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7.11.25

storie speciali per gente normale storie normali per gente speciale che resiste al degrado politico e culturale del nostro paese i casi di : Paolo Cergnar ,Mauro Berruto, David Yambio,


 Davanti al   degrado politico, culturale, morale del Paese  sempre   più  evidente     che  può essere riassunto da  tale  foto 


e   da  come dice Soumaila Diawara : « Questa immagine è il manifesto del fallimento di una classe dirigente che ha trasformato la politica in farsa e il dibattito pubblico in fango. L’ex ministro rappresenta un Paese che ha smarrito la vergogna, la competenza e il senso del limite. Altro che guida: è il simbolo di una degenerazione che ha contaminato tutto.»

  • Ci  sono       delle     storie     che danno speranza    da   Lorenzo Tosa esse  sono : 


Paolo Cergpnar è un vigile del fuoco e un sindacalista. Uno di quelli che porta con orgoglio l’uniforme da pompiere. Talmente orgoglioso che, lo scorso 22 settembre, in occasione dello sciopero generale per Gaza, lui, in qualità di rappresentante sindacale Usb, è salito sul palco per denunciare il genocidio con quella divisa indosso. Ha parlato del senso ultimo del suo mestiere: salvare vite umane. Lo ha detto chiaramente: “Salviamo i bambini palestinesi. Siamo ambasciatori di buona volontà dell’UNICEF e portiamo sul petto l’emblema dell’UNICEF e dobbiamo garantire a tutti i bambini la sicurezza e la Pace”. Eppure, per aver detto tutto questo con indosso una divisa da vigile del fuoco, Cergnar ha ricevuto un avviso di procedimento disciplinare e rischia sanzioni disciplinari che vanno dal richiamo a, addirittura, il licenziamento. In un Paese minimamente diritto, Paolo andrebbe ringraziato, e pure premiato. Premiato per Umanità, per aver incarnato il senso profondo di quella divisa. Qui invece è diventato un obiettivo, un simbolo da colpire. “Non mi stanno attaccando come delegato sindacale ma come pompiere, applicando il regolamento di disciplina a una manifestazione sindacale, e questo viola i diritti costituzionalmente garantiti” ha detto pochi giorni fa. In molti si sono uniti e si stanno unendo a sostegno di Paolo Cergnar, con semplici messaggi e anche una petizione, per chiedere che venga revocata qualunque sanzione. E io mi unisco a loro. 


 Mauro Berruto è una delle persone più belle, serie e preparate che abbiamo in questo Paese. Per 25 anni allenatore di volley, e per cinque anche Ct della Nazionale maschile, che ha guidato fino al bronzo olimpico a Londra 2012. Pochi minuti fa, dopo dieci anni di stop, ha appena annunciato l’incarico più bello, stimolante e umanamente commovente della sua carriera. Diventerà per qualche giorno, a
novembre, commissario tecnico della Nazionale Palestinese di volley. Glielo ha chiesto il Comitato olimpico palestinese, e lui non ci ha pensato un attimo. Un atto simbolico potentissimo, in un momento come questo, all’interno di una missione che mette insieme sport, diplomazia, umanità. Condurrà gli allenamenti, parteciperà a incontri sullo sviluppo dello sport e sulla diplomazia sportiva, parlerà di diritti e di diritto internazionale, lui che nei mesi scorsi aveva lanciato la raccolta firme per chiedere l’esclusione di Israele da ogni competizione internazionale. “Allenare una nazionale, in qualunque parte del mondo, è sempre un privilegio. Allenare quella palestinese, oggi, è qualcosa di più grande: è un atto di fiducia nello sport come respiro di libertà. Torno in palestra, dopo dieci anni, per restituire un po’ di quel dono che lo sport mi ha fatto per tutta la vita: la possibilità di credere che anche nei luoghi più difficili, un campo da gioco possa ancora essere luogo di coraggio e speranza nel futuro” ha detto Berruto. Abbiamo bisogno di persone e storie come queste. 
  
L'ultima   è  quella  di  David Yambio, è stato torturato, picchiato, umiliato da Almasri e dai suoi aguzzini. E ora, dopo l’arresto di Almasri ieri a Tripoli, l’attivista sud-sudanese fa una cosa semplicissima: ha annunciato che denuncerà e chiederà un risarcimento al governo italiano per averlo liberato e rispedito in patria con tanto di volo di Stato. Il suo racconto mette i brividi. “Sono stato torturato da lui e dai suoi uomini.
Mi ha preso a calci, mi ha chiamato schiavo e mi ha picchiato con i tubi. Ha anche sparato a delle persone davanti a me sia a Jadida che a Mitiga” ha raccontato a “Repubblica”. Non solo. Yambio, per aver denunciato Almasri, ha vissuto costantemente con la paura, si è dovuto nascondere per timore di ritorsioni. Anche per questo ha deciso di fare causa al governo Meloni con la sua ong Refugees in Lybia. Lo ha spiegato lui stesso con una chiarezza assoluta, dando a Meloni, Nordio e Piantedosi una vera e propria lezione di diritto e di dignità. “Da una parte l’arresto di ieri è una grande vittoria. Dall’altra fa ancora più rabbia quello che è successo in Italia. Almasri è stato arrestato e poi liberato e riportato a casa. Meloni e i suoi ministri, invece di proteggere e rispettare le istituzioni per cui sono stati eletti, hanno scelto di inchinarsi alle milizie che li ricattano. E hanno deciso che le ragioni di“opportunità politica” pesano più del contrasto ai crimini contro l’umanità». Questa è la realtà fuori dalla propaganda meloniana. Questa la vita vera e le conseguenze reali sulla pelle delle persone. Ne risponda Almasri, ma anche chi lo ha scandalosamente protetto. Una ferita indelebile di questo Paese.

31.10.25

“Gisèle Pelicot, il coraggio che ha cambiato la legge .La Francia dice basta: il corpo delle donne non è negoziabile”

Frasi chiave dal post “Non spetta a noi provare vergogna, sono loro che devono provarla.” “Voglio che tutte le donne, guardandomi, possano dire: se lei l’ha fatto, allora posso farlo anch’io.”


Una vittoria di civiltà e di coraggio.
Il caso di Gisèle Pelicot dimostra ancora una volta come il dolore di una donna possa diventare un motore di cambiamento collettivo. Non dovremmo mai aver bisogno di tragedie per capire l’ovvio: che il consenso è la base di ogni relazione umana, e che il silenzio non è mai un sì.Mentre la Francia fa un passo avanti nella storia dei diritti, l’Italia sembra guardare indietro, impantanata in un dibattito pubblico che troppo spesso minimizza, giustifica o ridicolizza la violenza di genere.La “Legge Pelicot” non è solo una norma: è un atto di giustizia, una lezione di umanità. E il suo nome resterà come simbolo di dignità e resistenza.
Grazie Gisèle, per aver trasformato la tua ferita in una battaglia per tutte.
Da oggi in Francia il sesso senza consenso è e sarà considerato stupro.È stata approvata definitivamente una legge che rivoluziona l’ordinamento in tema di violenza di genere. E introduce per la prima volta in una legge di Stato il concetto di consenso come “libero e informato, specifico, preventivo e revocabile”.Il silenzio non equivale e non può essere equiparato a un assenso, così come una assenza di reazione non vuol dire sì.Concetti base, elementari, eppure c’è stato bisogno di un
caso mostruoso come quello di Gisele Pelicot per trasformarlo in legge.
Un’altra lezione di diritto e di diritti che arriva dalla Francia, dopo l’inserimento dell’aborto in Costituzione, mentre il nostro Paese regredisce ogni giorno di più.E, se ci sono arrivati, almeno loro, dovremmo ringraziare questa donna qui per il suo coraggio, la sua dignità incrollabile, la sua lotta a testa alta, a volto scoperto, col suo corpo, per tutte le donne.Essa lo ricordiamo , per chi appprende la sua storia solo ora ,Si chiama Gisele Pelicot, la Franca Viola francese. Essa Avrebbe potuto chiedere l’anonimato, previsto dall’ordinamento francese nei casi di stupro. Invece Gisèle Pelicot ha scelto di metterci la faccia, la voce, il suo corpo e ogni cellula della sua dignità assoluta per testimoniare contro il marito e i 50 uomini - non bestie, uomini - da cui è stata per anni ripetutamente e atrocemente violentata. Per anni il marito ha drogato Pelicot, l’ha fatta stuprare da cinquanta uomini, l’ha filmata e infine messo tutto online sulle piattaforme del porno. E a fare tutto questo erano maschi insospettabili, perfettamente inseriti e, soprattutto, consapevoli di quello che stavano facendo. Per tutta la durata del processo, ha scelto simbolicamente di portare il cognome del marito, Pelicot, che non è mai riuscito ad alzare gli occhi in aula per guardarla in faccia. Quando le hanno chiesto se preferiva non comparire con il suo volto al processo, Pelicot ha dato una risposta che è un manifesto di empowerment femminile. “Non spetta a noi provare vergogna, sono loro che devono provarla. Voglio che tutte le donne, guardandomi, possano dire: se lei l’ha fatto, allora posso farlo anch’io”. È stata una fatica enorme, indicibile ripercorrere ogni momento, ogni ferita, ogni dolore inferto da quegli uomini, ma alla fine il tribunale ha condannato il marito a 20 anni, il massimo della pena, e insieme a lui tutti i 50 co-imputati. Non ha avuto giustizia per sé, nulla potrà restituirle quello che le è stato tolto. Ha vinto per milioni di altre donne in Francia e in tutto il mondo. E ieri, anche grazie a quel coraggio, a quella forza inaudita, a quella dignità infinita, la Francia ha approvato una legge con la quale il sesso senza consenso viene considerato stupro. Una legge che porta a caratteri cubitali il suo nome. E che non esisterebbe senza la sua forza, senza la sua lotta, da sola contro tutti. Gisele Pelicot è la Franca Viola francese. Ora lo possiamo dire con certezza. E se la Francia ha compiuto questo passo di civiltà, lo deve soprattutto a questa grande donna. Mi inchino. Lo facciano tutti. Soprattutto gli uomini.

12.10.25

Paolo Taormina era un ragazzo di 21 anni, palermitano. è morto nell’esercizio delle sue funzioni di essere umano.





Paolo Taormina era un ragazzo di 21 anni, palermitano. È morto questa notte cercando di salvare la vita a un altro ragazzo, con un gesto di enorme generosità e vero e proprio eroismo, che gli è stato fatale. Come Willy. Paolo si trovava nel locale dei suoi genitori, O’ Skruscio, a pochi passi dal teatro Massimo, quando ha notato un gruppo di giovani che stava pestando con una violenza inaudita un altro ragazzo. Allora Paolo non ci ha pensato su un attimo. È intervenuto. Si è messo in mezzo per difendere il suo coetaneo,ormai a terra inerme
Sembrava persino essere riuscito nel suo intento, quando uno di questi criminali ha tirato fuori dalla tasca una pistola e gli ha sparato a freddo alla fronte, ferendolo in modo letale. A nulla è servito l’arrivo dell’ambulanza. Paolo Taormina è morto per la sola colpa di essere intervenuto, di non essersi voltato dall’altra parte, come avrebbero fatto tutti al suo posto. Paolo è morto nell’esercizio delle sue funzioni di essere umano. Anch'io come Lorenzo Tosa mando : Un pensiero commosso va alla sua famiglia. Alla madre, alle sue parole strazianti: « Ma come si fa? Qual è la motivazione. Mi hanno distrutto la vita. Come si fa a sparare in testa a un ragazzo? Come faccio a vivere ora? Mi avete tolto la speranza ». Che abbia almeno, nel dolore indicibile, e se mai è possibile di fronte a una cosa del genere, giustizia. Ciao Paolo.

27.9.25

La cantante tempiese lancia un nuovo singolo. «Non sentivo più da un orecchio, ora racconto tutto col sorriso» La sindrome di Ménière non ferma la musica di ElenaSoul

da la nuova sardegna 27\9\2025

 Tempio Pausania
 Ha la musica nel sangue e il bel canto inciso nelle corde vocali. Non acaso, ha deciso di intraprendere la carriera di cantante da quando aveva22 anni, Al secolo Elena Delussu, molti, soprattutto quelli che vanno per locali e concerti, la conoscono con il suo nome d’arte ElenaSoul. Oggi esce un suo nuovo inedito, un singolo, "Vertigine", che segue di pochi mesi il primo singolo, “Disillusa”, di cui ha curato
testo e musica. Tempiese,39 anni, Elena, come tanti altri artisti, ha dovuto fare fronte a non poche difficoltà. Una di queste avrebbe potuto segnarne la carriera e infrangere i sogni . «Nel 2017 mi è stata diagnosticata la sindrome di Ménière. Improvvisamente avevo iniziato a non sentire più all’orecchio destro. Sono seguite visite, accertamenti, risonanzae, alla fine, è arrivata questa croce che sarà la mia compagna di vita. Ora lo racconto col sorriso perché a distanza di anni mi sono adattata a questa nuova versione di me, imparando a convivere con la  malatia». Uno dei momenti più difficili l'ha portata a prenderequasi la decisione di smettere  Qi Cantare. scelta fortunatamente accantonata, perché la voce e le canzoni di ElenaSoul  meritano di essere ascoltate.Qualcosa di questa esperienza trapela anche nei testi delle sue canzoni, con riferimenti eleganti a chi le è rimasto vicino e a chi si è invece  dileguato ,ma ciò che conta, confida Elena, è «essere liberi di fare  e dire ciò che vogliamo e donare il nostro tempo e il nostro amore a chi davvero merita di starci accanto». Tutto questo con quella sua cifra artistica che rende riconoscibile il retroterra soul e R&b in cui si è formata, Anche  se   questa  volta   ha vira verso un genere pop più ballabile con richiami alla dance degli anni ‘90 che non ha mai nascosto di amare quasi alla follia. Da brava cantautrice, ha curato ancora una volta testoe musica. «Per l’arrangiamento mi sono fatta aiutare da due dj e producer, Damiano Parisi, pugliese, e Luca La Manta, siciliano. Non è stato semplice collaborare a distanza e mettere insieme le idee tramite videocall, ma, una volta registrate le parti vocali, grazie al prezioso aiuto del produttore Roberto Baldanzeddu di Calangianus, è stato tutto in discesa. Ho poi affidato tutto al  duo Parisi & La Mantfa per curare nel dettaglio arrangiamento, mix e mastering». Il brano è disponibile nei principali digital store. (g.pu.)





27.8.25

diario di bordo n 145 anno III “Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters., Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù


facendomi  la  mia  solita  rasegna  stama web    ho trovato tramite  msn.it  un  'articolo  : << Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters >>   su   InsideOver.






Un tesserino giornalistico strappato a metà, indicante chiaramente uno dei loghi più iconici dei media globali: l’agenzia Reuters. A corredo, un post durissimo: così la fotografa canadese Valerie Zink ha annunciato, dopo otto anni, la fine unilaterale del suo rapporto con l’importante agenzia britannica, adducendo come responsabilità della stessa Reuters il ruolo che avrebbe giocato nel giustificare la continua uccisione di giornalisti a Gaza da parte delle forze armate israeliane.
Zink è una reporter canadese che ha pubblicato importanti scatti riguardanti le grandi pianure del suo Paese natale, le eredità del colonialismo sui territori indigeni, il rapporto tra l’uomo e il suo spazio. Di fronte al massacro di Gaza, in cui un popolo è stato preso a bersaglio nella sua stessa terra, una logica di dominio è stata esercitata usando la risposta ai drammatici attentati di Hamas del 7 ottobre 2023 come pretesto e una campagna di pulizia etnica messa in atto, Zink ha visto probabilmente cadere molte sue certezze.
L’uccisione di giornalisti e il presunto lassismo di Reuters nel condannarle hanno fatto traboccare il vaso: “è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza”, scrive Zink su Facebook, aggiungendo che “devo almeno questo ai miei colleghi in Palestina, e molto di più”.
La guerra di Gaza è ad oggi il conflitto che, di gran lunga, ha ucciso più giornalisti nella storia e, secondo la fotografa, ad aggravere la responsabilità dei media ci sarebbe l’assenza di deontologia nel gestire le problematiche notizie che riportano di sempre nuove uccisioni di reporter e fotografi: “Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al-Jazeera, a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’affermazione del tutto infondata di Israele secondo cui Al-Sharif fosse un agente di Hamas – una delle innumerevoli bugie che organi di stampa come Reuters hanno diligentemente ripetuto e dignitosamente sostenuto”, scrive Zink. Non finisce qui.
Nella giornata di ieri proprio l’agenzia di proprietà canadese ha pianto una vittima, il cameraman e collaboratore Hossam al-Masri, ucciso all’ospedale Nasser di Gaza. Per la fotografa canadese la mattanza è stata favorita dall’impunità accordata ai media occidentali alle azioni di Israele, indicando come presunti “membri di Hamas” o danni collaterali le vittime.
Per la Zink “ripetendo le invenzioni genocide di Israele senza stabilire se abbiano credibilità – abbandonando volontariamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione di più giornalisti in due anni su una piccola striscia di terra che nella prima e nella seconda guerra mondiale e nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messe insieme, per non parlare del fatto di aver fatto morire di fame un’intera popolazione, di aver fatto a pezzi i suoi bambini e di aver bruciato vive le persone”.
Di fronte a tanto dolore e tanto spaesamento si potrà perdonare a Zink di essere calata in maniera tanto netta su un sistema di potere e informazione intero. E si deve cogliere indubbiamente un grido d’allarme e di rabbia circa il tradimento di una deontologia altamente rispettabile da parte di un’ampia fetta delle alte sfere dell’editoria occidentale. A cui, purtroppo, molti stuoli di collaboratori e professionisti sono chiamati a uniformarsi pena la rinuncia a prospettive lavorative e di carriera. Valerie Zink dimostra che si può scegliere anche di chiamarsi fuori da questo tritacarne.
Una bella lezione nei giorni in cui in Italia direttori di giornali si presuppongono esperti di leucemie per provare a dimostrare che una giovane palestinese non si è ammalata ed è morta per la carestia indotta di Israele (e assolvere Tel Aviv) o editorialisti di peso si mettono a cavillare sul fatto che, no, Israele e gli Usa di Donald Trump non ritengono che la prevista evacuazione dei gazawi debba esser “forzata” perché nei documenti ufficiali queste parole mancano.
Certo, c’è da dire che il declino riguarda principalmente la stampa anglosassone e che esistono notevoli eccezioni: su Gaza ci sono testate come The Guardian, una parte consistente della stampa francese e i media di stampo cattolico legati al Vaticano (dal network Vatican News a L’Osservatore Romano e, in Italia, “Avvenire”) che hanno coperto con attenzione e competenza i massacri di Gaza e le problematiche politiche ad essi collegate. Noi di InsideOver siamo per la costruzione di ponti e riteniamo che finché c’è voce per l’informazione sana ci sarà speranza. Ma queste voci sono sempre meno udibili. E Valerie Zink fa bene a ricordarcelo.
  
  tale  notizia   mi  riporta   alla  mente  quest  altro articolo     sull'antica  romana  e  sull'antichità  . infatticambiano i  metodi oggi si  usa  la Shitstorm  \  macchina  di  fango   ma  i  metodi   per  elminare  le  voci scomode o  i personaggi  non conformi     è  lo stesso   .


Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù

  da  
Storica National Geographic
   tramite ms.it  









-© Antikensammlung Berlin

Gli imperatori romani spesso finivano la loro vita nel peggiore dei modi, traditi e uccisi dai loro uomini di fiducia e persino dai loro stessi familiari. Ma anche così, esisteva una punizione peggiore della morte: comportarsi come se non fossero mai esistiti. Il loro nome veniva cancellato dalle iscrizioni, il loro volto scalpellato dalle statue, le loro monete fuse e i loro ritratti sostituiti... Questo, nell'antica Roma, era chiamato damnatio memoriae, letteralmente «condanna della memoria».
La damnatio memoriae era una cancellazione deliberata di ogni iscrizione o oggetto che dimostrasse l'esistenza di una persona. L'obiettivo non era solo quello di umiliare il condannato, ma di estirparlo dal tessuto della storia romana. costituivano l’equivalente della memoria pubblica: se venivano eliminati, il ricordo di qualcuno svaniva nel giro di pochi decenni.
Diversi imperatori ne furono vittime. Nerone, nonostante la sua iniziale popolarità, fu cancellato dalla storia dopo la sua deriva verso la stravaganza. Commodo, che si credeva la reincarnazione di Ercole, venne assassinato e la sua memoria cancellata dal senato. Geta venne cancellato da tutti i ritratti per ordine del proprio fratello, Caracalla. Ma forse il caso più eclatante è quello di Domiziano: dopo la sua morte nel 96, il senato non solo ordinò la distruzione delle sue statue, ma proibì anche qualsiasi menzione ufficiale del suo nome. Paradossalmente, molti di questi imperatori che si volle cancellare dalla storia sono oggi tra i più ricordati.
Il processo era meticoloso e, allo stesso tempo, approssimativo. Non era regolato da una legge formale, ma il senato o il nuovo imperatore potevano ordinarlo nel caso in cui il sovrano appena eliminato avesse lasciato un ricordo molto negativo. Le iscrizioni su pietra venivano raschiate, lasciando vuoti sospetti. Le statue, a volte, venivano “riciclate”: il volto del condannato veniva scalpellato e sopra veniva scolpito quello di un nuovo imperatore. Le monete, più difficili da distruggere, venivano fuse o limate per eliminare l'effigie. Il messaggio era chiaro: l'individuo aveva cessato di far parte di Roma.
La memoria che non si poteva cancellare
Eppure, la damnatio memoriae aveva un effetto collaterale ironico. Cancellando qualcuno, si creava la prova che era esistito. Quei segni di scalpello, quelle statue con il volto strappato, sono oggi indizi preziosissimi per archeologi e storici proprio perché invitano a indagare. In un certo senso, il tentativo di oblio assoluto è stato un fallimento totale: ricordiamo i “dimenticati” proprio perché qualcuno ha cercato di cancellarli.
Questo meccanismo non era esclusivo di Roma. Nell'antico Egitto, faraoni come la regina Hatshepsut vennero cancellati dai rilievi e dalle liste reali dai loro successori. E se facciamo un salto in avanti di molti secoli, nell'URSS dopo le purghe di Stalin, le foto ufficiali venivano ritoccate per eliminare chi era caduto in disgrazia. Anche oggi, grazie alla facilità di modificare le immagini, persiste questa pulsione a riscrivere la memoria.
La damnatio memoriae ci lascia una lezione importante: il potere non solo detta il presente, ma cerca anche di plasmare il passato. Ma, come dimostrano i vuoti nei muri di Roma o le effigi scolpite nei templi egizi, l'oblio imposto raramente è completo. A volte, ciò che viene cancellato è ciò che attira maggiormente l'attenzione. E forse, in questo atto involontario, i condannati hanno ottenuto la loro piccola vendetta: essere ricordati per sempre, spesso più di coloro che hanno voluto cancellarli.


21.8.25

Il suo nome è Angela Attanasio, ha 35 anni, è una giovane imprenditrice turistica di quelle serie, che ha investito nella sua terra, le isole Tremiti, e crede nella cultura del lavoro. Anche per questo è finita nel mirino dei clan

 Il suo nome è Angela Attanasio, ha 35 anni, è una giovane imprenditrice turistica di quelle serie, che ha investito nella sua terra, le isole Tremiti, e crede nella cultura del lavoro.Anche per questo è finita nel mirino dei clan.Qualche giorno fa, in piena notte, degli ignoti e vili delinquenti le hanno squarciato metà della flotta di gommoni che Angela noleggia da decenni sull’isola.Il messaggio è chiarissimo, oltreché di una violenza inaudita: “Fermati. Qui ci siamo noi”.Angela Attanasio invece non si è fermata e soprattutto non è rimasta zitta.Ha presentato una denuncia ai carabinieri e ha denunciato tutto pubblicamente. Chiamando le cose col loro
nome.
“Ho subito un vile atto intimidatorio di natura mafiosa. Faccio questo video perché sicuramente la persona che ha fatto questo gesto vile lo vedrà e spero che si senta un po' in colpa. E, soprattutto, per dare una voce di allarme perché ci troviamo in un posto meraviglioso, ma non siamo assolutamente tutelati.Non è possibile investire in un luogo in cui nessuno protegge noi giovani, che vogliamo fare impresa, in un luogo già di per sé difficile e che così diventa impossibile. Atti simili di stampo mafioso e inqualificabili non possono passare sotto silenzio. È ora di dire no e di denunciare con forza una situazione ormai insostenibile.”E subito è partita spontaneamente una raccolta fondi che le ha permesso di ripartire in un momento difficilissimo.Angela Attanasio è un esempio di donna coraggiosa che combatte e si ribella al potere di clan più o meno grandi.Siamo in tanti con lei.Ma non basta il sostegno di singoli, generosi, cittadini. Ora tocca , almeno si spera , allo Stato stare dalla sua parte

11.8.25

Sembra poco, ma in un’epoca e in un mondo che tace e fa finta di nulla, sui crimini israeliani le parole di un’icona sportiva planetaria come Momo Salah è uno dei più grandi giocatori africanifanno eccome la differenza.

 da  lorenzo  tosa 



Momo Salah è uno dei più grandi giocatori africani della storia e uno dei più forti in attività in senso assoluto.Ma oggi ha fatto qualcosa per cui ci vuole coraggio, cuore, dignità.Salah ha preso una posizione durissima nei confronti dell’Uefa per il tributo fiacchissimo e pavido che il massimo organo calcistico europeo ha riservato a Suleiman Obeid, il calciatore palestinese morto ammazzato dall’esercito israeliano mentre era in coda per il cibo a Gaza, senza che l’Uefa scrivesse una sola parola sul fatto che sia stato ucciso, in quali circostanze e soprattutto da chi.A quel punto su X Salah ha commentato senza mezzi termini.“Potete dirci come è morto, dove e perché?”.Poche parole che raccontano tutto. Non del calciatore ma dell’uomo. E non è neppure la prima volta che Salah si schiera pubblicamente su quanto sta accadendo a Gaza.Sembra poco, ma in un’epoca e in un mondo che tace e fa finta di nulla, le parole di un’icona planetaria fanno eccome la differenza.È da questi particolari che si riconoscono i campioni veri.

25.6.25

Una fame disperata di vitaLaura ha 50 anni e per metà la sua vita è stata segnata dalla progressione della sclerosi multipla. Aveva pensato di ricorrere al suicidio assistito in Svizzera, ma poi ha fatto della sua vita e della sua morte una battaglia.

 
Ogni vita è diversa dall’altra e ogni storia è speciale. Siamo unici ogni giorno, nelle scelte e nei sogni, e lo siamo di fronte all’idea di morire. L’incontro con Laura Santi mi ha toccato profondamente, in lei abitano due desideri profondi e potenti: una fame disperata di vita e la pulsione a liberarsi per sempre dalla sofferenza. Laura ha combattuto per avere la libertà di morire a casa sua e nel suo letto e ora che l’ha ottenuta si confronta ogni ora con la libertà di vivere.
Laura nel 2007, all’epoca era già 
malata   ma asintomatica

 


Laura Santi è una giornalista, ha viaggiato il mondo ma vive ancora nella città dove è nata: Perugia.
Laura ha cinquant’anni e da venticinque soffre di sclerosi multipla. Il suo corpo è quasi completamente paralizzato, muove solo la testa e tre dita della mano destra. Non ha più nessuna autonomia e dipende completamente e per qualunque funzione da chi l’assiste e da suo marito Stefano. La sua giornata è scandita dalla sofferenza, dal dolore, da una serie di gesti necessari per tenerla in vita, da un’immensa fatica.

 

                                                 Laura Santi


Tre anni fa ha iniziato una battaglia legale per avere il diritto di accedere al suicidio medicalmente assistito. Per avere la libertà di scegliere se restare in questo mondo.
Alcune settimane fa, quando pensava ancora di essere costretta ad andare in Svizzera per il fine vita nonostante abbia i requisiti previsti dalla Corte Costituzionale per morire in Italia, mi ha scritto. Ha immaginato che tutti avrebbero parlato della sua morte, invece lei voleva raccontare la sua vita, lasciare una traccia del suo passaggio e del suo amore e della sua gratitudine per il mondo e le persone.Così sono andato a trovarla e proprio nel giorno in cui sono arrivato a Perugia lei ha ricevuto il protocollo sanitario di assistenza per il suicidio assistito dall’Asl della Regione Umbria. Era molto scossa: «Mi sono messa a piangere quando l’ho saputo. Ero in un misto tra malinconia, tristezza, liberazione e trionfo. Mi sono fatta un pianto a singhiozzo pensando a me che schiacciavo quel pulsante. È dura dirlo, però è così: quel pensiero può essere anche vissuto come una grande liberazione».

Insieme a Laura Santi durante il nostro incontro

Per più di due ore sono stato seduto di fronte a lei ad ascoltarla, nelle sue parole ho trovato tanta umanità e la capacità di spazzare via le banalizzazioni che caratterizzano il dibattito sul fine vita in Italia: «La vita è una e soltanto una e me la tengo cara, me la sono sempre tenuta cara. Avere la libertà di morire è una cosa dirompente, ma vorrei far capire che non porta nessun abuso. Ora sono libera di decidere della mia esistenza. Sono libera di capire fino a che punto voglio affrontare la progressione di una malattia che non si sta fermando ed è dirompente». Così Laura mi ha parlato del dilemma che vive ogni giorno, di quella vertigine che lei chiama “il parapetto”, che è figlio della possibilità di scegliere, di non essere obbligata a vivere a tutti i costi: «È come se tu ti sporgessi da un parapetto che si affaccia sul vuoto: tu guardi di sotto e ti chiedi: vuoi morire domani? No, grazie, domani no. E forse neanche dopodomani, forse neanche tra una settimana. Questo è il parapetto, questa è la libertà. E questo nonostante io mi senta intrappolata in questo corpo, sia piena di sofferenze, di dolori, di spasmi, di crisi epilettiche, nonostante io viva ogni giorno la solitudine e l’isolamento della disabilità. Ogni sera il mio corpo mi dice basta, ma la mia mente mi dice che vorrebbe andare avanti. E per me è un dilemma terribile».

                                  Laura insieme al marito Stefano Massoli

Laura mi ha parlato a lungo della sua vita, della sua famiglia, della sua infanzia di bambina timida e introversa, della sua adolescenza difficile: «Ero una ragazza bulimica, ma crescendo mi sono trasformata in una persona bulimica di vita, che cercava di strappare la vita con i denti e con le unghie anche nella timidezza». Mi ha raccontato dell’amore per il nuoto e della sofferenza di dover rinunciare alla piscina per la malattia, della scelta di fare la giornalista: «Perché mi piaceva molto ascoltare gli altri, perché tutti hanno delle storie bellissime da raccontare. Perché l’ascolto per me è una cosa pazzesca». Mi ha parlato dei suoi viaggi nel mondo e dell’amore per Stefano, che è diventato suo marito e le sta accanto ogni giorno. Il nostro incontro è diventato anche un podcast che ha il titolo che Laura avrebbe dato alla sua autobiografia se ne avesse mai scritta una: “Una fame disperata di vita”.Un incontro che è stato un turbine di sensazioni e così pieno di vita da farmi quasi dimenticare che ero arrivato per parlare della sua morte: «Lo capisci il dilemma che sto vivendo? Tu mi senti parlare? Il dilemma è che se fosse per la mia mente, per il mio cuore, io andrei anche tranquillamente molto in là, perché c’è la vita. Ho cercato il cartellone di Umbria Jazz, è bellissimo, lo vorrei tanto vedere. Non credo che lo farò, ma il solo fatto che lo desidero è vitale. Oppure vorrei essere alla manifestazione per Gaza. Vorrei vedere la gente che si ammassa a Roma. Voglio sapere come andrà il referendum. Questa cosa mi incuriosisce da matti. Non so bene come votare quelli sul lavoro, ma quello sulla cittadinanza sono certa di andare a votarlo.
E allora mi si potrebbe dire: ma che ti frega del referendum, di Gaza, del jazz se vai a morire? E invece mi frega, il problema è questo: la vita è bella e il mondo per me è e resterà sempre tremendamente interessante. Il mondo con le sue atrocità, con le sue ingiustizie, con le sue bellezze, con la sua poesia. Questo è il dilemma, questo è il parapetto». Una delle cose più commoventi di Laura è la sua gratitudine verso le persone: ringrazia sempre per la solidarietà, la vicinanza e l’amicizia. Non c’è nessuna amarezza, nessuna rabbia, ma una forza straordinaria. Nella sua battaglia non è stata sola, ma ha avuto accanto Marco Cappato e Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni: «Per me sono due amici, sono due persone che mi hanno tenuto per mano mi hanno suggerito di rendere pubblica la mia situazione. Io ero intenzionato ad andare in Svizzera dalla disperazione e volevo tenere in incognita questa mia scelta anche per motivi familiari, ma loro mi hanno aiutato a parlarne pubblicamente».Nessuno di noi sa quanto vivrà ancora Laura, ma io sento il privilegio di averla incontrata e di averla ascoltata e mi ha regalato un grande insegnamento sul valore della libertà e sul rispetto che si deve alle scelte degli altri.

24.4.25

Elly Schlein ha avuto il coraggio nel di squarciare il velo di ipocrisia su Papa Francesco che regnava sui banchi della destra e del governo in Parlamento ma poi salta la fila evitando code per la salma di papa francesco

 Ogni tanto    la leader    del  Pd    , roiesce  a  smarcarsi   dalle  correnti   e dai vecchi tromboni  del  partito   e  a  trovare  un po'  di coraggio    anche  se  è  solo  di circostanza   .   visto  che   

   






da il fatto d'oggi



La scomparsa di Papa Francesco ci priva di una voce significativa che ha saputo interrogare credenti e non credenti. Merita il nostro cordoglio.
Quello che non merita è l'ipocrisia di chi non ha mai dato ascolto ai suoi appelli e oggi cerca di seppellire nella retorica il suo potente messaggio. L’ipocrisia chi deporta i migranti, di chi toglie i soldi ai poveri, nega l'emergenza climatica, nega le cure a chi non può permettersele.
Il modo migliore per ricordarlo è cogliere l’esempio di coerenza tra quello che diceva e quello che faceva, sulla pace a Gaza e in Ucraina, il contrasto alle disuguaglianze, accogliere anziché respingere chi fugge da una guerra, cambiare un modello di sviluppo che sta creando disuguaglianze“.
Ecco chi era anche se con i suoi limiti e le sue retromarce ed ambiguita Papa Francesco Davvero. Ed ecco, soprattutto, chi sono quelli che oggi lo celebrano da morto.Dopo che per dodici anni lo hanno ignorato, combattuto con disinformazione e fake news , persino deriso da vivo e anche da morto non indignandosi e criticando la base del partito e dei loro simpatizzanti extraparlamentari .
Ora papa francesco




5.4.25

Vestita così, te le cerchi. stereotipo messo indiscussione da Martina evatore durante la finale Miss Venice Beach in cui ha sfilato con gli abiti di quando fu molestata

  per  chi ha  fretta  \  di  cosa stianmo  parlando 

Violenza, Martina Evatore: "Non c'entrano i vestiti" | Radio Capital


 storia  tratta  da  Cronache Dalla Sardegna


La ragazza che vedete nell'immagine ha 20 anni, si chiama Martina Evatore e ha compiuto un gesto di straordinaria dignità.Durante il concorso di Miss Venice Beach, si è presentata sulla passerella con gli stessi abiti del giorno in cui, tre anni prima, tentarono di violentarla: pantaloni neri alle caviglie, scarpe bianche sportive, una maglietta e una giacca mimetica. Perché? Perché un'amica, dopo quell’episodio, le disse proprio così: "Vestita così, te le cerchi". Come se la colpa di uno stupro dipendesse dalla vittima, dalla quantità di trucco, da cosa indossa o non indossa. Non è così. Ci sono vittime violentate con i jeans. Altre con la minigonna. Altre in tuta. Altre in felpa. Altre ancora in costume. E il motivo è semplice: la colpa di una violenza è solo e soltanto di chi commette quella violenza. Grazie a Martina per averlo ricordato con straordinaria dignità".


Infatti Martina Evatore, 20enne padovana, non è soltanto bella  ma anche molto coraggiosa. Lo ha dimostrato sfilando al concorso di "Miss Venice Beach", a ha  partecipato come finalista, con gli abiti che indossava la sera in cui fu molestata da uno sconosciuto in strada. "Non esistono gesti o abiti incoraggianti, esistono solo uomini che si sentono autorizzati a molestarti senza motivo, perché 'si fanno i film' nella loro testa", racconta in una intervista al Corriere.it.
La storia di Martina ripercorre il drammatico copione di molte donne vittime di molestie sessuali. Una sera di luglio del 2019, mentre stava raggiungendo alcuni amici a una festa di compleanno, fu aggredita da uno sconosciuto che tentò di palpeggiarla. "Ho visto che un uomo mi stava guardando, però l’ho evitato. Poi, quando stavo per arrivare, me lo sono trovato dietro - ricorda -. Mi ha spinta contro un cancello. Ho realizzato che se stavo ferma sarei stata ancora di più in pericolo, mio padre mi ha insegnato a difendermi sempre. Così ho tirato pugni e calci mentre lui tentava di infilare le mani sotto la giacca, che era chiusa". Per fortuna "delle auto si sono fermate per chiedere se fosse tutto a posto e l’uomo è scappato. Quando sono arrivata a casa dei miei amici ero molto scossa, loro hanno provato a
cercarlo con i motorini, ma si era dileguato". Il giorno dopo, la Miss denunciò l'aggressore alla polizia: "Ho fatto l’identikit - dice - il mio aggressore avrà avuto 35-40 anni. Non ne ho saputo più niente...".Adistanza di tre anni dall'accaduto, Martina ha deciso di raccontare la sua esperienza sfidando luoghi comuni e convenzioni. E così ha sfilato in passerella al concorso "Miss Venice Beach" - una gara di bellezza ideata 12 anni fa da Elisa Bagordo (vecchia conoscenza di Miss Italia) e promossa da Il Gazzettino - indossando gli stessi indumenti di quella drammatica sera: un paio di pantaloni larghi, lunghi fino alle caviglie, e una giacca mimetica. "Non esiste un abbigliamento che incoraggia le molestie - afferma -. Puoi indossare la minigonna o i pantaloni, come nel mio caso: la differenza la fa la mente dell’aggressore, è lui che ha dei problemi, non chi si veste in un modo piuttosto che in un altro". Un'amica le ha suggerito di rivedere l'abbigliamento "per evitare problemi". "Un’amica, che peraltro mi vuole molto bene, mi ha suggerito di coprirmi un po’ di più altrimenti, ha detto, 'me la cercavo' - continua -. Lo diceva per il mio bene, è stata molto affettuosa in realtà. Indossavo un abito un po’ attillato e scollato e mi ha proposto di metterci sopra una maglietta almeno finché non arrivavo in centro. Vicino a casa tante volte i ragazzi ci fischiano dietro quando camminiamo.
Ma credo che non sia colpa dell’abbigliamento, è un problema loro". Martina studia Biochimica all'istituto tecnico e sogna di fare la veterinaria: "So che può sembrare banale - conclude - ma vorrei davvero salvare il mondo, come dicono le Miss sul palco".

5.1.25

diario di bordo n 96 anno III . Un chirurgo ha contratto il cancro da un paziente che stava operando: un caso unico nel suo genere .,Nazarena Savinoha una malattia neurologica grave da non saper nè leggere né scrivere, però ha preso la terza laurea: «L'arte è la mia cura, dedicato ai miei familiari»., Girano il mondo per 14 anni portandosi dietro un bebe


  fonti msn.it  e  pagina Facebook carmelo abbate
Sta facendo discutere un caso clinico unico nel suo genere, di un chirurgo che ha contratto il cancro da un paziente che stava operando. Il cancro non è una malattia contagiosa (non si trasmette come un virus) se non in rarissime eccezioni conosciute in tutto il genere animale ( nei cani, nel diavolo della Tasmania e nel criceto dorato ) e in

casi umani assai rari di 
trasmissione materno-fetale per difetti genetici nel feto (sono stati documentati appena 17 casi di trasmissione materno-fetale in oltre un secolo). Ciò rende la storia del chirurgo, dettagliata in un rapporto pubblicato nel 1996 sul New England Journal of Medicine, un caso assolutamente singolare.

Cosa sappiamo del chirurgo che ha contratto il cancro dal paziente che stava operando

Il chirurgo, un uomo tedesco di 53 anni, stava eseguendo un intervento chirurgico di asportazione di un istiocitoma fibroso maligno dall’addome di un paziente, un tipo di sarcoma caratterizzato dalla presenza di istiociti, delle cellule immunitarie che migrano in tessuti dove non dovrebbero, in cui formano escrescenze tumorali. Durante l’operazione, il chirurgo si ferì accidentalmente alla mano, tagliandosi alla base del dito medio del palmo sinistro, mentre cercava di posizionare un drenaggio nel paziente. La ferita venne disinfettata e fasciata immediatamente, ma cinque mesi dopo, il chirurgo notò che, in quello stesso punto della mano in cui si era ferito, si stava formando un piccolo nodulo. Visitato da uno specialista della mano che rilevò “un rigonfiamento duro,
circoscritto, simile a un tumore di 3 cm di diametro
”, il chirurgo fu quindi operato e il tessuto rimosso venne analizzato.
L’esame istologico rivelò che si trattava di un istiocitoma fibroso maligno, lo stesso tipo di tumore maligno che il chirurgo stava rimuovendo al momento della lesione alla mano. Ulteriori analisi rivelano che le cellule cancerose erano geneticamente identiche a quelle del cancro del suo paziente, per cui il team medico concluse che le cellule maligne dovevano essersi trasferite nel momento in cui il chirurgo si era ferito. “I due tumori erano entrambi degli istiocitomi fibrosi maligni del sottotipo storiforme-pleomorfo – si legge nel rapporto – . Utilizzando metodi molecolari, abbiamo poi dimostrato che i sarcomi del paziente e del chirurgo erano geneticamente identici”. Nel rapporto, il team descrive il caso come un “trapianto accidentale” di un istiocitoma fibroso maligno del paziente, precisando che si tratta di una circostanza molto insolita perché, solitamente, un tessuto trapiantato che differisce geneticamente dal tessuto dell’ospite viene preso di mira e distrutto sistema immunitario dell’ospite, portando al rigetto. Questo è il motivo per cui, durante i trapianti di organi, vengono utilizzati farmaci immunosoppressori. Il chirurgo aveva infatti sviluppato un’infiammazione intorno al taglio ma, evidentemente, quella risposta immunitaria non è riuscita a impedire alle cellule cancerose di proliferare. Secondo il team, quelle cellule potrebbero aver eluso il sistema immunitario
del chirurgo attraverso diversi meccanismi: ad esempio, potrebbero non aver prodotto sufficienti antigeni, molecole che attivano il sistema immunitario, innescando la produzione di anticorpi, secondo il rapporto.

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Nazarena Savino, 26 anni, si conferma un esempio straordinario di determinazione e resilienza. Pur affrontando le sfide legate alla sua disabilità, ha conseguito la sua seconda laurea magistrale - anch’essa con 110 e lode - in Storia dell’Arte, presso UniSalento. Già laureata in Archeologia e Storia Greca (triennale), Nazarena - originaria di Erchie, in provincia di Brindisi - è stata anche insignita del Premio
 Isabella dalle Giubbe Verdi per il suo impegno nel campo della disabilità e dell’accessibilità
.Con una tesi innovativa, realizzata in collaborazione con Palazzo Barberini di Roma e dedicata all’equilibrio tra arte e inclusione, e con il suo costante lavoro di sensibilizzazione, unisce la sua passione per la cultura con un instancabile impegno per abbattere le barriere architettoniche e culturali.
E ora, appellandosi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sogna un’Italia artistica accessibile a chiunque.

Nazarena, può raccontarci la sua storia e le sfide principali che affronta?

«A 18 anni mi è stata diagnosticata una malattia neurologica, che oggi mi impedisce di leggere e scrivere. Ho affrontato periodi difficili, in cui molte persone mi hanno fatto sentire inadeguata. Sentire frasi come “guarderai il mondo da una finestra” da chi consideravo amico è stato devastante. Ma non ho lasciato che queste parole mi fermassero. Grazie al sostegno della mia famiglia e dei veri amici, ho trovato la forza per realizzare i miei sogni».

In che modo arte e cultura l’hanno aiutata a trasformare le difficoltà in forza?

«L’arte è stata una fonte di ispirazione e rinascita. La mia tesi, realizzata in collaborazione con Palazzo Barberini, esplora come conciliare arte e accessibilità, studiando soluzioni alternative grazie alle nuove tecnologie. Ogni luogo culturale dovrebbe essere accessibile, perché la bellezza dell’Italia deve poter essere vissuta da tutti. Da qui il mio appello al Presidente Sergio Mattarella e alle istituzioni: consentiteci di avvicinarci alla cultura, tutti meritiamo di sentirci inclusi».


Come ha trovato la forza per un percorso così impegnativo?

«Devo tutto a mia madre Lea e a mia sorella Swami, i miei occhi e le mie mani: loro leggevano, io apprendevo. Il loro amore e supporto sono stati fondamentali. Anche gli amici veri hanno giocato un ruolo essenziale nel mio percorso. Un ringraziamento speciale va pure a tutti i docenti del corso di laurea in Beni Culturali, che mi hanno permesso di esprimermi al meglio».

Ai ragazzi ripete sempre tre parole: «passione, perseveranza e studio». È il suo motto di vita?

«Sì, perché la cultura appartiene a tutti e grazie ad essa possiamo migliorare la qualità della nostra vita e riconoscere il valore unico di ogni individuo. Solo lavorando insieme, tuttavia, possiamo abbattere le barriere fisiche e culturali».

Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai giovani?

«Nonostante gli ostacoli, con la giusta determinazione è possibile costruirsi un futuro luminoso: il nostro valore non dipende dalle opinioni degli altri, ma solo da noi stessi. E vorrei che comprendano che la disabilità non è un limite, ma una parte della diversità umana: il mio augurio è che diventino protagonisti di un futuro inclusivo e rispettoso di tutti».

A chi dedica questo traguardo?

«Alla mia famiglia, che mi ha trasmesso forza e serenità, e a tutti coloro che lottano ogni giorno contro le difficoltà. E lo dedico anche a chi si sente invisibile, escluso, a chi pensa di non farcela: non arrendetevi mai».


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Loro sono Claude e Françoise. Vivono in Francia, a Lione. Lui è un ortopedico di 27 anni, lei è una decoratrice di 23. Sono una coppia di novelli sposi, ma non hanno intenzione di chiudersi in casa e di rinunciare al loro sogno in comune. Vedere tutto il mondo non da libri e foto, ma con i propri occhi.
L’ aprile del 1980 montano in sella alle loro biciclette. Partono da Lione, all’avventura. Vogliono stare in giro almeno tre anni. Pedalano per chilometri, affrontano salite, vento, pioggia e sole cocente. Attraversano deserti, foreste, montagne e continenti. Dal cuore dell’Europa si spingono fino ai confini più remoti del pianeta. Non si fermano mai, tranne quando un paesaggio o un incontro li cattura.
Nel 1984 hanno attraversato già mezza Asia, e vanno in Australia. Vivono col minimo indispensabile, vendendo reportage dei loro viaggi alle riviste locali. E lì, in un angolo sperduto, Françoise scopre di essere incinta. In quel momento devono fare una scelta, fermarsi o continuare. Rimontano in sella, ripartono. E Manon nasce in Nuova Zelanda. I genitori la avvolgono in una coperta, la mettono in un piccolo rimorchio agganciato alla bicicletta, e via.
Viaggiano per i successivi sei anni, Manon cresce esplorando il mondo prima ancora di imparare a camminare, tra lingue e culture diverse. Impara a sorridere a chiunque incontri. La bimba dorme mentre le ruote girano, si nutre del mondo che la circonda.
Nel 1994 la coppia torna a Parigi. Sono passati quattordici anni, hanno percorso 150 mila chilometri attraverso 66 Paesi nei cinque continenti. Hanno forato 503 gomme, consumato 90 pneumatici e fatto innumerevoli incontri. Claude e Françoise sono tornati cambiati, ricchi di storie e di umanità. Manon ha sei anni, e porta già con sé una vita intera di avventure e ricordi.




18.11.24

non sempre è necessario abortire la storia di laura malata di oloprosencefalia alobare, una malformazione congenita del cervello

 Le voci di Andrea Celeste e di Francesco si sovrappongono come in un concerto polifonico, senza mai prevaricare l’una sull’altra. Chi li interrompe è Lucia, la loro bambina. La sua vocina si inserisce nel racconto più di una volta. Forse desidera capire chi è che sta parlando con i suoi genitori e perché è proprio lei la protagonista della storia. O forse vuole solo le «coccole», la prima parola che è uscita dalla sua bocca, ancor prima di mamma e papà, e che continua a ripetere, insieme a «mi piace tanto tanto tanto» – riferendosi alla pasta al pesto che sta mangiando –, a «Parole, parole parole» (sì esatto, la canzone di Mina) e a «Volare» di Domenico Modugno. «Sono i suoi cantanti preferiti – spiega la mamma ridendo –. Non sappiamo proprio come si sia innamorata di loro...».Tante altre cose, in realtà, non riescono a spiegarsi. Perché Lucia è un vero e proprio miracolo. Non ci sono altre parole per descriverla. Non avrebbe dovuto nascere. Due terribili diagnosi prenatali rischiavano di segnarle la vita. Prima la scoperta dell’idrocefalia, l’accumulo di acqua cerebrale nei ventricoli, che «non viene smaltita e quindi ingrandisce la scatola cranica». E poi la diagnosi ancora più grave dell’oloprosencefalia alobare, una malformazione congenita del cervello. «Si tratta del livello più grave – dice Francesco –. Nel 40 per cento dei casi i bambini muoiono entro pochissimi giorni dalla nascita, quelli che sopravvivono non riescono a respirare autonomamente, a mangiare, a muovere le mani, a defecare, e nemmeno a piangere». E invece Lucia ha pianto. Nonostante i medici che avevano consigliato ai suoi genitori di abortire, «perché anche se ce l’avesse fatta dicevano che sarebbe cresciuta come un’ameba».1Tutti tranne uno. Il professor Giuseppe Noia, direttore dell’Hospice - Centro cure palliative prenatali del Policlinico Gemelli di Roma e promotore nel 2015, insieme alla moglie Anna Luisa La Teano e all’amica Angela Bozzo, della Fondazione “Il Cuore in una Goccia onlus”, di cui è presidente. Proprio ieri è iniziato, a Roma, il settimo raduno nazionale che ci conclude oggi con la Messa celebrata da Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma. Tanti volontari e famiglie da tutta Italia sono riunite per «rilanciare il concetto di custodia della vita umana in senso globale», spiega Noia. Con storie come quella di Lucia, che non appena è uscita dal grembo materno ha squarciato, tra la sorpresa di tutti, la quiete dei corridoi del Gemelli.
«La tentazione di abortire l’abbiamo avuta», ammettono entrambi i genitori. «Ma poi ho pensato – aggiunge Andrea Celeste – che nella vita la cosa più importante che ho ricevuto è stata l’amore. Se decido di abortire, mi sono detta, che cosa insegno a mia figlia? Che nella vita esiste solo la morte?». Francesco l’illuminazione l’ha avuta davanti al Santo Sepolcro di Gerusalemme: «Il Signore mi ha fatto capire che non poteva esserci dono migliore che potessi fare a mia figlia che farla nascere».
Poi l’incontro con Noia, «un angelo custode. Ci ha detto: “Le speranze di vita sono poche, e probabilmente Lucia avrà deficit neurologici molto gravi, ma tutti nasciamo malformati dalla storia, dal peccato e dalle sofferenze, eppure Dio ci ama». Lucia è nata al Gemelli un mese e mezzo prima del previsto con un cesareo. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Oggi ha tre anni e mezzo ed è stata operata già undici volte. La sua testa, per dimensioni, è quella di una bambina di 12 anni. Ma respira autonomamente, mangia, vede (nonostante non possieda la struttura cerebrale della vista). I medici non si spiegano come ci riesca. E sente, «anche meglio di me, che sono musicista», aggiunge la mamma. Per muoversi usa un deambulatore. Ma per i medici è solo questione di tempo: prima o poi camminerà da sola. Così come si riuscirà a toglierle il pannolino.
La sua storia insegna che «ci vuole uno sguardo umile e grato sull’esistenza, senza cedere alla tentazione dell’autodeterminazione assoluta», sottolinea Ambarus. «Il nostro intento – aggiunge Noia – è contrastare la cultura dello scarto con la scienza, l’umanità, la formazione e la ricerca». Lo dimostrano i numeri: «Sono 824 le famiglie che l’Hospice ha aiutato nei suoi anni – conclude il professore –. Il 40 per cento dei bambini sembrava non avere speranze. E invece oggi è in braccio alle proprie mamme».

20.10.24

gli italiani filmano le tragedie gli straniero salvano vite il caso di Angela Isaac, ha 28 anni, nigeriana, ieri ha letteralmente salvato un uomo travolto dall’onda di piena a Catania.

 

La ragazza qui sotto si chiama Angela Isaac, ha 28 anni, è nigeriana, e ieri ha letteralmente salvato un
uomo travolto dall’onda di piena a Catania. Quando si è accorta di quell’uomo in scooter in balia dell’acqua, Angela non ci ha pensato su un attimo, si è lanciata verso di lui afferrandolo per un braccio e portandolo in salvo. Il tutto mentre diversi italianissimi passanti patriotticamente filmavano l’intera scena coi cellulari. Senza muovere un dito. Angela non ha filmato, ha salvato una vita. Lo ha fatto a rischio della sua. Lo ha fatto nelle stesse ore in cui Salvini sul Tg1 evocava stupri, rapine e omicidi dei dodici migranti provenienti dall’Albania in quanto tali.Angela Isaac non è un’eroina. È semplicemente un essere umano capace di gesti di enorme altruismo e coraggio in un Paese governato da gente che vorrebbe convincervi a odiare stranieri, migranti, extracomunitari.Una straordinaria lezione civile urlata a qualcuno che non la capirà mai. Anche solo per questo meriterebbe una medaglia al merito dal Presidente della Repubblica.E un Grazie da parte di tutti.

Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto sotto  a  sinistra )  considerato il primo t...