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27.4.25

non trovo le parole per definire chi insulta cosi la segre e non solo

  premetto che non concordo con Liliana Segre per le sue posizioni di difesa a oltranza dello stato d'Israele , ma #AchePuntoSiamoArrivati !!!. alla fine le ho trovate in questo meme




Ma le sono vicino per quello che ha subito di recente .Quello che riceve e subisce ogni giorno la senatrice a vita Liliana Segre da orde di miserabili odiatori è una vergogna e una ferita per questo Paese.
E colpisce ancora di più la natura degli insulti ricevuti da Segre.
Arrivano da militanti di estrema destra, gruppi no-va* e sedicenti difensori della causa palestinese. Che altro non sono se non fascisti mascherati che della causa palestinese non hanno capito nulla.
Un conto è criticare civilmente (e legittimamente) le posizioni di qualcuno comprese le sue  Infatti anch’io mi sarei aspettato di trovare in lei una coscienza critica del massacro in atto a Gaza.
Un altro conto è - come emerge dalle indagini - arrivare all’abominio di accusare di nazismo una sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.
“Uno sfregio alla verità oggettiva e la più infamante delle offese per la reputazione di chi spende  la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’Olocausto”, come ha ben riassunto il gip Alberto Carboni.Solidarietà senza se e senza ma alla senatrice a vita Liliana Segre.
A cui tutti in Italia dobbiamo essere grati per quello che ha fatto negli ultimi trent’anni per la memoria storica e per l’antifascismo in questo Paese di nostalgici , smemorati,ecc

 Da lettera43 tramite https://www.msn.com/it-it/

L"Odio social contro la senatrice a vita Liliana Segre dopo la sua partecipazione alle celebrazioni del 25 aprile a Pesaro. "Sanguisuga ebrea"; "la più nazista di tutte"; "vecchia il popolo italiano non ti vuole"; "stanno facendo la raccolta differenziata": questi alcuni "tra le centinaia di insulti che sono stati scritti sotto i video dei festeggiamenti del Comune di Pesaro e del sindaco Biancani per la festa di Liberazione", rivolti dagli haters alla sopravvissuta ai campi di concentramento, spiega sui social il consigliere comunale Riccardo Bernardi.  [.... ]

Ringrazio Riccardo Bernardi per aver messo online tale il video di risposta .


Ci rende ancora più chiaro a tutti a che punto arriva l'essere umano. Definirli bestie sarebbe un insulto per le bestie stesse.

Cosi come

da repubblica online del 27\4\2025

Striscione contro panettiera antifascista: “Fetore dal quel forno”. Schlein: fascisti inaccettabili a cura della redazione Politica
Foto di Sinistra italiana


Gli insulti contro Lorenza Roiati, che il 25 aprile è stata identificata dalle forze dell’ordine per una scritta che celebrava la Liberazione. Il sindaco difende gli agenti e attacca il dem Ricci: “Da lui sciaccallaggio”



Purtroppo esistono persone talmente ignoranti da riuscire a scrivere certe cose che non riesco neppure a definire. .... avrei altro d'aggiungere ma << Una parola è troppa e due sono poche. >>( cit tv )

24.4.25

il 25 aprile con la morte del papa

  non trovano parole  adatte   che  non siano retoriche  ma  soprattutto   per la sobrietà per  la  morte  di  un leader    religioso  e  politico  ed  il lutto che ci  hanno  chiesto   non riesco  a  come fanno molti   




e preferisco  stare  zito    riportando  qui sotto   alcuni  libri    consigliati  


.25 APRILE: IL FUTURO. . DELLA RESISTENZA

Na popolana energica e resistente nella Roma occupata, un bambino entrato per gioco in una brigata partigiana, un partigiano 20enne “brutto” ma con degli occhi “più che notevoli”, PERSONAGGI INDELEBILI Scemando le testimonianze dirette sulle lotte che han

FOTO LAPRESSE
L’arte si fa storia Nel dopoguerra sono state tante le opere con protagoniste figure partigiane

Uuna ragazza ebrea impegnata in un doppio di tennis nel giardino della sua villa, una 16enne costretta a fare i conti con il disagio postbellico degli ex combattenti: sono Pina di Roma città aperta (1945), Pin del Sentiero dei nidi di ragno (1947), Milton di Una questione privata (1963), Micòl del Giardino dei

Finzi Contini (1962) e Mara della Ragazza di Bube (1960). Li vediamo avvicinarsi gli uni agli altri per scattare una foto collettiva, formano un gruppo di famiglia in un “esterno”, in cui l’esterno è la Storia, quella della guerra e del dopoguerra. Se le foto ingialliscono con il tempo, il loro ritratto non sbiadisce, e negli anni acquista persino nuova lucentezza.Alla vigilia dell’80º anniversario della Resistenza, sono queste potenti invenzioni narrative o cinematografiche che continuano a condensare nel nostro immaginario l’idea di lotta antifascista nei suoi risvolti di mito e antimito, di rivolta collettiva e privata, del suo proiettarsi verso il futuro o del suo ripiegarsi sul passato. Sono finzioni che, per così dire, hanno prodotto un effetto di realtà. […] A ben guardare, davanti all’obiettivo i personaggi del nostro gruppo di famiglia si dispongono a coppie o in trio. Il duo è composto da Pina e Pin, il trio da Milton, Micòl e Mara; per tutti, la consonanza fonetica acquista una dimensione semantica. Per Pina e Pin la lotta assume una dimensione collettiva, è una molla che li proietta in avanti nella speranza di costruire la nuova Italia postbellica; per Milton, Micòl e Mara la resistenza si gioca invece sul piano dell’interiorità, è qualcosa di privato, soggettivo, etico, disancorato dall’immagine di lotta antifascista come epopea collettiva: anziché tendere al futuro, questi personaggi si ripiegano sul passato.

Differente è quindi la relazione che intrattengono con la comunità in cui vivono: Pina agisce “con” e “per” gli abitanti del suo rione, Pin cerca di integrarsi nella scalcagnata banda del Dritto e alla fine troverà un amico nel partigiano Cugino, mentre per Milton, Micòl e Mara l’orizzonte è quello di una penosa solitudine. La ricerca affannosa della verità porta infatti Milton a isolarsi dai compagni di battaglia, e il partigiano “crollerà” nel finale aperto di Una questione privata. Il suo corpo cade come quello di Pina colpita dalle mitragliate mentre cerca di raggiungere il suo Francesco portato via dai nazisti, ma stavolta, al contrario del film di Rossellini, non c’è nessun prete o nessun figlio pronti a soccorrerlo, e non c’è nemmeno una mano “soffice e calda, come pane” simile a quella di Cugino del Sentiero a cui potersi aggrappare: Milton crolla da solo. Anche Micòl, col precipitare degli eventi, vivrà sempre più reclusa nel suo giardino fino al giorno in cui sarà arrestata e deportata in un lager.

E Mara, infine, dovrà aspettare quattordici anni per poter ricominciare una nuova vita con Bube. Si può allora parlare di una prima fase di personaggi resistenti (Pina e Pin) e di una seconda fase (Milton, Micòl, Mara), di un climax e di un anticlimax del mito della Resistenza. Se in Rossellini e Calvino la forte tensione ideologica, sociale e politica bilanciava le ferite della Storia, in Fenoglio, Bassani e Cassola quelle ferite rimangono dolorosamente aperte. […]

.In chiusura di ogni ritratto ci sarà un’apertura su un altro linguaggio: Pina, Pin, Milton, Micòl e Mara sono personaggi resistenti anche perché resistono nel tempo attraverso le riscritture, le letture per immagini (cinematografiche o pittoriche) che ne hanno fatto registi e artisti. […] Ma torniamo al nostro gruppo di famiglia in un esterno. Ecco che vediamo sopraggiungere altri due personaggi che si uniscono ai primi per un nuovo scatto. Sono un partigiano con un cannocchiale astronomico a tracolla e una donna con la gonna e il fucile: Tristano del romanzo Tristano muore (2004) di Antonio Tabucchi e Rosa del graphic novel La Rosa armata (2022) di Costanza Durante ed Elisa Menini.

La nostra galleria di ritratti si chiude così con due personaggi di combattenti nati negli anni Duemila. Tristano e Rosa non fanno parte del canone consolidato (e scolastico) della letteratura resistenziale, ma gli autori che li hanno concepiti si sono dovuti confrontare con le figure del passato finora descritte, raccogliendo la sfida di reinventare il mito della lotta antifascista senza averlo vissuto. E sono anche rappresentativi di sguardi diversi di generazioni diverse: quello caustico, ma non rassegnato, di uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, e quello militante di una coppia di giovani autrici nate negli anni Novanta che ha sperimentato il racconto della Resistenza a fumetti.

Cominciamo con Tristano m u o re . Ormai agonizzante, nell’ultimo agosto del Novecento l’ex partigiano Tristano, confinato nel casale toscano di Malafrasca, racconta la sua vita a un silente scrittore, che su Tristano ha già scritto un romanzo. Nei suoi racconti sconnessi, Tristano insinua il dubbio sulla prode azione che ha compiuto durante la guerra, quando aveva sterminato un manipolo di nazifascisti: si è trattato davvero di un atto eroico? O non è stato piuttosto il frutto di un vile tradimento? E ancora Tristano si interroga: si può essere testimoni senza aver vissuto quello che si racconta? Si può raccontare la Resistenza come ha fatto lo scrittore accorso al suo capezzale nella biografia romanzata di Tristano (e come fa lo stesso Tabucchi), anche se non si è mai stati a combattere in montagna? Si può insomma essere non testimoni oculari bensì testimoni “di un clima, di una scelta, di una posizione etica”? Con Tristano muore Tabucchi riflette sulla possibilità di raccontare la Resistenza in un momento di pericoloso revisionismo come quello della fine del Novecento, sulla validità di una testimonianza etica e non solo diretta, scatenando una feroce polemica sulla stampa del tempo. […]

Al centro del graphic novel di Costanza Durante ed Elisa Menini ci sono invece le partigiane delle Langhe, protagoniste di episodi di resistenza armata e di resistenza civile, in cui la sorellanza s’impone sempre sull’ideologia. […] Con La Rosa armata viene recuperata la spinta propulsiva delle prime immagini della Resistenza, quel loro proiettarsi in avanti, anche se la tensione verso il futuro è rivisitata in chiave solo femminile. […]

In occasione del 25 aprile 2024, Giovanni De Luna, interrogato da Paolo Di Paolo su come si possa celebrare il giorno della Liberazione “in un paesaggio sempre più spopolato di testimoni”, aveva risposto: “La fine dell’era del testimone non deve spaventarci. Bisogna continuare sì a studiare, ad approfondire, ma soprattutto a raccontare. Non bastano gli archivi: occorre farsi mediatori nel senso letterale del termine, consentire al passato di transitare nel presente, coinvolgendo anche una dimensione emotiva. Dirò così: facendo battere il cuore delle persone”.

La fiducia nel racconto, in una narrazione al di fuori della testimonianza, sarà allora l’arma migliore per continuare a fare memoria. D’altronde il discorso pubblico, come osservano Focardi e Peli, cercando di modellare una Resistenza “inclusiva” l’ha “narrata solamente nella sua veste più semplificata”, non considerando “la complessità, le molteplici e contraddittorie esperienze individuali e collettive”. Sono stati invece il cinema, la letteratura e il fumetto a essere finora riusciti a darci un’immagine plurale, complessa e contraddittoria della lotta antifascista attraverso personaggi plurali, complessi e contraddittori, come quelli raccontati in questo volume. E come quelli, ci auguriamo, che si continueranno a raccontare.



Drappi, partigiani e pane: Emma scopre la Resistenza

È uscito “Il segreto del naso di Rioba” di Vichi De Marchi: come una 15enne veneziana affronta (e spiega ai suoi coetanei) cos’è la Liberazione

“Emma pensò che nel mondo della Resistenza c’erano tante cose che non sapeva e che avrebbe dovuto imparare in fretta. Decise comunque di attendere pazientemente senza chiedere altro”. Ecco, per tutti i ragazzi che in questi giorni, a ridosso della festa della Liberazione, non avessero la stessa pazienza di Emma di attendere, ma volessero conoscere il più possibile e nel modo più diretto e immediato cosa è stata la Resistenza, c’è Il segreto del naso di Rioba di Vichi De Marchi (emonsraga) in libreria e in

audiolibro. A prendere per mano i suoi coetanei trasportandoli tra calli, fondamenta, isole della Laguna di Venezia è proprio Emma, 15 anni “da compiere” il 29 aprile 1945 e un unico desiderio: che la sua città torni colorata come il rosso con cui i partigiani hanno “osato” imbrattare muri, piazze e monumenti della grigia Serenissima schiacciata dall’occupazione nazifascista. Che arrivi finalmente la pace e che le porti in dono un libro di avventure.Ma per arrivare a quel giorno Emma, garzona del fornaio sior Bepi, il suo giovane collega Elio (aiutante in bottega e per la Resistenza) e suo fratello maggiore, l’adorato partigiano Mario, dovranno passare per ben altre dure avventure, sotto gli occhi attenti della statua porta-fortuna per antonomasia della città: Rioba che su tutto veglia e ogni segreto custodisce. CONTRO OGNI invito alla “sobrietà” dei festeggiamenti per la Liberazione, De Marchi – veneziana di nascita, giornalista e scrittrice già nella cinquina del premio Strega Ragazze e Ragazze 2016 nonché vincitrice del premio Procida - il mondo salvato dai ragazzini con Nato a Hiroshima(de Agostini, 2020) – prepara il giovane scopritore della storia eroica ma quotidiana (ahilei) di Emma alla grande festa finale. Ma al tanto agognato e sognato “vissero tutti felici e contenti” i ragazzi e le ragazze del 2025 arrivano solo dopo essere passati per il labirinto dei segreti di Venezia di 80 anni fa (anche da scoprire inquadrando i qr code attraverso i quali si accede a finestre segrete, parallele alla Storia).Le “operazioni dei partigiani”, il carcere di Santa Maria Maggiore, il vecchio Molino Stuchy, e infine il Teatro Goldoni in cui – anche e proprio grazie a una inizialmente inconsapevole e poi via via sempre più partecipe Emma – i partigiani riescono a portare in scena a sorpresa “la beffa del Goldoni”, per invitare gli astanti, seduti tra i gerarchi nazisti della città a ribellarsi.

Il segreto di Rioba

di segreti ne custodisce tanti, tra realtà e romanzo, ma tutti veritieri, ognuno possibile, come a dire a chi lo legge e assapora quella “vecchia” storia, che tutto è possibile, che ognuno, anche il più piccolo e ignaro tra i cittadini di ieri e di oggi è parte e ingranaggio del tutto. Del grande. Della storia del forno in cui lavora, la città unica e piena di orme – da Tintoretto a Goldoni – che ogni giorno inavvertitamente ricalca, a quella con la S maiuscola.

Un libro, quello di Vichi De Marchi necessario anche per i genitori che non sanno come spiegare, come accompagnare i propri ragazzi tra le strade intricate e folli che hanno portato alla Liberazione.

Un viaggio dolce, cullati dalle onde della Laguna, che porta per mano i nuovi ragazzi di oggi a vedere i loro coetanei del secolo scorso, costretti a crescere troppo in fretta e tra mille segreti.

23.4.24

25 aprile in piena deriva neofascista . La Storia manomessa tra menzogne e omissioni. Così la nuova destra cancella l’antifascismo

Partigiani e  Prtigiane   a Milano 
 




   repubblica    di Paolo Berizzi


La memoria ha i suoi tempi. Entrambe le cose — memoria e tempo — , si possono manipolare, manomettere, trasformare. A maggior ragione dopo una “sconfitta”. La Grande Sconfitta, da qualcuno mai digerita, del 25 aprile 1945. In questo processo revanscista di rewriting, anche la storia, insieme alla memoria, diventa materia plasmabile. Non occorre essere campioni di revisionismo: basta muoversi dentro il cavallo di Troia della democrazia, coperti dal mantello dei diritti che essa garantisce, ed ecco che la verità storica è piegabile alla propaganda.

Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?

In un anno e mezzo di governo-Meloni la destra e il partito di maggioranza relativa hanno portato a compimento il più duro attacco politico e “ideologico” mai mosso, dal Dopoguerra ad oggi, ai fianchi della Memoria; la memoria di chi ha dato la vita per liberare l’Italia dal nazifascismo e restituirci l’aria tolta dal regime di Mussolini. L’operazione condotta dal melonismo bifronte — postura neoconservatrice e insieme mantenimento della matrice identitaria di una comunità politica che da settantotto anni si tramanda il simbolo della fiamma che arde dalla tomba di Mussolini e che, ad eccezione di Forza Nuova, è stato utilizzato da tutti i partiti neofascisti e post fascisti — appare come un combinato di revisione storica e di omissione sul ventennio fascista. Così come sul neofascismo degli anni ’70. Le note ambiguità, ogni volta rilanciate come successo l’ultimo 25 aprile che ha confermato l’indisponibilità a dirsi antifascisti; gli affondi mirati, l’esaltazione dei “nostri morti” — formula cara anche ai gruppi di ultradestra; modifiche e atti legislativi, toponomastica; il tutto all’insegna della surreale equiparazione tra fascisti e comunisti italiani, i repubblichini al servizio dei nazisti e i partigiani, e dunque boia e vittime, Salò e Resistenza. Obiettivo: slavare la Memoria, spiantare l’antifascismo. Ovvero sradicare la radice della nostra democrazia e della Costituzione.Un “cambio di narrazione” previsto. Finanche annunciato dalla premier Meloni quando ancora non era a palazzo Chigi e già prometteva. «Sogno una nazione nella quale le persone che hanno dovuto abbassare la testa per tanti anni, facendo magari finta che la pensavano in maniera diversa, sennò sarebbero stati tutti cacciati, possano dire come la pensano e non perdere il posto di lavoro per questo». E ancora, sempre Meloni: «Noi non tradiremo». Già. Sfrecciando su un terreno già arato dall’afascismo di altri — prima Berlusconi, quindi il più estremista Salvini — , il gruppo dirigente post-fascista del partito locomotiva della destra ha messo la marcia a tutta dritta. Lo stesso hanno fatto, a cascata, le organizzazioni giovanili. Per avere conferma di questa azione erosiva della memoria non c’era bisogno di attendere l’ultimo dribbling di Giorgia Meloni che ha furbescamente sbrigato la pratica 25 aprile senza dispiacere ai suoi. Né occorreva registrare la scomposta polemica contro gli “antifa” uscita dal cilindro nero di Lollobrigida, quello del monumento al maresciallo Graziani e del mito della “sostituzione” diffuso tra suprematisti e neonazi. Scontate anche le sgrammaticature equiparazioniste su «anticomunismo» e «dittatura comunista in Italia» (quale?, quando?) di Sangiuliano seguito a ruota dal collega leghista Valditara («fascista è oggi una certa estrema sinistra»). Ci ha pensato Mattarella a richiamare — chissà con quale esito — i revisionisti al «dovere dell’antifascismo».E però va detto era già tutto scritto. Se questa destra affamata di rivalsa nel 2024 emette un francobollo dedicato a Giovanni Gentile che il ministro Urso accosta a Matteotti in forza di «una memoria collettiva da ricomporre», non è solo perché fingono di non ricordare che il filosofo e ministro della Pubblica istruzione del governo fascista — oltre a ideare il Manifesto degli intellettuali fascisti — , giurò fedeltà al regime, aderì alla Rsi e fu ammiratore di Hitler. Lo fanno perché c’è un filo nero da seguire. Una linea. È la direzione indicata anche ai baby-meloniani. Eccolo dunque, Giovanni Gentile. La foto su una parete nel video con cui il responsabile del circolo di Gioventù Nazionale di Mazara del Vallo mostra pochi giorni fa la nuova sede. Il “filosofo idealista” è una delle figurine di arredo. In buona compagnia. C’è Evola, c’è il picchiatore missino Grilz e un altro santino più impegnativo, Ernst Junger in divisa nazista della Wehrmacht. I famosi “cambi di narrazione”.La melodia del «non restaurare, non rinnegare», ché poi qua e là un po’ di restaurazione, se si pensa a cos’erano il Msi e Colle Oppio, la si vede. Il punto è che, a colpi di contro-racconto, la memoria repubblicana antifascista l’hanno messa nel mirino. Prima e dopo il giuramento al Quirinale del 22 ottobre 2022. Esempi. Il 9 marzo 2022 il Comune di Orbetello intitola l’ex idroscalo all’aviatore e gerarca Italo Balbo, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Cinque giorni dopo si scopre che a Balbo è intitolato l’Airbus blu dell’Aeronautica che fa volare le alte cariche dello Stato nato dall’antifascismo. Clamore. Il nome di Balbo viene rimosso e sulle chat di FdI montano le proteste. “Chi vola vale!” scrivono citandolo. Miti da onorare. Grosseto, Massa Carrara, Pescara, Gioia del Colle, Teramo, Sant’Anastasia. Sono solo alcuni dei Comuni che, con la destra al governo, hanno sentito l’urgenza di avere almeno una strada o una piazza o una rotonda dedicata a Giorgio Almirante. Il segretario di redazione della Difesa della razza, fucilatore di partigiani e collaborazionista dei nazisti.Laddove ci si mettono di traverso quei rompiscatole degli antifascisti la destra usa l’escamotage subdolo e peloso delle soluzioni “pacificatrici”. A Grosseto alla fine delle polemiche è saltata fuori via della Pacificazione: una strada a Almirante e una a Berlinguer. Con il melonismo le commissioni toponomastiche hanno un gran daffare. Perché si sa, la storia la (ri)disegnano anche le targhe sull’asfalto. A Lucca ci sono voluti mesi, e una vergogna nazionale, prima che la giunta ostaggio di una destra estrema rinunciasse alla pregiudiziale contro l’intitolazione di una strada a Sandro Pertini. L’altro giorno, festa della Liberazione, quegli stessi assessori neri sono usciti dai radar per 24 ore. La titolare FdI all’Istruzione Simona Testaferrata non ha partecipato a iniziative e come lei anche i consiglieri comunali del partito. Se le «radici non gelano» — cit. Isabella Rauti in ricordo del Msi fondato da fascisti e repubblichini — quelle della Repubblica chissene importa. «Il 25 aprile festeggio San Marco». A dare nuova linfa all’anti-antifascismo fu, nel 2021, con un cartello, una certa Rachele Mussolini. Idem Tommaso Foti, oggi capogruppo dei “patrioti” alla Camera. «Neanch’io festeggio il 25 aprile!», fece eco La Russa che nel 2020 propose di intitolare il 25 aprile ai «caduti di tutte le guerre» esortando a intonare la canzone del Piave. L’anno scorso, da presidente del Senato, ribadì: «La parola antifascismo non è in Costituzione». Quando non spara a palle incatenate la destra usa il fioretto delle mozioni. Strumentalizzando celebrazioni e doverosi ricordi. Prima in Friuli-Venezia Giulia e poi in Veneto FdI ha fatto approvare in consiglio regionale la sospensione di contributi a associazioni che «si macchiano di riduzionismo o negazionismo sulle foibe». Il nemico non dichiarato erano e sono la ricerca e la divulgazione sugli eccidi nazifascisti. «Sotto le insegne dell’Anpi si nascondo i crimini del comunismo», ringhiano i colonnelli veneti di Meloni. Di che stupirsi in fondo se, nel 2021, l’assessora regionale Elena Donazzan decide di celebrare la Liberazione alla foiba Buso de la Spaluga, sul monte Corno, dove furono uccisi 14 soldati nazisti. Lontani dal verdetto della storia, lontani dall’aula. Da poco il consiglio comunale di Vicenza ha reintrodotto dopo 8 anni la clausola antifascista per la concessione di aree e luoghi pubblici: i meloniani sono usciti dalla sala consigliare. C’erano tutti invece, il 20 agosto 2022, nel circolo FdI di Velletri inaugurato qualche anno prima dalla Lady M. Appeso al muro spicca il vessillo del Msi intitolato al gerarca Ettore Muti, segretario del PNF nel periodo delle leggi razziali. “L’uomo userà la velocità, non il contrario!” dicevano i futuristi. Velocemente, nel solco del “non restaurare non rinnegare”, era tornato persino Marcello De Angelis, ex terrorista di Terza Posizione, amico di Giorgia e autore del brano ‘Claretta e Ben’. Quando si sono accorti che era troppo l’hanno dovuto lasciare a casa. Per compensare l’album di famiglia un mese fa Lollobrigida ha assunto come portavoce Paolo Signorelli jr, nipote del cofondatore di Ordine Nuovo. E sì, la memoria ha i suoi tempi.


  Ora    Il 25 aprile è una festa. È la festa , o al,meno dovrebbe  essere  , di tutti gli italiani, festa della libertà e della democrazia.Libertà, democrazia, italiani: tre parole che non possono che essere patrimonio di tutti. Non ci si   dovrebbe  dividere nemmeno su una di queste parole che sono fondative della nostra Repubblica e della nostra Costituzione e che sono soprattutto fondative della nostra possibilità di essere quello che siamo oggi: donne e uomini liberi. Ecco perché mi auguro illudendomi  che questo 25 aprile
2024 non ammetta distinguo.Sappiamo bene che il clima politico nel quale stiamo vivendo non promette niente di buono ma a maggior ragione sarebbe importante che noi tutti, cittadini di questo Paese,
fossimo consapevoli del significato di questa data e cercassimo di onorarla senza se e senza ma. In una democrazia compiuta devono esserci valori non discutibili e condivisi: primo fra tutti, il ricordo di quel giorno che ha restituito dignità a un’Italia che aveva conosciuto la vergogna del fascismo, l’orrore della violenza e delle leggi razziali, che aveva scelto l’alleanza con i nazisti, che aveva patito la tragedia della guerra in cui il regime ci aveva trascinato.Il 25 aprile ci ha portato la libertà ma soprattutto ci ha regalato il futuro. Un dono prezioso, pagato col sangue di migliaia di innocenti e con quello di ragazze e ragazzi, in molti casi ragazzini, che hanno sacrificato la loro esistenza per il nostro futuro. Molti di loro quel giorno non hanno visto il sole che splendeva ma hanno dato la loro vita perché potessimo vederlo noi.Noi che oggi abbiamo il diritto e la possibilità di pensarla diversamente, di esprimere le nostre opinioni liberamente. Per questo la reticenza con cui alcune cariche pubbliche non riescono a esprimersi chiaramente sul fascismo, per non parlare di coloro che, pur avendo giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza, non riescono a definirsi antifascisti, è inammissibile.Sarebbe bello che potessimo ritrovarci tutti insieme nei valori che il 25 aprile rappresenta: sarebbe importante, sarebbe naturale perché la libertà è come l’aria che respiriamo. È la stessa per tutti.  

 ecco due  storie  ed  una bibliografia  se  pur   sommaria  e  in parte  capziosa    per  alcuni libri   prese   dal settimanale 

  • Oggi 
  • Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO G. PAVESI

  • A 11 anni, Gustavo Ottolenghi diventò un partigiano. Dormiva nei fienili, faceva la staffetta. I genitori l’avevano lasciato per salvarlo: «Ci vediamo a fine guerra». Non aveva nulla. Solo un appuntamento

    - Gustavo Ottolenghi che a 11 anni diventò partigiano di Fiamma Tinelli

    - Sandra Gilardelli che conserva ancora una rosa di Fiamma Tinelli

    - I libri: vedi alla voce Liberazione di Valeria Palumbo

    Mi dicevano: “Vai là, a piedi”. Ero una staffetta ma non lo sapevo, mi nascondevano i messaggi negli zoccoli — G. Ottolenghi

    Gustavo Ottolenghi aveva 11 anni quando si unì ai partigiani. Che nome di battaglia vuoi?, gli chiesero. E lui: «Robin. Come Robin Hood». Oggi, Ottolenghi di anni ne ha 92 e vive a Sanremo con la moglie, Maria Pia, in una casa che guarda il mare. Medico, nella vita ha fatto molto: è stato primario di Radiologia, ha partecipato alla guerra dei Sei giorni («Perché quella volta avevano ragione gli israeliani»), attraversato lo stretto di Bering con le spedizioni di Overland. «Ma senza la Resistenza, non
    sarei qui».

    Figlio di Raimondo, ebreo, e di Letizia, cattolica, con le leggi razziali suo padre perse il posto alla polizia municipale di Torino e Gustavo venne espulso da scuola. Era battezzato, ma bastava il cognome. Per sfuggire alle retate la famiglia si rifugiò nel Monferrato. A fatica, il padre aveva trovato lavoro nella ditta di un amico. Finché, nel 1944, quello gli disse: “Mi dispiace, a tenerti qui rischio troppo”. «Senza lavoro, coi repubblichini addosso, non sapevamo cosa fare. Così, una sera, mio padre convocò me e mia madre con aria grave. “Vi devo parlare”».

    Che cosa vi disse?

    «“Se stiamo insieme ci ammazzano, l’unica via è dividersi”. Aveva dei contatti coi partigiani dei dintorni, ci saremmo uniti a loro in tre luoghi diversi. Ci diede un appuntamento: “Se questa guerra finisce, ci vediamo sotto la statua del Duca d’Aosta in piazza Castello, a Torino”».

    E lei partì.

    «Mi affidarono a Guido e Sergio, due 20enni della brigata

    Cossolo. Ci nascondevamo nei fienili, si mangiava quel che c’era. Li seguivo dappertutto, come un cagnolino. Finché si resero conto che ero sveglio e cominciarono ad affidarmi dei compiti».

    Quali?

    «Dovevo far la guardia, in cima al campanile. “Se vedi camion tedeschi o fascisti corri giù e ci avverti”. Poi, cominciarono a mandarmi in giro per i paesi. Camminavo per chilometri con un paio di sabot di legno ai piedi. Ma non capivo il perché».

    Messaggi.

    «Esatto, facevo la staffetta e non lo sapevo. Avevano fatto un buchino nel tacco, ci infilavano dentro i biglietti. Arrivavo da tizio, da caio, e quelli mi dicevano: “Togliti gli zoccoli all’ingresso, che sono sporchi”. E poi mi davano la merenda in cucina, pane e formaggio. L’ho capito dopo, che intanto prendevano il pizzino e lo sostituivano con un altro».

    Aveva dovuto rinunciare alla scuola.

    «Mi davano una mano i partigiani laureati, chi m’insegnava geometria, chi grammatica. Quando arrivai all’età della terza media mi dissero: “Meglio che tu faccia l’esame, almeno un pezzo di carta ce l’hai”. Mi presentai a Torino, alla scuola Cavour, da privatista. Il preside che faceva l’appello quando arrivò al mio cognome lo pronunciò con la faccia scura: “Ottolenghi?!?”. Aveva capito che ero ebreo. D’un tratto mi sentii afferrare il braccio, un altro professore mi trascinò via. Prese un pezzo di carta, ci scrisse “Promosso” e mi disse: vattene, subito. Mi salvò la vita».

    Un antifascista.

    «La Resistenza era fatta anche da quelli che il mitra non ce l’avevano. Dai maestri, da chi preparava i documenti falsi, dalle donne di campagna».

    Finché la guerra finì, per davvero.

    «La mia brigata entrò a Torino che c’erano ancora i cecchini, la gente festeggiava, ballava, cantava. La prima notte dormimmo nella caserma Cernaia, un

    carrarmato tedesco nel cortile. Poi, i partigiani cominciarono a tornarsene a casa loro. Guido e Sergio mi dissero: “Sei vivo, sei libero, vai”. Ma vai dove? Io non avevo più famiglia. Solo un appuntamento».

    La statua in piazza Castello.

    «Corsi lì e aspettai mamma e papà tutto il giorno, seduto sul basamento. Guardavo, guardavo, non venne nessuno. Il giorno dopo, uguale. Cercavo i loro visi tra la gente, vedevo solo sconosciuti. “Sono morti”, pensai. Avevo 13 anni, ero un ragazzino. Ed ero solo».

    Eppure, tornò.

    «Non sapevo cos’altro fare. Il terzo giorno, vedo una donna sbucare da via Po. I capelli erano cambiati ma gli occhi, gli occhi erano i suoi. Era mamma. Non la vedevo da un anno e mezzo, quell’abbraccio lì non lo dimenticherò mai. Il giorno dopo ci mettemmo ad aspettare di nuovo, insieme. Eravamo preoccupati, di mio padre nessuna notizia. Finché sentimmo una voce da dietro: “Gustavo, Letizia!”. Era lui. Era vivo. Era con noi. Aveva lavorato per il Cln a Torino, aiutato i partigiani».

    Il 25 aprile è la vostra festa.

    «È la festa di tutti, anche se qualcuno al governo vorrebbe tanto che non se ne parlasse più. Ha mai sentito dire a La Russa: “Sono antifascista”? Io no. Quando sento che il ministro dell’Istruzione vorrebbe classi di soli italiani lo sa a cosa penso? A quando hanno mandato via me, a quando ero un indesiderato. E poi le frasi, la retorica… Il premierato caldeggiato da Meloni cos’è, se non la nuova versione di uno solo al comando? Se andiamo avanti così tra dieci anni il 25 aprile sarà una data come un’altra».

    Si rischia di perdere la memoria.

    «Io continuo a raccontare, lo farò finché campo. Lo ripeto sempre, ai ragazzi: la libertà non è un regalo. È una conquista».






    CONSERVO ANCORA QUELLA ROSA

    «Mi chiesero: cosa sei disposta a fare? E io: tutto». A 17 anni, Sandra Gilardelli è entrata nella Resistenza. In guerra ha trafugato farmaci, rischiato la vita. E incontrato un uomo con gli occhi buoni

    Sotto elezioni, Sandra Gilardelli al mercato è meglio che non ci vada. «Sennò attacco briga, che io se vedo un fascista ancora gliene canto quattro. Non mi facevano paura a 18 anni, si figuri adesso». A 99 anni, la partigiana della brigata Cesare Battisti non è stanca di raccontare la sua battaglia. Partecipa agli incontri nelle scuole, riceve i ragazzi. «Tutto quel che serve per ricordare la Resistenza, io lo faccio. E per favore non darmi del lei, non mi piace. Io sono solo Sandra». Seduta nella poltrona rossa della sua casa di Milano, apre una scatola di cartone con cautela. Dentro c’è un bocciolo di rosa, secco. Ha quasi 80 anni. «Me lo diedero il 25 aprile, in piazza. Per festeggiare», dice, mentre lo sfiora leggera.

    Antifascista, Sandra, non lo è diventata. Lo è sempre stata. Fin da quando, bambina, vedeva suo padre Antonio irritarsi di fronte ai discorsi del Duce. «Scuoteva la testa e mi diceva: “Questa è una dittatura, e il regime ci toglie la cosa più importante che c’è, la libertà. Ricordatelo sempre”». Mai indossato una divisa da Piccola italiana: pur di non mandarla alle riunioni, i suoi genitori, d’accordo col medico, la davano malata. Una volta il mal di testa, un’altra il mal di pancia. Quando scoppiò la guerra, Sandra frequentava la quarta ginnasio al liceo classico Parini, «un covo di antifascisti». Le bombe su Milano dell’ottobre del 1942 se le ricorda bene: gli inglesi avevano lanciato ordigni incendiari al fosforo e lei, che era sola in casa, si fece a piedi mezza città con le scarpe che bruciavano. «In piazza Cavour, dove era stato colpito un palazzo, vidi la gente che si gettava dai balconi per sfuggire alle fiamme. Non lo dimenticherò mai». Finché la sua famiglia decide di sfollare, prima a Gorgonzola, poi nel Verbano, a Pian Nava: una manciata di case, una piazza, un albergo. È lì, che a Sandra è cambiata la vita.

    Per essere fascista mica serve fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso se ne deve andare Sandra Gilardelli «Sapevo che in montagna c’erano dei ragazzi che combattevano contro i fascisti. Un giorno ne vidi due seduti in piazza, giovanissimi. Mi avvicinai facendo la timida - anche se timida non ero - e chiesi: “Siete partigiani? Io vorrei dare una mano”. Mi squadrarono dalla testa ai piedi, sospettosi. “Fatti trovare domattina presto a Premeno”». Quando lo racconta al padre, lui le dice solo: «Vai».

    Sandra ha 17 anni, una cascata di ricci, l’aria ingenua. Al comando, i partigiani le fanno un mezzo interrogatorio. Chi sei, cosa sei disposta a fare? «Tutto». Decidono di metterla alla prova. «Abbiamo molti feriti, mancano bende, Streptosil. Ruba, inventati qualcosa». Sandra ci pensa su tutta la notte. Siamo in guerra, non si trova nulla. L’indomani, le viene un’idea. Mette tutte le donne di casa al lavoro: tagliano le lenzuola per farne delle strisce, le fanno bollire per sterilizzarle. Le bende ci sono. Recuperare il disinfettante, è un’altra storia. «Girai tutte le farmacie del Verbano, trovai solo un paio di confezioni, troppo poco. Poi, mi venne in mente che lo zio di mia cognata era un chimico. “Puoi produrcelo tu?”. “Certo”. Ci si aiutava, tutti».

    Una sera di febbraio, l’ufficiale medico la fa chiamare d’urgenza. C’è il partigiano Sasha ferito, bisogna operare subito e serve che Sandra dia una mano («Io, che non mi ero mai messa neanche un cerotto»). Appuntamento la mattina dopo alle 7, nel bosco, l’unico posto sicuro. Sasha urla dal dolore, ma di anestetizzante non ce n’è. «Vado a bussare alle case vicine, cerco qualcosa, finché la signora Angioletta mi fa: “Io in casa ho solo il Vov...”. L’abbiamo operato così, con me che gli facevo tranguigiare il liquore e il medico che cuciva».

    Il passo successivo è fare la staffetta. I combattenti le affidano messaggi sensibili, roba che se ti scoprono i fascisti mettono al muro te e tutta la brigata. E durante una delle sue missioni, per la prima volta, ha paura. «Viaggiavo in tram con un’amica, due ragazze che chiacchierano si fanno notare meno di una sola. All’improvviso sale un gruppo di soldati. “Perquisizione!” gridano, e cominciano a strappare le borse di mano, a far svuotare le tasche. Io faccio appena in tempo a sfilare il biglietto che dovevo consegnare, una richiesta dei medici del CLN, e lo tengo in mano, sollevato come fosse un

    Sasha era ferito, lo operammo nel bosco. Per sedare il dolore gli facevo bere il Vov

    — Sandra Gilardelli

    fiore. In bella vista, immobile. Finché quelli mi restituiscono la borsa: “Può andare”. Non lo so che cosa m’è passato per la testa, ma ha funzionato». Un giorno del 1944, la ragazza si affaccia alla finestra di casa e sobbalza: appoggiato al cancello, c’è un nazista che fuma una sigaretta. «Stavo per dare l’allarme quando vedo due partigiani mettersi a parlare con lui. Non capivo…».

    L’uomo travestito da SS è “Mosca”, alias Michele Fiore, la primula rossa dei combattenti. La divisa nemica, la usa per infiltrarsi. «Ne avevo tanto sentito parlare, ma non l’avevo visto mai». Giorni dopo, mentre Sandra sta andando a comprare il pane giù in paese, Mosca la blocca: «Dove vai? Di te non mi fido, e se poi avverti i fascisti che sono qui?». Lei lo guarda, stupita. «E però sorrideva, aveva gli occhi buoni... È stato in quel momento che mi sono innamorata di lui». Si sposeranno subito dopo la guerra, avranno una figlia, Michela. «Siamo stati insieme 65 anni, una vita intera», dice Sandra. E intanto, si commuove.

    Se le parli di coraggio, fa spallucce: «Incoscienza, forse». E poi, ci tiene a dirlo, «a combattere i fascisti eravamo in tanti». Le donne, non solo le partigiane, hanno fatto più di quanto si sappia, più di quanto venga loro riconosciuto. In silenzio. «Le contadine che nascondevano i combattenti nel fienile, mia madre e mia zia che sventravano i materassi di lana per fare i calzettoni per i ragazzi, su in montagna. Di loro non si parla mai».

    La libertà, spiega Sandra, è per questa che combattevamo. È per questa che lei ancora racconta. «Perché per essere fascista non c’è mica bisogno di fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso non ha diritti, che chi è di un altro colore deve tornarsene a casa sua. Sei fascista lo stesso».



    Infatti  

    il fantasma del fascismo che continua a premere, anche nel 2024. Solo affrontando il passato possiamo capire perché il governo di Giorgia Meloni ha risvegliato gli istinti peggiori del nostro Paese. Nella settimana del 25 aprile, una puntata speciale di Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?




     ispirata da "Il ritorno della Bestia. Come questo governo ha risvegliato il peggio dell'Italia" (Rizzoli), di Paolo Berizzi.
     





    io aggiungo   due  anzi  tre    molto  obbiettivi     che    denunciano  le  stesse cose  di Pansa   ma  verificandole  e senza  scadere  nè  nel negazionismo    nè nell'esaltarla   . 












    7.6.23

    Quelle "signorine per bene che giocavano a calcio" e sfidarono il duce: la prima squadra di football femminile



    da  https://cultura.tiscali.it/storie/articoli/


    Nasceva novant'anni fa a Milano. Libri, articoli e uno spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che sta girando l'Italia raccontano la vicenda del Gruppo Femminile Calcistico milanese

                                         di    Francesca Mulas


    “Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnasstico lo sport del calcio”. Così la giovane milanese Losanna Stringaro difendeva novant'anni fa, sulle pagine del quotidiano Il Littorio, il suo Gruppo Femminile Calciatrici, la prima squadra di calcio femminile nata in Italia. L'esperimento, come lo chiamarono le stesse fondatrici, durò poco meno di un anno ma rivoluzionò per sempre la visione dello sport italiano e fu una preziosa prova di coraggio e libertà nel tempo in cui il fascismo imponeva la sua visione autoritaria e oppressiva sulle donne.





    La storia, ancora poco nota, è stata ben raccontata dalla giornalista Federica Seneghini che tre anni fa ha dato alle stampe per le edizioni Solferino "Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce", un saggio che ripercorre la vicenda di Rosetta, Giovanna, Marta, Elena e le altre donne coraggiose che, appassionate di calcio, scelsero di dare vita a una squadra tutta al femminile sfidando i pregiudizi e gli stereotipi che volevano le donne chiuse in casa mentre gli uomini si occupavano di politica, cultura, lavoro e sport.

     Oggi quello stesso incredibile coraggio è al centro di "Le fuorigioco", spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che racconta la storia del GFC, il Gruppo Femminile Calcistico milanese nato tra il 1932 e il 1933; lo spettacolo, che da mesi sta girando il Paese, andrà in scena il prossimo 23 giugno a Sestu, provincia di Cagliari, per il festival “Storie di donne, donne e la storia”.



                                     L'attore Michele Vargiu nello spettacolo "Le fuorigioco"

    Era l'autunno del 1932 quando un gruppo di ragazze fondò la squadra per sole donne. Nonostante allora questo sport fosse roba da uomini, le intenzioni delle giovani erano serissime: crearono un programma con regole ben precise e lo inviarono a tutti i giornali perché lo pubblicassero, con l'obiettivo di cercare altre donne interessate a entrare in squadra. Il gioco era diverso da quello maschile: le partite erano divise in due tempi da 15 minuti l'uno, si calciava rasoterra e il pallone era "poco più grande di una palla di gomma, di quelle con cui giocano i bambini". Insieme alla nota stampa le "tifosine", come loro stesse si chiamavano, allegarono anche una foto di gruppo realizzata in uno studio fotografico.
    Il 26 marzo 1933, davanti a un pubblico di parenti e amiche, ci fu il primo allenamento della squadra, mentre a fine maggio il giornale "Il Calcio Illustrato", l'unico che prese sul serio l'idea e diede spazio alle notizie del GFC, dedicò un'ampio spazio a interviste, commenti, opinioni intitolato "Un'ora con le calciatrici milanesi". Il giornalista notò un gioco piuttosto lento, scarsa abilità e parecchia inesperienza, tuttavia il suo era un punto di vista finalmente serio a fronte di tanti commentatori sarcastici, e sottolineava "poca agilità in corsa, cadute che erano dei crolli, assenza di dribbling, abuso del colpo di punta al pallone, pochissimi i colpi di testa e gli shoots" nel gioco delle ragazze, come riporta lo studioso Marco Giani nell'articolo "'Amo moltissimo il giuoco del calcio'. Storia e retorica del primo esperimento di calcio femminile in Italia" pubblicato nella rivista La Camera Blu del 2017. "Costituiamo una famiglia sempre in aumento, ci vogliamo bene, e continueremo", così Losanna Stringaro al giornalista de Il Calcio illustrato.



    Arrivava nel frattempo l'autorizzazione al gioco da parte di Leandro Arpinati, che in quei mesi presiedeva il Coni e la Figc, a patto però che le ragazze giocassero a porte chiuse; le calciatrici furono costrette a chiedere un certificato medico a Nicola Pende, direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova, allora considerato tra i medici più autorevoli dal fascismo, che diede il suo consenso: "Io credo che dal lato medico - scrisse - nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile. Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto e con moderazione!".
    Conquistato il sì dalle autorità politiche e sanitarie, non restava alle ragazze che giocare: la prima partita ufficiale si disputò l'11 giugno 1933 nel campo milanese Paolo Filzi tra le milanesi "G.S. Ambrosiano" e il "G.S, Cinzano" che conquistò la vittoria con una rete a zero su gol di Mina Bolzoni; sugli spalti, un migliaio di persone. Pochi mesi dopo Leandro Arpinati lasciò la presidenza del Coni e il suo posto venne occupato da Achille Starace, gerarca fascista e uomo meno incline alle sperimentazioni rispetto al suo predecessore, che impose la fine del Gfc suggerendo altri sport "più consoni" al genere femminile.
    L'esperienza di Elena Cappella, la più piccola della squadra ad appena 14 anni, Giovanna, Gina, Rosetta e Marta Boccalini, Losanna Stringaro, Brunilde Amodeo, Maria Lucchese e le altre giovani coraggiose si concluse così. Se le partite erano terminate restava invece eterno l'esempio del gruppo di coraggiose che scelsero di rompere gli stereotipi e mostrare al Paese che le donne potevano liberarsi dal ruolo di angeli del focolare e cercare divertimento e libertà in un campo sportivo. A queste donne pochi anni fa il Comune di Milano ha intitolato una strada nella zona di Parco Sempione.

    Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

       Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto al  centro    )  considerato il primo tatuat...