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7.6.23

Quelle "signorine per bene che giocavano a calcio" e sfidarono il duce: la prima squadra di football femminile



da  https://cultura.tiscali.it/storie/articoli/


Nasceva novant'anni fa a Milano. Libri, articoli e uno spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che sta girando l'Italia raccontano la vicenda del Gruppo Femminile Calcistico milanese

                                     di    Francesca Mulas


“Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnasstico lo sport del calcio”. Così la giovane milanese Losanna Stringaro difendeva novant'anni fa, sulle pagine del quotidiano Il Littorio, il suo Gruppo Femminile Calciatrici, la prima squadra di calcio femminile nata in Italia. L'esperimento, come lo chiamarono le stesse fondatrici, durò poco meno di un anno ma rivoluzionò per sempre la visione dello sport italiano e fu una preziosa prova di coraggio e libertà nel tempo in cui il fascismo imponeva la sua visione autoritaria e oppressiva sulle donne.





La storia, ancora poco nota, è stata ben raccontata dalla giornalista Federica Seneghini che tre anni fa ha dato alle stampe per le edizioni Solferino "Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce", un saggio che ripercorre la vicenda di Rosetta, Giovanna, Marta, Elena e le altre donne coraggiose che, appassionate di calcio, scelsero di dare vita a una squadra tutta al femminile sfidando i pregiudizi e gli stereotipi che volevano le donne chiuse in casa mentre gli uomini si occupavano di politica, cultura, lavoro e sport.

 Oggi quello stesso incredibile coraggio è al centro di "Le fuorigioco", spettacolo teatrale prodotto dalle compagnie Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga per la regia di Laura Garau scritto e interpretato da Michele Vargiu che racconta la storia del GFC, il Gruppo Femminile Calcistico milanese nato tra il 1932 e il 1933; lo spettacolo, che da mesi sta girando il Paese, andrà in scena il prossimo 23 giugno a Sestu, provincia di Cagliari, per il festival “Storie di donne, donne e la storia”.



                                 L'attore Michele Vargiu nello spettacolo "Le fuorigioco"

Era l'autunno del 1932 quando un gruppo di ragazze fondò la squadra per sole donne. Nonostante allora questo sport fosse roba da uomini, le intenzioni delle giovani erano serissime: crearono un programma con regole ben precise e lo inviarono a tutti i giornali perché lo pubblicassero, con l'obiettivo di cercare altre donne interessate a entrare in squadra. Il gioco era diverso da quello maschile: le partite erano divise in due tempi da 15 minuti l'uno, si calciava rasoterra e il pallone era "poco più grande di una palla di gomma, di quelle con cui giocano i bambini". Insieme alla nota stampa le "tifosine", come loro stesse si chiamavano, allegarono anche una foto di gruppo realizzata in uno studio fotografico.
Il 26 marzo 1933, davanti a un pubblico di parenti e amiche, ci fu il primo allenamento della squadra, mentre a fine maggio il giornale "Il Calcio Illustrato", l'unico che prese sul serio l'idea e diede spazio alle notizie del GFC, dedicò un'ampio spazio a interviste, commenti, opinioni intitolato "Un'ora con le calciatrici milanesi". Il giornalista notò un gioco piuttosto lento, scarsa abilità e parecchia inesperienza, tuttavia il suo era un punto di vista finalmente serio a fronte di tanti commentatori sarcastici, e sottolineava "poca agilità in corsa, cadute che erano dei crolli, assenza di dribbling, abuso del colpo di punta al pallone, pochissimi i colpi di testa e gli shoots" nel gioco delle ragazze, come riporta lo studioso Marco Giani nell'articolo "'Amo moltissimo il giuoco del calcio'. Storia e retorica del primo esperimento di calcio femminile in Italia" pubblicato nella rivista La Camera Blu del 2017. "Costituiamo una famiglia sempre in aumento, ci vogliamo bene, e continueremo", così Losanna Stringaro al giornalista de Il Calcio illustrato.



Arrivava nel frattempo l'autorizzazione al gioco da parte di Leandro Arpinati, che in quei mesi presiedeva il Coni e la Figc, a patto però che le ragazze giocassero a porte chiuse; le calciatrici furono costrette a chiedere un certificato medico a Nicola Pende, direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova, allora considerato tra i medici più autorevoli dal fascismo, che diede il suo consenso: "Io credo che dal lato medico - scrisse - nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile. Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto e con moderazione!".
Conquistato il sì dalle autorità politiche e sanitarie, non restava alle ragazze che giocare: la prima partita ufficiale si disputò l'11 giugno 1933 nel campo milanese Paolo Filzi tra le milanesi "G.S. Ambrosiano" e il "G.S, Cinzano" che conquistò la vittoria con una rete a zero su gol di Mina Bolzoni; sugli spalti, un migliaio di persone. Pochi mesi dopo Leandro Arpinati lasciò la presidenza del Coni e il suo posto venne occupato da Achille Starace, gerarca fascista e uomo meno incline alle sperimentazioni rispetto al suo predecessore, che impose la fine del Gfc suggerendo altri sport "più consoni" al genere femminile.
L'esperienza di Elena Cappella, la più piccola della squadra ad appena 14 anni, Giovanna, Gina, Rosetta e Marta Boccalini, Losanna Stringaro, Brunilde Amodeo, Maria Lucchese e le altre giovani coraggiose si concluse così. Se le partite erano terminate restava invece eterno l'esempio del gruppo di coraggiose che scelsero di rompere gli stereotipi e mostrare al Paese che le donne potevano liberarsi dal ruolo di angeli del focolare e cercare divertimento e libertà in un campo sportivo. A queste donne pochi anni fa il Comune di Milano ha intitolato una strada nella zona di Parco Sempione.

17.3.23

Un viandante sulle tracce dell'Altrove. Giuseppe Scano intervista il Prof. Cristian A. Porcino Ferrara



 1) Questo altrove è diverso dal precedente oppure è la continuità d’esso ?


«Sicuramente ti riferisci al mio libro precedente "Altro e Altrove" uscito nel 2018, ma la mia ricerca della Verità è quotidiana e costante. Sono sempre proiettato in quell'altrove che fa parte della mia vita. Esiste ovviamente un filo conduttore che lega i miei lavori ma "Sulle tracce dell'altrove" indaga nella mia vita con spietata sincerità e imparzialità. Non lo avevo mai fatto prima per paura delle conseguenze emotive e alla fine ho vinto le mie insicurezze»



2) Dici che il parlare non è comunicare allora cosa sarebbe? Se ho ben capito stai rifiutando e mandando a ramengo la cultura orale ?



«Parlare non vuol sempre dire veicolare contenuti di valore. Ci trinceriamo dietro parole vuote che sono lo specchio delle nostre effimere esistenze. Nella nostra società non c'è più spazio per i sentimenti e le emozioni. Il virtuale ha preso nettamente il sopravvento sul reale. Purtroppo continuiamo a ripetere parole trite e ritrite che non hanno più un vero significato. Siamo arrivati all'assassinio linguistico della Parola. L'idea di condivisione è solo un modo per acchiappare like e follower. In questa pratica riscontro la negazione del concetto di condivisione. 

Le parole sono importanti ma le abbiamo talmente svilite che fatichiamo a comprenderle davvero»



3) Oltre a Battiato e Sgalambro e agli altri riferimenti ce ne sono altri/e che ti hanno spronato per il tuo coming out ?



«Non sono stato spinto da nessuno. Come ha ben scritto Ferzan Özpetek: “E quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada”. È andata proprio così. Ho deciso innanzitutto di raccontare la mia storia per aiutare coloro i quali vivono il proprio orientamento sentimentale con difficoltà. Volevo semplicemente essere d'aiuto ma per farlo dovevo raccontarmi senza infingimenti. Per essere credibile devi essere trasparente e non ricattabile.»



4) Rifiuti la religione considerandola come arma di distrazione di massa o oppio dei popoli ma poi citi esponenti delle religioni /fedi  diverse... non è una contraddizione? Forse sei come Battiato spirituale.



«L'unica contraddizione che noto è confondere la religiosità con la spiritualità. Come ben sai il discorso è spiegato nel libro in modo dettagliato. Chi legge "Sulle tracce dell'altrove" comprende le mie riflessioni e di conseguenza preferisco non aggiungere nulla. Per quanto riguarda Franco Battiato io eviterei le etichette. Lui era un essere speciale e non si può definire in alcun modo»



 5) Per chi muove i primi passi critici ed autocritici verso la fede /religione imposta  dalla società e dalle convenzioni puoi spiegare se c'è la differenza tra religione e spiritualità ?



«La spiritualità appartiene ad ogni essere umano mentre la religione è un percorso specifico che gli individui percorrono e in cui scelgono di credere. Spiritualità non è sinonimo di religiosità. Battiato ha scritto una canzone su quest'argomento e si chiama "I'm that". Io non posso fornire alcun consiglio in campo religioso. A me il cattolicesimo ha fatto molto male mentre a qualcun altro potrà invece essere d'aiuto. Io ho raccontato solo la mia esperienza e nulla più. Per tale motivo invito le persone interessate a leggere il libro per capire il percorso tracciato. A tal proposito Margherita Hack sosteneva che: "Le leggi morali non ce le ha date Dio, ma non per questo sono meno importanti. Questa dovrebbe essere l'etica dominante, senza aspettarsi una ricompensa nell'aldilà. Senza leggi etiche ci sarebbe il branco e non la società. E andrebbero insegnati valori comuni a credenti e non, il perdono, non fare del male agli altri, la solidarietà. Ma, soprattutto, bisognerebbe imparare a dubitare, a diventare scettici»



6) Dov’è il tuo  altrove



«Il mio altrove è ovunque e al contempo da nessuna parte. Si trova oltre l'arcobaleno e oltre gli steccati ideologici che ci rendono così superficiali. Sono così stanco di definirmi e definire che preferisco di gran lunga esistere e indagare altre piste. Sono un viandante sul sentiero dell'altrove»



7) Quali scenari di felicità e possibilità creative possono aprirsi quando smettiamo di aspirare a una crescita infinita su un pianeta finito e iniziamo invece a crescere come persone, comunità e noi stessi natura che vive ?



«Nel libro rifletto sul nostro egoismo e sui vari meccanismi che ci portano a disumanizzarci. Il libro si apre proprio con una riflessione sulla nostra infelicità. Siamo soggetti dediti all'apparenza e alla disarmonia. Rifiutiamo il concetto di parentela universale ma condividiamo un destino unico di fratellanza e sorellanza senza nessun tipo di distinzione. Fino a quando continueremo a violentare la natura con il nostro forsennato egoismo non ci potrà mai essere uno scenario felice per tutti noi.»



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20.8.21

LA TRANSESSUALITÀ NON È UN PRANZO PER GENDERQUEER di ©® Daniela Tuscano

 


Neviana Calzolari, sociologa, attivista, scrittrice e volto tv. Eppure ben poco mainstream, anzi, fra le osservatrici più acute (e critiche) del panorama politico-sociale dei nostri tempi. Una voce autorevole anche riguardo al ddl Zan, che rifugge da semplificazioni manichee e opposti ideologismi. Voce che sa accompagnare e da cui traspare una forte attitudine educativa. Voce della quale si sente il bisogno. gruppo Il gruppo I-Dee di Milano e l’associazione Ipazia di Catania l’hanno incontrata.
– Questo ddl è stato pensato per combattere l’omotransfobia, quindi con buone intenzioni – esordisce Neviana –, ciò nonostante rimango scettica su certa terminologia, in particolare sull’”identità di genere” che allarma buona parte del mondo femminista e – ormai nessuno lo nega più – anche moltissimi intellettuali di area progressista. Sembra paradossale dirlo, ma io, in
quanto donna transessuale, non mi sento rappresentata. Fra le “categorie” elencate nell’articolo 1 le persone transessuali infatti non compaiono. Come collocarle? Nel genere o nel sesso? Per i promotori della legge si tratta di distinzioni inutili, poiché la transessualità verrebbe compresa nel più ampio cappello dell’identità di genere. Ma è una motivazione semplicistica e fuorviante: la transessualità, occorre ricordarlo, non riguarda il percepito, bensì i corpi, e nemmeno si possono assimilare donne e uomini alla nascita a persone che hanno completato il percorso di transizione, come se la differenza tra i loro vissuti fosse inesistente.
I-DEE/IPAZIA – Ma sottolineare questa differenza non comporta una discriminazione?
NEVIANA – Discriminare significa, appunto, fare la differenza. Dipende poi come la si intende: se come disparità di trattamento, pregiudizio… o, invece, come presa d’atto d’una realtà. Ovviamente è quest’ultima a interessarmi. Sesso biologico e sesso anagrafico non sono costruzioni identitarie fittizie. L’identità sessuale concerne sia la biologia, sia il vissuto dei singoli. La sovrapposizione confusiva tra sesso e genere, che il ddl innesta in chiave antifemminista, si sperimenta nei consultori pubblici (spesso promossi dalle stesse associazioni trans), dove viene incoraggiata un’adesione quasi caricaturale agli stereotipi di genere. L’ideologia di genere, comunemente sbandierata come il nuovo che avanza, riecheggia i luoghi comuni più stantii riguardo a femminilità e mascolinità. Che cosa ci identifica come donne: il trucco? I tacchi? Gli abiti? Il luogo dove ci si “traveste” (a me è stato chiesto anche questo…)? Il comportamento? Devo dimostrarmi sufficientemente carina, accogliente, premurosa per venir considerata donna a tutti gli effetti? Mi rendo conto delle difficoltà nel formulare talune valutazioni, ma proprio per questo il centrosinistra necessiterebbe d’un pensiero politico organico sul tema, oggi del tutto assente.
– Perché parli di antifemminismo?
– Perché le persone T vengono spinte ad aderire a una polarizzazione rispetto alle istanze del movimento femminista, il quale, al contrario, da sempre si batte per l’eliminazione degli stereotipi di genere. Senza dimenticare che, negli ultimi anni, gli assessorati di centrosinistra hanno finanziato indifferentemente tanto le associazioni femministe storiche, come l’Udi o la Casa delle Donne, quanto attività come Arcigay che muovevano da esigenze diverse e in alcuni casi opposte a quelle del femminismo stesso. Ho parlato di antifemminismo, ma dovrei aggiungere transfobia; riflettiamo: cosa c’è di più transfobico di una donna T incoraggiata a comportarsi come una bambolina o di un uomo T costretto a recitare la parte del bullo?…
– Ma le persone T non potrebbero ribellarsi a questi condizionamenti?
– Non è facile, perché la rinuncia comporterebbe ai loro occhi la completa emarginazione sociale e molti problemi nei consultori. La maggior parte delle persone T puntella il senso di sicurezza nel costruire la propria identità a partire dagli aspetti più appariscenti e superficiali. Al contrario del messaggio glamour veicolato dai media, il percorso di transizione è profondamente drammatico. Cambiare la propria identità sessuale significa addentrarsi in una “terra di nessuno” dove abbandoni il sesso di nascita senza poterti appoggiare del tutto a quello d’elezione. La maggior parte delle persone T non riesce ad accettare che resti comunque una differenza – un discrimine per tornare al discorso precedente – fra la propria esperienza umana e quella di chi nasce e si identifica col sesso biologico. Ecco perché contesto le banalizzazioni insite nel ddl: non bisogna mai rimuovere questi vissuti così complessi anche perché le persone T sono vittime di odio e violenze proprio in base alla loro storia e non a prescindere da essa. Se anziché attaccarsi ossessivamente agli stereotipi o insistere sull’approvazione sociale ci si concentrasse su di sé e sul fatto di essere orgogliosi del proprio cammino si vivrebbe sicuramente meglio. Certo in modo più adulto e maturo, perché la transessualità non implica solo sofferenza ma anche gioia, fierezza, serenità.
– Negli ultimi anni, specialmente dopo lo scalpore suscitato da alcuni episodi di cronaca, assistiamo a un aumento d’interesse degli uomini verso le donne T, quasi che ricerchino in esse non solo il “proibito”, ma anche quella femminilità passiva, asservita ai desideri del maschio, cui le donne biologiche non sono più disposte a sottostare. Certe trans “mediatiche” non perdono occasione di ripetere che loro “sono più donne” di tutte…
– Non solo. Le donne T più ossessionate dalla differenza arrivano a simulare le mestruazioni, sporcano gli assorbenti con sangue finto e vivono nel terrore che il partner scopra la loro transessualità. Nessuno osa parlarne perché collide con la narrazione edulcorata diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, invece le trans dovrebbero riconoscere, e combattere, questo vissuto omertoso e profondamente menzognero. Quanto all’interesse, o meglio all’attrazione, di taluni uomini nei loro confronti… beh, non fa che confermare quanto detto. Non interessano le persone reali, ma soltanto il loro presunto lato oscuro, tabù. Sono viste come “monstrum”, non come esseri umani da conoscere e amare. Si tratta di un’attrazione del tutto morbosa, perversa, patologica.
– Non denota pure lo smarrimento maschile, la sua incapacità di accettare l’emancipazione della donna? Ricercano le trans perché con la loro adesione, talora esasperata, ai modelli di sottomissione rappresentano l’antitesi del femminismo.
– Senza dubbio. Per questo, invece d’insistere sull’identità di genere, le donne T e le donne biologiche dovrebbero esaltare le loro rispettive diversità, farne un punto di forza per contrastare il maschilismo di cui entrambe sono vittime. Anche una donna alla nascita non corrisponde quasi mai ai luoghi comuni impostile dalla società e “costruisce” sé stessa indipendentemente dalle aspettative dominanti. È un’occasione da non lasciarsi sfuggire.
– In un precedente incontro hai sottolineato l’importanza del fattore educativo…
– Non è esattamente così. Rispondevo a una domanda precisa a proposito della giornata contro l’omolesbotransfobia e le eventuali applicazioni in ambito scolastico. Io non ho alcuna formula da proporre, anzi, me ne guardo bene! Occorre certo una educazione al rispetto umano, ma in senso ontologico e in tutti i campi. Penso alla presenza sempre più invasiva della pornografia, che ormai non risparmia nessuna fascia d’età. Ecco, in questo caso si renderebbe necessaria un’alleanza tra scuole e famiglie per prevenire un fenomeno che, sia rivolto verso etero sia verso persone omosessuali o trans, rappresenta la forma più banalizzante e schiavistica della sessualità. Una cosa è sicura, non andrei a parlare della mia esperienza nelle scuole inferiori. I ragazzi più grandi possono in qualche frangente accedervi, ma i piccoli vanno aiutati a comprendere a partire dalla loro esperienza, non da quella di adulti spesso alle prese, essi stessi, con un vissuto complesso e non del tutto risolto.
Daniela Tuscano

6.4.21

intervista a Natalie Belli della barberia Belli's Barber Parlour di Olbia

 Incuriosito come sempre   dalle storie  che  leggo  o sento   cerco  d'intervistare   i protagonisti . E' questo  è uno dei casi  . Avevo già parlato   di Natalie  belli  

 

nel precedente  post   :  « A Olbia la sfida di Natalie Belli, 22 anni: la sua barberia apre nel cuore della città. «Un vero salotto “vittoriano” all’insegna dell’esclusività e della sicurezza »  Ma  incuriosito  di  come  ( non  sono sessista o  di mentalità chiusa è  che mi fa  uno strano  effetto  a  alo stesso tempo  m'incuriosisce    vedere  una  donna   che  si occupa   di barba e pettinature  maschili )  il fatto   anche  se  : <<  ci sono tante donne che si dedicano al mondo della barberia da anni. Eventuali diffidenze rappresentano casi sporadici. >> che   ci  siano ancora  delle diffidenze    e   dei  borbottii quando una  donna fa  l'attività  del barbiere  . Ebbene  da  questo   è nato  il post  intervista     con Natalie 


visto  che  sei a Sant’Elia Fiumerapido (in provincia di Frosinone), paese di suo padre Leonardo, hai scelto di traferirti  qui ad  Olbia da circa un anno, anche   vissuto soprattutto a Londra, dove ti è formata,  e  qui iniziare  la  tua  attività ?
Ho deciso di aprire la mia attività ad Olbia dopo essermi trasferita qui l'anno scorso perché mi sono innamorata della Sardegna
visto  che   come nome  del   locale hai scelto   la parola “Parlour” proprio come   si chiamava il salotto dell’epoca vittoriana, dove ci si riuniva per chiacchierare. Ed è  << proprio quello che voglio creare qui: il cliente deve sentirsi in un salotto, in un luogo esclusivo dove può anche leggere un libro (in italiano o in inglese), come Madame de Pompadour>>  sarà aperto   a  tutti\e o  solo ad  una  clientela selezionata  ?   
La barberia è aperta a tutti.    
 come   mai  ha  scelto di dì fare la barbiera    e non la  parrucchiera  ?

Ho fatto l'accademia per acconciatori in Italia e mi sono diplomata per poi specializzarmi come barbiera a Londra. Dall'inizio della mia formazione mi ha affascinato il mondo della barberia che non solo cura i capelli ma anche la barba per esempio mi piace fare la barba tradizionale con rasoio ed asciugamani caldi. 
Di solito  , a  livello   europeo è una  cosa  ormai normalissima . E ora  anche in Italia   (anche  se  con un po  difficoltà  per tabù maschilisti al limite del sessismo  )  sta prendendo  piede  vedi il portale http://www.gruppolabarbiera.it/ . pensi  che  ci  sia  un cambiamento    della vecchia mentalità parrucchiere  =  per donna   , barbiere = per  uomo  ,  confermi  oppure    si trattano  di casi isolati  e  sporadici ed  la strada  è  ancora  lunga  ?
Dalle mie ricerche ho visto che ci sono tante donne che si dedicano al mondo della barberia da anni. Eventuali diffidenze rappresentano casi sporadici. 
reazioni da parte della clientela ?
Ho ricevuto tante congratulazioni per l'iniziativa ed anche complimenti per lo stile e l'arredamento del salone.solo  uomini  o anche  donne  fra  i clienti  ?     Clientela maschile. ovviamente siccome è una barberia la clientela sarà prettamente maschile ma se una donna vorrà mai un taglio corto da barbiere potrà venire da Belli's Barber Parlour.


che altro  aggiungere se  non augurarle  buon lavoro



31.1.21

intervista a Donatella Alfonso una delle autrici di Destinazione Ravensbrück L'orrore e la bellezza nel lager delle donne

leggi anche
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2021/01/le-donne-nei-lager.html

concludo la  settimana  del  giorno \  giornata  della  memoria  parlando   ancora (   vedere  post precedente ed   i link  in esso  riportati   )   di una tematica  poco  affrontata   dalle  celebrazioni  ufficiali       dell'atroce  destino   delle  donne  nei lager con  questa  intervista   a Donatella  Alfonso    autrice  insieme  a Laura Amoretti e Raffaella Ranise di  Destinazione Ravensbrück  L'orrore e la bellezza nel lager delle donne  (  foto  a  destra ) recentemente  ristampato    . 
Un Libro   che  già    dalla descrizione   presa  da https://www.libreriauniversitaria.it/

Alcune erano bambine, accompagnate dalle madri, altre ragazze di vent'anni, madri di famiglia, oppure già anziane. Sui treni che le portavano al campo di concentramento di Ravensbrück, a nord di Berlino, finirono detenute politiche, prostitute, o appartenenti a famiglie ebraiche: reiette da isolare, da eliminare, per il regime nazista. Mille tra le italiane deportate, di ogni età, non tornarono mai: tra loro anche alcune passate per un piccolo e quasi dimenticato centro di detenzione nell'estremo ponente ligure, a Vallecrosia. La storia di queste donne, ragazze e bambine, i ricordi, la capacità che ebbero molte di loro, nonostante la tragedia che stavano vivendo, di ritrovare la capacità di un affetto, di un gesto, di un sorriso, si affiancano ai momenti più cupi vissuti nel lager e, per le sopravvissute, riportati nella vita vissuta dopo. A 75 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un libro che ripercorre testimonianze e luoghi e la tessitura della memoria di queste donne, della disumanità che hanno dovuto affrontare e del male che ha attraversato l'Europa, monito per allontanare ogni vento di inaccettabili revanscismi.

 e   da  questa  video  presentazione



 
  dimostra l'assurdità   del revisionismo \  negazionismo  . Quando non  c'è niente  da  revisionare  se  mai     da  approfondire    ed    ancora  da  studiare    .   

Ecco la  mia intervista  

lo stesso studio fatto per Ravensbruck, si può estendere anche agli altri campi ? oppure come ho letto su http://www.informareunh.it/lolocausto-delle-donne-non-conformi-o-inutili/ questo di R fu l’unico campo di concentramento progettato dal Reich per eliminare le donne “non conformi” che avrebbero potuto contaminare la “razza ariana”, oppure semplicemente giudicate “inutili”?

Il campo di Ravensbruck ha una sua storia specifica, che ne fa un caso a sé. E' il campo delle reiette, le donne scomode al regime hitleriano: aperto nel 1938 in un terreno, tra l'altro, di proprietà di Heinrich Himmler, ospita da subito oppositrici politiche ma anche prostitute, lesbiche, donne non conformi allo stile di vita delle perfette ariane del Reich. E nasce come campo di lavoro con manodopera ampia e quasi a costo zero per due grandi aziende che aprono fabbriche nel campo: la Siemens e la Texled. La prima userà le mani delle donne per realizzare parti da utilizzare nell'aeronautica militare; la TexLed realizza le divise per detenuti e soldati. Di fatto, il campo è pienamente utilizzato nella produzione bellica, le donne sono una forza lavoro che va sfruttata fino all'esaurimento. Ma solo a fine 1944 diventerà un campo di sterminio, quando la guerra comincerà a dimostrarsi senza uscita  per il Reich.  

per chi non conosce il libro , ed in libreria sceglie in base al titolo , potrebbe spiegare dove sarebbe la bellezza in un lager nazista

La bellezza è, di fronte all'indicibile orrore degli esperimenti, alla violenza delle guardie - peraltro quasi tutte donne - la capacità d tante donne prigioniere d non cedere al programma d annullamento della propria personalità, della loro femminilità; ma sono anche le relazioni d'affetto, d'amicizia che nascono tra le donne, la rete di "normalità" che costruiscono. Le sorelle Bianca e Bice Paganini e Mirella Stanzione di La Spezia, deportate insieme alle madri,che ricostruiscono con le chiacchiere la speranza di tornare alla vita di prima. Le "madri del campo", detenute che si prendono cura di bambini rimasti senza le madri; o una intellettuale come l'etnologa francese Germaine Tillion che scrive un'operetta sulla vita nel campo e la sera la fa cantare, su musiche popolari, alle compagne di prigionia. La bellezza è saper restare vive, soprattutto emotivamente.


fra le testimonianze raccolte parlate anche del fenomeno orripilante del lagerbordell https://it.wikipedia.org/wiki/Bordello_del_campo_di_concentramento ? oppure esso fu un fenomeno che non interesso il campo preso da voi in esame ?


No, non abbiamo trovato testimonianze di un impiego sessuale delle deportate a Ravensbruck, anche se non si può escludere che ci siano stati casi del genere, come ovunque. Di sicuro, le donne del campo servivano essenzialmente come manodopera per le fabbriche, per cui il loro impegno prevalente era quello. Ricordiamo che era un lager prevalentemente femminile, anche nel numero del personale di custodia; la sua particolarità è, ad esempio il fatto che qui si trovasse la scuola di formazione delle Aufseherinnen, le guardiane - particolarmente violente, reclutate con un semplice annuncio sul giornale che prometteva un impiego statale con un ottimo stipendio - che verranno poi impiegate anche in altri lager. 


nella ristampa ci sono ulteriori storie ?


Sì, ad esempio un focus su Teresa Noce, la dirigente del Pci clandestino e partigiana nella Resistenza francese, che deportata a Ravensbruck con altre compagne, cerca di organizzare un boicottaggio del lavoro bellico; l'esperienza delle Testimoni di Geova, pacifiste che si rifiutano di lavorare le pelli di coniglio per i guanti dei piloti della Luftwaffe; e ancora, il lavoro in corso all'Università di Siena sulle registrazioni delle testimonianze di alcune ex deportate effettuate da Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone. Un altro patrimonio da poter rendere accessibile a tutti.


oltre  i  link   del  precedente    post     e  i  documenti  qui   citati    consiglio  per  chi  volesse  approfondire  ed usare  per  tesine  alla maturità  o altro  questa  tematica  questo  libro 





Le donne e l'olocausto. Ricordi dall'inferno dei lager

di Lucille Eichengreen

  • Editore: Marsilio
  • Collana: Gli specchi
  • Traduttore: Buonanno E.
  • Data di Pubblicazione: gennaio 2012
  • EAN: 9788831711241
  • ISBN: 8831711245
  • Pagine: 154
  • Formato: brossura

Le donne e l'olocausto" è uno dei pochi memoriali che si concentra esclusivamente sulle donne. Con sincerità straziante, Lucilie Eichengreen offre uno sguardo approfondito e sincero dell'esperienza femminile nei campi nazisti. Raccontando la storia della propria sopravvivenza, esplora il mondo delle altre donne che ha incontrato, dal potere femminile delle guardie SS, alle prigioniere che erano costrette a prostituirsi per il cibo. Le amicizie che nacquero tra le donne spesso durarono a lungo. Si aiutavano l'una con l'altra, e si dimostravano un affetto e un'attenzione che era diffìcile trovare persino in famiglia. Certo, avevano anche delle nemiche tra loro. Altre donne le maltrattavano, le denunciavano, le raggiravano e rubavano il cibo o le scarpe. In tutti i campi di concentramento era più o meno lo stesso. Ma in generale c'era fiducia reciproca, le donne si davano una mano e piangevano insieme. Con una prosa secca e toccante, la Eichengreen sa cogliere il nocciolo, l'essenza delle cose ma senza fare prediche. In più, Lucilie scrive con l'autorevolezza della testimone oculare, un valore che presto spetterà solo alla pagina scritta e ai documentari filmati, visto che le fila dei sopravvissuti si assottigliano drammaticamente ogni anno. Lei è una di loro, una sopravvissuta che ha ancora voglia di raccontare la propria storia.
appena finite le ultime righe dal soggiorno d'ode in sottofondo proveniente dal cellulare di mio padre

Sonata No.2 In B Flat Minor, Op.35 - 3. Marche funèbre Lento di Chopin suonata da Quynh Nguyen .

2.6.20

COME L’ARABA FENICE Paola Cacciapaglia: così ho sconfitto il Coronavirus © Daniela Tuscano




Paola Cacciapaglia – Scuola Paul JeffreyPaola Cacciapaglia, 47 anni, di Jesolo. Pianista, clavicembalista e bassista. Il Covid l’ha colpita a gennaio e, da oltre due mesi, sta affrontando una perigliosa convalescenza. Ci siamo incontrate virtualmente su un social network e abbiamo scambiato quattro chiacchiere sul dramma che l’ha coinvolta, le sue passioni e il futuro d’un paese martoriato.
  

- Come pensi d’aver contratto il virus? Sei riuscita a ottenere informazioni precise a riguardo?
- Francamente no. Tutto è cominciato con una semplice bronchite, aggravatasi col passare dei giorni. Poiché ne soffro cronicamente, all’'inizio non me ne ero preoccupata. In seguito, la situazione è andata peggiorando e il mio medico è venuto a visitarmi a casa, munito di tutti i DPI [dispositivi di protezione individuale, n.d.A.] previsti nei primissimi giorni dell’epidemia. Ha poi chiamato personalmente il 118. I risultati delle analisi si sono rivelati negativi; tuttavia, poiché il cortisone che assumo da tempo mi aveva procurato una leggera immunodepressione, sono stata rimandata a casa, luogo per me più sicuro. È probabile che il contagio sia avvenuto durante quel ricovero, o in occasione d’un consulto pneumologico la settimana successiva, sempre in ospedale.

- Tu però eserciti una professione, quella dell’insegnante, considerata “a rischio”. Frequentare l’ambiente scolastico può averti esposta all’infezione, o no?

- Lo escludo. Io lavoro in scuole di musica, ma le mie lezioni si svolgono perlopiù individualmente, non in classe. Inoltre, quando è iniziata la bronchite, mi trovavo già a casa in malattia. Ripeto, ero indebolita da patologie e ricoveri precedenti e necessitavo di assoluto riposo. Poi la situazione è precipitata, ne è seguito un nuovo ricovero e, probabilmente, il contagio.

- Il Veneto, assieme al Piemonte e alla colpitissima Lombardia, è stata una delle regioni più flagellate.

- È vero, qui si sono verificati molti casi, con focolai piuttosto estesi. Non nella zona dove risiedo e lavoro, comunque. Purtroppo, io appartengo alla minoranza che ne è rimasta interessata...

- Riesci a raccontare quei momenti? Come si comporta, realmente, questo virus?

- Per me è stata una malattia molto debilitante. Già ero indebolita a causa del cortisone (che tuttavia mi ha forse salvato la vita, stando alle ultime informazioni provenienti dal mondo scientifico). La mia salute ha subìto un peggioramento progressivo per un mese e mezzo; poi, all’improvviso, un primo, breve arresto respiratorio mentre mi trovavo a casa, in solitudine, dal quale mi sono miracolosamente ripresa. Quindi, nuovo ricovero in un ospedale Covid per ossigenoterapia. Le cure, durate quasi due mesi, sono state severe, a base di corticosteroidi ad alte dosi, antibiotici, antistaminici, broncodilatatori e tutto ciò che poteva essere utile in un momento in cui questo morbo appariva ancor più misterioso di quanto lo sia adesso. Al termine ho avvertito i primi miglioramenti. Adesso sto cercando di riprendermi a casa tramite la riabilitazione polmonare (perché sì, ci si disabitua pure a respirare), motoria e cardiovascolare, seguita sempre dal dottore.

- Un grazie grosso al personale sanitario?

- Assolutamente sì. Il mio medico di base mi ha curata benissimo, in lui ripongo assoluta fiducia. Ha attuato tutti i protocolli previsti per proteggere me e lui, venendo da me solo in possesso di tutti i DPI, limitandosi al tempo necessario alla visita, e parlandomi successivamente al telefono. È stato lui a mandarmi in ospedale quando serviva, lui ha somministrato farmaci e dosaggi secondo le necessità, sempre aggiornandomi telefonicamente. Ha organizzato anche i consulti specialistici. Sono stata assistita pure dalla psichiatra, perché io, malata e isolata, avevo bisogno di sostegno psicologico. Anche l’esperienza nell’ospedale Covid è stata rassicurante: era tutto preciso, ben organizzato, e mi ha colpito la gentilezza di tutti, dai medici agli infermieri, a tutto il personale.
L’unica pecca è che il tampone, malgrado le pressanti richieste del mio medico, è giunto molto tardi, quando la carica virale non era più rilevabile.

- Hai affidato al web il decorso della tua malattia, tenendo una sorta di diario giornaliero in cui comunicavi con i tuoi amici, virtuali e no...

- Sì, i social network mi hanno aiutata tanto. Ho deciso di superare l’orgoglio e ho raccontato pubblicamente su Facebook i fatti miei. Sono rientrata così in contatto con amici lontani, che mi hanno incoraggiata e alleviato il peso della solitudine. Grazie a un appello su fb sono riuscita a ottenere le mascherine in un momento in cui reperirle era un vero problema. E, tramite gli annunci, ho trovato aziende che praticavano consegna a domicilio e altre iniziative per le persone in difficoltà. Questo mi ha liberata dal peso dell’isolamento, mi sono sentita amata e rassicurata.

- A parte il dolore, cosa conserverai di quest’esperienza?

- Affrontare tutte queste sofferenze mi è servito per cambiare rotta, per vedere la vita in maniera diversa, per rinascere, come laraba fenice. E nonostante da gennaio ad oggi non abbia ancora avuto tregua, guardo al futuro con fiducia. Nulla accade per caso, ogni cosa ha il suo lato positivo. La vita è essere sempre sul bordo di un precipizio, in una vallata montana, da cui si può apprezzare una eco fantastica: il segnale che inviamo è quello che ci torna indietro. E sta a noi mantenere l'equilibrio o scivolare.

- Ci troviamo in piena fase 2, anzi ormai si può dire cominci la terza, con la riapertura delle regioni. Come giudichi i comportamenti di certuni, che gridano a ipotetici complotti, e addirittura manifestano in piazza senza mascherine? O di altri che, pur senza tutto questo chiasso, esprimono insofferenza per prescrizioni ritenute ormai non più necessarie?

- La gente ha fretta di uscire, molti non vogliono più sentirsi isolati, dimostrandosi quindi incapaci d’apprezzare le piccole cose che può offrire giornalmente la vita; altri, invece, vedono la fine della quarantena come una benedizione. Penso alle donne costrette a vivere con il proprio aguzzino, o ai bimbi abusati.
È vero che bisogna lavorare, altrimenti rischiamo il tracollo. Ma io credo si debbano limitare ancora per un po’ le uscite non necessarie. Temo gli irresponsabili, come hai rilevato tu: anche dalle mie parti, tanti circolano senza mascherina, costringendo fra l’altro quelli come me a un surplus di prudenza. Anche riaprire le chiese prima del tempo non mi è parsa una splendida idea: far rispettare le distanze di sicurezza è davvero difficile, non sorprende siano ancora poco frequentate. È lo stesso motivo per cui non è ancora opportuno riprendere concerti o altri eventi pubblici. Le manifestazioni del 2 giugno si sono svolte senza spettatori.

- Come tanti docenti, hai attuato la didattica online. Quali le tue impressioni?

- Adattarmi al nuovo contesto per me è stato più semplice rispetto ad altri insegnanti perché, come ho detto, le lezioni sono individuali. Mi metto in comunicazione con gli allievi tramite whatsapp e, davanti al mio pianoforte, riesco a leggere i loro spartiti, così posso correggerli e illustrar loro il modo corretto di eseguire i brani. E poi la musica, si sa, arriva ovunque...

- ...e sicuramente ti ha infuso coraggio nel difficile momento che hai dovuto affrontare.

- Senza musica avrei perso qualsiasi motivazione alla vita, non ne avrei assaporata la vera linfa. La amo in tutte le forme: ascoltarla, suonarla, insegnarla...

- Hai un’impostazione classica. Chi sono i tuoi autori preferiti?

- Sicuramente Bach: ha il potere di rimettere in ordine la mia mente e le mie emozioni, come un programma di deframmentazione di un PC. Al secondo posto, sul podio, porrei Shostakovich, per la dirompente carica emotiva. Poi Gershwin, il rapimento e l’estasi: un ponte fra musica classica e jazz, swing e blues. Ciò che manca ai musicisti attuali è il carisma, elemento per me fondamentale. Ci sono tanti buoni esecutori e pochi artisti. E chi non mi coinvolge, chi non suscita in me quel sussulto inatteso, non desta nemmeno il mio interesse.




15.9.19

il primo texone scritto da una donna . intervista all'autrice Laura Zuccheri

L'immagine può contenere: Laura Zuccheri, con sorriso, occhiali_da_sole
dal suo profilo facebook 
Qualche  giorno  fa   ho letto a  casa  d'amici   collezionisti  di tex  l'utimo “Texone”,  cioè lo speciale annuale di grande formato dedicato a Tex, che nel corso degli anni ha raccolto disegnatori bonelliani e non, come Guido Buzzelli, Magnus, Jordi Bernet, Ivo Milazzo ed Enrique Breccia . Quest'anno   L’autore  dei disegni del Texone 2019 – intitolato “Doc!” – è  Laura Zuccheri, [    foto a sinistra  ] disegnatrice di Julia, nonché prima donna a illustrare un Texone . La sceneggiatura è stata invece realizzata da Mauro Boselli, curatore e principale sceneggiatore di Tex. 
Tex e Gabriella Contu (foto archivio Ansa)Un buon numero  , credo che  me  lo comprerò  dal sito del  Bonelli  . Infatti  quello che  mi ha  lasciato   più  a bocca  aperta è  che un genere   tipico   maschile  e che    il Tex  scritto   da  Gabriella Contu [  foto  a destra  presa  da  questo articolo del  https://www.quotidiano.net/magazine/  fosse  un caso isolato .
Ma  leggendo  questo  comunicato  stampa    riportato  da questo  articolo  di   https://www.lospaziobianco.it
tex_speciale_34_cover_Notizie
Classe 1971,  è la prima donna a illustrare una storia di . In occasione dei 70 anni del Ranger, ecco così al suo debutto un’altra novità dedicata al personaggio creato da Gianluigi Bonelli.
Ma chi è Laura Zuccheri, l’illustratrice che firma accanto a , curatore della serie, l’atteso Tex – Doc! in uscita il prossimo 20 giugno 2019? Per anni, Zuccheri è stata una colonna portante dell’universo di Julia, maestra d’espressività ed eleganza grafica tra i chiaroscuri di Garden City. Ma la sua vera passione sono proprio le praterie e i deserti della Frontiera americana: una passione che ha spinto la Casa editrice di via Buonarroti ad affidarle quella che si presenta come la prima storia di Tex mai realizzata da un’illustratrice. Del resto, Laura ha ampiamente mostrato quanto le sia consono l’universo realistico ed energico che per tradizione è l’essenza dell’Avventura western, per esempio collaborando al Ken Parker Magazine e realizzando anche una copertina per un Color Tex. Non poteva dunque esserci matita migliore per dar vita a questa nuova avventura dei Pards.
texone laura zuccheri bonelli
[... ] 
E  vedendo prima  della lettura     su  https://www.fumettologica.it/  oltre che  sul sito   prima  citato   alcune     tavole    mi ha  fatto scattare  la   voglia   curiosità   oltre  di  comprarlo per  unirlo  alla  mia  libreria  fumettistica , di  saperne    di  più ed  approfondire    alcuni dettagli  " texani "   e   non  solo  . Ed ecco    che  mi sono detto   perchè non chiedere   direttamente al'autrice ,visto  che ha molti contatti   in comune  ,  via  facebook  ( qui  il suo  account  )    (  sotto    rappresentata  in  due  versioni )  
Immagine correlata

Laura Zuccheri e Tex












1)  come  ci si sente   ad  aver realizzato  il tuo sogno    impregnato  di un forte legame   familiare  come  dichiarato  a  https://www.afnews.info/wordpress/2019/06/26/ ?
sono molto soddisfatta.E' come aver scalato l'Everest affrontando momenti difficili e faticosi.Ma ora devo mantenere quello che ho raggiunto e forse e' la sfida più' difficile

 2) visto che  lavori   anche con cose editrici estere    secondo te  è possibile secondo   te  crescere da un punto di vista professionale in Italia oppure è necessario andare all'estero ?

Secondo me lavorare all'estero accresce a livello professionale e umano nonche' allarga la mente

3)  Come si può sensibilizzare l’opinione pubblica per coinvolgere maggiormente le donne nel campo fumettistico e non solo  ?

Il problema femminile e' sociale. Finché' si faranno distinzioni tra ciò' che e' per le donne e ciò' che e' solo per gli uomini le ragazze avranno sempre timore ad imporsi in ambienti in cui le persone non sono mentalmente predisposti al cambiamento In più' gioca il fattore educativo
4)    cosa  ha  portato    in tex    delle  tue esperienze  in Julia  ed  in Ken Parker  ? 
il linguaggio cinematografico le riprese e le sequenze cinematografiche
5)  da   quello che  ho letto sei un  artista poliedrica  e   non ti piace  fossilizzarti   su un solo genere  ,   quindi mi viene  spontaneo  chiederti  ,   quale    ( se  c'è )  un' altro  personaggio   Bonelli   ti piacerebbe  disegnare  ?

amo solo Tex non mi vedo su nessun altro personaggio Bonelli
6)  in   Tex  ti concentri  di più  su personaggi maschili o femminili  ?
Nessuna descrizione della foto disponibile.
entrambi
7) “Tex” è notoriamente un fumetto difficile da approcciare per qualunque disegnatore. Inoltre, una donna come disegnatrice di “Tex” è certamente cosa insolita, visto  che    tu sei la prima in assoluto  , hai superato  le   difficoltà
«Affrontando Tex, ho dovuto rimettere in discussione tutti gli elementi tecnici che credevo di aver acquisito una volta per sempre. È una questione di sfumature molto sottili, non sempre razionalizzabili. Una sfida davvero dura, anche per i professionisti più navigati. Al principio, era come impugnare la matita con dei pesi da cento chili attaccati alle dita, ma poi mi sono persuasa che la soluzione stava già tutta nello spirito del personaggio: fare quello che credi sia giusto e non pensarci più!.»
 avute nell'affrontarne il disegno ed il suo mondo   ? 
Tex e' difficile mette a dura prova chiunque.Questo perche' ti forza a seguire delle regole ma nello stesso tempo di mette alla prova su quanto sei capace ad essere personale. Io ho passione per il western essere donna o uomo per me non fa differenza.La societa' incasella le persone tra il femminile e il maschile nel fare le cose o ad avere dei gusti .Ma questo e' anche un problema educativo. Io sono un'anarchica e quello che mi appassiona non e' ne maschile ne femminile


8) Dopo il “Texone”, ti rivedremo alle prese con il nostro ranger , se  si come  desumo  visto il clamoroso successo avuto  , ti limiterai solo al disegno  oppure    farai   come  alcuni autori Bonelli  anche soggetti e sceneggiatura   delle sue storie   ?

Adesso sono sulla serie regolare E sto lavorando ad una storia per l'edizione cartonata a colori

9 ) se  dovvessi  scrivere    qualcosa  per  Tex   lo faresti   di più  :  Kenparkiano  \ Blueberry di Jean-Michel Charlier e Jean Giraud    cioè anti eroe o semplicemente  eroe come  lo  è  già  d'altronde 

amo I personaggi di Sergio Leone...credo che potrebbe essere Clint Eastwood o Charles Bronson

Concludo  con un ringraziamento  alla gentilissima Laura   che ha  trovato  il tempo   di rispondere  al volo  alle mie domande  trovando  un buco fra i  suoi molteplici  impegni lavorativi e creativi . e  per  finire  la   colonna  sonora  ( alcune  ricordo  d'infanzia  ,  film e  cartoni  western , altre  quelle linkate suggerimento   da questo interessante  articolo https://www.farwest.it/?p=16553

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