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25.6.22

fuga dall'andrangheta nel nome dei figli \e

 

« Sono la madre di un ragazzo di 15 anni e uno di 13. Temo che possano finire in carcere o essere ammazzati come è successo a mio padre, mio fratello e mio suocero... Per favore, mi aiuti». Sono proprio i figli, e il desiderio di assicurare loro un futuro lontano da prigione e morte, il filo conduttore fatto d’amore che unisce le storie delle donne di ‘ndrangheta che si rivolgono al programma Liberi di scegliere, il protocollo governativo creato nel 2012peroffrire ai minori di famiglie mafiose la possibilità di una seconda vita lontano dalla criminalità organizzata.


 La liberazione dalla malavita e la rinascita passano anche attraverso il coraggio delle donne, quasi sempre madri, quasi sempre vittime di matrimoni combinati tra clan per espandere il sistema delle alleanze strategiche, un complesso mosaico di parentele. Le donne delle ‘ ndrine sono cruciali: hanno il compito di garantire la discendenza, di crescere i figli che saranno i futuri capi e possono preservare o sfaldare l’unità del nucleo. «Significa essere l’elemento che consente la prosecuzione del governo mafioso perché genera i figli maschi, perché insegna loro l’odio e come e perché va compiuta la vendetta quando si subisce un torto», scrivono Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica al Tribunale di Catanzaro, e Antonio Nicaso ne La malapianta (Mondadori, 2010). «Spesso hanno il marito in carcere per reati mafiosi e quando capiscono che quello è il futuro che attende i loro ragazzi, vengono da noi. Arrivano di nascosto e sono spaventate», racconta Giuseppina Surace, giudice esperto del Tribunale minorile di Reggio Calabria, la città in cui l’ex presidente dello stesso Tribunale, Roberto Di Bella, ha creato il programma Liberi di
Scegliere quando ha capito che la mafia si eredita. «Mi sono trovato a giudicare i figli di minorenni che avevo condannato vent’anni prima», spiega il procuratore Di Bella che ha portato il suo protocollo a Catania, dove è presidente adesso, e in altre città. «Questa circostanza mi ha spinto a chiedermi cosa fare per prevenire il fenomeno dell’ereditarietà criminale tenendo conto che la ‘ndrangheta si fonda sul legame di sangue, familiare, a differenza di Cosa nostra dove prevale il vincolo del mandamento». «In questi 10 anni abbiamo aiutato circa 30 donne e 70-80 figli. 

Anche qui a Catania sta iniziando a funzionare il nostro protocollo ma con modalità diverse perché la mafia ha  meccanismi molto differenti dall’ndrangheta», valuta Di Bella.  ( foto   sopra  al  centro  ) 
«Aiutare queste persone a fidarsi di noi è difficile perché sono intrise di paura e sospetto. Noi chiediamo loro di fare un salto nel buio recidendo tutti i rapporti di parentela e amicizia. Vivono un travaglio profondo», racconta la Surace.

«Io sono la prima persona che incontra le donne che intraprendono questo percorso», dice l’avvocato Enza Rando, attivista, vicepresidente di Libera,( foto a  destra   )  la principale rete associativa contro le mafie in Italia che collabora con Liberi di scegliere. «Non sono collaboratrici di giustizia né testimoni, per questo chiediamo una legge specifica. Per ora dobbiamo aiutarle noi a rifarsi una vita in una città lontana ma con lo stesso cognome, a trovare una casa, un lavoro o a riqualificarsi. Paghiamo tutte le spese e la nostra rete di volontari le sostiene nelle incombenze quotidiane, dall’aprire un conto in banca all’iscrizione dei figli a scuola. Le sosteniamo per ricrearsi delle radici perché anche la libertà è faticosa se non ti è stata insegnata», aggiunge la Rando.

Che cos’hanno in comune queste donne? «Sono vedove bianche. La loro vita è scandita dalle visite in carcere al marito, ai fratelli, ai figli. Sono condannate anche loro. Alcune avevano ruoli chiave, potere e soldi, eppure non godevano di alcuna libertà. Se il marito non c’è, sono controllate dalle suocere o altri parenti. Subiscono una doppia violenza: un’esistenza immersa nella brutalità delle regole del clan e la minaccia costante da parte della “famiglia” perché le prime persone che danno loro la caccia per ammazzarle, quando se ne vanno, non sono i mariti: sono i padri che vogliono salvare l’onore del cognome», continua la Rando, che ha incontrato decine di queste signore del coraggio. «La realtà mafiosa è immutata ma loro sono cambiate nel tempo. Hanno accesso a internet, seguono la tv e hanno maturato una consapevolezza: il diritto alla felicità. La storia di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa per vendetta dall’ex compagno, e il film su di lei (Lea, di Marco Tullio Giordana, 2015, ndr) hanno avuto un effetto dirompente per loro, ne parliamo spesso. Inizialmente quando arrivano da noi si comportano da mafiose, persino nella postura e nel linguaggio. Eppure col passare dei mesi tutte si accorgono di non avere mai sperimentato prima cosa fosse una vita “normale”. “Finalmente riesco a respirare”, è la frase più frequente. Nessuna, in dieci anni, è mai tornata indietro. Sono donne rigenerate, anche nel pensiero», spiega la Rando.

«Stiamo seguendo la storia di una ragazza figlia di un professore universitario e nipote di un magistrato. Ha 27 anni ed è distrutta. Ha interrotto gli studi per sposarsi col rampollo di una famiglia importante, il classico ragazzo belloccio e pieno di soldi. Dopo le nozze sono cominciati i guai ma lei ha voluto nascondere tutto alla sua famiglia. Il marito la picchiava e la ricattava usando il figlio: “Se parli, se scappi…”. La ragazza ha iniziato a soffrire di anoressia e a quel punto i genitori l’hanno convinta a confidarsi. Il marito è finito in carcere e lei ha potuto riflettere e rendersi conto che viveva un inferno anche perché mentre lui era dietro le sbarre era controllata dal clan. Quando è venuta da noi a denunciare, tremava così tanto da non riuscire a stare sulla sedia. Sua madre e suo padre sono stati grandiosi. Le hanno detto: “Lasciamo tutto, casa e lavoro, andiamo via”».

Sono tante le storie rimaste nel cuore del giudice Surace, quelle che Di Bella segue a distanza da anni e quelle che la Rando non molla mai. «Ammiro tutte queste donne. Però c’è una ragazza a cui sono molto legata: suo fratello, in carcere come anche il padre, anni fa ha ucciso la madre e lei è sola. Finito il liceo si è iscritta all’università ed è bravissima. Mi dice spesso che le manca la mamma, anche perché non è mai stato fatto ritrovare il corpo e questo la fa soffrire. Quando i suoi amici fuori sede ricevono la visita dei genitori per lei è un momento difficile ma poco tempo fami ha confidato: “Mia madre mi ha insegnato che ci possono essere tante mamme, persone che ti stanno vicino. Aveva ragione”. Ora è in Inghilterra a fare un corso e mi ha scritto: “Per la prima volta nella vitami sento spensierata”».

Viste spesso come l’anello debole della catena, le donne possono essere quello più forte perché lo spezzano. «La madre di due bambini ha scelto il nostro percorso mentre il marito era in carcere e lei in attesa di una sentenza di condanna», prosegue la Rando. «Quando le abbiamo consigliato di lasciare che i piccoli si avvicinassero subito a una famiglia affidataria, ha rifiutato. Era infuriata con noi. Poi ha riflettuto: “È vero, per loro sarà più semplice così”. I bimbi stati dati a una coppia di professori, persone dolcissime. Due anni dopo, quando è arrivata la condanna, la mamma ha spiegato ai figli: “Ho fatto degli errori e devo andare in prigione ma fidatevi di queste persone che vogliono aiutarci”. Quando la signora ha riavuto la libertà, il legame con la famiglia affidataria era così stretto, il suo senso di gratitudine così intenso, che ancora oggi trascorrono le feste e le vacanze insieme».

9.1.22

Aiutare gli altri. A ogni costo e a ogni prezzo. Questo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita Michele Ammendola, napoletano trapiantato a Bologna, prima di andarsene ieri per un infarto, a 46 anni.

<<[...] C'è un'AltrItalia che vive e si diffonde\ Non la trovi sui giornali, la TV ce la nasconde \E' un'AltrItalia che ti tende la mano \Migliaia di volti di un paese in cammino [... ] >>
qui    il resto del    testo   )  ed è proprio questa la storia che l'amato - odiato  Lorenzo Tosa che ci racconta e che qui riporto . LKo  so  che  non sono storie  mie  o da me trovate  sul  campo   , ma   sono storie come questa e quelle citate nella canzone sopra riportata che ci fanno andare avanti ed resistere .
Una storia piena di umanità, che scuote gli animi di chi non vede il dolore e la solitudine intorno a se e cieco continua a ignorare. Riposa in pace grande uomo

 Esso    era  un   Ristoratore sociale, sostenitore di “Libera”, nella sua pizzeria al quartiere Pilastro assumeva solo dipendenti delle categorie fragili, usava quasi esclusivamente prodotti che arrivavano dalle terre confiscate alle mafie. Per anni è
stato il volto dell’antifascismo e dell’antimafia a Bologna, sempre vicino agli ultimi, ai fragili, agli emarginati. Come quando, in pieno lockdown, decise di aprire un giardino per chi in casa non ci poteva stare. “Dovevamo aggiustare l’altalena, tagliare l’erba e dirlo al mondo che non si doveva avere paura della solidarietà anche nei momenti più bui” ha raccontato commosso l’attuale sindaco Lepore, suo grande amico.
Se n’è andato un uomo con la schiena dritta, uno di quelli che resiste, non si piega, che crede testardamente nella giustizia sociale anche dove apparentemente non ce n’è più traccia. E, dove non esiste, la porta, la crea, la inventa. L’Italia si regge su persone come Michele Ammendola. E oggi ha perso - abbiamo tutti perso - uno dei suoi figli migliori. Buon viaggio.



15.1.16

L’americana troia e il senegalese superdotato. (di Romina Fiore)


  leggo  su  http://www.sardegnablogger.it/ del  15\1\2016

  questo interessante  articolo  indignato   e  scritto  a   caldo     della bravissima  Romina fiore  

                L’americana troia e il senegalese superdotato.


Era donna.
Era fidanzata, anche se con un rapporto temporaneamente interrotto.
Era forse ubriaca, portandosi a casa un uomo appena conosciuto.
Quindi “Se l’è cercata”.
Deduzione scaturita in numerosi piccoli cervellini maschilisti.
Quello che ha invitato nel suo appartamento era un senegalese.
Di quelli col pisello grande, per intenderci.
Ah beh, allora era anche un po’ zoccola.
C’è la troia e c’è l’extracomunitario.
Elementi imprescindibili per girare un film con la regia di Salvini e la sceneggiatura di Catena Umana.
Le conclusioni arrivano presto, anche indotte da una certa stampa che non si limita a dare la notizia e/o moderare i commenti degli articoli online. Ci aggiunge, invece, contorni succulenti e licenziosi.
Giochi erotici di fine serata. Alcol, forse droghe. Abitudini sessuali da libertina.
Ashley Olsen era una donna libera, non libertina.
Libera come ogni donna dovrebbe essere.
Padrona di fare ciò che voleva del proprio corpo, senza per questo meritare l’orribile fine che ha fatto.
Padrona di ingrassare, senza guadagnarsi l’epiteto di cicciona e risatine al suo passaggio.
Padrona di dimagrire, senza sentirsi rivolgere commenti imbecilli “sei sciupata”.
Padrona di rifarsi le tette, senza dare adito a telenovelas che la connotano come una complessata o una donnicciola pateticamente aggrappata a una giovinezza che fugge via.
Padrona di fare sesso e portarsi a casa chi voleva.
Padrona del suo corpo e della sua morale.
Senza dover conseguire, alla fine dei giochi, la morte come giusta punizione per la sua condotta scandalosa.
Dissoluta e indecorosa solo ai vostri miserabili e patetici occhi, stronzi.



e da questa lettura scaturisce la risposta al questo mio interrogativo che inizia a balenarmi in mente già quando si è scoperto che era stata vigliaccamente uccisa dopo una notte di sesso : ha ragione . pero resta il problema di come chiamare \ considerare una che è fidanzata e poi dopo che ci litiga fa l'amore con un altro ? pubblica moglie per usare un trermine ala de andrè va bene ?


«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing    Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André d...