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22.7.24

Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”


Il Riformista


Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”
Storia di Redazione • 23 ora/e • 3 min di lettura



Ha due anni, non corre, parla a malapena e vive in carcere. È il caso di ‘Giacomo‘, un bambino che ormai da dieci mesi si trova insieme alla madre nell’istituto penitenziario di Rebibbia, a Roma, non certo per colpe sue. Nel carcere c’è una sezione nido dove si trovano i figli dei reclusi, come è Giacomo: la madre, una trentenne italiana, sta scontando una pena per reati minori; e anche il padre, il compagno della donna, si trova a Rebibbia.
Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia
Dieci mesi in carcere, quindi, per Giacomo. E le condizioni in cui vive lo hanno portato a problemi di crescita e non solo: il piccolo – come racconta Repubblica – ha maturato un ritardo nello sviluppo psico-motorio. In più, non parla, non corre, è sovrappeso, porta ancora il pannolino. Dice solo poche parole: ‘sì’, ‘no’, ‘mamma’, ‘papà’, ‘apri‘ e ‘chiudi‘.
Il caso di Giacomo a Rebibbia, la nota dei senatori Pd
Dopo la denuncia di Repubblica, il caso è stato rilanciato dal Partito Democratico. I senatori del Pd, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando, Walter Verini e Cecilia d’Elia, hanno prima definito “agghiacciante” la vicenda. “Tra le emergenze delle carceri italiane, che vogliono dire suicidi quotidiani, sovraffollamento disumano, trattamenti privi di seri e diffusi percorsi di recupero e reinserimento, situazione difficilissima per gli agenti di polizia penitenziaria) c’è anche la vergogna dei minori in carcere con le madri detenute“, si legge nella loro nota. “Riproponiamo di abolire questa situazione di crudele inciviltà, proprio in occasione del voto sugli emendamenti al decreto carcere che inizierà questa settimana in Commissione Giustizia al Senato dove andrà in aula la prossima settimana” proseguono i senatori Pd. “Ci batteremo e vogliamo sperare con forza che tutti i gruppi si uniscano per dire davvero basta alla vergogna dei bambini reclusi nelle carceri di questo Paese” hanno concluso i senatori.
La visita in carcere a Rebibbia

Ma gli esponenti del partito di Elly Schlein sono andati oltre alla semplice nota. D’Elia e Verini si sono infatti recati nel carcere femminile di Rebibbia, in particolare nella sezione nido per “incontrare di persona ‘Giacomo’, innocente assoluto di due anni e sua madre”. “Un’esperienza drammatica, com’è sempre la visita al nido di un carcere. Al momento in quello di Rebibbia ci sono tre bambini, che abbiamo incontrato e di cui dalle madri abbiamo ascoltato le storie, molto diverse fra di loro. Ma simile è la sofferenza. È inaccettabile che ci siano bambine e bambini nelle nostre carceri. Sulla situazione particolare di Rebibbia verificheremo con i garanti territoriali quali possono essere le soluzioni da perseguire” hanno affermato i due dem.
Poi l’attacco alle misure proposte dal governo di Giorgia Meloni: “Da domani come senatori saremo impegnati nella discussione del decreto carceri, che inizia il suo iter a Palazzo Madama. Un decreto vuoto, che non affronta l’emergenza carceri e il sovraffollamento. I nostri emendamenti intervengono per umanizzare davvero le carceri, per riempire quel vuoto e anche per liberare finalmente i bambini dal carcere. Continueremo la nostra battaglia per abolire questa situazione crudele, aumentare le case famiglia e gli istituti a custodia attenuata. Ci auguriamo che le forze di maggioranza accolgano queste nostre proposte, che sono proposte di civiltà”.

21.7.24

«Ho iniziato a rapinare banche a 18 anni, oggi sono un soccorritore. Il carcere non funziona, ma può offrire delle possibilità»la storia di francesco ghelardini



 Una vita passata a svaligiare banche, poi l'improvviso cambio di rotta dopo essere tornato in carcere e la nuova vita da soccorritore. Questa è la storia di Francesco Ghelardini, 58enne di Milano cresciuto nel quartiere Comasina che ha parlato di com'è la malavita dall'interno, di carcere e di opportunità.«Da anni sono assunto a tempo indeterminato come responsabile e soccorritore alla “Intersos” di Abbiategrasso. La mia nuova vita è questa, con la divisa. Mi è stata data una possibilità, non smetterò mai di ringraziare i responsabili della società», ha detto al Corriere della Sera.«Da anni sono assunto a tempo indeterminato come responsabile e soccorritore alla “Intersos” di Abbiategrasso. La mia nuova vita è questa, con la divisa. Mi è stata data una possibilità, non smetterò mai di ringraziare i responsabili della società», ha detto al Corriere della Sera.
Le rapine in banca
Ghelardini è stato raggiunto dal "giro" in modo molto semplice, quasi "naturale": «Mio fratello più grande era già nel giro. Ho sempre frequentato ragazzi più grandi. Un giorno ero al bar e mi fanno: “Vuoi venire a fare una rapina?”. Non ci ho neanche pensato». Da quel momento ha iniziato sempre più spesso a svaligiare banche, un'abitudine che a lungo andare era diventata quasi come una droga e che l'uomo ha raccontato dettagliatamente: «Un esterno pensa che tutto duri pochi minuti, ma c’è la preparazione, lo studio dell’obiettivo, la preparazione psicologica. È come essere sul rasoio tutto il giorno. E anche il dopo rapina diventa emotivamente forte».Un'attività che quindi si fa tutt'altro che a cuor leggero, che implica un coinvolgimento emotivo e che porta Francesco a sostenere che i rapinatori abbiano quel qualcosa in più rispetto, ad esempio, agli spacciatori, perché «per entrare in una banca ci vuole coraggio. Non sai quello che ti capiterà, puoi essere preso, possono spararti».Poi però, «ti piace da matti», e infatti, come spiega, l'obiettivo vero delle rapine diventano le rapine stesse, non più il denaro: «Nel ’92 mi sono “ballato” via 500 milioni di vecchie lire in otto mesi. Non riesci ad attribuire un vero valore al denaro che rubi. Ne conosco pochi che sono riusciti ad arricchirsi veramente».


L'ultimo arresto
Nel 2013 è stato arrestato per l'ultima volta, un momento cruciale che lo ha fatto fermare a riflettere, l'idea di tornare in carcere lo ha scosso e gli ha aperto tutto ad un tratto la strada per una vita diversa. Sebbene il carcere non funzioni, a parte rarissime eccezioni, come conferma lo stesso Ghelardini, non è escluso che possa offire delle «possibilità».Psicologi, educatori, sacerdoti e l'ex direttore di San Vittore Luigi Pagano sono tutte persone che Francesco ringrazia e ricorda con affetto perché gli hanno permesso di dare un seguito alle sue intenzioni, di ragionare concretamente a una vita oltre il carcere.Adesso salva vite insieme alla "Intersos" e ha scritto anche due libri in cui ha concentrato tutta la sua esperienza, e in occasione della presentazione ufficiale di uno di questi ha vissuto un momento molto toccante, l'abbraccio con un carabiniere che l'ha arrestato: «Ho grande rispetto degli investigatori. Sai che loro ti danno la caccia, diventa quasi una sfida, giocata sull’astuzia. E vale per entrambi».

27.9.23

quando a giustizia non è riparativa . il caso di carol maltesi il cui carnefice vi ottiene acesso

  a  volte  anche   i  settimanali  femminili      offrono  spunti preziosi  come  l'articolo   del  settimanale    F n 39 2 ottobre  2023     che  trovate  sotto  .  di solito sono per la #GiustiziaRiparativa perchè tutti


hanno diritto ad una seconda possibilità , per evitare recidive , e aumento di criminalitò , ecc . ma qui l'rrendo crimine è ancora troppo fresco ed il carnedice non mi sembra acora pronto ad un percorso del genere e perchè ..... è spiegato nell'articolo sotto



22.12.17

chi lo ha detto che il natale vada celebrato con una messa . la storia del cappellano carcerario Salvatore Bussu e del vescovo di Giovanni melis fois ( 1916-2009 ) il cui gesto porto alla lege Gozzini


da legge prima o  dopo  quiesta  storia    date  vi   per evitare  casi becero  populismo e scrivere  \  dre  cazzate   alla  salvini   senza  sapere    il contesto  e  leggere il testo  della  legge 





Essendo troppo piccolo  per riportare   una testimonianza  diretta   su tale  episodio  avvenuto nerl  1983     e  sconosciuto  (  infatti anch'io  ignoravo  lo  appreso da  un articolo uscito in questi giorni    sula  pagina della  cultura   \  speciale  natale     dell'unione sarsa ,   solo cartaceo  l'online    free   non è  prevvisto  , ai  più   riporto alcuni articoli trovsato online . 

Il primo  è    un intervita   di Luciano Piras  che trovate  qui   sotto  presa da https://www.tpi.it/2017/04/26/salvatore-bussu-prete-lotta-diritti-terroristi-carcere/




Il prete che si è battuto per i diritti dei terroristi in carcere

La storia di Don Bussu, il prete giornalista che ha difeso i diritti dei carcerati, nell'intervista a Luciano Piras, autore del libro “I terroristi sono miei fratelli”

26 Apr. 2017

   
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Salvatore  Bussu     dalla rete  
A  dicembre  1983 Giovanni Paolo II fa il suo ingresso nel carcere di Rebibbia per stringere la mano al suo attentatore, il turco Ali Agca. Lo stesso mese un umile prete di provincia, cappellano del carcere nuorese di Badu e’ carros, si autosospende dal suo mandato sacerdotale. Piccolo di statura ma gigante nel coraggio, Don Salvatore Bussu [ foto a  destra   ]  viene da Ollollai, un piccolo paese all’interno della Sardegna, in provincia di Nuoro.Don Bussu si è schierato senza timore in difesa dei reclusi, che da tempo stanno attuando lo sciopero della fame. Oltre a essere un prete, è anche un giornalista, cosa che l’ha aiutato non poco nella sua battaglia. Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di “terrorismo di Stato”, facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi.                                                             
Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di “terrorismo di Stato”, facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi. 
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Don  Giovanni  Melis  Fois   1916-2009  )  da  
http://blogs.dotnethell.it/Oristano/ShowImage.aspx?ID=6326
Il parlamento si mette a lavorare sul caso e arriva alla stesura della legge Gozzini, dando attuazione al dettato costituzionale che prevede il divieto di detenzione senza il rispetto dei diritti umani. Il provvedimento supera una legge del 1975, che prevedeva la possibilità di far prevalere esigenze di sicurezza sulle norme di rieducazione e di trattamento umano. 
Le legge Gozzini diventa allora bersaglio di attacchi, così come lo stesso Don Bussu che la difende sempre a spada tratta. Con il gesto di schierarsi dalla parte dei brigatisti reclusi il sacerdote non vuole certo appoggiarne l’operato – cosa di cui spesso viene accusato – ma lottare per un trattamento degno di una società civile. Don Bussu cerca il giusto equilibrio fra la pena da scontare e l’aspetto rieducativo per il recluso, facendo leva sul concetto del perdono nella fede cristiana. 
La vicenda è stata raccontata nel libro “I terroristi sono miei fratelli” di Luciano Piras, giornalista del quotidiano La Nuova Sardegna. Il titolo è provocatorio come le parole che il cappellano del carcere ha utilizzato per manifestare la sua posizione. Il libro ricostruisce la storia con l’aiuto dello stesso Don Bussu.
Quanto è stata decisiva la battaglia di Don Bussu nella riforma carceraria italiana?
Dire che la battaglia di un umile prete della periferia sarda è stata decisiva, può sembrare un’ esagerazione. Eppure, quella lontana e clamorosa “rivolta” partita da Nuoro è stata determinante nella storia d’Italia, tant’è che ha segnato il definitivo tramonto del vecchio ordinamento penitenziario fermo al 1975, anche se ormai nessuno sembra più ricordarsene.
Era stato lo stesso senatore Mario Gozzini, padre della riforma del 1986, del resto, a sottolineare che gli scioperi della fame nel supercarcere di Badu ‘e Carros e il cosiddetto “sciopero della messa” del cappellano don Salvatore Bussu segnarono uno spartiacque nella vita carceraria: prime rivolte, salite sui tetti, violenze anche estreme; dopo, simili fatti sono diventati rarissimi. Tant’è vero che il parlamento dimostrò presto di aver recepito la “sollecitazione” arrivata dalla Barbagia. 
Don Bussu è stato inizialmente visto dalle istituzioni sia politiche che clericali come un ingombrante peso. Va inoltre aggiunto che allora non si avevano certo gli stessi mezzi di comunicazione di oggi per poter promuovere una simile battaglia. Quali sono i suoi meriti nell’essere stato persuasivo e abile anche nella comunicazione?
Ingombrante? Mite e pacifico, persino timido, ieri come ancora oggi, don Bussu è stato addirittura additato come sovversivo. È stato bollato come “il cappellano delle Br”… roba da matti! Ha avuto comunque la fortuna di avere dalla sua parte un grande vescovo, monsignor Giovanni Melis, che non condivise le “dimissioni” di don Bussu, e soprattutto non condivise le parole dirompenti che don Bussu usò per “dimettersi” da cappellano, ma lo sostenne ugualmente perché certo che il suo prete agiva in pace con la coscienza, da vero cristiano senza steccati. 
Ma se è vero che don Bussu è un prete che ha avuto una parte non marginale nella sconfitta del terrorismo italiano (Gozzini lo ha ribadito più volte), altrettanto vero è che don Bussu è battagliero nato, direttore del settimanale diocesano L’Ortobene. Un giornalista inquieto per Cristo, che proprio per questo ha saputo usare uno dei più popolari e diffusi canali di comunicazione di massa di allora: l’agenzia Ansa.
È all’Ansa che consegnò la sua lettera di dimissioni, è l’Ansa che spinse la notizia ovunque. Sempre attento al mondo dell’informazione, probabilmente oggi don Bussu affiderebbe quella sua lettera ai social, a Facebook… anzi, no… credo che si affiderebbe più a Twitter. 
Da uomo di Chiesa Don Bussu si è spesso appellato alla laicità della Costituizione italiana, che prevede che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quanto nella pratica oggi un carcere italiano può garantire questo diritto costituzionale?
da http://iltaccuinodellevoci.blogspot.it/2014/10/un-prete-e-i-terroristi-di-salvatore.html

Purtroppo l’Italia, quanto a sistema penitenziario, è ancora ferma allo stato delle caverne. Le violazioni dei diritti umani nelle carceri italiane sono quotidiane. Violazioni della legalità accertate in giudizio anche davanti a corti interne, tanto che ormai si parla di una giurisprudenza costante. E non sono io a dirlo, sia chiaro: sono gli stessi dati ufficiali del ministero della Giustizia, a testimoniarlo, e – cosa ancora più grave – le ripetute sentenze di condanna inflitte allo Stato italiano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di Strasburgo ha detto più volte che il primo colpevole, spesso, è lo stato che costringe i detenuti a scontare pene inumane e illegittime. Diversi sono i casi emblematici che fanno della Repubblica italiana uno stato “fuori norma” e parecchio lontano dal rispetto dei diritti fondamentali della persona e dagli impegni assunti formalmente con la sottoscrizione di atti e convenzioni internazionali.

Ancora oggi, dunque, le carceri italiane presentano standard molto bassi. Spesso la Corte di Strasburgo ne ha evidenziato la gravità. Qual è lo stato delle carceri italiane adesso rispetto agli altri paesi? 
In una parola: pessimo. Basti pensare che appena qualche anno fa, mentre nella Repubblica Ceca la percentuale dei detenuti in attesa di primo giudizio era ferma all’11 per cento, in Italia toccava la soglia del 42 per cento. Una vera e propria cancrena che lascia l’Italia indietro rispetto al resto dell’Europa e al mondo occidentale.
Una misura eccezionale – la “custodia cautelare” o “detenzione preventiva” – che invece diventa sistematica, “perché in Italia non si riesce a concludere i processi in tempi ragionevoli”, come denunciava già nel 1991 Mario Gozzini. Significa che oggi quasi il 20 per cento dei detenuti è in carcere da innocente, visto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, come recita l’articolo 27 della Costituzione repubblicana. 
Che uomo è oggi Don Bussu? Si sente ancora, nonostante l’età, un combattente sacerdote?
Don Bussu resta il leone di sempre, anche se “la vecchiaia avanza e le forze non sono più quelle di prima”, scherza con la sua tipica autoironia. A quasi novant’anni, dopo essersi ritirato dalla vita pubblica è in cerca del meritato riposo. Ma è comunque sempre pronto a rifare quello che ha fatto, se ci dovessero essere le stesse condizioni di quel Natale 1983, quando uscì dal supercarcere nuorese di Badu ‘e Carros sbattendo i cancelli, mentre quasi in contemporanea papa Wojtyla entrava in una cella di Rebibbia per visitare il suo attentatore Alì Agca. 




A dihttps://www.tpi.it/2017/04/26/salvatore-bussu-prete-lotta-diritti-terroristi-carcere/#r a don Salvatore Bussu cappellano del supercarcere Badu ‘e Carros dal 1981 al 1984 e autore del libro “Un prete e i terroristi. Attraverso Badu ‘e Carros un viaggio nel mondo dell’eversione” qui http://iltaccuinodellevoci.blogspot.it/2014/10/un-prete-e-i-terroristi-di-salvatore.html un ottima recensione con alcuni estratti . E gli articoli della nuova sardegna del 

07 gennaio 2004 

«Vogliamo riappropriarci della nostra dignità di uomini»


NUORO
.Domenica 11 dicembre 1983. Don Bussu, cappellano a Badu 'e carros da appena due anni, ha un colloquio con sei detenuti politici. Sono stati loro, Alberto Franceschini, Claudio Pavese, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, capi dele Brigate rosse rinchiusi nel carcere speciale, a chiedere l'incontro. Gli annunciano di avere cominciato tre giorni prima uno sciopero della fame: «Non vogliamo semplicemente protestare contro le disumane condizioni di esistenza cui ci costringono, e che tu ben conosci perchè le devi sperimentare anche sulla tua persona quando ti viene persino impedito di entrare in sezione a parlare con noi - gli spiegano -. Con questa scelta vogliamo innanzitutto riappropriarci di qualcosa che ci appartiene in modo veramente inalienabile: la nostra identità di uomini, la nostra vita vera, profonda». Qualche giorno più avanti si affiancò a loro anche Giuseppe Federigi.
Don Bussu prova con insistenza a farli desistere, senza successo. Sollecita l'intervento del vescovo Giovanni Melis, che si impegna senza riserve. Parla con Franceschini ma ottiene un cordiale e deciso rifiuto: lo sciopero andrà avanti anche a costo della vita. Dopo la messa della vigilia di Natale il cappellano torna a casa: «Furono ore terribili, dovevo fare qualcosa, a tutti i costi». La decisione fu immediata, impetuosa. Scrisse una lettera di fuoco che mise a rumore l'Italia: «Mentre dei miei fratelli - perchè tali me li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stia avvenendo. Da oggi perciò interrompo il mio servizio pastorale a Badu 'e carros». Fu subito un caso nazionale e soprattutto politico. Si apri la strada alla modifica dell'articolo 90 della legge di riforma delle carceri del 1975 (l'approdo sarà la legge Gozzini), che fu all'origine del malessere e dello sciopero poichè prevedeva l'isolamento totale della struttura penitenziaria in caso di particolari esigenze di sicurezza.
Badu 'e carros, inaugurato nel settembre del 1969 cominciò nel '77 a ospitare i nomi più importanti del terrorismo. Nell '80 fu teatro di una rivolta guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene.

  e   del 14\4\2008
«Vogliamo riappropriarci della nostra dignità di uomini»NUORO.Domenica 11 dicembre 1983. Don Bussu, cappellano a Badu 'e carros da appena due anni, ha un colloquio con sei detenuti politici. Sono stati loro, Alberto Franceschini, Claudio Pavese, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, capi dele Brigate rosse rinchiusi nel carcere speciale, a chiedere l'incontro. Gli annunciano di avere cominciato tre giorni prima uno sciopero della fame: «Non vogliamo semplicemente protestare contro le disumane condizioni di esistenza cui ci costringono, e che tu ben conosci perchè le devi sperimentare anche sulla tua persona quando ti viene persino impedito di entrare in sezione a parlare con noi - gli spiegano -. Con questa scelta vogliamo innanzitutto riappropriarci di qualcosa che ci appartiene in modo veramente inalienabile: la nostra identità di uomini, la nostra vita vera, profonda». Qualche giorno più avanti si affiancò a loro anche Giuseppe Federigi.
Don Bussu prova con insistenza a farli desistere, senza successo. Sollecita l'intervento del vescovo Giovanni Melis, che si impegna senza riserve. Parla con Franceschini ma ottiene un cordiale e deciso rifiuto: lo sciopero andrà avanti anche a costo della vita. Dopo la messa della vigilia di Natale il cappellano torna a casa: «Furono ore terribili, dovevo fare qualcosa, a tutti i costi». La decisione fu immediata, impetuosa. Scrisse una lettera di fuoco che mise a rumore l'Italia: «Mentre dei miei fratelli - perchè tali me li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stia avvenendo. Da oggi perciò interrompo il mio servizio pastorale a Badu 'e carros». Fu subito un caso nazionale e soprattutto politico. Si apri la strada alla modifica dell'articolo 90 della legge di riforma delle carceri del 1975 (l'approdo sarà la legge Gozzini), che fu all'origine del malessere e dello sciopero poichè prevedeva l'isolamento totale della struttura penitenziaria in caso di particolari esigenze di sicurezza.
Badu 'e carros, inaugurato nel settembre del 1969 cominciò nel '77 a ospitare i nomi più importanti del terrorismo. Nell '80 fu teatro di una rivolta guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene.



Quando don Bussu chiamò «fratelli» le Br

Testardo, don Bussu. Nella rossa Reggio Emilia c'erano i Nomadi e Pierangelo Bertoli decisi a mettere in piedi un megaconcerto pur di portare alla ribalta pubblica la brutalità del regime carcerario cui erano costretti i brigatisti detenuti: l'arcivescovo della città, Camillo Ruini, tuttavia, condannò aspramente l'iniziativa e il progetto musicale mori sul nascere. A Nuoro, invece, il cappellano di Badu 'e Carros, don Salvatore Bussu, andò avanti come un trattore, ascoltò soltanto la voce della sua coscienza di uomo e di prete, chiamò i terroristi «miei fratelli» e per loro usci allo scoperto provocando un ciclone talmente potente che costrinse il ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli ad intervenire.
«Quel giorno don Salvatore non se la sentiva di dire messa come se niente fosse. Era il giorno di Natale del 1983. Con il suo vescovo, monsignor Giovanni Melis, aveva parlato a lungo di ciò che stava accadendo a Badu 'e Carros, il supercarcere di Nuoro, di cui era cappellano. Sei e poi sette brigatisti avevano cominciato lo sciopero della fame». È cosi che prende avvio la ricostruzione della prima rivolta pacifica nella storia dei penitenziari italiani.
«In passato le rivolte erano sempre state molto accese, con uso di bombe artigianali, esplosivi, con scontri diretti, feriti e qualche morto» scrive Annachiara Valle nel suo libro appena uscito con la Rizzoli, 'Parole, opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo" (266 pagine, 17 euro). «Adesso, invece - prosegue l'autrice, giornalista di Jesus e collaboratrice di Famiglia Cristiana -, si sceglie una via diversa e, due giorni dopo l'ultimo incontro tra Franceschini, Bonisoli e il cappellano, il 7 dicembre, comincia lo sciopero della fame». Alberto Franceschini e Francesco Bonisoli non erano due detenuti qualsiasi: il primo era considerato lo stratega del terrorismo rosso, capo incontrastato delle Br, assieme a Renato Curcio; il secondo era stato nel comitato esecutivo che gesti il rapimento di Aldo Moro. Nati entrambi a Reggio Emilia, venticinque anni fa sia Franceschini sia Bonisoli erano rinchiusi nelle celle del 'braccetto della morte" di Badu 'e Carros. E con loro c'erano tanti altri terroristi della vecchia e della nuova guardia.
Giovani sottoposti a un regime speciale che don Bussu non esitò a bollare come «terrorismo di Stato, non meno condannabile del terrorismo delle Brigate rosse». È questa frase che scatenò il putiferio. È grazie a questa frase, tuttavia, che il Parlamento accelerò la discussione della riforma, arrivata poi con la Legge Gozzini. Avvenimento, quello nuorese, che Annachiara Valle focalizza nel quinto capitolo del suo libro freschissimo di stampa. Avvenimento emblematico e decisivo, nel più vasto panorama del ruolo assunto dalla Chiesa nella triste stagione della lotta armata e nella confusione che ne derivò negli anni seguenti. Una testimonianza coraggiosa, quella di don Bussu cappellano, che la Valle giustamente inserisce nella sua inchiesta, un viaggio spesso doloroso tra i conflitti e le lacerazioni che misero alla prova la tenuta dello Stato democratico e che soprattutto durante il sequestro Moro non risparmiarono neppure gli ambienti ecclesiastici.
«Specchio del mondo che la circondava, la Chiesa accoglieva in sé una pluralità di anime, diverse per sensibilità e visione strategica, e alternava aperture e arrocamenti, rigore e coraggiosa disponibilità all'ascolto». Da un lato le alte gerarchie mediarono tra lo Stato e le Br per il rilascio del giudice genovese Mario Sossi, dall'altro invece sposarono la linea della fermezza nel caso di Aldo Moro. Sul fronte delle parrocchie, intanto, non si fermò mai e poi mai l'opera instancabile e magari silenziosa di sacerdoti semplici come padre Ernesto Balducci o don Salvatore Bussu. «Sono certo - ha raccontato Bonisoli ad Annachiara Valle - che la storia del terrorismo sarebbe stata diversa se a Badu 'e Carros, e in tante altre carceri italiane, non ci fosse stato qualcuno in grado di accogliere il nostro grido e di trasformarlo in positivo».

Luciano Piras

15.7.16

Padova Due Palazzi, corsi anti-Isis per chi lavora in carcere Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti.

Ecco  , per  evitare   l'ennessimo attentato   degli stronzi    fondamentalisti    e i  soliti  serminoni   pieni  d'odio  generalizzato     dei malpancisti \  populisti   e  non solo  .Oltre  alle   consuete   regole del buon senso
 1)    evitare generalizzazioni stupide  e  forvianti      non sempre  chi  è mussulmano  è  necessariamente   \  per  forza    terrorista  . E'  come     se   dicessimo  che  noi  cattolici     siamo    tutti per  i roghi  e l'inquisizione
2)  esistono nell'islam  , come  neele altre fedi  (  compresa la nosta  )  diverse correnti  \  scuole  di  pensiero  oltre  a quelle  fanatiche  \  fondamentaliste
3) vedere nele  diversi  fedi   anche le cose  positive  non solo  quele  negative   cioè 50  e  50 

ecco  come fare terra bruciata senza usare bombe ed armi o finanziare dittature o  i nemico
  vedere  la  storia

"TERRORISMO ISLAMICO"
(Breve lezione di storia per chi non sa o non vuole sapere)
Sino agli anni 80 l'Afghanistan era una repubblica democratica, laica e socialista. La religione era permessa ma non era tollerato alcun radicalismo. Le ragazze portavano la minigonna e compivano studi universitari. Un signore in cravatta vendeva dischi. Avevo un amico laggiù, faceva il medico. Gli Usa, reduci dal disastro Vietnam, per pure ragioni ideologiche (guerra fredda imperante) sobillarono una guerriglia antigovernativa, sino a che l'Afghanistan chiese l'intervento della Russia, nazione confinante e da sempre in strette relazioni. A quel punto Usa e Gran Bretagna cominciarono ad armare in modo massiccio le fazioni ribelli di stampo radicale, usando come mediatore un saudita la cui famiglia risiedeva a Boston, Osama Bin Lader. I guerriglieri erano addestrati in Pakistan dalla CIA. Dopo dieci anni i russi si ritirarono, vinse la guerriglia islamica e prese il potere la fazione più estremista, quella dei Talebani. Bin Laden fondò Al Qaeda. L''Afganistan tornò al medioevo e sparì dalla cronaca. Il mondo lo riscopri l'11 settembre del 2001. Il resto della storia ognuno se la racconti come vuole, a partire dalla guerra in Iraq.
foto di Raffaele Mangano.

foto di Raffaele Mangano.


   da  http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/07/15/http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/07/15/

Due Palazzi, corsi anti-Isis per chi lavora in carcere

Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti. Protocollo d’intesa con il Bo per il rispetto delle diversità culturali e religiose

PADOVA. Le carceri del Triveneto si preparano per meglio affrontare la sfida contro il fondamentalismo islamico, iniziando la lotta contro il terrorismo da dietro le sbarre. Padova è stata inclusa nel programma, finanziato dalla Comunità europea, per evitare la radicalizzazione nelle carceri e migliorare la valutazione del rischio. Tutti gli operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, saranno formati ad hoc per riconoscere gli individui a rischio e farli desistere da posizioni estremiste. Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti. Tutti gli operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, saranno formati ad hoc per inquadrare gli individui a rischio e farli desistere da posizioni estremiste. Lo scopo è evitare che alcuni detenuti una volta usciti dal carcere passino dall’estremismo ideologico all’azione violenta, trasformando le strutture di detenzione in una palestra e un luogo di incontro
«L’obiettivo è analizzare i contesti detentivi», spiega Angela Venezia, direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato penitenziario per il Triveneto, «e trovare chiavi di lettura che permettano di interagire con i soggetti, potenzialmente aggressivi, che dimostrano simpatia per il mondo islamico. Il progetto sarà avviato con la collaborazione di un agenzia di formazione e sarà in rete con università e dipartimenti penitenziari esteri». In Europa la radicalizzazione è una minaccia crescente, per questo la Commissione si è impegnata a sostenere gli stati membri finanziando programmi di formazione per gli addetti ai lavori del sistema giudiziario penale. Lo scopo è evitare che alcuni detenuti una volta usciti dal carcere passino dall’estremismo ideologico all’azione violenta, trasformando le strutture di detenzione in una palestra e un luogo di incontro.
Un rischio che si è già trasformato in realtà in altre città come Parigi. Amedy Coulibaly, uno degli attentatori che ha commesso la strage di Charlie Hebdo, era stato in carcere per rapina a mano armata e, stringendo legami con un secondo attentatore, Chérif Koauchi, è uscito intenzionato a portare a termine un attacco terroristico.
Attualmente circa 750 persone sono recluse al Due Palazzi. Metà dei detenuti provengono da 60 paesi diversi. A loro è dedicato un nuovo protocollo d’intesa per il rispetto delle diversità religiose, che nasce tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e il Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata (Fisppa) dell’Università. L'iniziativa è stata presentata ieri al Bo, alla presenza del rettore Rosario Rizzuto, del direttore Fisppa Vicenzo Milanesi e del provveditore Enrico Sbriglia. «Sono coinvolti
5 ricercatori con competenze multilinguistiche», specifica Mohammed Khalid Rhazzali, coordinatore, «sottoporremo ai detenuti stranieri questionari di indagine, con l’obiettivo di capire come organizzare gli spazi e i tempi per le diverse abitudini e pratiche religiose».

5.3.14

Tra le curve delle opportunità di Giampaolo Cassitta



in sottofondo



dal mio compagno di viaggio facebookiani e non Giampaolo Cassitta



Le parole e i concetti hanno un suono. Raccontano quello che le immagini non riescono a codificare. Eppure, a volte, diventa difficile riuscire a scardinare ciò che le parole hanno costruito. Perché la gente ormai si è appropriata di quel termine, di quel modo di dire e lo fa diventare “luogo comune” e, in alcuni casi, diventa “verità rivelata”. E’ il caso del decreto “svuotacarceri” locuzione di questi giorni che è stata “affibbiata” ad un decreto poco amato da Lega e Cinque stelle e poco sostenuto dagli altri partiti. Intanto, quel decreto, divenuto Legge (Legge n.10 del 2014) non svuota, nella maniera più assoluta, le carceri. Non è un indulto,
un’amnistia, un regalo. E’ piuttosto qualcosa che parte da lontano e prova, seppure goffamente, ad “aggiustare” alcuni passaggi legislativi non proprio felici. E’ una legge “aperta” ad una nuova serie di soluzioni e prova a scrollarsi di dosso l’idea che tutto, in questo paese debba necessariamente “carcerizzato”, che tutti i reati devono passare obbligatoriamente per la fermata di un penitenziario. Prova a sveltire l’espulsione dei detenuti stranieri verso i loro paese di origine, prova a concedere, per un tempo di sei anni, una maggiorazione di liberazione anticipata a detenuti meritevoli del beneficio escludendo, tassativamente, detenuti di alta sicurezza, appartenente alla malavita organizzata, stupratori e pedofili. Per quelli non esiste nessuna possibilità di libertà. Quindi, il carcere, per chi ha commesso gravi reati non si svuota. Il decreto Legge 146/2013 prova invece, seppure con una certa timidezza, a dare la parola al detenuto con il diritto di reclamo giursdizionale, amplia la possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale a quattro anni, restituendo nuove opportunità a chi, per esempio, ha già un lavoro oppure è all’interno di un progetto di inclusione sociale. Scommette sull’abbattimento della recidiva. E’ un discorso difficile e contorto. Un percorso complesso molto simile a quello sulla formazione: occorre scommettere sul futuro. Chi non passa per il “penitenziario” ha meno possibilità di rientrare all’interno del circuito delinquenziale. Vi sono studi che lo dimostrano e vi sono paesi, in Europa, che ci scommettono da anni. In Inghilterra, per esempio, la “messa alla prova” è una misura alternativa tra le più usate e apprezzate. Chi commette un reato non grave non entra in carcere ma, con una sorta di patto bilaterale tra Stato e reo, prova a dimostrare che si può scommettere sulla sua voglia di riscatto. In Italia questa proposta di legge giace dall’ultima legislatura nella commissione Giustizia alla Camera e il tragitto culturale, purtroppo, sembra essere piuttosto tortuoso. E’ difficile scommettere sulle persone, ed è difficile farlo con chi ha molte curve nel suo tragitto di vita. Il decreto approvato introduce, inoltre, la possibilità di poter trascorrere presso la propria abitazione la condanna, utilizzando il famoso “braccialetto”, dispositivo per il quale il nostro paese paga un affitto alla telecom da molti anni. Questa espiazione della pena appare in linea con le direttive europee e restituisce dignità a persone che, magari, per la prima volta si trovano a dover affrontare il percorso disagevole del penitenziario. Manca in questo decreto il coraggio vero, innovativo, di provare ad attuare la “riparazione del danno”, la possibilità di mediazione penale, la scommessa di mettersi in gioco e di farlo con un percorso serio, riflessivo, anche con la vittima del reato. 
Le carceri, dunque, non si svuotano. Ma vanno osservate con occhiali diversi. Dentro gli istituti penitenziari ci sono persone in grado di voler riscattare la propria vita, in grado di poter riparare ai propri errori, in grado di dimostrarlo. Vi è uno sforzo da parte di tutti per vincere questa scommessa e questo decreto più che “svuotacarcere” può essere appellato come: “piccola opportunità” per i detenuti ma anche per l’intera società.

18.2.14

mia intervista a Carmelo Musumeci

in sottofondo  
SONG FOR CLOCHARD - Daniele  ricciu 

facendo  una ricerca ,  dopo aver  visto questa sua    intervista  da  cui  è  tratta la  foto sotto   foto



 e  leggendo ,   in particolare il primo , questi due  articoli  di  http://www.giornalesentire.it/, sulla storia  e sulla battaglia di Carmelo  Musumeci

il primo  

CARMELO MUSUMECI - Storia di un malvivente

L'ergastolo è paragonabile ad una morte? Il quesito nasce dopo avere letto il libro dell'ergastolano Carmelo Musumeci "Gli uomini ombra" (Gabrielli editori). Ma chi è Musumeci e perché ha
scritto un libro che ha fatto risvegliare tante coscienze? Musumeci è un ergastolano, attualmente detenuto a Padova. E' siciliano. Nato a Aci Sant'Antonio in provincia di Catania è stato arrestato per appartenenza a "cosa nostra", e posto in detenzione all'Asinara in regime di 41 bis, da sempre il carcere di massima sicurezza. Lì Musumeci ha ripreso a studiare fino a laurearsi in giurisprudenza con una tesi in sociologia del diritto dal titolo eloquente "Vivere l'ergastolo". La sua storia è raccontata da Giornale SENTIRE (www.giornalesentire.it) che ha dedicato diversi articoli a questo ergastolano. (....) continua qui in : LA STORIA DI CARMELO MUSUMECI . 
IL  secondo in cui parla  de IL LIBRO IN CUI RACCONTA LA LIBERA USCITA
 ho deciso di intervistare lo stesso protagonista  


Com’è avvenuto il trapasso dalla precedente all’attuale vita?
A un tratto mi sono trovato in un luogo remoto e vagamente irreale. Pensavo di essere  arrivato in un altro mondo, in un altro tempo: sbarre e cemento dappertutto, dove ognuno aveva un posto preciso e nessuna vita.
Pentito o dissociato oppure né uno né l’altro? Oppure mi pento ma non mi svendo?
Non sono nè pentito né dissociato, sono solo una persona che ha sbagliato e vorrei scontare la mia pena ripagando con il bene il male che ho fatto. E poi vorrei anche sapere quando finisce la mia pena.
 Se dici che la tua situazione è ingiusta perché non fuggi, evadi e ti rifai una vita all’estero, ma 
continui a rimanere in carcere?
Sogno di scappare tutte le notti e tutti i giorni, ma non è facile realizzare i propri sogni con un blindato davanti come porta e una finestra con le sbarre di dietro.
Molti dicono che soprattutto quando si è recidivi l’ergastolo serve per educare e rendere 
effettiva la pena, tu che ne pensi?
Penso che sia molto difficile educare un morto che cammina. Pochi lo sanno, ma la pena detentiva da scontare in carcere è un’invenzione moderna di circa 300 anni. La schiavitù, la pena di morte, la vendetta, la tortura fanno parte della cultura di ogni società, sia antica che moderna, invece l’usanza di punire tenendo chiusa una persona in una cella per anni e anni e a volte per tutta la vita è un fatto relativamente nuovo. Non più: “…il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà…” ma il carcere. La pena dell’ergastolo “È peggiore della morte perché più 
molesto, più duro, più lungo da scontare. La pena viene rateizzata nel tempo e non condensata in un momento come la morte; ed è proprio questo la sua forza ammonitrice ed esemplare”. 
Una lunga pena detentiva o l’ergastolo è una punizione che supera tutte le altre, la più mostruosa, così terribile che poteva essere giustificata solamente con la copertura della 
religione. Infatti, il carcere non è un’invenzione laica ma è stata presa come da esempio dalla religione cristiana perché il carcere assomiglia molto all’inferno dei cristiani: il luogo in cui i dannati e gli angeli ribelli espiano la loro pena.
5) Poiché l’indulto e l’amnistia sono solo dei provvedimenti tampone che non risolvano il problema delle carceri, tu cosa proponi?
L’indulto e l’amnistia non sono provvedimenti tampone, riporterebbero un po’ di legalità in carcere perché attualmente è il posto più fuorilegge di qualsiasi altro luogo
.Secondo te, fare lavorare le persone in carcere può essere rieducativo e porrebbe ad una  drastica riduzione di reati da recidiva?
Lavorare in carcere è utile perché guadagni qualcosa, ma la recidiva si abbassa solo lavorando fuori con le pene alternative. In carcere meno ci stai e più probabilità hai di uscire meno peggio di quando sei entrato.

Questa è la poesia in cui sono particolarmente legato.

                                                La Ballata dell’ergastolano

Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo
per tornare subito indietro
un altro giorno null’altro
senza andare da nessuna parte
sogni che iniziano dove finiscono
rumori di metallo di chiavi
per giorni per mesi per anni
mura di cinta sbarre cancelli
occhi carichi di ricordi
ormai solo corpi parlanti più
vicini alla morte che alla vita. 
Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo
per tornare subito indietro
prigionieri per sempre
togliendoci tutto
senza lasciarci niente
neppure la sofferenza
la disperazione il dolore
perché non si fa più parte degli esseri umani. 
Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo
un altro giorno null’altro
morendo dentro a poco a poco
presente uguale al futuro
uguale a domani uguale a ieri
sofferenza per il giorno dopo
e per il giorno dopo ancora. 
Passi lunghi ben distesi
un passo ancora un passo,
un altro giorno null’altro
immaginando di vivere
ma immaginare non è vivere. 
Passi lunghi ben distesi,
un passo ancora un passo
con l’ergastolo la vita diventa una malattia
una morte bevuta a sorsi;
non ci uccidono: peggio,
ci lasciano morire per sempre
di un dolore che è per l’eternità. 
Un altro giorno null’altro.

Carmelo Musumeci

8.12.13

Maledetto per sempre: la vita non è che una lunga morte di Carmelo Musumeci



Musica  consigliata  Nella mia ora  di liberta  - Fabrizio  De  Andrè 



 mi trovo nella mia email  principale  non quella  del blog    , non ricordo come  (  se  mi hanno iscritto   visto le tematiche  che tratto  in  quasi  10 anni di blog  e  che trattavo prima  in  giro nella rete  collaborando  con l'amica Antonella Serafini di censurati.it o se  m'ero iscritto io )  ricevo la newsletters  di  Carmelo Musumeci  ( qui una sua biografia  )  una  email  di  ergastolani@gmail.com.
questa   email  che riporto sotto 




Oggetto: La vita non è che una lunga morte
Data: Sun, 8 Dec 2013 12:37:01 +0100
Mittente: ergastolani@gmail.com>e
A    :          ******
Cc :          Undisclosed-Recipient 




Dall'enciclopedia di Wikipedia : << La parola avvento deriva dal latino adventus e significa "venuta" anche se, nell'accezione più diffusa, viene indicato come "attesa".>>
Può esserci un tempo di "venuta" anche per un uomo condannato a vivere per sempre in galera ? Si può parlare di "attesa" per chi è un uomo ombra? Quale luce e quale Natale possono aspettarsi questi uomini ? 

Pubblichiamo qui di seguito una lettera di Carmelo Musumeci ( www.carmelomusumeci.com   zannablumusumeci@libero.it 
Maledetto per sempre:
la vita non è che una lunga morte


Gli uomini ombra che si aggrappano alla speranza smettono di vivere prima del tempo. (“ L’urlo di un uomo ombra” di Carmelo Musumeci -Edizioni Smasher).

In nome del popolo italiano sono stato condannato a una condanna perpetua.
Questa pena fino alla fine della vita è un castigo inumano e poco degno di una nazione civile perché trasforma un uomo in un morto che vive.
I primi anni di galera cercavo di vivere perché avevo fiducia in me stesso, ora non né ho più.
E cerco solo di sopravvivere, perché da pochi giorni sono entrato nel ventitreesimo anno di carcere.
Devo ammettere che per me è sempre più difficile vivere per nulla e di nulla.
Ci sono delle notti che mi sembra che vivo solo per fare dispetto a me stesso perché sento che questo corpo che porto addosso non mi apparterrà più fino alla fine della mia vita,  e rimarrà, fino all’ultimo dei miei giorni, di proprietà dell’Assassino dei Sogni (il carcere nel gergo carceraio).
Anche oggi pensavo che ho più nessun motivo per vivere. E forse continuo a respirare solo perché non ho abbastanza coraggio per morire.
La pena dell’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio ti condanna a essere sepolto vivo e a  essere perduto per sempre, senza speranza.
Tutto quello che esiste nel mondo e nell’universo può essere misurato, pesato e contato, ma nessuno, a parte Dio, può farlo con una condanna perpetua,  perché questa è una pena del diavolo e non ha nulla di umano.
Da ventitré anni lotto contro di tutto e contro ogni speranza, ma non riesco a migliorare la mia posizione di un millimetro.
Non riesco neppure a ottenere una semplice declassificazione per un regime carcerario meno duro.
Fuori non hai tempo per guardare la vita negli occhi,  invece dentro ne hai troppo.
E penso che forse molti uomini ombra vivono solo per vendicarsi con loro stessi, perché non ha nessun senso continuare a scontare una pena che non finirà mai e che forse sopravvivrà alla nostra morte.
 Normalmente non mi piace scrivere frasi, come fanno tanti prigionieri, nelle pareti delle celle, questa notte, però, nel muro accanto alla mia branda ho scritto:
 “La vita, per un uomo ombra, non è che una lunga morte”
per ricordarmi ogni sera quando vado a letto che sto morendo senza vivere, ogni giorno un po’ di più.

Carmelo Musumeci
Carcere di Padova,  dicembre 2013

14.6.13

banditi ( o presunti tali ) senza tempo la storia di antonio bossu


dalla nuova sardegna del 27\5\2013


Le memorie in versi dell’ex detenuto

L’orgolese Antonio Bassu scontò un quarto di secolo per la strage di Monte Maore: a 91 anni ha deciso di scrivere un libro


ORGOSOLO Antonio Bassu?  ( foto  a  sinistra   )  Innocente. La vox populi non ha mai avuto dubbi, il paese sapeva e lui Graziato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone nel 1974, l'ex carcerato affida ora al ritmo dei versi endecasillabi in ottava rima le sue memorie di miele amaro. Ci pensava da oltre trent'anni, ora non ha più dubbi: è giunta l'ora della narrazione poetica.A novantun anni suonati, la libertà per lui è sempre un cavallo veloce che non teme le discese ripide e salva il suo cavaliere intrepido. Lui, su cadderi (il fantino) di tante vàrdias paesane, è stato derubato di un quarto di secolo della sua esistenza: 25 anni meno 25 giorni. «Mi sarei dovuto presentare prima della strage di Monte Maore, ero latitante, accusato di reati minori – ricorda –. Non l'ho fatto perché il mio avvocato, il senatore orgolese Antonio Monni, in quel periodo era in vacanza in Svizzera». Nella sua casa del rione storico di Caspiri, zona di Monte Isoro, Antonio Bassu risponde volentieri alle domande.aveva le prove: 17 testimoni nuoresi in corte d'assise dissero a una voce che il giorno della strage di Monte Maore – tre carabinieri uccisi e un quarto reso cieco da una pallottola, il 13 agosto 1949, in una tragica rapina alla camionetta che trasportava le buste paga degli operai ogliastrini dell'Erlas – il pastore orgolese era con loro sull'Ortobene. Ma i giudici diedero ascolto soltanto al pm Francesco Coco: ergastolo, confermato in appello (con Coco pm anche nel giudizio di secondo grado) e in cassazione.
Quando è nata l'idea di domandare aiuto alle Muse?
«Nel 1982, quando lo Stato mi chiese il pagamento del vitto e dell'alloggio in carcere e un mio compaesano e coetaneo, Antonio Piras noto Pireddu che viveva a Bolotana, mi scrisse un sonetto consolatorio».
Le poesie parlano solo della vicenda giudiziaria?
«No, quando mai? Trattano della mia vita, dall'infanzia alla vecchiaia, con gli episodi più salienti. Del periodo in cui era ancora vivo mio padre: avevo quindici anni quando lui, reduce della grande guerra, morì prematuramente. Ci sono le stagioni vissute da servo pastore, a Nuoro e Orgosolo, e soltanto dopo le stagioni della mia disavventura nei penitenziari di Ventotene e di Porto Azzurro. Ma c'è anche dell'altro».
Cos'altro?
«Il mio paese, le corse dei cavalli, i murales, la decadenza».
Il degrado del villaggio natale?
«Sì, nell'attenuarsi progressivo della solidarietà e della comparsa di un malattia dello spirito. L'egoismo».
Come si vive il passaggio dalla libertà alla cella del carcere?
«Sei davanti a una scelta: reazione o rassegnazione. Se non reagisci sei perduto. Se a Lanusei stavo male, a Cagliari era molto peggio»
Perché peggio?
«In una cella teoricamente destinata a un solo prigioniero eravamo in tre, 24 ore su 24, tranne un'ora d'aria nei cunicoli, non ti dico in quali condizioni. Si doveva parlare a bassa voce, non mi potevo fare nemmancu una cantadedda, neppure una cantatina».
Cosa si prova a ripensarci?
«Non mi sembra vero di essere riuscito a sopportare tante privazioni».
Maltrattamenti?
«In tutta sincerità debbo dire: nessuno mi ha mai messo un dito addosso. Ma anch'io non ho mai mancato di rispetto a nessuno».
Nelle poesie degli ultimi anni due parole tornano più di altre: resurrezione e risorto...
«Sì, tornano. Istintivamente, è più forte di me. Stare in carcere è come essere morti e sepolti. La galera è una tomba. Venticinque anni là dentro hanno distrutto la mia giovinezza».
Di chi la colpa di questo dramma?
«Del sistema barbaro di una giustizia che riteneva delinquenti tutti gli orgolesi: forze dell'ordine e magistratura davano ascolto solo alle spie prezzolate, di mestiere».
Con qualche eccezione?
«Indubbiamente. Riconosco al famoso maresciallo Loddo un'onestà professionale al di sopra di ogni sospetto. Con me è stato corretto anche nella testimonianza davanti alla corte».
Assiste all'intervista Franco Buesca, un giovane pastore di Orgosolo che ha acquisito il merito di essere una sorta di enciclopedia vivente della storia del suo paese. 


Le sue parole sono lo specchio esatto del sentire comunitario: «L'ischimus totus, l'ischit sa vidda: tziu Antoni est innossente (lo sa il paese intero: lo “zio” Antonio è innocente)».Uno dei testi più emozionanti tra le poesie di Antonio Bassu riguarda la liberazione, dopo la grazia firmata dal presidente della Repubblica: 26 ottave, 208 versi. Eccone una parafrasi italiana compatibile.«Era il 28 agosto 1974. Alle otto del mattino mi avviai verso il camerone dove cucivo palloni per tornei di calcio: il mio lavoro, a Porto Azzurro. Ero triste, da innocente condannato alla segregazione perpetua».Poche ore prima Antonio aveva fatto un sogno: «Sul fare dell'alba sentii una voce che mi chiamava e subito dopo vidi una figura candida come neve, simpatica e sorridente. Mi disse due parole: buona libertà. Mi sedetti e iniziai a lavorare. Non era facile, i punti dovevano essere lineari. D'un tratto sentii alcuni che dicevano: è arrivato un foglio di scarcerazione. Si erano fatte le nove e continuai a lavorare».Ed ecco la sorpresa: «Venne da me un guardiano e mi disse di andare con lui dal direttore».Il responsabile del penitenziario attendeva il prigioniero con il capo delle guardie. «Mi salutarono contenti e mi annunciarono la grazia. Non riuscivo a parlare per l'emozione. Feci un cenno di ringraziamento e andai a prepararmi: mi tolsi la divisa interna e indossai un abito da libero cittadino».L'addio alla reclusione è uno dei punti più intensi: «E pro s'ùrtima 'orta torro in cella/ cun sa divisa de su galeoto:/ in presse mi preparo su fagoto,/ mi retiro sa cosa pius bella./ Dae su muru ch'ispico una foto/ chi fit lughente coment'e istella/ sa chi m'at fatu sempre cumpagnia,/ sa figura fit sa 'e mama mia» (Per l'ultima volta rientro nella mia cella e mi preparo in fretta il fagotto. Ritiro la cosa più bella: da una parete stacco una foto luminosa come una stella che mi aveva sempre fatto compagnia: il ritratto di mia madre».Arrivò l'ora di salutare i compagni di pena.«Erano gli uomini con i quali avevo diviso il dolore e l'angoscia in quel luogo oscuro dove non esiste l'allegria: chi sconta una pena è come un cane legato a catena. Mi avviai verso il portone che si spalancava alla libertà. Superato l'uscio, mi voltai e feci il segno della croce con la mano sinistra».Con Bassu c'era un guardiano che lo doveva accompagnare fino al porto, dov'era pronta un'imbarcazione. Il prigioniero iniziava a respirare l'aria inebriante della libertà.Ricorda ancora Antonio Bassu: «La traversata da un porto all'altro durò due ore. Mi sentivo come un risuscitato, dopo 25 anni in una cella buia di appena quattro metri quadrati. In quel tempo il carcere era duro, ancora esistevano i mezzi di tortura: letti di forza e fruste di tutti i tipi permessi dal codice Rocco che alla prigionia aggiungeva isolamento e segregazione».Sbarcato a Piombino, Antonio andò dritto alla stazione. Sul treno trovò posto accanto a un finestrino: «Avevo un desiderio insopprimibile di vedere le bellezze della natura, per dimenticare il passato: mi sembrava di essere entrato in una vita nuova, come un uccello che esce dall'uovo».Poi l'imbarco, l'arrivo in Sardegna, l'incontro con la figlia Mara. Ma la scena più commovente è l'abbraccio con la madre, a Orgosolo.«La ritrovai vecchia e sfinita ma sempre amorosa e sorridente. Mi disse: adesso che sei tornato tu, in casa è ritornata l'allegria. E poi, come in un sussurro: quando morirò andrò via contenta».



Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...