Adesso che il Mondiale è archiviato, è tempo di riflettere. Si è trattato - l'abbiamo ripetuto più volte - di una delle peggiori edizioni di sempre: per l'avida pavidità della Fifa, pronta a eludere diritti umani e '"inclusività" davanti ai fiotti di denaro d'un Qatar sbrilluccicante d'intolleranza, fasti sardanapaleschi e tormento di lavoratori-schiavi. Abbiamo assistito al dramma dell'Iran, subito eliminato, non dal gioco ma dalla vita: molti calciatori persiani sono stati incarcerati, a volte giustiziati, per aver manifestato solidarietà ad Ahsa Amini e a tutte le donne e ragazze oppresse dagli ayatollah. Perché l'ombra che incombeva su questi match virili era un'ombra, anzi un velo, femminile. Sono stati Mondiali brutti ma simbolici, Mondiali di traverso, Mondiali non detti: dove chi ha vinto, non necessariamente sul campo, è stato uomo solo grazie a donne. Sono stati uomini i già nominati iraniani (ma pure l'equivalente squadra di pallamano, muta per protesta durante l'inno nazionale); e sono stati uomini i marocchini, che il podio l'hanno sfiorato, ma hanno conquistato il cuore di tutti. Ballando con la madre, come Sofiane Boufal. Ma altri se le sono spupazzate alla grande, quelle loro mamme insostituibili, da Achraf Hakimi a Hakim Ziyech.
E il bello è che tutto, nell'apparente contraddittorietà, è parso logico, spontaneo, ovvio: fede e bellezza, foulard e musica, pudore e fisicità. Chi vede losco, vede male; e lo vede per invidia. Infastidito/a da un'esplosione di gioia familiare, da un Dio che vorrebbe annoverare tra le anticaglie della storia e che viene invece invocato e amato. Non ci sono ambizioni tarpate, nulla da insegnare a nessuno. Non a Sofiane, per cui la madre è "tutto" e "ci ha cresciuti da sola", compresa la bimba a capelli sciolti che la donna prende in braccio per unirla alla festa assieme a fidanzate/mogli, artiste perciò visibilissime. "Un giorno le dissi: lasciami il 100% al calcio - ricorda Sofiane - e fra un anno e mezzo smetterai di lavorare". E la madre di Achraf rimanda: "Siamo un sostegno molto grande, più dell'allenatore, di suo
padre o dei suoi amici". Che ne sanno di questi ibridi, nati in Europa, frullato di culture e sogni periferici, gli altezzosi dirittisti, i lacchè del neopositivismo edipico? Ma non ricordano il braccio levato di Marco Materazzi ai Mondiali 2006, da dove la Nazionale uscì vincente? In verità, Materazzi quel braccio lo allungò in maniera telescopica, e ci aggiunse il dito quasi ad agguantare babelicamente il cielo. Ma cercava solo di ricongiungersi alla madre (ancora lei), persa a 15 anni. Madre-Dio: binomio inestricabile. L'atleta smisurato percepiva la sua piccolezza, la distanza siderale che ormai lo separava dalla genitrice. E la chiamava a gola spiegata: "Questa vittoria è per te". Per una volta uomo, non smargiasso o divo. Fu uomo il Balotelli deluso e piangente del 2012, consolato da Prandelli, esattamente come il Mbappé di dieci anni dopo
fra le braccia di Macron e Foyth. E sono uomini due campioni di passate stagioni, Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli. Sinisa non è più tra noi, Vialli sta lottando, ma non nasconde la paura.
Anche santa Teresina ha temuto l'"abisso del nulla" e, prima di lei, Cristo: il bimbo che sta per nascere ha manifestato tutto sé stesso nel momento dell'addio. Ma prima c'è stata la prova, perché era "un Dio non Dio" (G. Squizzato) e sapeva che la vita era una sola, e bella, e devastante lasciarla. Uomini nella sconfitta, nella debolezza di fronte a un trauma furibondo, meravigliosi d'imperfezione. Si può essere uomini solo così.
© Daniela Tuscano