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19.2.25

Espresso Macchiato di Tommy Cash, dalla polemica social alle carte bollate del codacons che chiede European Broadcasting Union (Ebu), organizzatore dell'Eurovision Song Contest. di cancellarla dalla lista

LE ' notizia      di  oggi che  il   Codacons  ha    chiesto  provvedimenti  per  la  canzone   che  sta  spopolando ovunque  sulla  rete  Espresso macchiato  .    Ricordo  di un brano di Alberto Fortis che cantava ...vi odio voi romani... eppure non risultano prese di posizione, forse questo brano fà più scalpore perché anche  se  in maniera  stereotipata    dice una qualche verità sull'Italia e il suo popolo escludendoovviamente   la parte onesta che sopporta mal volentieri.  L’espresso macchiato diventa un caso.  Infatti secondo  il  quotidiano.net  << Non sono stiamo parlando della classica tazzina di caffé italiano (in questo caso con l’aggiunta di un goccio di latte) ma della canzone del artista estone Tommy Cash che porterà all’Eurovision song contest 2025 (il festival della canzone europea) la sua “espresso macchiato”.E mentre sui social divampano le polemiche sul brano ritenuto da molti irridente se non irrispettoso nei confronti degli italiani (il cappuccino macchiato stereotipo sulla stregua “mafia, pizza mandolino”), il Codacons ha deciso di inviare un ricorso all'European Broadcasting Union (Ebu), organizzatore dell'Eurovision Song Contest. "Ferma restando la libertà di espressione artistica che deve caratterizzare eventi come l'Eurovision, non possiamo non sollevare dubbi circa l'opportunità di far partecipare in una gara seguitissima dal pubblico di tutto il mondo un brano che risulta offensivo per una pluralità di soggetti", spiega il Codacons.>>

la  canzone   in  questione  cioè Espresso Macchiato,è interpretata un po’ in italiano e un po’ in inglese, non mancano i riferimenti, oltre all’espresso macchiato, alla mafia nel passaggio “io ho molti soldi, sudo come un mafioso” o agli spaghetti e al lusso (che si sottende chiaramente legato ai soldi della malavita), e così via  ed  quindi comprensibile  ed  evidente  che   la  cosa   faccia  incazzare  .  Infatti   "In queste ore si stanno registrando numerose reazioni indignate da parte di cittadini e mass media circa il contenuto della canzone 'Espresso Macchiato' del rapper Tommy Cash, scelta per rappresentare l'Estonia al prossimo Eurovision Song Contest 2025 che si terrà a Basilea dal 13 al 17 maggio – scandisce il movimento dei consumatori –. Un testo contenente stereotipi sull'Italia e gli italiani, associati ai soliti cliché del caffè e degli spaghetti, ma soprattutto alla mafia e all'ostentazione del lusso, e che lascia passare il messaggio di un popolo legato a doppio nodo alla criminalità organizzata". Ma  se  è  vero   che giustamente, vanno contrastate le canzoni dei rapper con testi sessisti e offensivi verso le donne , ecc    non  è  con la  richiesta   di  proibirla     che      si risolve   la  questione  cosi li si fa   ancora  più pubblicità  . Cosa  fare    allora  ?  lasciarlo  cantare   e contestarlo   con una contro canzone   magari  o fischiarlo  mentre  la canta  . 

13.1.25

INCHIESTA mafia ed eloico sardo 3 puntata Vento di infiltrazioni, intercettazioni & pizzini Guerra di ‘ndrangheta per la spartizione dei trasporti, coinvolta l’impresa delle notti nel porto di Oristano

  

puntate  precedenti 
 https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2025/01/ndrangheta-storie-pericolose-di.html





CRONACA SARDEGNA  INCHIESTA  3  puntata  

unione    sarda  13 gennaio 2025 alle 14:10

 
                                            Mauro  Pili 

Vento di infiltrazioni, intercettazioni & pizzini Guerra di ‘ndrangheta per la spartizione dei trasporti, coinvolta l’impresa delle notti nel porto di OristanoLe parole sono testuali, strappate ai muri di cemento armato blindato in una cella arsa dal caldo afoso del carcere di Opera, estrema periferia sud di Milano. Lì, in quel camminamento d’aria, non soffia nemmeno un filo di vento. Pareti grigio-topo, destinate a togliere il respiro anche all’ultimo dei boss, quello più cruento della storia di mafia. Le microspie ambientali lo assediano, come se gli avessero conficcato un microchip sottocutaneo. Registrano ogni respiro nel quartier generale dei capimafia confinati nella periferia della Padania. È il 30 agosto del 2013.
Capo dei capi
Chi striscia i piedi in quel quadrante apparentemente d’aria è nientemeno che il Capo dei capi, «la belva», quel Salvatore Totò Riina, capace di schiacciare un pulsante maledetto con l’inpunt di un “pizzino”. Le stragi di Capaci e via D’Amelio, quelle che uccidono Falcone e Borsellino, sono l’epitaffio della sua carriera criminale. In quel “passeggio” lo ascoltano in molti: c’è Alberto Lorusso, compagno di passi nel bunker di Opera e soprattutto loro, le cimici digitali. È il Padrino in persona che racconta del “picciotto” che in molti immaginano come suo erede: Matteo Messina Denaro, il figlio di «Zuù Cicciu». Parla colorito e non usa il bon ton per descrivere il suo allievo-traditore, Messina Denaro, colui che si era ribellato agli ordini del Capo dei capi.
Pali della luce
Nel passeggio-confessionale Riina racconta: «Questo qua, (Matteo Messina Denaro n.d.r.) questo figlio che lo dà a me per farne.., per farne quello che doveva fare, è stato quattro cinque anni con me, andava bene. Minchia… , poi si è messo la pala della luce, la pala della luce in tutti i posti pale ‘e luce. Ed è finita.., ed è finita! Ed è finita! È finita la luce…». È il passaggio più violento del distacco tra il Capo dei Capi e il suo successore mai riconosciuto. Tradimento senza appello, scolpito sull’altare più alto, quello del "disonore” dei Capimafia. Quelle “pale ‘e luce” nient’altro sono che pale eoliche, le stesse che hanno rimpiazzato il business di mafia in ogni nuova “terra promessa”, Sardegna compresa.
La svolta eolica
È duplice il tradimento che la “Belva” rimprovera a Matteo Messina Denaro: essersi messo in contrasto con altri “uomini d’onore” e perseguire affari che esulano totalmente dalla storia criminale della mafia. A “U‘Siccu”, il nome in codice di Denaro, Riina non gli perdona di essersi buttato a capofitto sull’affare eolico trasformando “Cosa Nostra” in una Società per azioni per vento e affari. A verbalizzare e tradurre le parole di Riina è Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di polizia: «Riina aveva confidato al suo compagno di detenzione la propria disillusione per il comportamento tenuto dal Matteo Messina Denaro il quale, pur avendo delle ottime “qualità criminali”, essendo stato “istruito” proprio dal Riina non aveva interamente messo a frutto gli insegnamenti ricevuti, preferendo dedicarsi al settore eolico (“pali della luce"), restandosene al sicuro all'estero con la fidanzata».
Vento sul maxi processo
I verbali del maxi processo Stato-Mafia hanno un capitolo tutto dedicato al vento: «Il signor Messina a cui faceva (Riina) riferimento era sicuramente Messina Denaro Matteo. La vicenda a cui si riferiva era legata alle pale eoliche. Lui in quel periodo, sia il Messina Denaro, unitamente a Vito Nicastri, soprannominato il re dell’eolico in Sicilia, si stavano interessando della zona in special modo del trapanese, per mettere dell’eolico. E quindi la vicenda a cui si riferivano era proprio questa delle pale eoliche, e il soggetto appunto era Messina Denaro Matteo».
Elettricista di M. Denaro
L’uomo dell’antimafia circoscrive fatti, uomini e stati d’animo: «In questa circostanza il Riina era molto adirato, anche nei confronti di Messina Denaro Matteo, perché lui in quel momento, ecco, a dire di Riina si stava impegnando principalmente in attività economiche… eolico…». Il pubblico ministero non lascia la presa: «C’era un tale Nicastri in qualità di prestanome nel settore dell’eolico?». L’ispettore è categorico: «Sì, è stato arrestato in qualità di prestanome di Matteo Messina Denaro». È un cambio radicale del paradigma mafioso: l’addio alla stagione stragista di Riina, il tradimento del codice di Cosa Nostra e, soprattutto, la svolta eolica, la nuova frontiera degli affari di U’Siccu. È sul vento, da Trapani a Ploaghe, nel nord dell’Isola di Sardegna, che gli affari di mafia si moltiplicano nel nome di Cosa Nostra. Quello di Matteo Messina Denaro è il primo vero sbarco eolico-criminale nella terra dei Nuraghi, ritenuta erroneamente inespugnabile.
Ciancimino a Is Arenas
Le sequenze di mafia e le infiltrazioni, poi, si moltiplicano da nord a sud dell’Isola: dai denari di Vito Ciancimino, scovati nel 2009 nelle pieghe delle società offshore pronte a gestire lo sbarco eolico, sventato, nel mare della costa oristanese, davanti a S’Archittu sino al rischio di possibili infiltrazioni all’interno della «Eolo Tempio Pausania srl per la ritenuta comunanza di interessi tra questa e Vito Nicastri, contiguo ad ambienti mafiosi». Gli uomini della Dia avevano accertato che in precedenza «il socio unico della Eolo Tempio Pausania di Verona risultava essere un’impresa con sede all’estero».Da Tempio a Barumini
Per i magistrati altro non era che «un complesso intreccio di vicende societarie, facenti capo a Veronagest e riconducibili in ultima analisi alla stessa figura del Nicastri». Un pericolo infiltrazioni inquietante capace di sbarcare sino alla Reggia Nuragica di Barumini. È nei progetti eolici che la vorrebbero circondare, infatti, che compaiono nomi altisonanti legati a questa storia.
Volo pesante
Il tutto riconducibile agli atti della Procura antimafia di Palermo dai quali emerge un volo su un jet privato per Tunisi con a bordo una compagnia “pesante”: Gioacchino Lo Presti di Alcamo (indagato tra le altre cose per aver favorito la latitanza di Alessandro Gambino), dello stesso Vito Nicastri e Filippo Inzerillo. Con loro anche l’uomo che risulta essere coinvolto nei progetti eolici da piazzare davanti alla Reggia nuragica di Barumini.
Allarme rosso
Storie inquietanti che da sole dissolvono l’idea di una terra inespugnabile, capace di respingere ogni incursione criminale. Così non è stato, così non è. Lo raccontano i fatti, le prove, le inchieste delle Procure e i processi. Tutte ragioni che dovrebbero indurre ad alzare, senza tergiversare un solo attimo, il livello di attenzione e di allarme, considerato che l’Isola è letteralmente sotto attacco. Quei progetti per innalzare in Sardegna 3.000 pale eoliche terrestri, trasformando la terra dei Nuraghi in un’immensa zona industriale, dovrebbero già di per sè imporre monitoraggi serrati e senza omissioni.
“Circo” eolico
A partire da quanto avviene da mesi nelle strade sarde, divelte senza regole, chiuse e protette dallo Stato per far passare le colonne marcianti del grande “circo” del vento. Lo abbiamo scritto nelle precedenti puntate: mezzi ciclopi carichi di gigantesche pale eoliche scortati dagli apparati statali, ma dichiaratamente, e scandalosamente, senza autorizzazioni multiple come si evince dai documenti allegati nei provvedimenti di chiusura delle strade. Identificazione senza appello per chiunque tenti di manifestare la propria contrarietà allo sfregio dell’Isola, ma silenzi strabici per chi, venuto da oltre Tirreno, imperversa senza un minimo controllo alla guida di quei bisonti eolici della strada.

Indignazione
E non può non destare quantomeno sorpresa, se non indignazione, il fatto che si stesse facendo passare nel silenzio assoluto la storia recente della ditta venuta da lontano chiamata a svolgere i trasporti delle pale per il parco eolico di Santu Miali alle pendici del Monte Linas, nel territorio di Villacidro, e di Domusnovas, davanti al Marganai.
Carte processuali
In migliaia di pagine processuali, comprese le sentenze della Cassazione di questi ultimi mesi, si possono leggere stralci giudiziari da far rabbrividire: «Per come emerso, all’epoca dei fatti, Di Palma Riccardo, insieme al defunto fratello Antonio, amministrava La Molisana Trasporti S.r.l. (la società che gestisce i trasporti delle pale per Villacidro e Domusnovas n.d.r.), svolgendo un ruolo operativo, che ne implicava la frequente presenza nei cantieri e la pragmatica gestione dell'attività di trasporti. La sua responsabilità, in termini di compartecipazione morale agli atti estorsivi e di illecita concorrenza posti materialmente in essere da Evalto e da Trapasso (Giovanni, capo del clan n.d.r.) nei confronti di Runco Carlo, emerge dalla serrata serie di intercettazioni, di epoca antecedente, contemporanea e successiva a quanto occorso, che lo ha visto co-protagonista, insieme all'Evalto, delle vicende per cui è causa, tanto che egli viene menzionato quale sostanziale "referente" dell'affare anche nelle conversazioni intercorse tra Evalto ed il fratello Antonio».
Accordi con ‘ndrine
I giudici lo scrivono espressamente: «Da quanto si evince, infatti, le strategie illecite di Evalto per dare concreta esecuzione a quanto deciso dagli "ingegneri" (il nomignolo dei boss) e per imporsi quale competitor nell'ambito dei trasporti del Parco Eolico Vestas, aggirando norme, rapporti contrattuali in essere ed in generale qualsivoglia tipo di ostacolo, venivano concordate con Di Palma Riccardo…».
Matrimonio per pochi
La sentenza del Tribunale di Crotone racconta e conferma: «Sulla perfetta conoscenza da parte del Di Palma dell'appartenenza di Evalto alla 'ndrina Mancuso e del rapporto di quest'ultimo con "l'ingegnere di Cutro", Trapasso Giovanni, non vi possono essere dubbi, in quanto in numerose delle conversazioni, sopra citate e riportate, l'Evalto faceva riferimento ad incontri avuti con entrambi gli "ingegneri" ed alle direttive ed indicazioni ricevute da costoro. Non bisogna, altresì, trascurare - ad ulteriore conferma dello stretto legame Evalto-Di Palma-cosche 'ndranghetiste - in primo luogo, che Evalto Giuseppe e Di Palma Riccardo, in data 16.06.2012, si recavano insieme, con l'auto aziendale intestata a La Molisana S.r.l. al matrimonio di Trapasso Leonardo, figlio dell'ingegnere", evento a cui certo non era invitato chiunque, ma solo persone vicine al Trapasso». Ora, con il silenzio di molti, la “Molisana Trasporti srl” trasporta, con la scorta dello Stato, le pale eoliche in terra sarda.

21.8.24

quando capiremo che la mafia e anche mentalità oltrechè illegalità essa continuerà ad esistere ed essere endemica . il paese di Corfinio, Comitato contro l’intitolazione della piazza a Falcone e Borsellino. proteste con la Soprintendenza che boccia la proposta di ridenominazione

 La mafia non è  solo  un fenomeno antropologico  nato  nel sud   fra  il XVIII\ XIX  secolo   o  forse  prima   ma  anche un fatto    di mentalità  culturale   che  no fa  distinzioni  fra  nord  e sud    vista   la  sua radicalizzazione  gerografica  e politico\ istituzionale  . Infatti  come    ho detto nel titolo    quando  capiremo  che la  mafia  e  anche  mentalità   oltrechè illegalità  non solo  folkore   essa  continuerà  ad esistere  ed  essere endemica . I fatto come  quello  di  Corfinio  solo per  citare  un esempio   di  sottovalutazione .

da    https://www.ilgerme.it/  tramite  google news   d'oggi  21\8\2024


Corfinio, Comitato contro l’intitolazione della piazza a Falcone e Borsellino. Soprintendenza boccia la ridenominazione

No della Soprintendenza alla ridenominazione della Pizza principale di Corfinio. Il Comitato ri-denominazione del paese peligno ha contestato la decisione presa dalla Soprintendenza ai Beni Culturali, che ha bocciato il ritorno al nome d’origine, mantenendo l’attuale nome di Piazza Falcone e Borsellino. Una decisione che ha fatto storcere il naso, tanto da far scrivere una lettera aperta al Ministro Gennaro Sangiuliano

“per esprimere il profondo sconcerto causato dalla decisione della Soprintendenza ai Beni Culturali, la quale ha espresso parere negativo per la ridenominazione dell’antica Piazza di Corfinio, che sottende un importantissimo Bene Culturale, simbolo del luogo dove è nata l’Italia”.Dagli anni ’30 la piazza ha portato il nome di Piazza Italica. Ciò fino al 2017, quando con delibera della Giunta Comunale il cuore del paese è stato intitolato ai due magistrati, brutalmente uccisi nelle stragi di mafia del 1992. Uno “sfratto” che la popolazione non ha accolto positivamente. Tant’è che la lettera del Comitato ri-denominazione parla di “grave disagio sociale” nell’animo dei cittadini. Termini forti, se accostati a due mostri sacri della legalità italiana, morti per non aver taciuto e non aver arretrato di fronte alla mafia.Non sono bastate le 300 firme raccolte su 980 abitanti per far cambiare idea alla Soprintendenza, che ha bocciato il ritorno alla denominazione delle origini, legato alla Lega Italia, della quale Corfinio fu la capitale.

14.3.24

La mafia di Casarano, in provincia di Lecce, esegue omicidi e attentati ma è la cronista pugliese Marilù Mastrogiovanni, a processo, a dover dimostrare che la mafia esiste

colonna sonora


Chi vede lontano  , o addirittura anticipa le cose  , viene  punito . Nonostante poi le  sue  inchieste   anticipatrici  confermino  la cosa



  . E' il caso della  giornalista  pugliese  Marilù Mastrogiovanni  chè  è a processo per  aver  scoperchiato il vaso di pandora   sulla quarta mafia   ,  cioè la Sacra Corona Unita,  ben   prima    che  v'indagasse  la  magistratura  .   Infatti 
Dopo l’ennesimo omicidio di mafia a Casarano (Le) in un parco giochi in pieno centro, tutto il Salento ha reagito alla morsa della sacra corona unita con una grande marcia per la legalità organizzata dal sindaco Ottavio De Nuzzo.



Lo stesso che, insieme al suo predecessore e altri ex assessori, sta infliggendo un vero e proprio calvario giudiziario alla giornalista pugliese Marilù Mastrogiovanni, giornalista professionista, direttrice del giornale d’inchiesta www.iltaccoditalia.info  e   dal ricco curriculum che trovate qui :<< Profilo professionale di Marilù Mastrogiovanni >>su marilumastrogiovanni.it e essa ha all'attivo diverse colaborazioni

Nel corso della mia vita professionale ho diretto, anche per committenti esteri, decine di riviste tematiche o di settore (medicina, turismo, scuola, imprenditoria, associazionismo, ricerca scientifica e innovazione, house organ), curandone ogni dettaglio, dall’ideazione del piano editoriale, al menabò, fino all’ “ok si stampi”, passando per la definizione del “timone” e del palinsesto.
Ho scritto e, in alcuni casi, continuo a scrivere per diverse testate nazionali:
· Il Sole 24 ore (dal 2002 ad oggi)
· Il Manifesto (dal 2009 ad oggi)
· Il Fatto quotidiano (dal 2009 al 2015)
· Nuovo Quotidiano di Puglia (dal 2008 al 2012)
Sono consulente per Presa diretta (Rai3) ed Euronews. Collaboro anche con Left e Narcomafie


La colpa di Mastrogiovanni? Aver fiutato , secondo webinfo@adnkronos.com (Web Info) 17 ore fa , sin dal 2004 la nascita e il consolidarsi di un nuovo clan della sacra corona unita, e averne scritto ben prima degli omicidi e delle successive ordinanze di misure cautelari indirizzate ai componenti del clan. Mastrogiovanni ne ha scritto, facendo nomi e cognomi, descrivendo la gerarchia dell’organizzazione, indicando le aziende in cui i proventi dello spaccio di droga venivano reinvestiti, scoprendo una fitta rete di fiancheggiatori insospettabili. Aver stigmatizzato la vicinanza tra il clan e un consigliere comunale di Casarano.La giornalista, già presidente della giuria del premio mondiale dell’Unesco per la libertà di stampa “Guillermo Cano” e, a sua volta, vincitrice di numerosi premi per le sue inchieste e ideatrice del Forum delle Giornaliste del Mediterraneo, dal 2005 ad oggi ha pubblicato fiumi di inchieste non solo sul Tacco d’Italia ma anche sui principali giornali nazionali e internazionali: le azioni criminali della SCU di cui scrive Mastrogiovanni riguardano i Comuni del Salento e le ramificazioni nel resto del Paese e della UE: dalla cementificazione delle coste allo sversamento dei veleni nella falda acquifera, dall’irrisolto omicidio di mafia di Peppino Basile allo spaccio di cocaina, dal traffico di rifiuti alle infiltrazioni mafiose nelle aziende locali e nei bandi pubblici.
Migliaia di pagine di inchieste, numerose querele e nessuna condanna. Mastrogiovanni è difesa dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, del foro di Bari.
Le inchieste giornalistiche su Casarano
Dopo l’omicidio del boss della Scu Augustino Potenza nell’ottobre 2016 a colpi di kalashnikov, la direttrice Mastrogiovanni pubblicò sul Tacco d’Italia un’ampia inchiesta nella quale ne ripercorreva le “gesta”, dimostrando il consenso sociale e politico di cui godeva. E ha poi continuato a denunciare.
Articoli non graditi dall’amministrazione comunale guidata dall’allora sindaco Gianni Stefàno (Fratelli d’Italia) che mise la giornalista nel mirino, affiggendo decine di manifesti per la città, prima invitando la cittadinanza a reagire contro chi infanga il buon nome della città (cioè la giornalista che scrive di mafia), poi affiggendo dei manifesti di sei metri per tre che la rappresentano seppellita in una fossa.
Tutta la comunità giornalistica locale, nazionale e internazionale si è mobilitata con una raccolta firme e accorati appelli affinché il sindaco rimuovesse i manifesti, sia perché l’episodio in sé rappresentava un concreto pericolo per la sicurezza della giornalista (tra i commenti sulla pagina Facebook ufficiale del sindaco, che aveva pubblicato il testo del manifesto come comunicato stampa, numerose offese e minacce dai sodali del boss, tra cui la vedova), sia perché quelle affissioni rappresentavano, secondo la categoria, un pericoloso punto di non ritorno, ossia l’interruzione della normale dialettica democratica tra stampa e politica, nella cornice garantista della legge sulla Stampa.
Sono state così attivate le prime misure di protezione da parte del Prefetto di Lecce Claudio Palomba che, nel corso del Consiglio comunale monotematico tenutosi all’indomani dell’affissione dei manifesti ha espresso solidarietà a Mastrogiovanni, esprimendo preoccupazione per il “welfare mafioso” diffuso nella comunità casaranese e salentina.
Sequestro del giornale, imputazioni coatte, decreti di citazione diretta a giudizio
Decine e decine di querele archiviate più una mezza dozzina di assoluzioni, tolgono tempo al lavoro d’inchiesta: “O scrivo memorie difensive o scrivo inchieste”, ha affermato Mastrogiovanni.
Nel frattempo la giornalista ha deciso di trasferirsi a Bari per salvaguardare la serenità e la sicurezza della sua famiglia.
Le misure di protezione si attivano quando è nel Salento.
Dal 2016 ad oggi Mastrogiovanni è nel mirino di una serie di azioni giudiziarie violente: il giornale “Il Tacco d’Italia” è stato sequestrato per 45 giorni; poi dissequestrato dal Tribunale del riesame. Nel processo che ne scaturì, conclusosi con sentenza di assoluzione, si sono costituiti parte civile la FNSI con Assostampa, la Consigliera nazionale e regionale di Parità, l’UDI (Unione donne italiane), Pangea-Reama, il centro antiviolenza Labriola di Bari, mentre l’Ordine nazionale e regionale dei giornalisti, Giulia Giornaliste, Reporter senza frontiere, Ossigeno per l’Informazione, Amnesty International, Articolo 21, e tanti altri si sono mobilitati a difesa della libertà di stampa. Il caso fu trattato dalla trasmissione tv “Le Iene” e Mastrogiovanni fu chiamata in audizione dinanzi alla Commissione regionale antimafia.
Il caso eclatante dei manifesti del sindaco che invitava a reagire contro la giornalista fu sollevato dal presidente della FNSI Beppe Giulietti, in conferenza stampa, dinanzi all’allora presidente della Commissione d’inchiesta sulle mafie Rosy Bindi e la stagione della trasmissione “Cose nostre” della RAI si aprì proprio con il documentario “Attacco al Tacco”, sulla storia giornalistica di Mastrogiovanni.

I giudici hanno fatto poi ricorso a imputazioni coatte (nonostante le richieste di archiviazione dei Pm) e decreti di citazione diretta a giudizio (saltando la fase dell’udienza preliminare, il Pm obbliga l’indagato a presentarsi direttamente dinanzi al giudice monocratico). In uno dei processi a suo carico dovrà dimostrare di essere stata sottoposta a misure di protezione, perché il fatto che le avesse è stato ritenuto diffamatorio dal querelante (l’ex sindaco di Casarano) e dai giudici, che l’hanno rinviata a giudizio.


La dichiarazione della FNSI e Assostampa

Siamo molto preoccupati per la morsa giudiziaria di cui è vittima da anni la collega Maril Mastrogiovanni, direttrice di www.iltaccoditalia.info, a causa del suo lavoro d’inchiesta sulla sacra corona unita, la mafia del Salento: lo dichiarano in una nota congiunta la Federazione nazionale della stampa italiana e il sindacato dei giornalisti pugliesi Assostampa. Nel mese di marzo dovrà affrontare ben tre processi, alcuni avviati a seguito di imputazione coatta, nonostante la richiesta di archiviazione del Pm; nella giornata di venerdì 15 marzo sarà chiamata a presenziare in due procedimenti contro di lei, avviati a seguito di querela da parte di alcuni amministratori locali, tra cui l’attuale sindaco di Casarano. La sua colpa è di aver illuminato le zone grigie del malaffare e le influenze dei clan sui gangli vitali della vita democratica. Dopo l’omicidio di mafia avvenuto una settimana fa a Casarano, maturato negli ambienti dei clan di cui scrive Mastrogiovanni, la sua posizione appare ancora più critica. La collega negli ultimi anni è stata oggetto di minacce anche di morte, intimidazioni, querele temerarie e perfino il sequestro del giornale, fatto gravissimo per il quale si è costituita al suo fianco la FNSI. È stata costretta a trasferire la sua residenza. Nei suoi confronti sono state disposte misure di protezione. Ad oggi la maggior parte delle querele sono state archiviate e i processi risolti con sentenza di assoluzione. Il giornalismo d’inchiesta è un pilastro della democrazia, per questo la FNSI continuerà ad essere al fianco della collega nel suo compito primario di garantire il diritto dei cittadini di essere informati anche su fatti scomodi in un territorio sempre più a rischio, qualora la voce dei giornalisti

20.2.24

perchè cavalco la tigre e parlo di storia e di argomenti divisivi o anticaglie come dicono alcuni . 40 della strage di natale 23\12\1984-23\12\2024 strage rapido 904

 

 fatto 
Strage del Rapido 904 o strage di Natale è il nome attribuito a un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 nella Grande Galleria dell'Appennino, subito dopo la stazione di Vernio, ai danni del treno rapido n. 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano[. . [...]  da  Strage del Rapido 904 - Wikipedia

 dalla  newsletters   di  Altre/Storie di https://mariocalabresi.com/


Quarant’anni fa l’attentato al Rapido 904 spezzava vite e cambiava destini. Anche quello della famiglia Taglialatela, dimezzata dall’esplosione. Nella settimana in cui la Procura di Firenze è tornata a indagare sui responsabili della bomba, Gianluca Taglialatela racconta la sua storia di sopravvissuto e il suo bisogno di verità



Il 1984 era stato un anno felice per la famiglia Taglialatela, vivevano a Ischia e non avevano pensieri o problemi. Papà Gioacchino la mattina lavorava in Comune e il pomeriggio faceva il geometra; mamma Rosaria aiutava suo padre nel ristorante di famiglia; Gianluca, che era in terza media, appena poteva correva a giocare a tennis e Federica, che aveva solo 12 anni, era quella che le maestre chiamavano “una bambina modello”, educata, sorridente, bravissima a scuola. Per Natale avevano deciso di lasciare l’Isola per andare a sciare a Livigno, ma pur avendo passato giornate a telefonare a tutti gli alberghi, non avevano trovato posto. Così avevano deciso di andare a passare le feste dai parenti che abitavano a Milano, gli zii che erano scappati al Nord dopo il terrore del terremoto del 1980. A Milano avrebbero festeggiato anche i 14 anni di Gianluca che li compiva il giorno della Vigilia. Il regalo però glielo avevano già dato a Ischia: una nuova racchetta da tennis. La teneva stretta quando alle 12:55 del 23 dicembre 1984 il Rapido 904 partì dal binario 11 della stazione di Napoli.


Alcune fotografie della famiglia Taglialatela


Appena saliti si erano sistemati nel primo scompartimento della carrozza di seconda classe, ma era tutto bagnato e puzzava, allora decisero di cambiare e si spostarono di due scompartimenti. Gianluca si era portato la radiolina e fino all’arrivo a Roma ascoltò la telecronaca di Juventus-Napoli. Aveva vinto 2-0 la Juve allenata da Trapattoni, il gol del raddoppio lo aveva segnato Michel Platini. Era il primo anno di Maradona al Napoli e nonostante le grandi speranze la squadra ancora non era decollata.
Il treno era pienissimo e si riempì ancora di più a Roma, c’era gente seduta sulle valigie e per terra, in corridoio. I Taglialatela si misero a giocare a carte.
«Quando il treno si è fermato alla stazione di Firenze – ha raccontato la signora Rosaria - io sono uscita dallo scompartimento per fumare una sigaretta e mio marito è sceso per comprare un pacco di biscotti ai ragazzi. Nel corridoio non c’era più nessuno, il treno si era svuotato, mi sono messa al finestrino a osservare la gente che scendeva, poi ho visto un signore che appoggiava due borsoni scuri nella reticella portabagagli del corridoio. Io ero di fronte al mio scompartimento, c’erano i miei figli e una ragazza che mangiava una mela. Guardavo quell’uomo robusto, aveva un cappotto cammello e un basco sulla testa, e non capivo perché mettesse le sue borse all’esterno dello scompartimento e non dentro. Poi è arrivato mio marito, siamo entrati dentro, abbiamo dato i biscotti ai ragazzi e il treno è ripartito verso Bologna. Ci siamo rimessi a giocare a carte e dopo dieci minuti, un quarto d’ora, mentre eravamo in galleria, è successo quello che è successo».


La carrozza del Rapido 904 squarciata dalla bomba ©Luciano Nadalini / Mappedimemoria.it


Quello che è successo è che alle 19:08, mentre il Rapido 904 percorreva la Grande galleria dell’Appennino, ci fu una terribile esplosione che uccise 16 persone e ne ferì 267. Un attentato voluto dalla mafia, nel momento in cui Tommaso Buscetta aveva cominciato a parlare con il giudice Giovanni Falcone.
«Si parlava, si rideva, e in una frazione di secondo tutto è cambiato. Sono stato investito dal calore, dai detriti, scaraventato lontano. Ricordo il buio.
Come nei film c’è stato un momento di silenzio totale, poi gemiti, urla, richieste di soccorso. Siamo stati tanto tempo là sotto, un paio d’ore, io ero bloccato e ustionato dall’esplosivo. Avevo perso il senso del tempo. Federica era di fronte a me, non la vedevo e non l’avrei mai più vista, ma sentivo i suoi capelli con la mano. Erano bruciati».
Gianluca Taglialatela oggi ha 53 anni, vive a Milano dove ha una pizzeria di fronte all’Arco della Pace. È rimasto solo lui di quella famiglia felice. Fino allo scorso anno c’era anche mamma Rosaria, ma è mancata ad aprile, a 82 anni.
Rosaria è stata testimone nel processo che condannò all’ergastolo Pippo Calò, il cassiere della mafia, e fino alla fine della sua vita ha chiesto di conoscere tutta la verità, convinta che molte cose non fossero chiare. Proprio questa settimana si è saputo che, quarant’anni dopo, la Procura di Firenze è tornata ad indagare sull’ipotesi – già emersa allora – che nella strage ci fossero complicità da parte di elementi dell’estrema destra neofascista ed esponenti dei servizi segreti. Gianluca ha letto della nuova inchiesta dai giornali e ancora una volta è tornato a sperare: «Abbiamo sempre pensato che fosse una strage nera e di mafia, la verità che abbiamo è parziale, è bene che qualcuno abbia ancora voglia di scavare».
Anche se la sua vita non potrà cambiare. «Ero un bambino cresciuto in un’isola felice e poi in un istante, il giorno prima di compiere quattordici anni, tutto finisce, tutto si tronca. Tante volte ho pensato al caso tragico che ci aveva messo su quel treno e in quella carrozza, le probabilità erano meno di quelle di vincere al Lotto. Poi penso che se non avessimo cambiato scompartimento io non sarei qui a ricordare: in quello bagnato da cui ce ne siamo andati non si è salvato nessuno».


L’esplosione della bomba sul Rapido 904 uccise 16 persone e ne ferì 267 ©Luciano Nadalini / Mappedimemoria.it


I mafiosi, che avevano azionato il comando della bomba quando era in galleria per massimizzare l’effetto dell’esplosione, puntavano ad una strage ancora più grande. In quel momento il Rapido 904 avrebbe dovuto incrociare il treno che arrivava da Parigi, ma non successe perché era in ritardo.
«ll primo ricordo della mia seconda vita è il risveglio sotto la lampada del tavolo operatorio dove mi stavano dando dei punti in faccia. Ricordo queste luci negli occhi. Poi tornai più volte nella sala operatoria perché le lamiere mi avevano tagliato l’avambraccio, ma un’equipe pazzesca del Rizzoli di Bologna riuscì a rimetterlo insieme. Papà e mamma vennero ricoverati all’Ospedale Maggiore e dimessi dopo un mese. Venivano a trovarmi dei parenti, ma nessuno mi diceva nulla, non sapevo che mia sorella non ci fosse più, non mi dissero dei suoi funerali. Piano piano cominciai a capire le cose, anche se non mi facevano vedere la televisione. Ho scoperto solo molto tempo dopo che Federica, che aveva 17 mesi meno di me, era morta. Aveva sbattuto lo sterno contro il tavolinetto su cui giocavamo a carte e quello l’aveva uccisa».
Gianluca ricorda ogni secondo, ogni faccia e ogni nome di quel ricovero durato ben sei mesi: «Ricordo ancora la caposala Erminia: io stavo bene all’ospedale perché mi coccolavano e mi facevano sentire al sicuro. Non volevo uscire più. Non volevo tornare nel mondo di fuori». Il mondo di fuori gli avrebbe fatto ancora più male, due anni dopo: per i postumi dell’esplosione, sarebbe morto anche suo padre. Della famiglia felice erano rimasti solo in due, ma si rimboccarono le maniche: Gianluca a 17 anni lasciò la scuola per lavorare come cameriere.


Il Parco Pineta degli Atleti, alle spalle della casa della famiglia Taglialatela a Ischia, dove Federica e Gianluca giocavano da bambini


«Ma non ho mai pensato di essere una vittima e nel mio dramma mi reputo anche fortunato, ho quattro figli, un bel lavoro e sono arrivato a 54 anni. È un altro il problema: mi porto dietro un terribile senso di colpa di essere sopravvissuto. Ancora oggi non riesco a parlare di mia sorella senza commuovermi, e una delle mie figlie porta il suo nome».
A estrarre Gianluca dalle lamiere del treno fu un giovane volontario arrivato da Bologna, di nome Stefano: «Pensa che ogni Natale, da trentanove anni, mi chiama per gli auguri. Gli sono infinitamente grato di avermi tirato fuori da quell’incubo».
La nuova esistenza di Gianluca trovò una forma quando lo zio gli chiese di prendere nuovamente il treno per Milano: «Erano passati esattamente dieci anni, avevo messo un po’ di soldi da parte facendo il cameriere e poi il barman di notte tra Ischia e Napoli, e lo zio mi convinse ad investire i miei risparmi nella “pizza del futuro”. Mi feci coraggio e ricominciai dalla città in cui non eravamo mai arrivati». Gianluca si accende quando parla della pizza sottile e digeribile che fa, da allora, nel suo locale che si chiama “Taglialà”. È soddisfatto della sua vita.
«Devo tantissimo a mia madre, una donna d’altri tempi. È riuscita ad avere una forza incredibile, aveva perso la figlia e il marito ma non l’ho mai vista piangere. Era piena di schegge di vetro dappertutto, che le sono uscite per anni dalla pelle, e rimase gravemente ferita all’occhio sinistro, ma è stata capace di vivere e mi ha lasciato libero di viaggiare e di andare nel mondo. Non voleva che rimanessimo chiusi in casa a piangere. A metà degli anni Novanta cominciò una relazione con un uomo di Roma e insieme aprirono una scuola di ballo. Lei, che amava ballare da sempre, si era messa a studiare e aveva preso un diploma per insegnare il liscio. Quando quella storia finì tornò a Ischia dove per anni ha gestito un piccolo albergo di dieci camere sul mare».
Parliamo a lungo, ma di Federica Gianluca non riesce a dire quasi nulla. Alla fine del nostro incontro mi suggerisce di chiamare la loro professoressa di matematica e scienze delle medie, si chiama Sandra Malatesta e vive ancora ad Ischia. «Lei, da allora, porta avanti il ricordo di Federica con tutti i bambini dell’Isola. Ha un amore infinito per mia sorella».


Federica Taglialatela © Fondazione Pol.i.s. / Noninvano.org


La professoressa Sandra, che ha insegnato per 43 anni, non si è fatta pregare, mi ha raccontato con infinita dolcezza di quella sua alunna, e poi mi ha mandato un piccolo scritto che riporto qui: «Federica frequentava la seconda media, sezione O, della scuola Scotti di Ischia. Io la conoscevo fin da quando aveva due anni perché ero andata ad abitare, da fresca sposa, nello stesso condominio. Federica e Gianluca venivano spesso a giocare a casa mia e poi me la ritrovai in classe in prima media. Un giorno di quel mese di dicembre 1984, nell'intervallo, Federica ci disse che sarebbe andata con la famiglia a Milano per le vacanze di Natale a trovare gli zii. Non lo disse con entusiasmo. Era scocciata, voleva restare a Ischia a giocare a tombola con le amichette del palazzo. I compagni la presero in giro dicendole che era fortunata. Il 22 dicembre, ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, entrando in classe per le due ultime ore, notai la cattedra piena di rose e cioccolatini. Mi dissero che Federica il giorno prima aveva voluto organizzare una festa e regalare fiori e dolci a tutti i professori. Fui sorpresa e le sorrisi. Era una ragazzina bella e allegra. Sapeva fare le imitazioni e spesso la mettevamo in piedi su un banco e lei cominciava. L'ultima ora facemmo una festa mettendo i banchi contro le pareti e con il mangiadischi ascoltammo musica e ballammo, ascoltammo soprattutto Terra Promessa di Eros Ramazzotti, il suo idolo. Ci salutammo e lei mi disse che aveva cucito dei brillantini sulla gamba dei jeans così non sarebbe sembrata un maschietto, visto che aveva tagliato i capelli corti corti. Il 24 mattina andai con mia madre al mercato del pesce e vidi tanti capannelli di persone che parlavano tra di loro. Mamma chiese cosa fosse successo. Ci raccontarono che era scoppiata una bomba su un rapido partito dal binario 11 della stazione di Napoli e diretto a Milano e che a bordo c’era anche una famiglia di Ischia. Mi sentii svenire e dissi a mia madre: “È morta Federica”.
Cominciò uno dei giorni più brutti della mia vita. Federica non si trovava, di lei non si aveva nessuna notizia. Nel pomeriggio la Protezione Civile diede a me e alla professoressa di italiano Susi Pacera il numero dell'ospedale di Bologna. Chiamammo e ci passarono l’obitorio, ci dissero che era rimasto solo un ragazzino con i capelli corti da riconoscere. Io dissi soltanto di guardare se avesse dei brillantini sui jeans. Dopo poco dissero di sì.
La bara con Federica arrivò alla chiesa di Portosalvo il 28 dicembre e sopra c'era l'orsacchiotto che aveva sullo zaino di scuola. Io mi avvicinai e le promisi che finché sarei vissuta avrei parlato di lei, ogni anno e in ogni classe. Non ho mai smesso di farlo».


5.10.23

Killer si laurea con lode in cella: Catello Romano nella tesi confessa tre omicidi


REPUBBLICA  5\10\2023

L’uomo ha discusso la tesi ieri a Catanzaro, nel penitenziario dove sta scontando trent’anni di reclusione per l’assassinio del consigliere comunale del Pd di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino
Killer si laurea con lode in cella: Catello Romano nella tesi confessa tre omicidi

di Dario del Porto




Si laurea in carcere con il massimo dei voti e, nella tesi, ammette di aver commesso tre omicidi per i quali non era mai stato processato. «Mi chiamo Catello Romano. Ho 33 anni e sono in carcere da 14 anni ininterrotti. Ho commesso crimini orrendi e sono stato condannato per diversi omicidi di camorra. Quella che segue è la mia storia criminale».
Si legge come un romanzo, ma racconta episodi drammatici realmente accaduti e una clamorosa confessione, la tesi di laurea in “Sociologia della sopravvivenza”, dal titolo “Fascinazione criminale”, che Romano ha discusso ieri a Catanzaro, nel penitenziario dove sta scontando trent’anni di reclusione per l’assassinio del consigliere comunale del Pd di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino.
L’esponente politico fu ucciso il 3 febbraio del 2009 mentre era in auto con il figlio. All’epoca dei fatti Romano era un fedelissimo di Renato Cavaliere, esponente di spicco del clan camorristico D’Alessandro oggi collaboratore di giustizia.
Alla fine della seduta, la commissione di laurea ha premiato il 33enne con 110 e lode e la pubblicazione della tesi. «È stato molto apprezzato il lavoro di tipo “autoetnografico” svolto dal candidato», spiega il relatore, il professor Charlie Barnao dell’università di Catanzaro.
Si tratta, come scrive Romano nella sua tesi, «di una sorta di intervista con sé stessi» in cui si cerca di comprendere il passato «attraverso un processo di immedesimazione». Poi aggiunge: «Ho creduto di mettere in atto, attraverso questo lavoro, almeno in una certa misura, un’opera di verità e riparazione, non oso dire giustizia, nei confronti di chi è stato direttamente colpito dal mio agito deviante», rivelando «fatti e circostanze che, ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, non hanno mai avuto un seguito giudiziario e, dunque, di appuramento di mie responsabilità penali dinanzi a un regolare tribunale».
Romano, che dopo l’omicidio Tommasino iniziò una brevissima collaborazione con la giustizia subito interrotta da una spettacolare fuga e mai più ripresa confessa nelle pagine della tesi di aver preso parte ad altri due agguati di camorra: il duplice omicidio di Carmine D’Antuono e Federico Donnarumma, uccisi il 28 ottobre del 2008: «L’evento più violento, traumatico, irrimediabile della mia vita», scrive.
Romano rivela di aver addirittura coinvolto in appostamento una delle sorelle, ignara di tutto («le rifilai la balla che volevo far ingelosire la mia ragazza») e che Donnarumma non doveva essere ucciso: «Non so perché, non l’ho capito e non me ne capacito ancora, ma sparai anche a lui». L’altro delitto che Romano ammette di aver commesso è quello di Nunzio Mascolo, ammazzato il 5 dicembre 2008. Quanto all’omicidio Tommasino, il 33enne riconosce che sulla vicenda «ancora non si sono diradate le nebbie». Poi sostiene di aver fatto cenno ai sicari, mentre seguivano in scooter l’auto del consigliere comunale, di non sparare perché a bordo della vettura c’era anche “na criatura”, in realtà il figlio adolescente della vittima. «Malauguratamente quei due capirono l’esatto contrario».
L’ipotesi alla base della tesi è che «il crimine esercita una profonda fascinazione» nei confronti dei giovani, arrivando a «sostituire la famiglia d’origine». Romano, che da bambino voleva fare il poliziotto e ricorda il trauma della separazione dei genitori, afferma di essere stato affascinato dal personaggio di un film, “Il camorrista”: «Nel mio caso, lo spazio interiore è stato occupato prima da “’o prufessore ‘e vesuviano, cioè Raffaele Cutolo, poi da Renato Cavaliere, il mio “compare di malavita”». Oggi Romano dice di voler ripartire «da quel Catello che ero prima di tutto quello che ho raccontato». Per il professor Barnao, «il senso profondo di questo percorso sta già nel fatto di essere arrivato a raccontare, nel dettaglio circostanze che avranno delle conseguenze, pur di riuscire a mettere ordine, una volta e per sempre, nella propria vita

25.9.23

è morto matteo messina denaro Non posso dire che per questa dipartita ne rimanga dispiaciuta.Indifferenza è l'aggettivo e il sentimento più appropriato


Leggo  che   è morto ,  con  tutti  i suoi  segreti  e  senza   liberarsi   l'anima    con una  confessione    , il boss Matteo messina Denaro . L'unico commenti  che  mi  sento di fare    oltre  alla   battutta    che  ho riportato  sul  mio  fb

2 h 
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#DellUtri e #cuffaro dopo il funerale di #giorgionapolitano andranno anche al suo . #erediberluscon e #ilministrodellinterno manderanno le corone #GiorgiaMeloni un telegramma e #salvini una preghiera baciando il rosario anzi il crocifisso che sarà reso obbligatorio a scuola

è quello di condividere l   riflessione  di https://www.facebook.com/marina.mastino

Non posso dire che per questa dipartita ne rimanga dispiaciuta.Indifferenza è l'aggettivo e il sentimento più appropriato. Con tutto il male che ha seminato, e il dolore da ergastolo che in eredità ha lasciato (...) la mia empatia si spegne e il mio essere umanamente umana si rivela con tutta la sua razionalità. Un mascalzone un delinquente un Assassino in meno a calpestare la bellezza di questa madre terra dataci in dono punto ! Con lui e con quelli come lui non mi importa . Che l'universo possa ora perdonare me per tale sentimento ma è la "sentenza" data dal cuore che mi comanda. Fine.
Mi toicca infine dare ragione se pur in parte a quanto mi dice qiuersta mia utente qua sottto

[...]
Anna Maria
Indifferent I non vuol dire insensibili ma semplicemente equilibrati , rifletti
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emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...