolenghi?!?”. Aveva capito che ero ebreo. D’un tratto mi sentii afferrare il braccio, un altro professore mi trascinò via. Prese un pezzo di carta, ci scrisse “Promosso” e mi disse: vattene, subito. Mi salvò la vita».
Un antifascista.
«La Resistenza era fatta anche da quelli che il mitra non ce l’avevano. Dai maestri, da chi preparava i documenti falsi, dalle donne di campagna».
Finché la guerra finì, per davvero.
«La mia brigata entrò a Torino che c’erano ancora i cecchini, la gente festeggiava, ballava, cantava. La prima notte dormimmo nella caserma Cernaia, un
carrarmato tedesco nel cortile. Poi, i partigiani cominciarono a tornarsene a casa loro. Guido e Sergio mi dissero: “Sei vivo, sei libero, vai”. Ma vai dove? Io non avevo più famiglia. Solo un appuntamento».
La statua in piazza Castello.
«Corsi lì e aspettai mamma e papà tutto il giorno, seduto sul basamento. Guardavo, guardavo, non venne nessuno. Il giorno dopo, uguale. Cercavo i loro visi tra la gente, vedevo solo sconosciuti. “Sono morti”, pensai. Avevo 13 anni, ero un ragazzino. Ed ero solo».
Eppure, tornò.
«Non sapevo cos’altro fare. Il terzo giorno, vedo una donna sbucare da via Po. I capelli erano cambiati ma gli occhi, gli occhi erano i suoi. Era mamma. Non la vedevo da un anno e mezzo, quell’abbraccio lì non lo dimenticherò mai. Il giorno dopo ci mettemmo ad aspettare di nuovo, insieme. Eravamo preoccupati, di mio padre nessuna notizia. Finché sentimmo una voce da dietro: “Gustavo, Letizia!”. Era lui. Era vivo. Era con noi. Aveva lavorato per il Cln a Torino, aiutato i partigiani».
Il 25 aprile è la vostra festa.
«È la festa di tutti, anche se qualcuno al governo vorrebbe tanto che non se ne parlasse più. Ha mai sentito dire a La Russa: “Sono antifascista”? Io no. Quando sento che il ministro dell’Istruzione vorrebbe classi di soli italiani lo sa a cosa penso? A quando hanno mandato via me, a quando ero un indesiderato. E poi le frasi, la retorica… Il premierato caldeggiato da Meloni cos’è, se non la nuova versione di uno solo al comando? Se andiamo avanti così tra dieci anni il 25 aprile sarà una data come un’altra».
Si rischia di perdere la memoria.
«Io continuo a raccontare, lo farò finché campo. Lo ripeto sempre, ai ragazzi: la libertà non è un regalo. È una conquista».
CONSERVO ANCORA QUELLA ROSA
«Mi chiesero: cosa sei disposta a fare? E io: tutto». A 17 anni, Sandra Gilardelli è entrata nella Resistenza. In guerra ha trafugato farmaci, rischiato la vita. E incontrato un uomo con gli occhi buoni
Sotto elezioni, Sandra Gilardelli al mercato è meglio che non ci vada. «Sennò attacco briga, che io se vedo un fascista ancora gliene canto quattro. Non mi facevano paura a 18 anni, si figuri adesso». A 99 anni, la partigiana della brigata Cesare Battisti non è stanca di raccontare la sua battaglia. Partecipa agli incontri nelle scuole, riceve i ragazzi. «Tutto quel che serve per ricordare la Resistenza, io lo faccio. E per favore non darmi del lei, non mi piace. Io sono solo Sandra». Seduta nella poltrona rossa della sua casa di Milano, apre una scatola di cartone con cautela. Dentro c’è un bocciolo di rosa, secco. Ha quasi 80 anni. «Me lo diedero il 25 aprile, in piazza. Per festeggiare», dice, mentre lo sfiora leggera.
Antifascista, Sandra, non lo è diventata. Lo è sempre stata. Fin da quando, bambina, vedeva suo padre Antonio irritarsi di fronte ai discorsi del Duce. «Scuoteva la testa e mi diceva: “Questa è una dittatura, e il regime ci toglie la cosa più importante che c’è, la libertà. Ricordatelo sempre”». Mai indossato una divisa da Piccola italiana: pur di non mandarla alle riunioni, i suoi genitori, d’accordo col medico, la davano malata. Una volta il mal di testa, un’altra il mal di pancia. Quando scoppiò la guerra, Sandra frequentava la quarta ginnasio al liceo classico Parini, «un covo di antifascisti». Le bombe su Milano dell’ottobre del 1942 se le ricorda bene: gli inglesi avevano lanciato ordigni incendiari al fosforo e lei, che era sola in casa, si fece a piedi mezza città con le scarpe che bruciavano. «In piazza Cavour, dove era stato colpito un palazzo, vidi la gente che si gettava dai balconi per sfuggire alle fiamme. Non lo dimenticherò mai». Finché la sua famiglia decide di sfollare, prima a Gorgonzola, poi nel Verbano, a Pian Nava: una manciata di case, una piazza, un albergo. È lì, che a Sandra è cambiata la vita.
Per essere fascista mica serve fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso se ne deve andare Sandra Gilardelli «Sapevo che in montagna c’erano dei ragazzi che combattevano contro i fascisti. Un giorno ne vidi due seduti in piazza, giovanissimi. Mi avvicinai facendo la timida - anche se timida non ero - e chiesi: “Siete partigiani? Io vorrei dare una mano”. Mi squadrarono dalla testa ai piedi, sospettosi. “Fatti trovare domattina presto a Premeno”». Quando lo racconta al padre, lui le dice solo: «Vai».
Sandra ha 17 anni, una cascata di ricci, l’aria ingenua. Al comando, i partigiani le fanno un mezzo interrogatorio. Chi sei, cosa sei disposta a fare? «Tutto». Decidono di metterla alla prova. «Abbiamo molti feriti, mancano bende, Streptosil. Ruba, inventati qualcosa». Sandra ci pensa su tutta la notte. Siamo in guerra, non si trova nulla. L’indomani, le viene un’idea. Mette tutte le donne di casa al lavoro: tagliano le lenzuola per farne delle strisce, le fanno bollire per sterilizzarle. Le bende ci sono. Recuperare il disinfettante, è un’altra storia. «Girai tutte le farmacie del Verbano, trovai solo un paio di confezioni, troppo poco. Poi, mi venne in mente che lo zio di mia cognata era un chimico. “Puoi produrcelo tu?”. “Certo”. Ci si aiutava, tutti».
Una sera di febbraio, l’ufficiale medico la fa chiamare d’urgenza. C’è il partigiano Sasha ferito, bisogna operare subito e serve che Sandra dia una mano («Io, che non mi ero mai messa neanche un cerotto»). Appuntamento la mattina dopo alle 7, nel bosco, l’unico posto sicuro. Sasha urla dal dolore, ma di anestetizzante non ce n’è. «Vado a bussare alle case vicine, cerco qualcosa, finché la signora Angioletta mi fa: “Io in casa ho solo il Vov...”. L’abbiamo operato così, con me che gli facevo tranguigiare il liquore e il medico che cuciva».
Il passo successivo è fare la staffetta. I combattenti le affidano messaggi sensibili, roba che se ti scoprono i fascisti mettono al muro te e tutta la brigata. E durante una delle sue missioni, per la prima volta, ha paura. «Viaggiavo in tram con un’amica, due ragazze che chiacchierano si fanno notare meno di una sola. All’improvviso sale un gruppo di soldati. “Perquisizione!” gridano, e cominciano a strappare le borse di mano, a far svuotare le tasche. Io faccio appena in tempo a sfilare il biglietto che dovevo consegnare, una richiesta dei medici del CLN, e lo tengo in mano, sollevato come fosse un
Sasha era ferito, lo operammo nel bosco. Per sedare il dolore gli facevo bere il Vov
— Sandra Gilardelli
fiore. In bella vista, immobile. Finché quelli mi restituiscono la borsa: “Può andare”. Non lo so che cosa m’è passato per la testa, ma ha funzionato». Un giorno del 1944, la ragazza si affaccia alla finestra di casa e sobbalza: appoggiato al cancello, c’è un nazista che fuma una sigaretta. «Stavo per dare l’allarme quando vedo due partigiani mettersi a parlare con lui. Non capivo…».
L’uomo travestito da SS è “Mosca”, alias Michele Fiore, la primula rossa dei combattenti. La divisa nemica, la usa per infiltrarsi. «Ne avevo tanto sentito parlare, ma non l’avevo visto mai». Giorni dopo, mentre Sandra sta andando a comprare il pane giù in paese, Mosca la blocca: «Dove vai? Di te non mi fido, e se poi avverti i fascisti che sono qui?». Lei lo guarda, stupita. «E però sorrideva, aveva gli occhi buoni... È stato in quel momento che mi sono innamorata di lui». Si sposeranno subito dopo la guerra, avranno una figlia, Michela. «Siamo stati insieme 65 anni, una vita intera», dice Sandra. E intanto, si commuove.
Se le parli di coraggio, fa spallucce: «Incoscienza, forse». E poi, ci tiene a dirlo, «a combattere i fascisti eravamo in tanti». Le donne, non solo le partigiane, hanno fatto più di quanto si sappia, più di quanto venga loro riconosciuto. In silenzio. «Le contadine che nascondevano i combattenti nel fienile, mia madre e mia zia che sventravano i materassi di lana per fare i calzettoni per i ragazzi, su in montagna. Di loro non si parla mai».
La libertà, spiega Sandra, è per questa che combattevamo. È per questa che lei ancora racconta. «Perché per essere fascista non c’è mica bisogno di fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso non ha diritti, che chi è di un altro colore deve tornarsene a casa sua. Sei fascista lo stesso».
Infatti
il fantasma del fascismo che continua a premere, anche nel 2024. Solo affrontando il passato possiamo capire perché il governo di Giorgia Meloni ha risvegliato gli istinti peggiori del nostro Paese. Nella settimana del 25 aprile, una puntata speciale di Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?
ispirata da "Il ritorno della Bestia. Come questo governo ha risvegliato il peggio dell'Italia" (Rizzoli), di Paolo Berizzi.
io aggiungo due anzi tre molto obbiettivi che denunciano le stesse cose di Pansa ma verificandole e senza scadere nè nel negazionismo nè nell'esaltarla .
Nasceva novant'anni fa a Milano. Libri, articoli e uno spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che sta girando l'Italia raccontano la vicenda del Gruppo Femminile Calcistico milanese
“Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnasstico lo sport del calcio”. Così la giovane milanese Losanna Stringaro difendeva novant'anni fa, sulle pagine del quotidiano Il Littorio, il suo Gruppo Femminile Calciatrici, la prima squadra di calcio femminile nata in Italia. L'esperimento, come lo chiamarono le stesse fondatrici, durò poco meno di un anno ma rivoluzionò per sempre la visione dello sport italiano e fu una preziosa prova di coraggio e libertà nel tempo in cui il fascismo imponeva la sua visione autoritaria e oppressiva sulle donne.
La storia, ancora poco nota, è stata ben raccontata dalla giornalista Federica Seneghini che tre anni fa ha dato alle stampe per le edizioni Solferino "Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce", un saggio che ripercorre la vicenda di Rosetta, Giovanna, Marta, Elena e le altre donne coraggiose che, appassionate di calcio, scelsero di dare vita a una squadra tutta al femminile sfidando i pregiudizi e gli stereotipi che volevano le donne chiuse in casa mentre gli uomini si occupavano di politica, cultura, lavoro e sport.
L'attore Michele Vargiu nello spettacolo "Le fuorigioco"
Era l'autunno del 1932 quando un gruppo di ragazze fondò la squadra per sole donne. Nonostante allora questo sport fosse roba da uomini, le intenzioni delle giovani erano serissime: crearono un programma con regole ben precise e lo inviarono a tutti i giornali perché lo pubblicassero, con l'obiettivo di cercare altre donne interessate a entrare in squadra. Il gioco era diverso da quello maschile: le partite erano divise in due tempi da 15 minuti l'uno, si calciava rasoterra e il pallone era "poco più grande di una palla di gomma, di quelle con cui giocano i bambini". Insieme alla nota stampa le "tifosine", come loro stesse si chiamavano, allegarono anche una foto di gruppo realizzata in uno studio fotografico. Il 26 marzo 1933, davanti a un pubblico di parenti e amiche, ci fu il primo allenamento della squadra, mentre a fine maggio il giornale "Il Calcio Illustrato", l'unico che prese sul serio l'idea e diede spazio alle notizie del GFC, dedicò un'ampio spazio a interviste, commenti, opinioni intitolato "Un'ora con le calciatrici milanesi". Il giornalista notò un gioco piuttosto lento, scarsa abilità e parecchia inesperienza, tuttavia il suo era un punto di vista finalmente serio a fronte di tanti commentatori sarcastici, e sottolineava "poca agilità in corsa, cadute che erano dei crolli, assenza di dribbling, abuso del colpo di punta al pallone, pochissimi i colpi di testa e gli shoots" nel gioco delle ragazze, come riporta lo studioso Marco Giani nell'articolo "'Amo moltissimo il giuoco del calcio'. Storia e retorica del primo esperimento di calcio femminile in Italia" pubblicato nella rivista La Camera Blu del 2017. "Costituiamo una famiglia sempre in aumento, ci vogliamo bene, e continueremo", così Losanna Stringaro al giornalista de Il Calcio illustrato.
Arrivava nel frattempo l'autorizzazione al gioco da parte di Leandro Arpinati, che in quei mesi presiedeva il Coni e la Figc, a patto però che le ragazze giocassero a porte chiuse; le calciatrici furono costrette a chiedere un certificato medico a Nicola Pende, direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova, allora considerato tra i medici più autorevoli dal fascismo, che diede il suo consenso: "Io credo che dal lato medico - scrisse - nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile. Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto e con moderazione!". Conquistato il sì dalle autorità politiche e sanitarie, non restava alle ragazze che giocare: la prima partita ufficiale si disputò l'11 giugno 1933 nel campo milanese Paolo Filzi tra le milanesi "G.S. Ambrosiano" e il "G.S, Cinzano" che conquistò la vittoria con una rete a zero su gol di Mina Bolzoni; sugli spalti, un migliaio di persone. Pochi mesi dopo Leandro Arpinati lasciò la presidenza del Coni e il suo posto venne occupato da Achille Starace, gerarca fascista e uomo meno incline alle sperimentazioni rispetto al suo predecessore, che impose la fine del Gfc suggerendo altri sport "più consoni" al genere femminile. L'esperienza di Elena Cappella, la più piccola della squadra ad appena 14 anni, Giovanna, Gina, Rosetta e Marta Boccalini, Losanna Stringaro, Brunilde Amodeo, Maria Lucchese e le altre giovani coraggiose si concluse così. Se le partite erano terminate restava invece eterno l'esempio del gruppo di coraggiose che scelsero di rompere gli stereotipi e mostrare al Paese che le donne potevano liberarsi dal ruolo di angeli del focolare e cercare divertimento e libertà in un campo sportivo. A queste donne pochi anni fa il Comune di Milano ha intitolato una strada nella zona di Parco Sempione.
Un articolo interessante quello di repubblica del 23\4\2020 che riporto sotto . le parti da me sottolineate sono anche la mia stessa conclusione di quello che affermo nel titolo e nelleaggiunte fra parentesi quadre
I volontari della Brigata ebraica “Perché il 25 aprile è anche nostro”
Hanno combattuto per liberare l’Italia dal nazifascismo, ma negli ultimi anni la loro presenza alle celebrazioni è stata contestata. “Questa festa è fondamentale, dobbiamo essere uniti”
di Simonetta Fiori
«Il 25 aprile è una data fondamentale, oggi più mai dobbiamo celebrarla uniti. E chi contesta la Brigata ebraica è perché non ne conosce la storia». Piero Cividalli è l’ultimo testimone del corpo militare di cinquemila ebrei palestinesi che nell’ottobre del 1944, sotto la bandiera britannica, corse in aiuto del nostro paese. Il diciannovenne Cividalli riuscì a sbarcare a Taranto solo nel luglio
dell’anno successivo, a guerra finita, e ora a 94 anni con voce ferma ricorda le macerie, le rovine fisiche e morali in cui si imbatté lungo la penisola.
Ogni anno, dalla sua casa di Tel Aviv, il professor Cividalli segue con comprensibile tristezza le proteste che da un angolo della piazza milanese si levano contro simboli della sua Brigata identificata nell’attuale politica di Israele, mentre a Roma le associazioni antifasciste e la comunità ebraica non riescono a convivere nello stesso corteo. Nella sospensione della pandemia non sono ancora comparsi segnali di guerra: che la piazza virtuale possa essere l’occasione per sanare una lacerazione sbagliata, come suggeriva ieri su Repubblica Marco Revelli? «È un problema di ignoranza», dice Cividalli con la serenità di chi ha attraversato il cuore di tenebra del Novecento. «Chi contesta non sa che la Brigata in origine contava anche volontari arabi. E che ebbe un ruolo importante nella liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista. Inoltre nell’immediato dopoguerra contribuì a ricostruire il tessuto civile delle comunità ebraiche, aiutando i deportati a reinserirsi nelle realtà da cui erano violentemente sradicati ». Anche Piero, nel ’38, era stato espulso dalla sua scuola di Firenze. Che cos’era il fascismo l’aveva capito l’anno prima, quando la Cagoule assassinò a Bagnoles-de-l’Orne i migliori amici dei suoi genitori, Carlo e Nello Rosselli. Fu allora che il padre maturò l’idea di trovare riparo nella Palestina britannica. «Eravamo profondamente italiani», racconta Cividalli. «Eppure fummo perseguitati nell’indifferenza generale». Nonostante il trattamento subito in patria, giovanissimo partì volontario in aiuto di quello che considerava il suo paese. «Basta studiare la storia. Ho l’impressione che gli italiani sappiano poco di noi». Anche Anna Foa è convinta che le contestazioni nascano dall’ignoranza intorno alla Seconda guerra mondiale. «Si continua a fare confusione tra ebrei, israeliani, volontari della Palestina britannica: un gran minestrone, condito da antisemitismo nella sinistra estrema. La Brigata ebbe un ruolo importante nello sfondamento della Linea Gotica. Ed è fuori discussione che i suoi simboli debbano partecipare al corteo del 25 aprile ». All’origine dei contrasti fu la decisione dell’Anpi di fare di questa data la festa di tutte le liberazioni: da qui i fischi verso Israele considerato l’oppressore dei palestinesi. «Ma la Brigata ebraica non è Israele [ la partecipazione alla fondazione el suo stato da parte di ex militanti della brigata avvenne dopo che la brigata fu sciolta ] », obietta Foa. «E comunque il 25 aprile deve rimanere la festa della liberazione dal nazifascismo: estenderne il significato può produrre confusione ».
Nella scuola ebraica di Milano riaperta dalla Brigata nel dopoguerra — a cui sono dedicati gli studi di Stefano Scaletta — lavora oggi Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di Documentazione ebraica contemporanea. « Per tanti anni la coreografia del 25 aprile è stata incentrata sul partigianato comunista e azionista e solo in tempi più recenti sono state valorizzate altre componenti, tra cui la Brigata ebraica. Ma per la sinistra più estrema basta vedere la stella di David su fondo azzurro per dare addosso a Israele: un cortocircuito che non c’entra con l’esperienza storica della Liberazione [ come ho già detto in precedenza ] ».
Quello che si cela dietro le contestazioni è anche un conflitto di memorie tra una parte del mondo antifascista e la comunità ebraica. «In alcune zone della sinistra gli ebrei vanno bene come soggetti astorici perseguitati dal nazifascismo, meno bene come portatori d’una coscienza sionista. Io credo che questo 25 aprile senza la piazza fisica serva per riflettere. Ma non sono sicuro che sia sufficiente per superare le divisioni».
Al momento non s’avvertono echi di battaglia. «Come se ora ci fossero altre priorità», suggerisce Anna Foa. «Di fronte all’appello di Forza Nuova di sporcare il 25 aprile scendendo in piazza, tutto il mondo antifascista si ricompatta. L’augurio è che questa unità sia una conquista definitiva, destinata a sopravvivere al lockdown».
Ecco, guardateli. Guardate gli sposi, quel giovane uomo, quella giovane
donna, osservate quanto sono belli, sono belli da far piangere, ad aver
voglia di piangere per la bellezza. Del resto, quale sposa non è bella
il giorno delle sue nozze, e quale sposo non lo è mentre se la rimira
dall'alto del suo radioso orgoglio. Solo che loro sono belli oltre
misura, Rossella O'Hara diresti di lei, un principe diresti di lui, sono
così belli che riescono persino a imporre unicità alla fotografia più
comune tra tutte le immagini di circostanza; quante centinaia di milioni
di immagini come questa dormono in vecchie scatole da scarpe e
centenari album di famiglia sparsi per tutto il mondo. Non questa,
questa è viva, e i due sposi guardano ancora il mondo e dal mondo si
fanno guardare lassù in alto nella scansia tra le focacce e i pandolci
nel negozio di un fornaio. Continuate a dare un'occhiata ai due sposi
per favore, cercate di indagare nei particolari, perché nei particolari
vive una storia ancora più grande e più bella di come possa sembrare.
Difficile, capisco, l'immagine è rozzamente riprodotta con la fotocamera
di un telefono, i dettagli che contano sono materia nascosta e anche se
fosse evidente, ignota. Il vestito della sposa è di seta, la seta di un
paracadute di un reggimento aerotrasportato inglese, il vestito dello
sposo è di pesante stoffa di lana, la stoffa di una divisa del corpo
delle SS naziste; e il bouquet di fiori della sposa, quel grande bouquet
di così vividi colori, è fatto di fiori di carta, la carta velina della
modulistica dell'ufficio amministrativo del campo di concentramento e
lavoro forzato di Helmstedt, Bassa Sassonia. Il matrimonio è stato
celebrato e certificato il 3 luglio 1945 dal comandante dei
paracadutisti inglesi che lo hanno liberato, confermato due giorni dopo
con rito religioso amministrato da un prete cattolico.
Il forno si chiama da Gianchettu, Bianchetto, perché questo è il nome
del fornaio, e il suo negozio è nel carruggio di un borgo della Riviera
di Levante dove vado a fare i bagni da tempo immemore. Mi piace portarmi
a mare la mattina presto, mi piace essere il primo piede a scompisciare
la spiaggia di ghiaietta che i bagnini hanno appena finito di
pettinare, mi piace nuotare fino a non poterne più, asciugarmi in fretta
e poi passare da Gianchettu a prendermi una fetta di focaccia lunga un
braccio e larga mezzo, mangiarmela su una panca all'ombra scarsa di un
oleandro, leccarmi le dita dell'olio che è olio buono e buttarci dietro
mezzo bicchiere di un qualche vermentino del bar di fronte. Si fa presto
a dire focaccia, ma impastare, lievitare e cuocere una focaccia di
Riviera nell'aria madida di salmastro e non farne venir fuori una
flaccida, aspra, rugginosa lasagna, ma una sfoglia tenera e croccantina,
non è faccenda che ci riescono in tanti. Gianchettu, sì, e quella
focaccia è un gran sollievo alle inappetenze della calura, ai gastrici
dinieghi della macaia. Chissà se lui lo sa che il suo forno è una cura e
un riparo, lui se ne sta là dietro in canottiera e berrettino a
rimestare e infornare. Ma ogni tanto viene di qua per sorridere a sua
moglie che sta al banco, le sorride per riposarsi un po', e gli deve
piacere così tanto che gliene avanza anche per sorridere alla coda che
aspetta scontrosa e sudaticcia la sua fetta di focaccia cadauno.
Gianchettu è un fornaio sorridente, una rarità in assoluto, un'unicità
tra i fornai rivieraschi; lo vedo sorridere a sua moglie da quando passo
dal forno, diciamo vent'anni. E fa bene Gianchettu, non foss'altro
perché la signora Teresa ha due occhi azzurri bellissimi e distanti, e
uno sguardo in quei suoi occhi di quelli che ti viene da pensare che un
principe straniero potrebbe da un momento all'altro prendersela e
portarla chissà dove. Gli occhi della signora Teresa sono gli occhi
della sposa del campo di Helmstedt.
È per via di quegli occhi, e, certo, anche un po' per quella focaccia
così buona, per via del fornaio di Riviera singolarmente sorridente, che
al termine di un ventennale tirocinio mi son preso la confidenza di
chiedere alla Teresa chi fossero mai quei due sposi lassù dietro al suo
banco. Quei due sposi sono suo padre Tullio e sua madre Theresa. E
questo mi ha raccontato Teresa, la moglie del fornaio, nata Leocadia e
detta Lola, che però si chiama Teresa perché ha voluto prendersi il nome
di sua madre che non ha mai conosciuto perché è morta mettendola al
mondo; tutto quello che sa di lei glielo hanno detto le fotografie e le
storie di suo padre.
Dunque mi ha raccontato che sua madre Theresa è nata nella città polacca
di Pabianitz da una cattolicissima famiglia di commercianti. Pabianitz è
una città colpevole, ha inutilmente e sanguinosamente resistito alle
truppe germaniche d'occupazione, e dunque è severamente punita con la
deportazione in massa dei civili; Theresa è prelevata dalle SS
all'uscita da scuola, ha appena finito il corso di dattilografia, ha
ancora da compiere quattordici anni, è destinata al campo di Helmstedt.
Il campo è su una miniera di salgemma, ben in fondo nella miniera ci
sono i laboratori per la fabbricazione di componenti del prototipo di
un'arma segreta della Luftwaffe; il lavoro nella miniera è per i
deportati politici più pericolosi, quello nel laboratorio per i più
specializzati, gli uffici sono destinati alle ragazze come Theresa.
E mi ha raccontato che Tullio è nato nel '17 a Monterosso, in Riviera di
Levante, da una famiglia di sarti e barbieri dove i maschi sapevano
fare l'uno e l'altro mestiere assieme e anche dipingere e scrivere
poesie e anelare alla rivoluzione socialista. Tullio è partito alla
guerra da marinaio e dopo l'8 Settembre se n'è tornato a casa; quando i
fascisti sono andati a prenderlo per arruolarlo nella Repubblica
Sociale, lui si è fatto trovare in casa, era una testa calda. Lo hanno
deportato a Fossoli; di quel campo non ha mai voluto parlarne, solo,
morendo, ha lasciato sul comodino dell'ospedale un biglietto in cui
diceva di un orrore che non poteva dimenticare, per il resto ha solo
raccontato che a salvarlo dalla morte è stato il suo mestiere, un sarto è
sempre di grande utilità in un posto dove ci sono tanti uomini in
divisa, specialmente poi se è anche un barbiere.
Il campo di Helmstedt non è un campo di sterminio anche se c'è
l'edificio per le eliminazioni, il vitto è uguale per tutti, un filone
di pane da dividere tra i sedici componenti della baracca e una patata
con l'acqua di bollitura a testa al giorno; nel campo tutto era proibito
tranne eseguire gli ordini, Tullio ha portato per tutta la vita le
cicatrici delle percosse che ha ricevuto disobbedendo alla regola, il
suo nome era un numero, o altrimenti "tu, merda". Tullio ha raccontato
che il primo ricordo che aveva del campo era il canto di un gruppo di
polacchi, cantavano inni sacri polacchi mentre le guardie lì
picchiavano, prendevano le bastonate e continuavano a cantare, cantare
era proibito, era proibito anche pregare a voce alta. Era proibito
festeggiare anche il Natale, e per questa ragione Tullio ha conosciuto
Theresa; quella polacchetta era una testa calda e nel Natale del '44 era
diventata famosa in tutto il campo perché s'era risaputo che,
rischiando la morte, aveva rubato un rametto da un albero e con la carta
colorata rubata negli uffici aveva allestito un alberello natalizio
nella sua baracca, era furbissima e riusciva a nasconderlo alle
ispezioni giornaliere. Così Tullio si è intestardito di conoscerla la
testa calda polacca, e ci è riuscito trovando il modo di arrivare
all'ufficio dove dattilografava. L'ha vista, era bellissima e piena di
fascino ribaldo, e si è innamorato; e siccome era anche lui un uomo
molto bello e molto affascinante, anche Theresa si è innamorata, così,
in un lampo. Tullio ha raccontato che la cosa strana in quel campo dove
nessuno pensava a altro che a sopravvivere, dove essere buoni d'animo
era come suicidarsi, fu la gran complicità generale per quegli
innamorati, così che riuscirono a scambiarsi persino dei biglietti, e a
promettersi, e a sopravvivere fino alla liberazione.
Naturalmente il vestito della sposa e il suo lì ha tagliati e cuciti
Tullio. Che ha preso la sua sposa e se l'è portata in Riviera, e alla
stazione c'era tutto il paese ad aspettarli, in testa la cara, vecchia
mamma, che per prima cosa si è schiantata sul figlio con uno schiaffone
tremendo, perché, con tutto quello che gli era successo, Tullio si era
dimenticato di aver lasciato al paese una promessa sposa, nientemeno che
la nipote del parroco, e queste cose non si fanno. E poi sono vissuti
felici e contenti, tanto da fare una figlia e poi un'altra, e l'altra è
la signora Teresa che non ha mai conosciuto sua madre e quello che sa di
lei sono le fotografie e i racconti. Che è quello che so io e che ora
sapete voi. E tutti quanti sappiamo da quelle fotografie un'altra cosa,
sappiamo che persino nella più vigilata fortezza dell'inumanità, nel più
schifoso tabernacolo del sadismo, nel tempo dove niente di buono è
ammissibile e plausibile, ecco che anche lì non tutto è perfettamente e
eternamente predisposto e stabilito. Questo nel caso che al tempo
presente dovessimo sentirci deprimevolmente impotenti.
Una squadra della 36° Brigata Garibaldi (1944 - 1945). Credit: Fototeca Gilardi
I ragazzi che fecero la Rivoluzione
L’ordinamento repubblicano affonda le radici nei
principi dei tanti giovani che scelsero la Resistenza e la libertà. Una
storia che non si può dimenticare
di ALBERTO ASOR ROSA
Quando ho letto le prime trenta-quaranta pagine di questo libro di Giuseppe Filippetta, - L'estate che imparammo a sparare (Feltrinelli, pagg. 302, euro 22) - mi sono detto che sarei andato avanti fino alla fine come un treno. Si tratta, come risulta evidente anche dal titolo, della ricostruzione precisa e circostanziata, ampia ma anche facilmente interpretabile nei suoi significati più profondi, della lotta partigiana in Italia, dalle sue drammatiche e insieme esaltanti origini nel settembre 1943 alla sua conclusione, altrettanto esaltante, fra la primavera del 1945 e il lungo svolgimento del 1946.
Il libro è talmente ricco da esser quasi impossibile una sua sintesi, sia pure rapidamente argomentata e ragionata. Dirò perciò più semplicemente quali sono stati i suoi aspetti che mi hanno colpito di più. Il primo riguarda la presenza prioritaria nel racconto di figure di partigiani autentici, identificabili con nome e cognome, e storie proprie nell'ampio arco della resistenza nazionale, dalla Maiella in Abruzzo alle Alpi, di rango superiore e dirigenziale, oppure, forse anche più spesso, della massa dei militanti comuni, di ogni censo e condizione. Questo vuol dire che, con attitudine anche narrativa estremamente efficace, Filippetta coglie e valorizza nell'originaria scelta partigiana una sorta di rivendicazione, spontanea, della propria identità individuale popolare, contro l'affermazione bruta del diritto alla violenza e alla sopraffazione. Si vedano ad esempio, nelle pagine di esordio, le biografie di due partigiani di zone diversissime d'Italia, Vincenzo Cozzani diMontepulciano in Toscana, e Mario Grisendi di San Polo d'Enza nel Reggiano. Scrive Filippetta: "Nelle scelte di Cozzani e di Grisendi non c'è traccia di Stato e di regni, c'è la decisione sovrana di uomini che, venuto meno ogni ordine, scelgono loro quando, contro chi e per quale scopo fare la guerra e diventano partigiani con l'obiettivo di porre fine alla paura e all'ingiustizia del presente e di aprire a sè e agli altri il futuro".
Quando viene meno l'ordine costituito, - quello bene o male rappresentato in Italia dalla tradizione monarchica, a un certo punto persino intrecciata con un disordine istituzionalizzato e brutale come quello del fascismo, - una quota consistente di giovani italiani non sta lì ad aspettare, inerme, subalterna e servile, che un'altra potenza esterna costruisca un nuovo ordine, cui assoggettarsi, ma prende le armi per costruirlo a modo proprio. Del resto, la ricostruzione storica e il discorso argomentativo di Fileppetta non si fermano qui: tutt'altro. Il segnale della traccia che l'autore segue è indicata con precisione dal sottotitolo dell'opera: "Storia partigiana della Costituzione". E cioè: senza tradire il rispetto delle priorità rappresentate in questa storia dalle scelte di Cozzani e di Grusendi, Filippetta dimostra come, attraverso una scalarità di scelte e di tendenze, si arrivi in quei lunghi mesi di lotta a formulare i primi lineamenti del processo costituente, il voto per la Costituente, i tratti fondamentali della nostra Costituzione. Su questi punti Filippetta non potrebbe essere più chiaro: "La Costituzione repubblicana è il risultato di processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello della Costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutti ordini giuridici instaurati in vista della creazione stabile e definitiva di un nuovo ordine costituzionale". Altrove parla della "Costituzione dei fucili".
"La Costituzione dei fucili"! Nella ricostruzione di Filippetta c'è indubbiamente la traccia di altri autorevoli interpreti di quel passato, da Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, da Guido Quazza a Giovanni De Luna; ma, se non erro il nostro autore porta fino alle ultime conseguenze il discorso. Un tratto significativo, - ma anche commovente - del suo rapporto con questa materia è consegnato alle ultime pagine del libro. Filippetta ricorda che già nel 1946 un maestro del diritto amministrativo, Giovanni Miele, aveva puntato il dito accusatore contro quei numerosi giuristi che tranquillamente si erano adattati al cambiamento dei regimi, dedicando il suo saggio Umanesimo giuridico a due suoi studenti dell'Università di Pisa, caduti nella Resistenza: Francesco Pinardi e Rurik Spolidoro. Sono gli stessi cui ora, - evidentemente con scelta non casuale, - Filippetta dedica il suo libro. Come mai? Anche qui Filippetta è di un'estrema chiarezza. Perché "nella lunga stagione del 1943-1947 il nuovo diritto repubblicano nasce innanzi tutto dalle vite costituenti dei tanti che, insieme a Rurik e Francesco, attraverso le bande partigiane affermano e instaurano con le loro scelte e le loro azioni... I principi e le regole dell'ordine democratico della libertà... Dimenticarlo significherebbe rinunciare al progetto di liberazione e di emancipazione umana che la Costituzione del 1947 ci ha affidato e privarci del nostro futuro di cittadini repubblicani". Sono le ultime parole del libro. Talvolta, quando ci accade anche inconsapevolmente di misurare quelle scelte e quelle giovani vite di combattenti partigiani con il nostro presente di oggi, ci viene da piangere.
Una militanza fatale
Novecento. «Un
amore partigiano», il libro di Mirella Serri che racconta la storia
oscura di Gianna e Neri, uccisi dai loro stessi compagni e scomparsi nel
nulla
La lapartigiana Gianna, vero nome Giuseppina Tuissi
Quella di Gianna e Neri è una storia oscura della Resistenza. La ricostruzione appassionata che ne fa Mirella Serri (Un amore partigiano, Longanesi, pp. 217, euro 16,50) consegna al lettore un’empatia forte con i due protagonisti: lei, all’anagrafe Giuseppina Tuissi, che diventa partigiana dopo che i fascisti uccidono il fidanzato, torturata a sua volta in una prigione di Salò, addetta all’inventario del cosiddetto «oro di Dongo» sequestrato ai gerarchi, accompagnatrice di Claretta Petacci nel suo ultimo viaggio (e l’amante di Mussolini viene dipinta come una donna antisemita, ambiziosa e priva di scupoli, smontando ogni stereotipo assolutorio); lui, vero nome Luigi Canali, a capo della Brigata Garibaldi che arrestò il Duce, secondo qualcuno l’uomo che diede il colpo di grazia al gran capo del fascismo (ma per le cronache l’esecutore materiale fu un altro partigiano, Walter Audisio, che a più riprese ha raccontato come avvenne l’esecuzione). L’autrice ne sposa la causa e aderisce all’idea che tra i due ci fosse più che una comunanza politica, un’ipotesi suffragata dalle parole della vedova di Canali quando, nel 2002, il Comune di Como ha inaugurato una scalinata intitolata ai due combattenti per la Liberazione dal nazifascismo: «Per quel che mi riguarda, Gianna è la donna che mi ha portato via un marito che mi amava». Ma è soprattutto una storia dal tragico finale, che racconta delle opacità e delle durezze di quell’ultima fase della guerra partigiana e soprattutto di quei mesi di interregno seguiti al 25 aprile del ’45. Ne scrisse sul manifesto Rossana Rossanda, nel 1985, ben prima che due lettere del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi Walter Veltroni da segretario dei Ds arrivassero a chiudere una ferita rimasta aperta per settant’anni: «Mi sfilavano davanti le immagini dei compagni uccisi… Questo ricordo, vivo come i colori freddi d’una giornata d’aprile del Nord, e quello immediatamente successivo del Neri e della Gianna, uccisi dai loro, dai miei compagni per una storia oscura e della quale mi si avvertì energicamente che non mi dovevo occupare, fece sì che non mi è riuscito di dire ‘Ai bei tempi della resistenza’». Rossanda ha ripreso la vicenda nella più recente autobiografia La ragazza del secolo scorso. Racconta di quel «comandante favoloso» e di «una ragazza spericolata», della loro condanna e della fucilazione, non crede al collegamento con la scomparsa dell’oro di Dongo, come pure Mirella Serri, e scrive che «nel 1945 nulla di quella storia mi convinse. Ma non mi venne in mente di abbandonare. Non me ne vanto, non me ne pento». Come morirono Gianna e Neri? E per mano di chi? Fu una vicenda «locale», un regolamento di conti all’interno delle bande partigiane comasche o la gravità dei fatti non consente di archiviarla come tale? Erano «traditori», come aveva deciso il Tribunale della Resistenza diramando ai Gap l’ordine di ucciderli, oppure no, come avevano pensato da subito i compagni del Neri, riaccogliendolo nella loro brigata dopo la fuga dal carcere? Soprattutto, perché dare esecuzione a una sentenza di morte quando tutto era ormai finito? «A Milano domandai un’inchiesta. Urtai contro un muro. Tutti coloro che la chiesero urtarono contro un muro. Forse non si volle ammettere l’errore, forse lo si comprese inescusabile», scrive Rossanda. Mirella Serri aggiunge qualche sospetto in più, lasciando intravvedere delle rivalità preesistenti: chi fece la soffiata che fece arrestare entrambi a Lezzeno, sul lago di Como? L’ipotesi è che il comandante Neri, comunista, fosse inviso ad alcuni personaggi della Resistenza comunista comasca, in primis Dante Gorreri, ex Ardito del popolo, collaboratore di Guido Picelli nella resistenza antifascista di Parma nel 1922, segretario del Pci di Como, dopo la guerra componente dell’Assemblea Costituente, poi arrestato con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di Gianna e Neri, scarcerato nel 1953 perché eletto deputato per il Pci e infine amnistiato. E poi a Pietro Vergani, anch’egli senatore nel dopoguerra e poi amnistiato, che da comandante delle Brigate Garibaldi della Lombardia aveva fatto sospendere la condanna a morte dei due partigiani. L’accusa nei confronti di Neri, poi smentita dai fatti, fu quella di essere una «spia» del nemico, fatto fuggire dal carcere per arrestare i compagni. La partigiana Gianna, anch’ella comunista, fu invece sospettata di aver parlato, sotto tortura, rivelando gli indirizzi di alcune basi partigiane e provocando diversi arresti. Fu uccisa e gettata nel lago il 22 giugno del 1945, giorno del suo ventiduesimo compleanno, probabilmente perché non si era arresa alla scomparsa nel nulla di
Luigi Canali, avvenuta il 7 maggio. I loro corpi non saranno mai
ritrovati.