Buongiorno per tutto il giorno. Oggi su LA LENTE parliamo di giovani rientrati in Calabria dal Centro-Nord, di restanza, di promozione del patrimonio di natura e cultura della regione. Lo facciamo raccontando una bella iniziativa promossa a San Giovanni in Fiore dal gruppo "I spontanei". E chiediamo alla politica di ascoltare le istanze dei ragazzi che lavorano per mostrare una Calabria diversa. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria. Grazie per l'attenzione e cordiali saluti. Emiliano Morrone
«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere
Una serata organizzata da “I spontanei” a San Giovanni in Fiore ricca di spunti di riflessioni e belle storie di Calabria
Pubblicato il: 11/10/2024 – 6:38
di Emiliano Morrone
«Mamma Calabria» è il titolo di un libro di Alessandro Frontera e Danilo Verta appena discusso in profondità nella biblioteca comunale diSan Giovanni in Fiore, soprattutto grazie alle domande stimolanti della giornalista Maria Teresa Cortese. Già residente a Milano, Alessandro, l’autore del testo, è una guida ambientale escursionistica, un influencer rientrato in Calabria per promuovere natura, cultura e tradizioni della regione: dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino alla Sila, dalle Serre vibonesi all’Aspromonte.
L’appuntamento è stato promosso dall’associazione “I spontanei”, che da qualche anno propone incontri e dibattiti sull’esigenza di ridurre l’emigrazione giovanile, di creare impresa, lavoro e progresso partendo dai punti di forza e debolezza dell’area silana: suggestiva ma in parte isolata e sconnessa, bucolica ma ancora periferica, ispiratrice di slanci creativi ma in un contesto socioculturale alquanto condizionato da invidia, rassegnazione, attendismo, doppiezze, mancanza di coraggio. La Sila ha una storia di peso – dalle utopie di Gioacchino da Fiore alla Riforma agraria del ’47, dalla vecchia emigrazione operaia a quella intellettuale del presente –, oggi più che mai minata dal capitalismo dell’era digitale, che cancella le identità locali, uniforma storie, usanze e posizioni, struttura e impone il mercato assoluto delle merci. «Mamma Calabria» è anche il motivo comune degli interventi di quattro giovani che, durante la presentazione del volume di Frontera, hanno raccontato le loro storie di restanza oppure di rientro dal Centro-Nord nel periodo drammatico della pandemia. La mamma è per statuto naturale riferimento e rifugio, richiamo e modello; è la figura che, anche nella dimensione simbolica, alimenta, cura, compatisce; è il genitore che induce all’esperienza fuori dallo spazio domestico e intuisce i problemi, i bisogni della prole.
Così, la metafora «mamma Calabria» è valsa a inquadrare, a chiarire il legame di ciascuno degli intervenuti con i luoghi delle origini: forte, continuo, vitale; capace di riaccendere la luce della speranza in un clima oltremodo tormentato, di riaprire il campo delle possibilità, di sostituire le illusioni con le motivazioni personali. Si tratta di quattro ragazzi che provengono da esperienze diverse ma affini: Anna Stefanizzi ha inventato il Cammino dei monaci florensi; come “Esperiandanti”, Luigi Candalise mostra su prenotazione i posti della Sila, in bici, a piedi, a cavallo; Ivan Ariella organizza festival d’arte e richiamo; Maria Costanza Barberio porta, con il collettivo “Fiori florensi”, la ludopedagogia nelle piazze e nelle istituzioni, fra bambini e rispettive famiglie. Questi giovani hanno più di 30 anni e meno di 40, indole ambientalista, una dote d’idealismo proveniente dal loro vissuto nel mondo analogico, una robusta volontà di ritagliarsi spazi autonomi in Calabria, intanto professionali e sociali. Sono giovani che parlano un linguaggio poetico fuori del tempo; che leggono romanzi intramontabili, diari di viaggio e saggi sulla conservazione della memoria; che con video, post e immagini evocative sanno comunicare le loro attività e trasmettere emozioni, divulgare buone pratiche ed esempi positivi. E sono giovani che, come accade altrove nel pianeta, rivendicano le ragioni della propria terra, cercano di collegare la tipicità locale con l’universalità umana, chiedono ascolto alla politica e impegno per la sostenibilità, l’eguaglianza, i diritti irrinunciabili. «Facciamo politica con il gioco, abituando i bimbi alla libertà di espressione e di giudizio», ha detto Maria Costanza. «La Calabria ha tre Parchi nazionali e uno regionale, noi dobbiamo credere nelle nostre radici, nelle nostre potenzialità», ha osservato Luigi, che ha aggiunto: «Da fuori iniziano a guardarci con altri occhi». Ciò perché diversi giovani calabresi hanno espresso talento e capacità; perché da un pezzo la narrazione dominante, ferma al tragico, a lamenti e semplificazioni di comodo, è contrastata da racconti di vicende edificanti, che iniziano a piacere, a diffondersi, a generare interesse, apprezzamento, consenso. «Per restare in questa terra, ognuno deve fare un cammino dentro di sé», ha osservato Luigi, che ha sottolineato: «Il 30 per cento della biodiversità europea è nelle nostre montagne. Se devo fare dei sacrifici, preferisco farli a casa mia». «Siamo quello che camminiamo», ha chiosato Anna. Stefano “Intour” Straface – che a Torino insegnava nella scuola pubblica e ha scelto di rientrare per promuovere via social eventi e prodotti calabresi – ha infine posto l’accento sulla «necessità che gli imprenditori siano formati per capire quanto valga l’impatto nel web, quanto esso sia utile a lavorare in tutti i mesi dell’anno e non soltanto d’estate o nelle vacanze di Natale». È un altro tema che merita ampia riflessione nelle sedi della politica, in parte assente rispetto alle istanze di giovani che lavorano con la cultura, l’arte e gli strumenti tecnologici.
Nelle parole di questi ragazzi c’è molto da cogliere e raccogliere, ma il punto è che la politica, non tutta, non ne comprende la complessità, la finalità, l’utilità. Però, ha obiettato il fotografo e regista Emilio Arnone, instancabile sperimentatore di linguaggi artistici d’avanguardia, «bisogna smetterla con impostazioni sfacciatamente celebrative, serve equilibrio e uno sguardo d’insieme». È sempre l’autenticità, secondo l’intellettuale, che fa la differenza. Insomma, ovunque ci sono storie illuminanti, quindi bisogna stare attenti a non cedere, come capita sui social, a lusinghe facili, «all’apologetica d’ufficio» di certa pubblicistica. Diventa difficile costruire reti di collaborazione, se non ci sono basi e contenuti comuni, hanno concluso Alessandro, Anna, Luigi, Ivan e Maria Costanza. E spetta alla politica, che dovrebbe affinare lo sguardo e ampliare gli orizzonti, favorire il compito e la collaborazione dei ragazzi che raccontano l’altra Calabria, quella della bellezza, delle tradizioni, del grande patrimonio culturale e ambientale. (redazione@corrierecal.it)
ricevo come di consueto il whatsapp di Emiliano Morrone autore dell'articolo che trovzte sotto . Ed ogni volta che leggo sia le sue anteprime come quella d'oggi
È stata appena pubblicata, in apertura, l'intervista con Andrea Crobu, fotografo veneto di origini sarde che filma il mare e i laghi della Calabria per conto di un marchio internazionale della pesca sportiva. Il professor Crobu parla della bellezza della natura
calabrese rovinata da distese di spazzatura, della diffusa rassegnazione al brutto che si registra in Calabria, dei pericoli dell'autonomia differenziata, dell'inutilità - a suo avviso - del ponte sullo Stretto, della scomparsa dell'antimafia civile e dell'urgente bisogno, secondo la sua analisi, di una nuova classe dirigente, capace di impedire il consumo di suolo, imporre l'eguaglianza nei diritti e fermare lo spopolamento della regione.
mi acccorgo che è una dei pochi cronisti locali che racconta della sua bella terra , purtroppo assainata da: l'Andrangheta , dall'immigrazione selvaggia ( vedere nell'archivio mia intervista ad Emiliano per il suo libro la società sparente ) , dalla speculazione ( leggerre l'articolo sotto ) senza scadere in provincialismo . Infatti egli riesce a mettere in atto lo slogan ( in realtà è una necessità \ sfida vitale sempre più reale di reazione ad una globalizzazione assassina e neo liberista ) << pensare globale agire locale >> ( cit da mia dolce rivoluzionaria degli Mcr ) . Ma ora basta parlare lasciamo la parola all'articolo
da https://www.corrieredellacalabria.it/223/02/2024 – 9:30
di Emiliano Morrone
Si esprime attraverso immagini, ma stavolta fa eccezione. Andrea Crobu è un fotografo veneto di origini sarde, un videomaker che filma la natura calabrese per campagne pubblicitarie di un celebre marchio della pesca sportiva. Da diversi anni, il professionista – che parla cinque lingue e fa il globetrotter grazie alla propria intelligenza fulminea e passione per l’ambiente – riprende pescatori, albe e tramonti sopra il mare della Calabria, il cielo terso, le luci e i colori accesi della regione. «È una terra – spiega Crobu, quarantaduenne – dalle acque pescose, dalla bellezza ancora sconosciuta, ideale per questo mio lavoro. È però grave – aggiunge – che i suoi tesori naturali debbano convivere con lo squallore prodotto dagli uomini, con montagne di immondizia e cemento che ne violentano il paesaggio, ne mortificano la storia e ne compromettono il futuro».
Calabria “terza” patria
Laureato in Comunicazione, Andrea, anche esperto di informatica, tecnologie e applicazioni digitali, ha un radicato debole per la Calabria, che considera la sua terza “patria” dopo il Veneto e la Sardegna. Nel 2007 e più avanti, infatti, si inserì nel movimento antimafia che, nato a Catanzaro sull’onda emotiva dell’inchiesta giudiziaria “Why not”, riportò al centro del dibattito pubblico nazionale i temi della legalità, della trasparenza e della partecipazione alla vita politica. Non solo, allora Andrea insegnava discipline umanistiche e scientifiche a Verona, in una scuola regionale per muratori in cui teneva spesso lezioni coinvolgenti sui princìpi della Costituzione, a partire dall’eguaglianza nei diritti, sulla lotta culturale alle mafie e sull’importanza dell’impegno delle nuove generazioni per cambiare il sistema pubblico italiano. Tra l’altro, nell’ateneo veronese organizzava incontri sul coraggio della verità, di foucaultiana memoria, con il gruppo “Legalità e Giustizia”, interno alla rete antimafia del Nord.
Il curriculum
Prima di dedicarsi alla videografia, Andrea, che conosco e cui darò dunque del Tu nell’intervista odierna, si era occupato di mappature, tramite droni, dei danni alle colture venete e, per un lungo periodo, della creazione, con sofisticati cad, di modelli tridimensionali di protesi per bambini disabili. Nel suo curriculum, poi, è solito scrivere frasi che colpiscono, tipo «frequenta e tormenta fiumi e torrenti alpini in cerca di trote, temoli e salmerini» oppure «specializzato nell’inseguimento dei tonni». Il suo sguardo sulla Calabria è perciò privilegiato, perché, pur non avendoci vissuto, ne ha potuto esaminare da vicino pregi e difetti, potenzialità e paradossi, con il desiderio spontaneo, disinteressato, del riscatto civile, economico e sociale dei cittadini calabresi. «Dal bagnasciuga in avanti la Calabria è splendida, dal bagnasciuga indietro è problematica. Perciò – racconta Andrea – i miei committenti mi hanno chiesto di tagliare l’immagine, in modo da non mostrare che cosa c’è dietro la spiaggia, piena di distese di spazzatura. Allora ho dovuto alterare la ripresa, per non far vedere l’entroterra. È terribile».
È un guaio?
«A causa dell’invasione dei rifiuti, non riesco a scattare una foto, non riesco a trovare un’inquadratura in cui non ci siano resti bruciati, flaconi di candeggina e roba diffusa ovunque. Questo rende molto difficile il mio compito e sono obbligato a levare delle sequenze. Per dirti, salendo e scendendo da Cutro, a ogni curva c’è una discarica abusiva che è terrificante da far vedere. È come se ci fosse un cantiere permanente in cui le persone si trovano a vivere. Le case incompiute con la gente dentro le vedi solo lì. Dunque, ho una pressante sensazione di amarezza. Ma com’è possibile? I calabresi pagano le stesse tasse che pago io, perché non hanno una buona strada, perché non passa qualcuno a togliere quei rifiuti? Soprattutto, perché lì buttano schifezze? La spazzatura è l’espressione più ricorrente del brutto che rovina qualsiasi foto, qualsiasi immagine. Allora, devo filmare dal bagnasciuga all’orizzonte».
Mostri una Calabria truccata?
«Per forza, io vendo immagini, quindi finzione. Ti senti sollevato quando sei sulla barca e ti allontani dalla riva per goderti i tuoi 16 metri quadri, se hai una barca grande, oppure quattro metri di ordine, pulizia, libertà ed efficienza, se ne hai una piccola».
Vai molto in giro, per esempio in Scandinavia e in Messico. Il bagnasciuga come linea di confine è, a tuo avviso, un elemento distintivo della Calabria?
«Gli scandinavi credono nell’“estetica Lego”: tutto pulitino, lindo e pinto. Ma va anche detto che lì non c’è nessuno: la Scandinavia è grande; la Svezia è due volte e mezza l’Italia e ha un sesto della popolazione. In Italia, invece, abbiamo uno sviluppo di tipo medioevale, in sostanza con un paese a ogni giornata di cammino. Quindi abbiamo una popolazione diffusa, piuttosto che concentrata. Pertanto, non abbiamo grandi estensioni selvagge tra un paese e l’altro. Da qui origina la difficoltà di gestire territori con la densità abitativa dei paesini sparsi. Non è semplice fornire servizi moderni su una mappa medievale: organizzare la raccolta rifiuti su un territorio così ampio è molto più complesso che organizzarla a Città del Messico. Poi c’è l’indecenza collettiva di mollare la spazzatura ai lati della strada, di buttarla dappertutto; non che non ci sia anche altrove, per carità, ma in Calabria si nota tanto».
Che cosa è, disprezzo per gli spazi pubblici, è un rifiuto dell’ordine che rinvia all’epoca preunitaria?
«No, è semplicemente un’abitudine al brutto. Cioè: tu sei cresciuto, hai visto quell’ambiente per tutta la tua infanzia, che dunque ora reputi normale. Ti sembra invece strano quando vai altrove e non lo trovi: lì ti rendi conto della differenza. Io sono cresciuto in Veneto, dove la raccolta rifiuti è qualcosa di maniacale: i cassonetti non esistono più, c’è il sistema porta a porta più totale e ogni tanto ti trovi un biglietto in tasca e non sai dove buttarlo perché non ci sono neanche i cestini. Perciò devi portarlo a casa e metterlo nella carta che raccoglieranno fra tre giorni. Così, impari a gestire la permanenza del tuo rifiuto, prendi coscienza perché sai che, se non lo smaltisci il giorno del recupero, rimane con te e non sparisce premendo un pulsante. Quando sei circondato da ordine e pulizia, la presenza di spazzatura diventa ingombrante a livello mentale: ne senti proprio il peso, ti dà fastidio che ci sia quella lattina che hai in mano e devi buttarla un altro giorno».
Allora?
«È un’esperienza terrificante l’incontro con una piazzola di sosta zeppa di rifiuti o con la spiaggia coperta di plastiche, di oggetti che può aver portato il mare ma nessuno ha raccolto. In Sardegna, che pure non ha un’economia florida, non esiste la stessa situazione della Calabria: lì non ho mai trovato i sacchetti di spazzatura sulla spiaggia, neanche nelle zone meno sviluppate economicamente».
Hai fatto discorsi simili con le persone che hai incontrato in Calabria?
«Ultimamente no. Ma in passato ho lavorato a Sibari, con appassionati di pesca che avevano girato in lungo e largo il mondo. Avvertivano il disagio, il disgusto per l’indecenza della spazzatura nella Sibaritide, ma da due settimane il servizio di raccolta non funzionava e quindi ogni chilometro c’era una pila di sacchi alta da due a tre metri. I calabresi pagano le tasse ma hanno servizi peggiori. È un’assurdità; in un contesto del genere, tuo figlio non può crescere serenamente. In ogni società, l’aspetto fondamentale è il trattamento dei propri rifiuti. Ai bambini si insegna subito a stare puliti. Del resto, pensa al discorso del filosofo Slavoj Žižek sull’eliminazione dei rifiuti. Žižek allude al tratto politico della Francia, quando ricorda che “il buco del gabinetto francese è posto sul retro per nascondere le feci alla vista e scaricarle il più velocemente possibile”».
Che cosa intendi dire?
«Quando vedi che il settore pubblico non ti passa nemmeno la pulizia, capisci che ci sono dei riflessi pesanti. Poi vai a pesca e scopri che tanta gente butta in acqua le cassette di legno oppure le esche. Questo è ciò che più mi colpisce ogni volta che vengo in Calabria. Ci soffro: mi fa stare male vedere in queste condizioni il vostro territorio, che è di un fascino unico, non solo dal punto di vista orografico. Poi c’è l’abusivismo edilizio. A Torre Melissa hanno recentemente demolito un palazzo mostruoso».
Che cosa spinge alla cementificazione?
«C’è una bulimia irrefrenabile nell’edilizia che consuma il territorio, forse per cercare di imporre un modello di sviluppo che non funziona. Poi c’è un’archeologia industriale, in Calabria, lasciata a decomporsi, senza piani di smaltimento. Questa situazione esiste anche in Sardegna. Se tu costruisci uno stabilimento e poi fallisce, l’edificio rimane lì a decomporsi organicamente. Si aspetta che la terra lo inghiottisca e magari ci vogliono 200 anni. Ci sono saline abbandonate che sono lì, stabilimenti vecchi che sono lì, restano lì. Non viene imposto al proprietario di ripristinare il decoro dell’ambiente».
Per esempio?
«Prima di arrivare a Crotone, vedi dinosauri industriali in attesa di diventare scheletri. A poco a poco crolleranno e chissà per quanto tempo rimarranno. Per molti che li guardano, però, sembra normale che quelle strutture si decompongano così. La bruttezza non viene portata via in alcun modo e tu ce l’avrai davanti alla faccia per tutta la vita».
Che cosa diresti al presidente della Regione, che sta provando a dare un’altra narrazione della Calabria, con grossi investimenti nella promozione del turismo?
«È una buona idea, che indica dinamismo. Tuttavia, prima di andare a stimolare la domanda, bisogna creare l’offerta. Io non posso arrivare in un luogo in cui devo fare attenzione a che cosa fotografo, se no poi la foto è brutta perché si vede la spazzatura. Prima devi pulire per terra, poi fai venire gli ospiti. Prima devi essere sicuro che ci siano servizi dappertutto, perché il territorio calabrese è stupendo, ma non possiamo visitarlo sotto forma di campeggio selvaggio o pensando di andare in un paese sperduto, in cui devi portarti tutto da casa».
In pratica?
«All’aeroporto di Lamezia Terme, per esempio, devi ancora fare la coda per prendere l’aereo: spesso trovi aperto un solo banco per il check-in e non è automatizzato il trasporto dei bagagli. Per non parlare, poi, della differenza abissale che c’è tra la costa tirrenica e quella ionica. Sul Tirreno c’è l’aeroporto con i voli quotidiani, c’è il treno più o meno veloce che arriva, c’è l’autostrada eccetera. Per attraversare la Calabria da est a ovest, non c’è verso di prendere un mezzo. Se in treno devo andare dall’aeroporto di Lamezia a Torre Melissa, impiego sei o sette ore, ammesso di atterrare in una fascia oraria in cui questo treno esiste. È un problema condizionante: sei vincolato al possesso dell’automobile. Quando accade in un posto geograficamente piccolo, vuol dire che non c’è un’infrastruttura di supporto al cittadino; vuol dire che, finché non ha l’auto, un ragazzino non esce dal suo paese».
Con quali conseguenze?
«Esiste questo tipo di sottosviluppo che impedisce la crescita di mentalità moderne, di idee imprenditoriali anche diverse, basate su approcci meno distruttivi del territorio. In Calabria hai la fortuna, paradossalmente, di essere arrivato nel 2024 senza aver avuto il boom economico vero e proprio. Hai qualche scheletro industriale rimasto dalla seconda metà del Novecento, quando ancora si produceva industrialmente e con infrastrutture ancora peggiori di quelle di adesso. Ora potresti osservare che la tecnologia è andata avanti e che potremmo fare roba molto più bella partendo da zero».
Bisogna dunque ripartire da una visione differente?
«La Calabria non è il Veneto, che deve raddoppiare la ferrovia costruita in età austriaca, che ha l’infrastruttura dell’800 e deve riuscire a riadattarla. Perché devo impiegare 45 minuti da Torre Melissa a Crotone, se rispetto i limiti? I limiti sono così bassi perché si sa che le strade non sono all’altezza di sopportare velocità più elevate. Allora, ogni giorno perdi tanti minuti per fare qualcosa. Fortunatamente, adesso la copertura del cellulare è molto buona. Paradossalmente, però, è quasi peggio, perché se tu sei povero e hai la televisione e Internet per guardare il mondo, ti rendi conto della tua condizione. Magari ti domandi perché il tuo coetaneo del Nord ha la scuola con il videoproiettore di ultima generazione, con strumenti e strutture a modo, e tu sei invece ridotto così. Perché in quel posto c’è lo skate park, la pista ciclabile eccetera, e in Calabria a malapena un parchetto?».
Però potresti sembrare prevenuto, se non addirittura razzista.
«No, io mi sento calabrese e lo dico in senso costruttivo, per contribuire a un cambio di mentalità. Quello che mi fa più male, quando vengo in Calabria, è vedere che spesso i cittadini sono trattati come servi. Allora, uno che cosa fa? Quando non ha accesso a beni e servizi, compra simboli tipici del capitalismo: l’iPhone 15 e quelle piccole cose che può acquistare individualmente perché non ha il treno ad alta velocità. Per me, Roma è a tre ore da dove vivo. So che alle sette del mattino prendo il treno, alle dieci sono lì per lavoro, faccio quello che devo, alle 13,30 riprendo il treno e alle 16 sono a casa. Provaci da Crotone, dato che la distanza è la stessa!».
I collegamenti sono un argomento della vecchia retorica sulla Calabria?
«Se tu dovessi disegnare una mappa della regione, non sulla scala geografica ma su quella dei tempi di percorrenza da un posto all’altro, la Calabria sarebbe grande come l’Inghilterra, in cui per andare da nord a sud tu impieghi giorni. In Calabria, è inconcepibile che uno vada dalla punta nord a quella sud e ritorni in giornata. Solo che questo problema, secondo me, non viene percepito per abitudine e rassegnazione. Non è un limite soltanto calabrese, ma di tutte le regioni che hanno il sottosviluppo. Quando lavoro in Messico, in aeroporto viene a prendermi un uomo che in tutta la vita non è mai uscito dalla provincia di residenza, in quanto non ha i mezzi per farlo. Viene a prendermi in auto e torna indietro. In vita sua non ha mai visto il mare, eppure ce l’ha a due passi».
In Calabria c’è, a tuo avviso, l’altra faccia della medaglia?
«Dal punto di vista ambientale, fortunatamente, dove non riusciamo a mettere le mani la Calabria è spettacolare. Sott’acqua, nei laghi della Sila, è un capolavoro. Ci sono cose incredibili, i fiumi sono pieni finché non riusciamo a metterci le mani. Quindi, tu stai andando disparatamente in cerca di zone di sottosviluppo totale, naturalmente preservate, dove non siamo ancora riusciti a mettere le mani. In Calabria hai l’impressione che tutto quello che c’è di bello da vedere non è stato fatto dall’uomo, oppure è stato fatto minimo due secoli fa».
Ormai sono tanti anni che conosci la Calabria.
«Io e te andiamo indietro di 15 anni, anzi, 17».
Allora ti interessavi di legalità e giustizia. In Calabria quanto pesa, con i tuoi occhi di oggi, la criminalità organizzata? Quanto pesa, invece, la rassegnazione, l’abitudine, la mentalità dominante?
«Sono arrivato a convincermi che l’etica sia estetica, che il valore del bello e del brutto siano reali e abbiano un’importanza esistenziale molto alta. La criminalità organizzata produce essenzialmente bruttezza: produce bruttezza morale, ritardo nello sviluppo economico, bruttezza nelle infrastrutture, bruttezza in tutto. Quando tu travalichi norme e leggi volte a tutelare la pubblica decenza, non puoi che vivere in uno stato di degrado e povertà. Se in Calabria uno prendesse 5mila euro al mese come responsabile di turno in officina, e se dunque fosse pagato come in Svezia, non penserebbe di avvicinarsi alla criminalità organizzata. Anzi, si terrebbe a distanza e ne sarebbe disgustato».
Brutto è male, allora.
«La ’ndrangheta si nutre del senso di impunità, della percepita assenza dello Stato cui si sostituisce. Solo che non si sostituisce come una comunità autosufficiente che vuole bene alla sua terra e tutela il proprio territorio, ma si sostituisce come mentalità predatoria, con un’idea talmente medievale dello spazio pubblico che può essere riassunta così: se è bello dentro casa mia, non importa che fuori ci sia lo schifo. I boss avranno la villa lastricata di oro e avorio, ma all’esterno devono fare i conti con l’immancabile spazzatura ai lati della strada, perché anche loro sono frutto di quel tipo di realtà, anche loro sono cresciuti così. Quindi hai gente che muove miliardi nello squallore. Ricordiamoci gli episodi di San Luca, quando siamo scesi giù per la prima volta: sotterranei pieni di ogni lusso e fuori la miseria totale. La ricerca della ricchezza privata a scanso della povertà pubblica produce questi paradossi. Quando in un paese con le strade bucate vedi Cayenne che girano, diffida di chi li guida».
Che cosa pensi dell’autonomia differenziata?
«Vivo nel terrore di questa prospettiva. Pensavo che fossero deliri propagandistici, ma questi sono sinceramente convinti. Se passa, i presidenti di Regione potranno privatizzare la sanità, se vorranno. Inoltre, potranno assumere i professori, potranno riscrivere i programmi scolastici e prendere decisioni terribili. L’autonomia differenziata è il frutto di un indecente accordo tra le tre forze di governo. Meloni prenderà il premierato per avere più potere; la Lega prenderà la secessione che ha sempre inseguito e porterà a casa le autonomie locali, che altro non sono che la secessione. Dal canto suo, Forza Italia, che finalizzerà l’attacco storico ai magistrati e alle leggi sul controllo della spesa, otterrà la depenalizzazione dei reati di abuso d’ufficio. Quindi penso tutto il male possibile dell’autonomia differenziata, specie perché condanna regioni come la Calabria, storicamente massacrate, alla perpetuazione del sottosviluppo più totale».
Che cosa pensi del ponte sullo Stretto?
«Metti che sia ingegneristicamente fattibile e che, schioccando le dita, magicamente domattina ce l’abbiamo. Dove stiamo andando? Arriviamo in Sicilia e poi ci mettiamo sei ore per raggiungere Palermo, perché non c’è l’autostrada in mezzo. Facciamo il passaggio per i treni e poi di là non c’è la ferrovia. Prima porti Calabria e Sicilia a un livello di sviluppo degno del ventunesimo secolo, con l’alta velocità sia in fibra ottica che in treno, con l’autostrada normale eccetera, poi fai l’infrastruttura stratosferica di collegamento tra le due realtà».
Negli anni 2007-2008 c’era una grande attenzione per la Calabria, c’erano i movimenti antimafia e in Rai si parlava molto di legalità. È finita per sempre quella stagione?
«Quella stagione è stata segnata da quello che mi piaceva definire “consumo civico”, nel senso che piaceva leggere di antimafia. C’è stata un’epoca d’oro in cui la lettura di libri e la frequentazione di iniziative specifiche erano viste come buone attività da portare avanti. Però, nel lungo periodo, abbiamo sperimentato che era soltanto una moda, che non ha prodotto quel risultato elettorale che si sperava arrivasse in virtù dell’impegno della società civile. Allora c’erano le trasmissioni di Santoro e nasceva “Il Fatto Quotidiano”. Tuttavia, quei contenuti non sono entrati nel mainstream. Noi non abbiamo speranza contro il potere di altre forme televisive, contro i reality, contro lo sport, contro tutte le altre forme di distrazione che esistono. L’antimafia funziona a seguito di eventi clamorosi».
Cioè?
«Se domattina la camorra fa saltare Gratteri, mi auguro che non accada mai, allora si ha una nuova situazione di antimafia, una nuova stagione di impegno civico, di disgusto e sdegno collettivo. Però le mafie questo l’hanno capito e stanno attente. Finché non c’è il grande caso nazionale, l’interesse per l’antimafia è limitato a qualche serie tv. Insomma, c’è stata la stagione di “Gomorra” e quella di “Suburra”, ma paradossalmente quelle serie hanno contribuito a glorificare il criminale, che viene visto come un eroe invece che come portatore di male».
Quindi, spostandoti dal bagnasciuga verso l’interno, non vedi soluzione per la Calabria?
«Io vedo una grossa opportunità nel fatto di aver aspettato così tanto per poter investire nello sviluppo: ti eviti gli orrori degli anni ’80 e ’90, quindi in Calabria c’è uno spazio interessante, se la regione riesce a esprimere una classe dirigente illuminata che capisca che non resterà più nulla, fra 30 anni, continuando con la mentalità dominante. Andiamo incontro a un inverno demografico: nei prossimi 20 anni verrà archiviata la generazione dei nati fra il ’50 e il ’60, che è la più numerosa della storia italiana. In Calabria, che ha un’alta percentuale di pensionati, ci sarà uno spopolamento folle. Se la classe dirigente non vedrà oltre la prossima tornata elettorale, si troverà a governare una regione vuota. Se poi passa l’autonomia, io la vedo molto dura; specialmente se si lascia mano libera alle realtà locali, che sono meno controllate delle realtà nazionali». (redazione@corrierecal.it)
« Sono la madre di un ragazzo di 15 anni e uno di 13. Temo che possano finire in carcere o essere ammazzati come è successo a mio padre, mio fratello e mio suocero... Per favore, mi aiuti». Sono proprio i figli, e il desiderio di assicurare loro un futuro lontano da prigione e morte, il filo conduttore fatto d’amore che unisce le storie delle donne di ‘ndrangheta che si rivolgono al programma Liberi di scegliere, il protocollo governativo creato nel 2012peroffrire ai minori di famiglie mafiose la possibilità di una seconda vita lontano dalla criminalità organizzata.
La liberazione dalla malavita e la rinascita passano anche attraverso il coraggio delle donne, quasi sempre madri, quasi sempre vittime di matrimoni combinati tra clan per espandere il sistema delle alleanze strategiche, un complesso mosaico di parentele. Le donne delle ‘ ndrine sono cruciali: hanno il compito di garantire la discendenza, di crescere i figli che saranno i futuri capi e possono preservare o sfaldare l’unità del nucleo. «Significa essere l’elemento che consente la prosecuzione del governo mafioso perché genera i figli maschi, perché insegna loro l’odio e come e perché va compiuta la vendetta quando si subisce un torto», scrivono Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica al Tribunale di Catanzaro, e Antonio Nicaso ne La malapianta (Mondadori, 2010). «Spesso hanno il marito in carcere per reati mafiosi e quando capiscono che quello è il futuro che attende i loro ragazzi, vengono da noi. Arrivano di nascosto e sono spaventate», racconta Giuseppina Surace, giudice esperto del Tribunale minorile di Reggio Calabria, la città in cui l’ex presidente dello stesso Tribunale, Roberto Di Bella, ha creato il programma Liberi di
Scegliere quando ha capito che la mafia si eredita. «Mi sono trovato a giudicare i figli di minorenni che avevo condannato vent’anni prima», spiega il procuratore Di Bella che ha portato il suo protocollo a Catania, dove è presidente adesso, e in altre città. «Questa circostanza mi ha spinto a chiedermi cosa fare per prevenire il fenomeno dell’ereditarietà criminale tenendo conto che la ‘ndrangheta si fonda sul legame di sangue, familiare, a differenza di Cosa nostra dove prevale il vincolo del mandamento». «In questi 10 anni abbiamo aiutato circa 30 donne e 70-80 figli.
Anche qui a Catania sta iniziando a funzionare il nostro protocollo ma con modalità diverse perché la mafia ha meccanismi molto differenti dall’ndrangheta», valuta Di Bella. ( foto sopra al centro )
«Aiutare queste persone a fidarsi di noi è difficile perché sono intrise di paura e sospetto. Noi chiediamo loro di fare un salto nel buio recidendo tutti i rapporti di parentela e amicizia. Vivono un travaglio profondo», racconta la Surace.
«Io sono la prima persona che incontra le donne che intraprendono questo percorso», dice l’avvocato Enza Rando, attivista, vicepresidente di Libera,( foto a destra ) la principale rete associativa contro le mafie in Italia che collabora con Liberi di scegliere. «Non sono collaboratrici di giustizia né testimoni, per questo chiediamo una legge specifica. Per ora dobbiamo aiutarle noi a rifarsi una vita in una città lontana ma con lo stesso cognome, a trovare una casa, un lavoro o a riqualificarsi. Paghiamo tutte le spese e la nostra rete di volontari le sostiene nelle incombenze quotidiane, dall’aprire un conto in banca all’iscrizione dei figli a scuola. Le sosteniamo per ricrearsi delle radici perché anche la libertà è faticosa se non ti è stata insegnata», aggiunge la Rando.
Che cos’hanno in comune queste donne? «Sono vedove bianche. La loro vita è scandita dalle visite in carcere al marito, ai fratelli, ai figli. Sono condannate anche loro. Alcune avevano ruoli chiave, potere e soldi, eppure non godevano di alcuna libertà. Se il marito non c’è, sono controllate dalle suocere o altri parenti. Subiscono una doppia violenza: un’esistenza immersa nella brutalità delle regole del clan e la minaccia costante da parte della “famiglia” perché le prime persone che danno loro la caccia per ammazzarle, quando se ne vanno, non sono i mariti: sono i padri che vogliono salvare l’onore del cognome», continua la Rando, che ha incontrato decine di queste signore del coraggio. «La realtà mafiosa è immutata ma loro sono cambiate nel tempo. Hanno accesso a internet, seguono la tv e hanno maturato una consapevolezza: il diritto alla felicità. La storia di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa per vendetta dall’ex compagno, e il film su di lei (Lea, di Marco Tullio Giordana, 2015, ndr) hanno avuto un effetto dirompente per loro, ne parliamo spesso. Inizialmente quando arrivano da noi si comportano da mafiose, persino nella postura e nel linguaggio. Eppure col passare dei mesi tutte si accorgono di non avere mai sperimentato prima cosa fosse una vita “normale”. “Finalmente riesco a respirare”, è la frase più frequente. Nessuna, in dieci anni, è mai tornata indietro. Sono donne rigenerate, anche nel pensiero», spiega la Rando.
«Stiamo seguendo la storia di una ragazza figlia di un professore universitario e nipote di un magistrato. Ha 27 anni ed è distrutta. Ha interrotto gli studi per sposarsi col rampollo di una famiglia importante, il classico ragazzo belloccio e pieno di soldi. Dopo le nozze sono cominciati i guai ma lei ha voluto nascondere tutto alla sua famiglia. Il marito la picchiava e la ricattava usando il figlio: “Se parli, se scappi…”. La ragazza ha iniziato a soffrire di anoressia e a quel punto i genitori l’hanno convinta a confidarsi. Il marito è finito in carcere e lei ha potuto riflettere e rendersi conto che viveva un inferno anche perché mentre lui era dietro le sbarre era controllata dal clan. Quando è venuta da noi a denunciare, tremava così tanto da non riuscire a stare sulla sedia. Sua madre e suo padre sono stati grandiosi. Le hanno detto: “Lasciamo tutto, casa e lavoro, andiamo via”».
Sono tante le storie rimaste nel cuore del giudice Surace, quelle che Di Bella segue a distanza da anni e quelle che la Rando non molla mai. «Ammiro tutte queste donne. Però c’è una ragazza a cui sono molto legata: suo fratello, in carcere come anche il padre, anni fa ha ucciso la madre e lei è sola. Finito il liceo si è iscritta all’università ed è bravissima. Mi dice spesso che le manca la mamma, anche perché non è mai stato fatto ritrovare il corpo e questo la fa soffrire. Quando i suoi amici fuori sede ricevono la visita dei genitori per lei è un momento difficile ma poco tempo fami ha confidato: “Mia madre mi ha insegnato che ci possono essere tante mamme, persone che ti stanno vicino. Aveva ragione”. Ora è in Inghilterra a fare un corso e mi ha scritto: “Per la prima volta nella vitami sento spensierata”».
Viste spesso come l’anello debole della catena, le donne possono essere quello più forte perché lo spezzano. «La madre di due bambini ha scelto il nostro percorso mentre il marito era in carcere e lei in attesa di una sentenza di condanna», prosegue la Rando. «Quando le abbiamo consigliato di lasciare che i piccoli si avvicinassero subito a una famiglia affidataria, ha rifiutato. Era infuriata con noi. Poi ha riflettuto: “È vero, per loro sarà più semplice così”. I bimbi stati dati a una coppia di professori, persone dolcissime. Due anni dopo, quando è arrivata la condanna, la mamma ha spiegato ai figli: “Ho fatto degli errori e devo andare in prigione ma fidatevi di queste persone che vogliono aiutarci”. Quando la signora ha riavuto la libertà, il legame con la famiglia affidataria era così stretto, il suo senso di gratitudine così intenso, che ancora oggi trascorrono le feste e le vacanze insieme».
Un’inchiesta sul desiderio di boss e picciotti di entrare negli ordini cattolici
Duro e “puro”. S’infuria il boss Giuseppe Commisso, odia i Cavalieri di Malta (Sovrano Militare Ordine di Malta, Smom). Il giovane Pietro Futia gli ha chiesto il permesso, una spinta per entrare. Quelli sono una porcheria, ribatte il capobastone. Lo Smom succede all’antico ordine dei Cavalieri ospitalieri, è soggetto alla Santa Sede e svolge assistenza nel mondo. Perché il ragazzo di ‘ndrangheta ne è affascinato?
di Emiliano Morrone
Pietro è di Siderno (Reggio Calabria), a sud del Sud, dove un picciotto resta sempre tale. Il giovane ci pensa, il futuro gli sembra chiuso: là dal classico rispetto paesano c’è la condanna al banditismo, la fuga, il carcere o la morte sotto casa. Lavorare per «l’onorata società» è un’alea. S’accetta e fine, l’alternativa l’hanno sepolta da un pezzo in Regione. Forse in Calabria è anche peggio millantare l’appartenenza allo Stato. Serve una svolta, dunque. I Cavalieri di Malta portano privilegi, nobiltà e il “mantello” vaticano. L’orizzonte è altro. Il mafioso è un pezzente a vita, invece lì conosci chi comanda davvero, pensa Futia. Sicché puoi inserirti, lanciarti nell’impresa. Commisso lo blocca, poi si lamenta del compare Alessandro Figliomeni – l’ex sindaco «santista» – che ritiene dello Smom: «Ma Sandro se sapevamo che era là lo avremmo cacciato fuori». Due mondi inconciliabili, la cavalleria mafiosa e quella cattolica. Ne è certo il capo sidernese, che rivela coscienza delle cose e una vecchia rabbia. La ‘ndrangheta ha bisogno di onorevoli e faccendieri; loro sanno ottenere i posti e titoli giusti. I killer vanno in galera, i “don” all’ergastolo e i notabili ai Caraibi, rimugina Commisso.Così sarebbe stato per Giulio Lampada, sodale – secondo il gip di Milano Giuseppe Gennari – «di appartenenti alle famiglie mafiose di Reggio Calabria». Ma ogni tanto la sorte ci vede, malgrado le premesse. L’imprenditore calabrese ha un passepartout: Francesco Morelli (Pdl), già consigliere regionale della Calabria, condannato in Cassazione per rapporti di ‘ndrangheta. È lui che lo fa segnalare in Vaticano. Né come sospetto usuraio, quale risultava ai carabinieri di Milano nel 2001, né come affiliato. Per la Chiesa Lampada è un benefattore. Difatti, il 17 agosto 2009 la Santa Sede lo nomina cavaliere di San Silvestro Papa, l’ordine equestre retto dal pontefice. È lo stesso titolo di Oskar Schindler, «Giusto tra le nazioni» e protagonista di Schindler’s List. Ex aequo per meriti cristiani.La storia racconta altre storie. Cavaliere di Malta fu il pittore calabrese Mattia Preti, scuola Caravaggio e raptus di fede. Ma «tutto scorre come un fiume», e con la globalizzazione nasce in Calabria la scuola della ‘ndrangheta poliglotta, che parla la lingua del denaro, del potere e della nobiltà cristiana. Specie a Roma, dove Vincenzo Alvaro e Damiano Villari provano a conquistare la zona della «Dolce vita» di Fellini. Partono dal Cafè de Paris, toni jazz nella via Veneto di spogliarelli e Mercedes, macchinone e biondone. E, tra un pezzo di Coltrane e un medley di Carosone, incrociano alte sfere della borghesia capitolina. L’unione fa la forza, ma arriva la giustizia. In un filone dell’inchiesta finiscono due membri di spicco dello Smom, il marchese Gian Antioco Chiavari e il tenente della Dia Bruno Giovanni, accusato di favoreggiamento reale nei confronti di Alvaro.Le contiguità tra «santisti» e cavalieri crociati sono diverse, nascoste nell’abisso del silenzio. A volte i primi hanno il double-face, altre mantengono la propria divisa. La «Santa» ha i suoi riti simbolici e religiosi: si richiama al cavalierato degli spagnoli «Osso, Mastrosso e Carcagnosso» e agli arcangeli della milizia divina. La «santità» fonda, avvolge e accompagna l’azione criminale. Tuttavia, il folklore religioso può ingannare, apparire una scriminante tra affiliati integralisti e cavalieri nella Chiesa.In mezzo alla confusione, anche i doc della mala non capiscono e perdono le staffe. Orgoglio identitario, difesa della gerarchia. Domenico Gangemi, al vertice della ‘ndrangheta in Liguria, intercettato sparla di un consigliere comunale di Lavagna (Genova): «Ma sto pisciaturi (insulto) di sto Santo Nucera che non ha il santo, che vada a farsela in culo». Il boss non ne tollera l’autonomia, ancora più assurda senza il grado (della ‘ndrangheta) di «santo». Vicino alla curia, il politico verrebbe da una famiglia di punciuti, secondo il Ros di Genova. Calabrese d’origine, Nucera nega; è cavaliere di Malta, pare su invito del vescovo Alberto Maria Careggio, cappellano dello Smom.Il Nord è La Mecca della ‘ndrangheta, tra appalti, appetiti elettorali e riti vari. Su, gli emigrati calabresi mantengono il trasporto magnogreco, o forse un senso di popolo reietto in terra madre. Naturale, dunque, trattare un conterrano con cavalleria. Succede a Giuseppe Romeo, colonnello dei carabinieri originario di Benestare (Reggio Calabria). Il gip Gennari scrive che l’ufficiale dell’Arma briga con il boss della ‘ndrangheta Salvatore «Strangio per ottenere entrature politiche» in cambio di «favori». Romeo, cavaliere di Malta e di San Silvestro Papa, smentisce.Se la “Padania” è terreno delle ‘ndrine, in Calabria «c’è un tempo per piantare e un tempo per sradicare». Il seme buono – ripete il magistrato Nicola Gratteri – può contrastare la mala pianta dell’illegalità. Oltre alle procure, servirà perseveranza e una borghesia non più rapace, viscida, camaleontica.Tuttavia, giungono segnali opposti. Per esempio l’arresto di Mario Malfarà Sacchini per bancarotta da 2,7 milioni. Quando finisce in manette, il professionista vibonese è da poco cavaliere del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che dipende dalla Santa Sede e opera per i cristiani in Terra Santa. Giovanni Napolitano, luogotenente dell’Ordine per il Sud, commenta: «Non conosco Malfarà Sacchini, la situazione non mi risulta, bisogna domandarlo al preside di Reggio Calabria». E chiude: «I nostri cavalieri firmano una nota per cui scatta l’autosospensione, davanti a pendenze penali». Anche al preside di Reggio Calabria, Aldo Porcelli, «la situazione non risulta». «Va sentito il gran magistero», conclude, cioè Napolitano. Gli ordini cavallereschi di matrice cattolica sembrano cadere nella spirale dell’irrisolto, almeno per i fatti e i drammi calabresi. Il loro corporativismo collide con la necessità di pulizia e trasparenza, vuoto slogan del presente. Roberto Iuliano è il priore della Reale Arciconfraternita dei Cavalieri di Malta ad honorem, con sede a Catanzaro. Spiega che «per gli aspiranti garantisce il parroco».Iuliano confessa che «bisogna riformare la disciplina giuridica della cattedra, l’organo preposto a sospendere o allontanare membri con problemi giudiziari».Finora la cattedra è solo sulla carta. Il caso di Lampada non ha insegnato abbastanza.
Inchiesta uscita su Sette (Corriere della Sera) e ripresa in Vaticano massone. Logge, denaro e poteri occulti: il lato segreto della Chiesa di Papa Francesco, di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti, Ed. Piemme, 2014
Miccoli, ascesa e caduta di una stella del calcio dalle amicizie criminali L'attaccante pugliese ha militato nel Palermo dal 2007 al 2013 ed è il giocatore rosanero che ha realizzato il maggior numero di gol di Massimo Norrito
Sei anni di magie con la maglia rosanero, ma anche inchieste giudiziarie, sdegno per le frasi ingiuriose nei confronti di Giovanni Falcone sino alla condanna per estorsione resa definitiva dalla Cassazione. La storia a Palermo di Fabrizio Miccoli è una storia di grandi successi sul campo finita nel peggiore dei modi. Miccoli ha indossato la maglia rosanero dal 2007 al 2013 ed è ad oggi il giocatore del Palermo che ha realizzato il maggior numero di gol. Sono 81: 74 dei quali in serie A, nelle 179 partite disputate. Con Miccoli in campo il Palermo ha raggiunto alcuni dei traguardi più importanti della gestione di Maurizio Zamparini quando la squadra teneva testa e batteva le grandi del calcio italiano in un susseguirsi di successi e di partite che hanno fatto la storia del calcio rosanero. Ultima, prima dell'avvio del declino che poi ha portato al fallimento della società, la finale di Coppa Italia giocata e persa contro l'Inter in uno stadio Olimpico colorato di rosanero. Miccoli arrivava dal Benfica dove aveva giocato per due stagioni. Zamparini lo volle a Palermo per formare la coppia d'attacco insieme ad Amauri. E fu una scelta vincente perché Miccoli entrò subito nel cuore dei tifosi rosanero e a suon di gol portò il Palermo alla soglia della qualificazione in Champions.
Un traguardo che la squadra rosanero fallì in una sorta di spareggio contro la Sampdoria finito 1 a 1 nel quale Miccoli segnò un calcio di rigore con il legamento crociato del ginocchio rotto. Una epopea calcistica con la quale però troppo spesso si sono intrecciate le vicende giudiziarie che hanno visto coinvolto l'attaccante pugliese. Miccoli arrivò tra i cori dei tifosi che lo accolsero in un hotel di Mondello ed è andato via tra le lacrime dopo una conferenza stampa in un altro albergo cittadino. Allora il Miccoli protagonista negli stadi aveva già lasciato il posto al Miccoli protagonista a palazzo di giustizia.
Purtroppo il fenomeno dell'infiltrazione mafiosa non riguarda solo lo sport ma anche la sanità ed le sue strutture , " fortunatamente " solo in poche regioni , ma se si continua cosi , s'estenderà a tutto il paese .
Un'emergenza circoscritta , come dice questa inchiesta di repubblica ( purtroppo il link è a pagamento o scaricabile free con il codice QR ) da cui ho tratto la cartina sotto , a Campania e Calabria, con ripercussioni sui costi e sulla qualità del servizio sanitario nazionale. Oltre agli interessi economici, perseguita l'assunzione di persone legate ai clan locali per accrescere il consenso della popolazione intorno alle organizzazioni criminali
da http://www.alessioporcu.it/commenti/galli-mafia-cultura-mafiosa/ del
di Marco GALLI
Sindaco di Ceprano
Il problema più complesso non è combattere la mafia ( anzi le mafie aggiunte mia ) , ma la cultura mafiosa che la sostiene, si prostra, la difende.Un’impresa ancora più difficile in una nazione che ha fatto del clientelismo e del servilismo verso i potenti una peculiarità quasi unica, tra i Paesi avanzati del continente. Una nazione dove l’onestà non è di moda, così come la legalità. E che per questo sconta un livello di corruzione altissimo, con un costo in termini economici e di qualità della vita che non ha uguali.
Il ritardo dell’Italia sul piano economico e sociale non è dovuto al mancato investimento di risorse. Ma dalla corruzione che ha deviato gli investimenti nelle tasche dei mafiosi e dei politici corrotti.Purtroppo ancora oggi si fa troppo poco e i centri di potere restano sostanzialmente gli stessi, anche se cambiano nome, simboli e slogan, dimostrando una capacità di adattamento straordinaria. Li facilita una non cultura che si è incardinata su un populismo strisciante privo di reali contenuti.A questo si aggiunga l’assenza del cambiamento, frutto anche della non alternanza al Governo di questo Paese per oltre 50 anni.Non sarà facile modificare questo stato di cose, perché non è modificando un logo o un simbolo che si può trasformare in meglio il presente. Basta sfogliare i giornali per rendersi conto di questa generalizzata e trasversale illegalità.Serve una rivoluzione culturale che mobiliti le forze sane del Paese che ora sono indifferenti, perché ritengono inutile impegnarsi. Ma per cambiare, mandando a casa chi da trent’anni occupa posti di “comando” e condiziona la vita politica dei territori, non ci sono alternative.E qui ritorna il discorso della legalità, quale elemento indissolubile per creare un Paese “normale”.La legalità come pari opportunità, come giustizia sociale, come prospettiva di sviluppo, perché soltanto rispettando le leggi tutti potranno sentirsi a pieno titolo portatori di diritti e doveri in questo Paese.Ricco e povero, bianco e nero, di destra e di sinistra, maschio e femmina il rispetto delle norme consente tutti di essere semplicemente cittadini con i medesimi diritti e doveri,in un Paese straordinariamente “normale”.
da repubblica del 13\4\2017 Torino, il fisco "congela" nove anni di tasse all'imprenditore che denunciò la 'ndrangheta
Mauro Esposito
Mauro Esposito, testimone chiave del processo "San Michele" alle cosche del Nord Ovest, aveva accumulato un milione di debiti. Ora commenta: "Boccata d'ossigeno per me e i miei dipendenti"
di CARLOTTA ROCCI
Mauro Esposito non dovrà più pagare pagare le tasse arretrate all’agenzia delle entrate. L’imprenditore di Caselle che aveva avuto il coraggio di denunciare le minacce subite dalla ‘ndrangheta e si era costituito anche parte civile nel processo San Michele, ha vinto la sua battaglia contro il fisco in una vicenda che in tanti avevano definito assurda. Il debito con l’erario e con Inarcassa ammontava a circa un milione di euro, soldi che Esposito non aveva potuto pagare proprio perché stritolato dalle cosche. Eppure l’Agenzia delle Entrate aveva sostenuto che le minacce della ‘ndrangheta non costituivano una “causa di forza maggiore” tale da giustificare il mancato pagamento. Una situazione che aveva spinto Esposito a fare appello anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel frattempo sono arrivate 17 condanne nel processo San Michele. Ora, in accordo con la Procura che già in ottobre aveva deciso una "tregua fiscale" di tre anni,, l’Agenzia delle Entrate ha sospeso il debito di Esposito a partire dal 2011 fino al dicembre 2019. Tutte le sanzioni e le more sugli importi già rateizzate sono state annullate. Per l’imprenditore e architetto, che era arrivato a un passo dal fallimento, è una "boccata d’ossigeno per me, la mia azienda e i miei dipendenti" che gli permetterà di riprendere in mano le redini della sua "Me Studio". L’udienza per il pignoramento della ditta era già stata fissata per il 15 maggio. La vicenda di Esposito inizia quando l’architetto viene nominato direttore dei lavori di un maxicantiere a Rivoli. Il lavoro viene acquisito dalla società Rea di Nicola Mirante, uno degli imputati poi condannati nel processo San Michele. Era stato lui a fare pressioni su Esposito fino a minacciarlo per fargli approvare delle varianti nel progetto che avrebbero fatto lievitare i costi. Esposito rifiuta e la sua presa di posizione gli costa il posto, poi denuncia tutto e parte il procedimento penale, ma accanto a quel filone si apre un procedimento civile che vede lo stesso Esposito colpevole di aver violato le normative di una vecchia legge secondo cui le società di ingegneria non potrebbero lavorare per i privati. Esposito perde la causa e accumula un debito di circa un milione di euro. Un debito che avrebbe potuto schiacciarlo definitivamente.
sempre dalla stessa fonte
I veleni di una finta Antimafia di Stefano Esposito
Stefano Esposito - Senatore del Partito Democratico
Immaginate l’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino. Aprite gli occhi e sentirete come anche il ruggito del mare, imprigionato in un muro di cemento, gridi e parole che nessuno ascolta. Mafia. Ostia è un mondo capovolto. In quel pezzo di Roma dimenticato da tutti, nulla è come appare. L’emblema di quanto succede a 22 chilometri dal centro di Roma si riassume nell’ultima, scandalosa, manifestazione: una fiaccolata contro la proroga del commissariamento per mafia. Solo il X°Municipio riesce a negare confini storico-culturali: Sinistra italiana che sfila insieme a Casapound che sfila assieme al clan Spada, ai quali poi si uniscono squallide categorie di finti paladini dell’onestà. Il paradosso di Ostia sono proprio loro, le false associazioni antimafia, ovvero personaggi dai legami inquietanti (che ho denunciato in una lunga e dettagliata relazione consegnata nelle mani del presidente della Commissione parlamentare Antimafia) che in quel territorio tengono in piedi sei diverse associazioni diverse. Si occupano di tutto, loro: urbanistica, antimafia, comitati sulla salute pubblica. Strizzano l’occhio ai clan, dileggiano chi combatte davvero su quel territorio per il ripristino della legalità, puntano al potere politico che - per ben due volte - le urne hanno loro negato. Un centinaio di voti alle ultime amministrative e un veleno diffamatorio quotidiano contro chiunque lotti contro le famiglie malavitose. E contro le categorie che hanno imprigionato il mare di Roma. Anatemi, ricatti, dossieraggi e uno stillicidio quotidiano di bugie contro il loro nemico: la legalità. Eppure si professano paladini dell’antimafia e qualcuno (come i clan) si appoggia alle loro menzogne per isolare e denigrare chi mette loro i bastoni tra le ruote. Impossibile capire Ostia per chi lì non ne ha respirato l’aria. O toccato con mano cosa è capace di fare la stampa locale per favorire la criminalità, in combutta con quelle finte associazioni e qualche piccolo personaggio politico locale che, pur di avere un giorno da leone, prende per buone verità capovolte. Capovolte sì, come è capovolta una realtà. Dove i cattivi si nascondono sotto l’abito dei buoni e tutti vivono felici e contenti. Con la loro sporca coscienza.
Finta Antimafia? Cioè mafia! Se faccio il palo durante una rapina, sono criminale tanto quanto chi ruba, perché permetto, lavoro, collaboro, rendo fatto, azione, il crimine. E spesso leggiamo, sentiamo tutto e il contrario di tutto. A chi credere, se, chi in cui tu credi, dice il falso, permette l'omertà, lascia fare il peggio e l'impossibile? Ci sarà un perché. Si chiama convenienza. E ho deciso da un po' di disotterrare la penna, ora consapevole del dono che ho ricevuto, perché ho avuto la gioia di incontrare, conoscere chi "sa trasformare i deserti in foreste", come ha detto loro il magnifico Papa Francesco, il 4 febbraio in Udienza, in Vaticano. Se amiamo ciò che facciamo, saremo, siamo contagiosi. Incontrare su Avvenire le parole di Luigino Bruni, è stato straordinario. Non avevo minimamente idea di chi fosse, a dicembre. Ma quando ti sai spiegare così bene, con sapienza infinita del cuore, e parlando di soldi, come continuo a leggere, impari, leggendo, che non puoi stare zitta, non puoi lasciare perdere, non puoi stare a guardare. Il bene non fa rumore. Il male sí, e parecchio. Per questo sto scrivendo, per condividere il desiderio infinito di bene, solo di bene. Se avessimo autentica attenzione all'altro,tutti, tutt'insieme... pensate che "effetto domino" immediato! Non possiamo "asciugare il mare, con un bicchiere, da soli". Gli "Uomini Soli", Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ce lo hanno già insegnato.