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13.9.25

diario di bordo n 146 anno III Piedibus a piedi a scuola come un tempo ., ta i detenuti ho trovato una nuova famiglia ., manca il becchino te lo seppelisci da solo ci vuole molto ?

 la  nuova  sardegna    del  13  e del  11   settembre  2025





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 Lo  so che  non  è  una  cosa  bella    . Ma      invece    di lamentarsi    bastra  farsele  da  soli  le  cose  e d' arrangiarsi  .   
da     https://www.cronachedallasardegna.it/

Cimitero di Palau, provincia di Sassari, ieri pomeriggio. I figli della signora Giovanna Fadda, Renato e Salvatore, a conclusione del funerale della loro amatissima madre, sono stati costretti a tumularla loro stessi con l’aiuto di alcuni amici volenterosi, perché a Palau non c’è un necroforo o becchino che dir si voglia da due anni.Nonostante il dolore del lutto che ha colpito la famiglia Uscidda- Fadda, il figlio di Giovanna di nome Renato, si è dovuto mettere sopra un fatiscente elevatore per infilare lui stesso la bara della madre dentro il loculo.Sotto ad aiutarlo con l’elevatore il fratello Salvatore. Presenti anche Barbara, Caterina, Angela, altri familiari ed amici di famiglia tra I quali Nicola che si è offerto di chiudere il loculo.Pubblichiamo il video inviato
 

alla nostra redazione dalla famiglia e con il loro consenso, per denunciare quanto accaduto che è a dir poco vergognoso.Siamo vicini alla famigliaUscidda-Fadda alla quale porgiamo le nostre condoglianze. Siamo sinceramente dispiaciuti per quanto accaduto loro e ci auguriamo che una cosa del genere non debba più accadere in futuro.Nel link sotto il video della tumulazione fatta dai familiari.

13.7.25

Dopo 46 anni la storia di tommasina crugliano assassina del marito violento : carcere, violenza domestica e un incontro decisivo con la sua ex guardia carceraria a piacenza

Credevo che il carcere fosse solo violenza , durezza , malessere . E chge le storie di redenzione fossero ua rarità e che si citassero sulle dita delle mani . Invece , cazzeggiando \ sminchionando in rete , ho trovato La storia ( vedere video sotto cattutrato da mediaset  e  diu cui  trovate  un  frame  a  sinistra  ) di Tommasina Crugliano, vittima di violenza domestica e condannata a dodici anni nel carcere di Piacenza, per aver ucciso il marito violento evidenzia le difficoltà delle detenute e il ruolo fondamentale dell’agente Carla nel sostegno emotivo.
Un abbraccio atteso oltre 46 anni. E' il 1978 quando Tommasina Crugliano, per tutti Masina, finisce in carcere appena 18enne. Varca le porte del penitenziario di Piacenza con mandibola e denti distrutti, dopo un volo dal quarto piano nel tentativo disperato di sfuggire al marito violento.
Dentro casa botte e umiliazioni sono all'ordine del giorno, fino a quando Masina, che più di una volta cerca anche di togliersi la vita, non ce la fa più e lo uccide. Condannata a 12 anni di reclusione, Marina vive l'incubo del carcere. Un giorno però il suo sguardo incrocia quello di Carla, all'epoca 23enne agente di polizia penitenziaria.

Ad agosto 2024 Carla, scrollando i social network, capita su un post: la copertina di un romanzo e la foto in bianco e nero di una ragazza. è proprio lei, Masina. In Germania si era rifatta una vita, che aveva poi raccontato proprio in quel libro. Poi l'incontro di persona, con la promessa di non perdersi di nuovo.Il racconto di tommasina crugliano, nota come masina, attraversa decenni segnati da violenza domestica, carcere e resistenza. Arrestata nel 1978 a soli 18 anni, la giovane arriva nel penitenziario di piacenza con evidenti segni di una caduta dal quarto piano, un gesto disperato per fuggire dalle percosse del marito. La sua vicenda si intreccia con quella di carla, agente di polizia penitenziaria di 23 anni, che incrocerà il suo destino all’interno della prigione.
la drammatica esperienza di tommasina crugliano prima dell’arresto
tommasina crugliano attraversa una fase della vita segnata da due drammi sovrapposti: la violenza domestica e la tentata fuga da una situazione insostenibile. Residente a piacenza, subisce percosse continue e umiliazioni in casa da parte del marito violento. Il clima familiare è dominato dalla paura e dall’insensata crudeltà, che la spingono più volte a pensare al suicidio. A 18 anni, masina tenta così di sfuggire l’oppressione lanciandosi dal quarto piano della propria abitazione. Le conseguenze fisiche sono gravissime: mandibola fratturata, denti rotti, ferite profonde. Questo episodio segna l’inizio di una trafila giudiziaria che la vedrà protagonista in carcere.Testimonianza amara di quegli anni
La sua fuga disperata è una testimonianza di quanto fossero amari e insostenibili quegli anni per molte donne vittime di maltrattamenti. La giustizia di allora appare meno attenta ai segnali che precedono tragedie del genere. Masina, infatti, non viene considerata solo come vittima ma anche imputata in un processo che la cocondanna per aver ucciso l’uomo che la sottoponeva a violenze continue.

diario di bordo n 135 anno III Maturità boicottata, parla il prof Andrea Maggi: «Gli studenti hanno ragione. Ipocrisia? È la scuola che promuove tutti solo per fare più iscritti» ., All'Intelligenza artificiale manca la pelle., Decisione storica: il Kazakistan, paese musulmano, vieta il velo integrale

L'articolo Maturità boicottata, parla il prof Maggi: «Gli studenti hanno ragione. Ipocrisia? È la scuola che promuove tutti solo per fare più iscritti» proviene da Open.

A prendere posizione sul fenomeno degli studenti che hanno boicottato l’orale dell’esame di Maturità ora è anche una delle voci più riconoscibili del panorama scolastico e televisivo: Andrea Maggi, professore di lettere e volto noto del programma televisivo Il Collegio, dove ha partecipato come insegnante di italiano. In una lettera pubblicata sul Gazzettino, Maggi analizza senza sconti la portata e il significato delle recenti proteste studentesche, avvenute in diverse scuole. «Comunque la si pensi, questi episodi mettono in evidenza due cose importanti: il disagio reale degli studenti nei confronti di un sistema con cui non si sentono in sintonia e l’ipocrisia del sistema scolastico», commenta Maggi. Il suo
parere si aggiunge a quelli già condivisi da altri docenti noti sui social: da Vincenzo Schettini de La fisica che ci piace che ha assunto una posizione più critica dicendo che «i modi per protestare sono altri» allo scrittore e insegnante Enrico Galiano che ha difeso la scelta degli studenti. Il paradosso a scuola Secondo Maggi, le proteste degli studenti mettono in luce un paradosso importante: «la scuola promuove quasi tutti ma gli studenti sono insoddisfatti» e i risultati reali vacillano. I numeri parlano chiaro, ricorda il docente: il 96,5% degli studenti ammessi all’esame di Stato e il 99,8% diplomati l’anno scorso, a fronte però di dati Invalsi drammatici, che mostrano come uno studente su due non raggiunga nemmeno le competenze base in italiano e matematica. «Tutti bravissimi, dunque?», si chiede provocatoriamente il professore. Il problema della scuola Secondo Maggi, la radice del problema sta nell’autonomia scolastica e nella pressione esterna a migliorare l’apparenza. «Il sistema scolastico è ossessionato dai piani di miglioramento dell’offerta formativa. I dirigenti scolastici hanno la necessità di dimostrare l’efficienza dei loro istituti attraverso i risultati, per cui spronano i docenti al successo formativo dei loro studenti. E siccome sono i dati a parlare, la necessità di ogni istituto scolastico è mostrare all’esterno che tutti i suoi studenti vengono promossi». «Gli studenti ci stanno dando un messaggio importante» Secondo il docente, quindi, la promozione diventa una necessità strategica. «Garantire il successo agli studenti significa garantire un buon numero di iscritti, il mantenimento dei posti di lavoro per i docenti e adeguati finanziamenti. Per contro, una scuola in cui gli studenti ottengono voti tendenzialmente bassi, o dove addirittura si boccia, risulta molto meno appetibile. Ed ecco l’ipocrisia del sistema, che manda avanti tutti non perché vada effettivamente tutto bene, ma per salvare le apparenze e per evitare i noiosi ricorsi dei genitori. In sostanza, il sistema-istruzione italiano fa sì che si promuovano tutti per dire a se stesso che funziona bene; in altre parole, per autoassolversi». Per questo, secondo Maggi, le proteste degli studenti «ci hanno consegnato un messaggio di certo scomodo, ma che non possiamo ignorare: i giovani non vogliono più essere presi in giro. E in questo senso la loro protesta è giusta». 

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  differenza  tra intelligenza  artificiasle  e  intellegenza  naturale  

  

 «La pelle, questo sacco che ci contiene e ci mette in contatto con il mondo, è proprio quello che manca all'Intelligenza artificiale»: con queste parole il filosofo Maurizio Ferraris racconta il senso del suo ultimo libro, «La pelle. Che cosa significa pensare nell'epoca dell'intelligenza artificiale» (il Mulino 2025), un compendio che parla dell'impatto dell'intelligenza artiticiale nella nostra vita ma anche della «mia visione di filosofia a cui ho lavorato tutta la vita» come afferma lo stesso Ferraris. ​«La volontà è la grande dimenticata della filosofia degli ultimi 50 anni. Se non è la volontà che ci differenzia dalle macchine che cos'altro c'è? E l'IA non ha volontà. Se vince o perde a scacchi non gliene frega niente...a differenza di noi»  


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quando la laicità vine usata strumentalmente e diventa stato etico \ dittatura nazionalistica il caso del il Kazakistan, paese musulmano, vieta il velo integrale vededo come estranei alla cultura nazionale"

 da  ©The Daily Digest  tramite  msn.it  

Decisione storica: il Kazakistan, paese musulmano, vieta il velo integrale 


E'passata , da quel so , sotto silenzio dei media maistream la notizia che In Tagikistan, il presidente Emomali Rahmon (nella foto sopra ) ha firmato nel 2024 una legge che vieta di indossare abiti "estranei alla cultura nazionale" nei luoghi pubblici.


Una legge che vieta gli indumenti che coprono il viso
Il 30 giugno, il presidente del Kazakistan, Kassym-Jomart Tokayev, ha ratificato una legge che proibisce l'uso di indumenti che coprano il volto in spazi pubblici. La norma è stata vista come una mossa inaspettata per una nazione a predominanza musulmana, dove è usuale per alcune donne indossare il niqab o altri veli facciali.
Cosa dice la legge ?

Secondo Reuters, la legge ora vieta l'uso di indumenti che "impediscono il riconoscimento facciale" negli spazi pubblici. Sono tuttavia previste eccezioni in caso di maltempo, per motivi medici o durante eventi sportivi e culturali.
Una riforma legislativa più ampia
Tuttavia, la nuova legge non fa alcun riferimento esplicito all'Islam o all'abbigliamento religioso e fa parte di una serie più ampia di emendamenti.
L'Islam è la religione maggioritaria
Come ricorda il Pew Research Center, il 71% della popolazione kazaka è musulmana. Questa percentuale è aumentata solo tra il 2010 e il 2020.
Uno stato laico

Eppure, questa ex repubblica sovietica rimane uno stato laico. La pratica religiosa è moderata, l'uso del

velo non è diffuso e la frequentazione quotidiana delle moschee rimane rara, sottolinea Le Parisien.
Rafforzare l'identità kazaka
Vietando gli abiti che coprono il viso, il presidente Kassym-Jomart Tokayev sta in realtà cercando di mettere da parte l'abito islamico in favore dell'abbigliamento tradizionale kazako, ricco di colori e decorazioni, nel tentativo di rafforzare l'identità etnica nazionale.


"È meglio indossare abiti in stile nazionale"




"Piuttosto che indossare tuniche nere che nascondono il volto, è meglio indossare abiti in stile nazionale", avrebbe dichiarato Kassym-Jomart Tokayev all'inizio di quest'anno, secondo quanto
riportato dai media kazaki. "I nostri abiti tradizionali evidenziano vividamente la nostra identità etnica, ed è per questo che dobbiamo promuoverli ampiamente".
Una tendenza osservata in Asia centrale

Questa volontà di eliminare gli abiti islamici, come il niqab e il burqa, dagli spazi pubblici è stata osservata negli ultimi anni in diversi paesi dell'Asia centrale.
Un'ondata di divieti
Dal 1° febbraio 2025, indossare il niqab per le strade del Kirghizistan è vietato, con una multa. Una misura simile è stata introdotta in Uzbekistan dal 2023, dove indossare un velo integrale in pubblico può comportare una multa di 250 dollari.

22.4.25

diario di bordo n 117 anno III ormai anche i cantautori si vendono alla pubblicità .,Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me» ., Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»

  Concordo    con   l'intervento  pubblicato il   19\4\2025   dal il  Fatto    quotidiano  ma

Sempre più frequentemente il cantautore, un tempo rigidamente schierato contro la commercializzazione della sua musica, rompe il confine fra tradizione e tradimento e vende i suoi diritti alla pubblicità riducendo brani storici a jingle per aziende.
Niente di nuovo, lo fece anche Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, prestandola a Fiat e Alitalia.
Ma quella di De Gregori, Vecchioni, Ligabue, e indirettamente Gaber, è una rivoluzione copernicana non tanto per questioni di opportunità di monetizzazione ma perché toglie alla più nobile canzone d’autore il ruolo di sentinella e testimone del nostro tempo, così come proprio loro l’avevano sempre voluta intendere e trasmettere.
È precipitato improvvisamente il senso critico, quel fare
le pulci alla Storia che connotava nel profondo il loro verbo e la loro azione. L’indignazione e la protesta hanno lasciato il posto a teneri e rassicuranti sguardi sul mondo.
Forse i nostri cantautori si sono distratti, ma i percorsi storici delle aziende con le quali flirtano sembrano per loro improvvisamente essere solo costellati di operai di buona volontà che illuminano case al crepuscolo, di automobili romantiche custodi dei primi amori giovanili e di grandi strade sulle quali sfrecciano famiglie felici verso le vacanze.Tali itinerari invece sono stati anche spesso illuminati dai riflettori della cronaca e della magistratura. L’associazione così leggera di frasi come“la storia siamo noi”, “sogna ragazzo sogna” o “la libertà è partecipazione” a percorsi tanto controversi, sorprende non poco.Gli eredi di quelli che a buona ragione Umberto Eco definiva “cantacronache”, sembrano aver perso la loro stella polare e quel rigore nel procedere in “direzione ostinata e contraria” indifferente all’hit parade.Vasco Rossi tempo fa fece “mea culpa” dopo aver concesso due brani alla pubblicità, ricordando che la canzone non è solo di chi l’ha scritta ma anche di tutti coloro che l’hanno amata e magari impugnata in stagioni complicate per il nostro Paese.Forse questo messaggio nessun grande cantautore che abbia avuto il merito di non allinearsi dovrebbe mai dimenticarlo.

aggiungo     che    bisogna     distinguere     fra     chi    fa  il canta autore   o  cantante   per  mestiere  cioè vive solo  di  quello  e  è  quindi  è costretto a  prestare  il suo  ingegno  per  opere  d'indubbio gusto e   a

 [...] Colleghi cantautori, eletta schiera
che si vende alla sera per un po' di milioni
voi che siete capaci fate bene
a aver le tasche piene e non solo i coglioni
Che cosa posso dirvi? Andate e fate
tanto ci sarà sempre, lo sapete
un musico fallito, un pio, un teorete
un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!
Guccini  -L'avvelenata  


e   fra    quelli   che    lo  fanno  per hobby  e passione    che posso o  essere   coerenti   o totalemente    cioè  a non vendersi   e imanete indietro o di nicchia oppure   ad  aprirsi al   al mondo circostante   cercando    di.  farlo  in maniera  etica    come  i caso  di  Blowin' in the wind' di Bob Dylan diventa uno spot  :  « [... ] della pubblicità del Co-operative Group; è la prima volta che Dylan concede un suo brano al mercato pubblicitario britannico. Il Co-operative Group gestisce vari servizi, tra i quali viaggi e pompe funebri, ma anche una rete di supermarket simile a quella delle Coop italiane; il rappresentante di Dylan ha riferito che la scelta dell'artista è stata influenzata dalla politica del Co- operative Group, che pone l'accento sul mercato equo e solidale e sull'impatto ambientale. »

Quindi attenzione  ⚠️  a giudicare un opera o un cantante

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Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me»


La sua è una resurrezione metaforica dall'inferno della galera, grazie allo studio, che ben si inquadra nel clima dei giorni di Pasqua. Accusato di mafia, anche se lui si è sempre dichiarato innocente, condannato a quasi dieci anni di carcere, è riuscito ad ottenere la laurea magistrale in Scienza della Formazione «frequentando» l'università da dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza. Lunedì scorso, 14 aprile, la discussione della tesi e la proclamazione del titolo di dottore nel campus di Arezzo dell'università di Siena.
Il titolo della ricerca con la quale il protagonista si è presentato davanti alla commissione è già significativo dell'intento con il quale lui ha affrontato gli ultimi due anni dei corsi accademici: «La formazione e il lavoro rendono l'uomo libero». La sintesi di un lavoro che nella sua seconda parte è in gran parte autobiografico, come spiega il professor Gianluca Navone, responsabile del polo universitario penitenziario senese, cui sono iscritti un centinaio di detenuti, che lo ha seguito da vicino nel suo percorso universitario.
Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell'isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l'ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni dei carceri più duri della penisola.
Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all'esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell'università un'alternativa di vita capace di restituirgli la speranza.
Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all'università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche.
Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l'ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l'ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto.Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c'è un'ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. «Ma quello che mi ha emozionato di più – racconta il docente – è stato l'impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell'operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico al verità. Al suo posto non ce l'avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia».
Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c'erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all'università, l'anziano padre, i fratelli e i nipoti. L'altra figlia doveva affrontare l'ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario.
C'è stata anche una festicciola con i parenti, l'hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. «Ce l'ho fatta - tra le sue poche parole – ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale».
Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: «Di recente – spiega – il Dap (il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nei carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all'università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto».




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Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»



Questa storia inizia a Bologna, anno 2018. Michael Petrolini compie 25 anni. È l’età, secondo la legge n.184/83, in cui ogni figlio adottato riconosciuto alla nascita può richiedere informazioni sui genitori biologici. Michael, quei nomi, li vuole sapere. Ma ci tiene soprattutto a
sapere che cosa abbia spinto sua madre a lasciarlo. Fa richiesta al tribunale per i minorenni di Bologna. Sul sito sono riportati i costi: 27 euro per la marca da bollo più 98 euro contributo unificato per la pratica. Lui paga, compila i moduli e aspetta: giorni, mesi. «Le tempistiche sono bibliche. Dopo quasi un anno, il tribunale finalmente mi contatta per dirmi che ho la possibilità di accedere al fascicolo. Vado e sembra di essere in edicola, ricevo un papiro di fogli con le informazioni sul mio passato e stop… Aiuti psicologici? Zero. Assistenti sociali? Zero. Dovevo cavarmela da solo, ero io e il mio passato».


In quei fogli, Michael rintraccia parte della sua infanzia. Scopre il nome di sua madre e quello di suo padre. Scopre che sua madre è napoletana, suo padre tunisino e non lo ha riconosciuto. Scopre di avere due fratelli e due sorelle. Racconta: «In quel momento ho completato un piccolo pezzo di puzzle, era pura curiosità sapere le mie origini, però si era aperto un altro capitolo. Mi chiedevo: e adesso, che cosa devo fare?». Fino a quel momento Michael-adulto conosce poco di Michael-bambino piccolo: sa che è nato a Torino, che ha vissuto con la madre biologica due anni e poi in una casa di accoglienza. Si interroga sulle sue origini già a scuola quando i compagni gli domandano: «Sei nordafricano? Sei brasiliano?». Lui è consapevole di avere dei lineamenti diversi, ma non risponde altro che «sono di Parma», città dove abita allora con i genitori e una sorella. Spiega agli amici che è stato adottato e ne va fiero.
Iniziare un viaggio dentro (e fuori) sé stesso significa sentire meno quel vuoto, che lui definisce durante l’intervista «buco da colmare». Come lui, sono in tanti e tante a chiedersi il perché dell’adozione. Un’indagine dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e Regione Toscana inquadra il fenomeno prima del Covid. I dati risalgono al 2019. Non ci sono studi recenti a livello nazionale, assicurano a 7. Delle 226 persone che si sono rivolte allo sportello Ser.I.O. – il Servizio per le informazioni sulle origini – 140 sono uomini e donne adottate.
Il motivo prevalente: ricerca dell’identità familiare e la comprensione delle ragioni dell’abbandono (153 persone su 226 contatti). Altre ragioni: sapere l’identità della madre biologica (53 persone), conoscenza di eventuali fratelli e sorelle (12 persone), ricerca del luogo/regione di provenienza della famiglia (6 persone). Altre ancora: indicazioni sul padre «che non si è fatto carico del suo ruolo» (2 persone). Oltre a conoscere la famiglia naturale, in molti chiedono l’anamnesi familiare. Domandiamo a Michael perché è stato così importante per lui ricercare le origini. «Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è per costruire la sua identità, non mi sentirei mai completo se non sapessi che cosa è successo nel mio passato, è un buco da colmare che rimarrebbe vuoto, mentre obiettivamente la madre biologica lo sa, conosce le motivazioni per cui ti ha lasciato». Adesso sente di aver chiuso il cerchio? «Non del tutto, ma so che cosa è successo nei primi tre anni della mia vita, non è banale».
Per scoprirlo, appena riceve il fascicolo, Michael va a uno degli indirizzi segnati. Parte da Bologna e arriva a Reggio Emilia. Si ricorda che lì si trova anche la sua casa di accoglienza. La via riportata nel documento però non esiste più. Lui entra in un bar del quartiere e chiede se qualcuno conosce sua madre. Un tizio si ricorda di lei e della sorella. Dice a Michael di aspettare un altro cliente del bar. Questo signore arriva, lo riconosce, gli dice che lo guardava sempre da bambino, che conosce sua zia e sua madre. «Quel signore mi dà il contatto di mia zia, io la chiamo e in 20 minuti lei si precipita al bar». Sua madre è l’ultima persona che Michael incontra. Lei si presenta con il figlio più piccolo. «Non avevo ricordi insieme a lei, non me la ricordavo. Mi ha fatto piacere sapere come fosse fatta fisicamente. I miei parenti biologici per me erano stranieri, degli estranei, mi sono difeso molto a livello emotivo», ammette.
Michael abbassa appena la voce, fa un accenno su suo padre - «uno spacciatore di Reggio Emilia, che entra ed esce di galera» - e si sofferma invece a lungo su sua madre: «Le somiglio molto. Ho gli occhi, il naso e la bocca uguali ai suoi. Lei è una senzatetto, vive in una roulotte abbandonata, è cresciuta a Scampia e ha fatto parte della camorra. Mi hanno prelevato gli assistenti sociali perché vivevamo in mezzo alle macchine. Mia madre ha cinque figli da cinque uomini diversi, solo il minore è rimasto con lei, gli altri sono tutti stati adottati. Vive a Torino. Ora mia madre ce l’ha a morte con gli assistenti sociali, ancora crede che avrebbe potuto tirarmi su da sola. Però lei è una persona buona, cresciuta in un contesto disagiato, e questo aspetto mi ha fatto avvicinare». Vi sentite? «Abbiamo instaurato un rapporto, se la vedo ci abbracciamo, mi sono affezionato. Mi scrive per chiedermi soldi per pagarsi le visite o la ricarica telefonica. Io se posso l’aiuto, altrimenti no. Le ho fatto capire sin da subito che non sono qui per darle supporto economico». Michael spesso va a Torino a trovarla, lui è un regista e sta facendo le riprese per un documentario sulla sua storia.
Cita spesso i suoi genitori «che sono quelli adottivi». «Mi hanno fatto sentire amato, mi hanno lasciato spazio per indagare sul mio passato. Da loro ho preso l’umiltà e l’educazione. Ma ho preso tanto senza volere anche da mia madre biologica: il bisogno di spostarmi, la creatività, l’adattamento in situazioni difficili». Anche sua sorella aspetta di conoscere i nomi dei genitori biologici. Ricorda: «Sono quasi tre anni che è in attesa del fascicolo dal tribunale per i minorenni di Bologna. C’è molto menefreghismo. Si parla tanto dell’accompagnamento alle famiglie, ma dovrebbe esserci anche un percorso per i giovani-adulti alla ricerca delle proprie origini».
Quest’altra storia invece comincia a Bergamo, anno 2021. Sara (nome di fantasia) cerca le sue origini vari anni dopo la morte dei genitori. È per loro che ci chiede di proteggere la sua identità con l’anonimato, «una questione di rispetto». In tutta l’intervista ripete molte volte di essere fortunata. «Ho avuto una storia adottiva felicissima». Lei, il vuoto descritto da Michael, non lo ha mai sentito. «Non mi sono mai sentita abbandonata, i miei genitori mi hanno adottata neonata e mi hanno detto quel poco che sapevano sulla famiglia d’origine». Il suo è stato un parto in anonimato, sua madre biologica non l’ha riconosciuta quando è nata. Varrebbe il comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 che impedisce a figli e figlie di conoscere il nome della madre biologica che ha deciso di «non voler essere nominata», a meno che la madre non sia deceduta.
Ma quanti sono i bambini abbandonati alla nascita? In Italia se ne contano quasi 300 ogni anno, secondo un vecchio studio della Società italiana di Neonatologia. Contattata da 7, la Sin evidenzia che adesso «non ci sono dati abbastanza aggiornati» e quei numeri non comprendono i neonati lasciati fuori dalle strutture ospedaliere.
Il caso di Sara pone sotto un cono di luce una questione molto discussa: il diritto della madre di non voler essere nominata prevale sul diritto del figlio di conoscere le proprie origini? Nel 2012, la storia di Anita Godelli, che a 69 anni si oppone al divieto della legge 184 di conoscere l’identità della madre, segna un prima e un dopo nella giurisprudenza. In quell’anno, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione, definendo la normativa italiana più a favore della tutela dell’anonimato della madre biologica. L’anno dopo, un’altra sentenza della Corte costituzionale dichiara in parte illegittima la legge perché non consente al figlio di fare interpello.
Nel 2024 l’associazione ItaliaAdozioni (italiaadozioni.it) depone una proposta di legge in Senato per modificare la normativa sulle adozioni. Tra i vari punti c’è anche quello di uniformare gli iter in tutti e 29 tribunali per i minorenni e consentire l’interpello della madre biologica nei casi non riconosciuti alla nascita. «Adesso chi è nato con parto in anonimato e vuole andare alla ricerca della propria storia può recarsi in tribunale e chiedere di interpellare la madre biologica per sapere se è ancora intenzionata a mantenere l’anonimato. Questa però non è una legge, è una soluzione che hanno trovato i tribunali e si applica in modo diverso da Regione a Regione», spiega Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni. Poi sottolinea: «Adesso in tanti portano avanti ricerche sulle proprie origini in totale autonomia. Vanno sui social e cercano nomi e cognomi dei familiari. Questa pratica è pericolosa, potrebbe diventare un gesto violento nei confronti di chi non vuole essere rintracciato. Online si possono comprare anche i test genetici che fanno scoprire le provenienze. Che cosa si aspetta a cambiare la legge italiana? Ormai è anacronistica».
A 51 anni Sara vuole chiudere il cerchio. Quando avvia la ricerca assicura di non avere nessuna urgenza. Da Bergamo parte per Milano, città dove è nata. «Vado all’archivio storico e chiedo di accedere ai miei dati personali per ragioni sanitarie. Non mi interessavano i dati sensibili di mia madre o di un eventuale padre. L’archivista mi dà il fascicolo sanitario e mi propone di fare la domanda al tribunale per i minorenni. Mi dice: “La vedo così risolta che dovrebbe provarci”». Sara usa più volte le parole «risolta» ed «equilibrata» quando si descrive. «Risolta» ed «equilibrata» glielo dice anche la giudice onoraria con cui fa il colloquio conoscitivo al tribunale per i minorenni di Brescia (il tribunale di riferimento per chi vive nella provincia di Bergamo).
«A quella giudice racconto della mia vita felice di figlia adottiva, le dico che essere adottata non era né un assillo, né un problema. E le preciso anche che vorrei sapere le circostanze per le quali mia madre biologica avesse deciso di lasciarmi», racconta. Sara aspetta due anni prima di avere delle risposte, la sua pratica rimane a lungo nei cassetti del tribunale. Lei chiede aiuto a un avvocato. «Loro ti dicono che non serve un legale, invece io lo consiglio: al tribunale si erano dimenticati del mio caso perché la giudice era stata trasferita. Poi si sono scusati». Nel 2023 ottiene il fascicolo e scopre che sua madre biologica è lombarda ed è morta molti anni prima che lei iniziasse la ricerca. Scopre che lei, Sara, è nata in casa e quando sua mamma è rimasta incinta lavorava fuori dal paese e non era coniugata.
Sara abbassa gli occhi per leggere qualche appunto che tiene sotto il mento. Dal fascicolo scopre di avere un fratello più grande, anche lui deceduto molti anni prima. Le chiediamo quali emozioni le abbia suscitato. Risponde prima «dispiacere», poi «gratitudine»: «Dopo un po’ di tempo sono andata al cimitero del paese di mia madre e le ho portato un fiore sulla tomba, almeno ho visto una sua foto. Un gesto così vuol dire doppia gratitudine, significa grazie per avermi dato la vita potendo decidere diversamente e grazie per avermi permesso di avere i miei genitori».

22.7.24

Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”


Il Riformista


Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”
Storia di Redazione • 23 ora/e • 3 min di lettura



Ha due anni, non corre, parla a malapena e vive in carcere. È il caso di ‘Giacomo‘, un bambino che ormai da dieci mesi si trova insieme alla madre nell’istituto penitenziario di Rebibbia, a Roma, non certo per colpe sue. Nel carcere c’è una sezione nido dove si trovano i figli dei reclusi, come è Giacomo: la madre, una trentenne italiana, sta scontando una pena per reati minori; e anche il padre, il compagno della donna, si trova a Rebibbia.
Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia
Dieci mesi in carcere, quindi, per Giacomo. E le condizioni in cui vive lo hanno portato a problemi di crescita e non solo: il piccolo – come racconta Repubblica – ha maturato un ritardo nello sviluppo psico-motorio. In più, non parla, non corre, è sovrappeso, porta ancora il pannolino. Dice solo poche parole: ‘sì’, ‘no’, ‘mamma’, ‘papà’, ‘apri‘ e ‘chiudi‘.
Il caso di Giacomo a Rebibbia, la nota dei senatori Pd
Dopo la denuncia di Repubblica, il caso è stato rilanciato dal Partito Democratico. I senatori del Pd, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando, Walter Verini e Cecilia d’Elia, hanno prima definito “agghiacciante” la vicenda. “Tra le emergenze delle carceri italiane, che vogliono dire suicidi quotidiani, sovraffollamento disumano, trattamenti privi di seri e diffusi percorsi di recupero e reinserimento, situazione difficilissima per gli agenti di polizia penitenziaria) c’è anche la vergogna dei minori in carcere con le madri detenute“, si legge nella loro nota. “Riproponiamo di abolire questa situazione di crudele inciviltà, proprio in occasione del voto sugli emendamenti al decreto carcere che inizierà questa settimana in Commissione Giustizia al Senato dove andrà in aula la prossima settimana” proseguono i senatori Pd. “Ci batteremo e vogliamo sperare con forza che tutti i gruppi si uniscano per dire davvero basta alla vergogna dei bambini reclusi nelle carceri di questo Paese” hanno concluso i senatori.
La visita in carcere a Rebibbia

Ma gli esponenti del partito di Elly Schlein sono andati oltre alla semplice nota. D’Elia e Verini si sono infatti recati nel carcere femminile di Rebibbia, in particolare nella sezione nido per “incontrare di persona ‘Giacomo’, innocente assoluto di due anni e sua madre”. “Un’esperienza drammatica, com’è sempre la visita al nido di un carcere. Al momento in quello di Rebibbia ci sono tre bambini, che abbiamo incontrato e di cui dalle madri abbiamo ascoltato le storie, molto diverse fra di loro. Ma simile è la sofferenza. È inaccettabile che ci siano bambine e bambini nelle nostre carceri. Sulla situazione particolare di Rebibbia verificheremo con i garanti territoriali quali possono essere le soluzioni da perseguire” hanno affermato i due dem.
Poi l’attacco alle misure proposte dal governo di Giorgia Meloni: “Da domani come senatori saremo impegnati nella discussione del decreto carceri, che inizia il suo iter a Palazzo Madama. Un decreto vuoto, che non affronta l’emergenza carceri e il sovraffollamento. I nostri emendamenti intervengono per umanizzare davvero le carceri, per riempire quel vuoto e anche per liberare finalmente i bambini dal carcere. Continueremo la nostra battaglia per abolire questa situazione crudele, aumentare le case famiglia e gli istituti a custodia attenuata. Ci auguriamo che le forze di maggioranza accolgano queste nostre proposte, che sono proposte di civiltà”.

21.7.24

«Ho iniziato a rapinare banche a 18 anni, oggi sono un soccorritore. Il carcere non funziona, ma può offrire delle possibilità»la storia di francesco ghelardini



 Una vita passata a svaligiare banche, poi l'improvviso cambio di rotta dopo essere tornato in carcere e la nuova vita da soccorritore. Questa è la storia di Francesco Ghelardini, 58enne di Milano cresciuto nel quartiere Comasina che ha parlato di com'è la malavita dall'interno, di carcere e di opportunità.«Da anni sono assunto a tempo indeterminato come responsabile e soccorritore alla “Intersos” di Abbiategrasso. La mia nuova vita è questa, con la divisa. Mi è stata data una possibilità, non smetterò mai di ringraziare i responsabili della società», ha detto al Corriere della Sera.«Da anni sono assunto a tempo indeterminato come responsabile e soccorritore alla “Intersos” di Abbiategrasso. La mia nuova vita è questa, con la divisa. Mi è stata data una possibilità, non smetterò mai di ringraziare i responsabili della società», ha detto al Corriere della Sera.
Le rapine in banca
Ghelardini è stato raggiunto dal "giro" in modo molto semplice, quasi "naturale": «Mio fratello più grande era già nel giro. Ho sempre frequentato ragazzi più grandi. Un giorno ero al bar e mi fanno: “Vuoi venire a fare una rapina?”. Non ci ho neanche pensato». Da quel momento ha iniziato sempre più spesso a svaligiare banche, un'abitudine che a lungo andare era diventata quasi come una droga e che l'uomo ha raccontato dettagliatamente: «Un esterno pensa che tutto duri pochi minuti, ma c’è la preparazione, lo studio dell’obiettivo, la preparazione psicologica. È come essere sul rasoio tutto il giorno. E anche il dopo rapina diventa emotivamente forte».Un'attività che quindi si fa tutt'altro che a cuor leggero, che implica un coinvolgimento emotivo e che porta Francesco a sostenere che i rapinatori abbiano quel qualcosa in più rispetto, ad esempio, agli spacciatori, perché «per entrare in una banca ci vuole coraggio. Non sai quello che ti capiterà, puoi essere preso, possono spararti».Poi però, «ti piace da matti», e infatti, come spiega, l'obiettivo vero delle rapine diventano le rapine stesse, non più il denaro: «Nel ’92 mi sono “ballato” via 500 milioni di vecchie lire in otto mesi. Non riesci ad attribuire un vero valore al denaro che rubi. Ne conosco pochi che sono riusciti ad arricchirsi veramente».


L'ultimo arresto
Nel 2013 è stato arrestato per l'ultima volta, un momento cruciale che lo ha fatto fermare a riflettere, l'idea di tornare in carcere lo ha scosso e gli ha aperto tutto ad un tratto la strada per una vita diversa. Sebbene il carcere non funzioni, a parte rarissime eccezioni, come conferma lo stesso Ghelardini, non è escluso che possa offire delle «possibilità».Psicologi, educatori, sacerdoti e l'ex direttore di San Vittore Luigi Pagano sono tutte persone che Francesco ringrazia e ricorda con affetto perché gli hanno permesso di dare un seguito alle sue intenzioni, di ragionare concretamente a una vita oltre il carcere.Adesso salva vite insieme alla "Intersos" e ha scritto anche due libri in cui ha concentrato tutta la sua esperienza, e in occasione della presentazione ufficiale di uno di questi ha vissuto un momento molto toccante, l'abbraccio con un carabiniere che l'ha arrestato: «Ho grande rispetto degli investigatori. Sai che loro ti danno la caccia, diventa quasi una sfida, giocata sull’astuzia. E vale per entrambi».

27.9.23

quando a giustizia non è riparativa . il caso di carol maltesi il cui carnefice vi ottiene acesso

  a  volte  anche   i  settimanali  femminili      offrono  spunti preziosi  come  l'articolo   del  settimanale    F n 39 2 ottobre  2023     che  trovate  sotto  .  di solito sono per la #GiustiziaRiparativa perchè tutti


hanno diritto ad una seconda possibilità , per evitare recidive , e aumento di criminalitò , ecc . ma qui l'rrendo crimine è ancora troppo fresco ed il carnedice non mi sembra acora pronto ad un percorso del genere e perchè ..... è spiegato nell'articolo sotto



22.12.17

chi lo ha detto che il natale vada celebrato con una messa . la storia del cappellano carcerario Salvatore Bussu e del vescovo di Giovanni melis fois ( 1916-2009 ) il cui gesto porto alla lege Gozzini


da legge prima o  dopo  quiesta  storia    date  vi   per evitare  casi becero  populismo e scrivere  \  dre  cazzate   alla  salvini   senza  sapere    il contesto  e  leggere il testo  della  legge 





Essendo troppo piccolo  per riportare   una testimonianza  diretta   su tale  episodio  avvenuto nerl  1983     e  sconosciuto  (  infatti anch'io  ignoravo  lo  appreso da  un articolo uscito in questi giorni    sula  pagina della  cultura   \  speciale  natale     dell'unione sarsa ,   solo cartaceo  l'online    free   non è  prevvisto  , ai  più   riporto alcuni articoli trovsato online . 

Il primo  è    un intervita   di Luciano Piras  che trovate  qui   sotto  presa da https://www.tpi.it/2017/04/26/salvatore-bussu-prete-lotta-diritti-terroristi-carcere/




Il prete che si è battuto per i diritti dei terroristi in carcere

La storia di Don Bussu, il prete giornalista che ha difeso i diritti dei carcerati, nell'intervista a Luciano Piras, autore del libro “I terroristi sono miei fratelli”

26 Apr. 2017

   
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Salvatore  Bussu     dalla rete  
A  dicembre  1983 Giovanni Paolo II fa il suo ingresso nel carcere di Rebibbia per stringere la mano al suo attentatore, il turco Ali Agca. Lo stesso mese un umile prete di provincia, cappellano del carcere nuorese di Badu e’ carros, si autosospende dal suo mandato sacerdotale. Piccolo di statura ma gigante nel coraggio, Don Salvatore Bussu [ foto a  destra   ]  viene da Ollollai, un piccolo paese all’interno della Sardegna, in provincia di Nuoro.Don Bussu si è schierato senza timore in difesa dei reclusi, che da tempo stanno attuando lo sciopero della fame. Oltre a essere un prete, è anche un giornalista, cosa che l’ha aiutato non poco nella sua battaglia. Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di “terrorismo di Stato”, facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi.                                                             
Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di “terrorismo di Stato”, facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi. 
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Don  Giovanni  Melis  Fois   1916-2009  )  da  
http://blogs.dotnethell.it/Oristano/ShowImage.aspx?ID=6326
Il parlamento si mette a lavorare sul caso e arriva alla stesura della legge Gozzini, dando attuazione al dettato costituzionale che prevede il divieto di detenzione senza il rispetto dei diritti umani. Il provvedimento supera una legge del 1975, che prevedeva la possibilità di far prevalere esigenze di sicurezza sulle norme di rieducazione e di trattamento umano. 
Le legge Gozzini diventa allora bersaglio di attacchi, così come lo stesso Don Bussu che la difende sempre a spada tratta. Con il gesto di schierarsi dalla parte dei brigatisti reclusi il sacerdote non vuole certo appoggiarne l’operato – cosa di cui spesso viene accusato – ma lottare per un trattamento degno di una società civile. Don Bussu cerca il giusto equilibrio fra la pena da scontare e l’aspetto rieducativo per il recluso, facendo leva sul concetto del perdono nella fede cristiana. 
La vicenda è stata raccontata nel libro “I terroristi sono miei fratelli” di Luciano Piras, giornalista del quotidiano La Nuova Sardegna. Il titolo è provocatorio come le parole che il cappellano del carcere ha utilizzato per manifestare la sua posizione. Il libro ricostruisce la storia con l’aiuto dello stesso Don Bussu.
Quanto è stata decisiva la battaglia di Don Bussu nella riforma carceraria italiana?
Dire che la battaglia di un umile prete della periferia sarda è stata decisiva, può sembrare un’ esagerazione. Eppure, quella lontana e clamorosa “rivolta” partita da Nuoro è stata determinante nella storia d’Italia, tant’è che ha segnato il definitivo tramonto del vecchio ordinamento penitenziario fermo al 1975, anche se ormai nessuno sembra più ricordarsene.
Era stato lo stesso senatore Mario Gozzini, padre della riforma del 1986, del resto, a sottolineare che gli scioperi della fame nel supercarcere di Badu ‘e Carros e il cosiddetto “sciopero della messa” del cappellano don Salvatore Bussu segnarono uno spartiacque nella vita carceraria: prime rivolte, salite sui tetti, violenze anche estreme; dopo, simili fatti sono diventati rarissimi. Tant’è vero che il parlamento dimostrò presto di aver recepito la “sollecitazione” arrivata dalla Barbagia. 
Don Bussu è stato inizialmente visto dalle istituzioni sia politiche che clericali come un ingombrante peso. Va inoltre aggiunto che allora non si avevano certo gli stessi mezzi di comunicazione di oggi per poter promuovere una simile battaglia. Quali sono i suoi meriti nell’essere stato persuasivo e abile anche nella comunicazione?
Ingombrante? Mite e pacifico, persino timido, ieri come ancora oggi, don Bussu è stato addirittura additato come sovversivo. È stato bollato come “il cappellano delle Br”… roba da matti! Ha avuto comunque la fortuna di avere dalla sua parte un grande vescovo, monsignor Giovanni Melis, che non condivise le “dimissioni” di don Bussu, e soprattutto non condivise le parole dirompenti che don Bussu usò per “dimettersi” da cappellano, ma lo sostenne ugualmente perché certo che il suo prete agiva in pace con la coscienza, da vero cristiano senza steccati. 
Ma se è vero che don Bussu è un prete che ha avuto una parte non marginale nella sconfitta del terrorismo italiano (Gozzini lo ha ribadito più volte), altrettanto vero è che don Bussu è battagliero nato, direttore del settimanale diocesano L’Ortobene. Un giornalista inquieto per Cristo, che proprio per questo ha saputo usare uno dei più popolari e diffusi canali di comunicazione di massa di allora: l’agenzia Ansa.
È all’Ansa che consegnò la sua lettera di dimissioni, è l’Ansa che spinse la notizia ovunque. Sempre attento al mondo dell’informazione, probabilmente oggi don Bussu affiderebbe quella sua lettera ai social, a Facebook… anzi, no… credo che si affiderebbe più a Twitter. 
Da uomo di Chiesa Don Bussu si è spesso appellato alla laicità della Costituizione italiana, che prevede che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quanto nella pratica oggi un carcere italiano può garantire questo diritto costituzionale?
da http://iltaccuinodellevoci.blogspot.it/2014/10/un-prete-e-i-terroristi-di-salvatore.html

Purtroppo l’Italia, quanto a sistema penitenziario, è ancora ferma allo stato delle caverne. Le violazioni dei diritti umani nelle carceri italiane sono quotidiane. Violazioni della legalità accertate in giudizio anche davanti a corti interne, tanto che ormai si parla di una giurisprudenza costante. E non sono io a dirlo, sia chiaro: sono gli stessi dati ufficiali del ministero della Giustizia, a testimoniarlo, e – cosa ancora più grave – le ripetute sentenze di condanna inflitte allo Stato italiano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di Strasburgo ha detto più volte che il primo colpevole, spesso, è lo stato che costringe i detenuti a scontare pene inumane e illegittime. Diversi sono i casi emblematici che fanno della Repubblica italiana uno stato “fuori norma” e parecchio lontano dal rispetto dei diritti fondamentali della persona e dagli impegni assunti formalmente con la sottoscrizione di atti e convenzioni internazionali.

Ancora oggi, dunque, le carceri italiane presentano standard molto bassi. Spesso la Corte di Strasburgo ne ha evidenziato la gravità. Qual è lo stato delle carceri italiane adesso rispetto agli altri paesi? 
In una parola: pessimo. Basti pensare che appena qualche anno fa, mentre nella Repubblica Ceca la percentuale dei detenuti in attesa di primo giudizio era ferma all’11 per cento, in Italia toccava la soglia del 42 per cento. Una vera e propria cancrena che lascia l’Italia indietro rispetto al resto dell’Europa e al mondo occidentale.
Una misura eccezionale – la “custodia cautelare” o “detenzione preventiva” – che invece diventa sistematica, “perché in Italia non si riesce a concludere i processi in tempi ragionevoli”, come denunciava già nel 1991 Mario Gozzini. Significa che oggi quasi il 20 per cento dei detenuti è in carcere da innocente, visto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, come recita l’articolo 27 della Costituzione repubblicana. 
Che uomo è oggi Don Bussu? Si sente ancora, nonostante l’età, un combattente sacerdote?
Don Bussu resta il leone di sempre, anche se “la vecchiaia avanza e le forze non sono più quelle di prima”, scherza con la sua tipica autoironia. A quasi novant’anni, dopo essersi ritirato dalla vita pubblica è in cerca del meritato riposo. Ma è comunque sempre pronto a rifare quello che ha fatto, se ci dovessero essere le stesse condizioni di quel Natale 1983, quando uscì dal supercarcere nuorese di Badu ‘e Carros sbattendo i cancelli, mentre quasi in contemporanea papa Wojtyla entrava in una cella di Rebibbia per visitare il suo attentatore Alì Agca. 




A dihttps://www.tpi.it/2017/04/26/salvatore-bussu-prete-lotta-diritti-terroristi-carcere/#r a don Salvatore Bussu cappellano del supercarcere Badu ‘e Carros dal 1981 al 1984 e autore del libro “Un prete e i terroristi. Attraverso Badu ‘e Carros un viaggio nel mondo dell’eversione” qui http://iltaccuinodellevoci.blogspot.it/2014/10/un-prete-e-i-terroristi-di-salvatore.html un ottima recensione con alcuni estratti . E gli articoli della nuova sardegna del 

07 gennaio 2004 

«Vogliamo riappropriarci della nostra dignità di uomini»


NUORO
.Domenica 11 dicembre 1983. Don Bussu, cappellano a Badu 'e carros da appena due anni, ha un colloquio con sei detenuti politici. Sono stati loro, Alberto Franceschini, Claudio Pavese, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, capi dele Brigate rosse rinchiusi nel carcere speciale, a chiedere l'incontro. Gli annunciano di avere cominciato tre giorni prima uno sciopero della fame: «Non vogliamo semplicemente protestare contro le disumane condizioni di esistenza cui ci costringono, e che tu ben conosci perchè le devi sperimentare anche sulla tua persona quando ti viene persino impedito di entrare in sezione a parlare con noi - gli spiegano -. Con questa scelta vogliamo innanzitutto riappropriarci di qualcosa che ci appartiene in modo veramente inalienabile: la nostra identità di uomini, la nostra vita vera, profonda». Qualche giorno più avanti si affiancò a loro anche Giuseppe Federigi.
Don Bussu prova con insistenza a farli desistere, senza successo. Sollecita l'intervento del vescovo Giovanni Melis, che si impegna senza riserve. Parla con Franceschini ma ottiene un cordiale e deciso rifiuto: lo sciopero andrà avanti anche a costo della vita. Dopo la messa della vigilia di Natale il cappellano torna a casa: «Furono ore terribili, dovevo fare qualcosa, a tutti i costi». La decisione fu immediata, impetuosa. Scrisse una lettera di fuoco che mise a rumore l'Italia: «Mentre dei miei fratelli - perchè tali me li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stia avvenendo. Da oggi perciò interrompo il mio servizio pastorale a Badu 'e carros». Fu subito un caso nazionale e soprattutto politico. Si apri la strada alla modifica dell'articolo 90 della legge di riforma delle carceri del 1975 (l'approdo sarà la legge Gozzini), che fu all'origine del malessere e dello sciopero poichè prevedeva l'isolamento totale della struttura penitenziaria in caso di particolari esigenze di sicurezza.
Badu 'e carros, inaugurato nel settembre del 1969 cominciò nel '77 a ospitare i nomi più importanti del terrorismo. Nell '80 fu teatro di una rivolta guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene.

  e   del 14\4\2008
«Vogliamo riappropriarci della nostra dignità di uomini»NUORO.Domenica 11 dicembre 1983. Don Bussu, cappellano a Badu 'e carros da appena due anni, ha un colloquio con sei detenuti politici. Sono stati loro, Alberto Franceschini, Claudio Pavese, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, capi dele Brigate rosse rinchiusi nel carcere speciale, a chiedere l'incontro. Gli annunciano di avere cominciato tre giorni prima uno sciopero della fame: «Non vogliamo semplicemente protestare contro le disumane condizioni di esistenza cui ci costringono, e che tu ben conosci perchè le devi sperimentare anche sulla tua persona quando ti viene persino impedito di entrare in sezione a parlare con noi - gli spiegano -. Con questa scelta vogliamo innanzitutto riappropriarci di qualcosa che ci appartiene in modo veramente inalienabile: la nostra identità di uomini, la nostra vita vera, profonda». Qualche giorno più avanti si affiancò a loro anche Giuseppe Federigi.
Don Bussu prova con insistenza a farli desistere, senza successo. Sollecita l'intervento del vescovo Giovanni Melis, che si impegna senza riserve. Parla con Franceschini ma ottiene un cordiale e deciso rifiuto: lo sciopero andrà avanti anche a costo della vita. Dopo la messa della vigilia di Natale il cappellano torna a casa: «Furono ore terribili, dovevo fare qualcosa, a tutti i costi». La decisione fu immediata, impetuosa. Scrisse una lettera di fuoco che mise a rumore l'Italia: «Mentre dei miei fratelli - perchè tali me li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stia avvenendo. Da oggi perciò interrompo il mio servizio pastorale a Badu 'e carros». Fu subito un caso nazionale e soprattutto politico. Si apri la strada alla modifica dell'articolo 90 della legge di riforma delle carceri del 1975 (l'approdo sarà la legge Gozzini), che fu all'origine del malessere e dello sciopero poichè prevedeva l'isolamento totale della struttura penitenziaria in caso di particolari esigenze di sicurezza.
Badu 'e carros, inaugurato nel settembre del 1969 cominciò nel '77 a ospitare i nomi più importanti del terrorismo. Nell '80 fu teatro di una rivolta guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene.



Quando don Bussu chiamò «fratelli» le Br

Testardo, don Bussu. Nella rossa Reggio Emilia c'erano i Nomadi e Pierangelo Bertoli decisi a mettere in piedi un megaconcerto pur di portare alla ribalta pubblica la brutalità del regime carcerario cui erano costretti i brigatisti detenuti: l'arcivescovo della città, Camillo Ruini, tuttavia, condannò aspramente l'iniziativa e il progetto musicale mori sul nascere. A Nuoro, invece, il cappellano di Badu 'e Carros, don Salvatore Bussu, andò avanti come un trattore, ascoltò soltanto la voce della sua coscienza di uomo e di prete, chiamò i terroristi «miei fratelli» e per loro usci allo scoperto provocando un ciclone talmente potente che costrinse il ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli ad intervenire.
«Quel giorno don Salvatore non se la sentiva di dire messa come se niente fosse. Era il giorno di Natale del 1983. Con il suo vescovo, monsignor Giovanni Melis, aveva parlato a lungo di ciò che stava accadendo a Badu 'e Carros, il supercarcere di Nuoro, di cui era cappellano. Sei e poi sette brigatisti avevano cominciato lo sciopero della fame». È cosi che prende avvio la ricostruzione della prima rivolta pacifica nella storia dei penitenziari italiani.
«In passato le rivolte erano sempre state molto accese, con uso di bombe artigianali, esplosivi, con scontri diretti, feriti e qualche morto» scrive Annachiara Valle nel suo libro appena uscito con la Rizzoli, 'Parole, opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo" (266 pagine, 17 euro). «Adesso, invece - prosegue l'autrice, giornalista di Jesus e collaboratrice di Famiglia Cristiana -, si sceglie una via diversa e, due giorni dopo l'ultimo incontro tra Franceschini, Bonisoli e il cappellano, il 7 dicembre, comincia lo sciopero della fame». Alberto Franceschini e Francesco Bonisoli non erano due detenuti qualsiasi: il primo era considerato lo stratega del terrorismo rosso, capo incontrastato delle Br, assieme a Renato Curcio; il secondo era stato nel comitato esecutivo che gesti il rapimento di Aldo Moro. Nati entrambi a Reggio Emilia, venticinque anni fa sia Franceschini sia Bonisoli erano rinchiusi nelle celle del 'braccetto della morte" di Badu 'e Carros. E con loro c'erano tanti altri terroristi della vecchia e della nuova guardia.
Giovani sottoposti a un regime speciale che don Bussu non esitò a bollare come «terrorismo di Stato, non meno condannabile del terrorismo delle Brigate rosse». È questa frase che scatenò il putiferio. È grazie a questa frase, tuttavia, che il Parlamento accelerò la discussione della riforma, arrivata poi con la Legge Gozzini. Avvenimento, quello nuorese, che Annachiara Valle focalizza nel quinto capitolo del suo libro freschissimo di stampa. Avvenimento emblematico e decisivo, nel più vasto panorama del ruolo assunto dalla Chiesa nella triste stagione della lotta armata e nella confusione che ne derivò negli anni seguenti. Una testimonianza coraggiosa, quella di don Bussu cappellano, che la Valle giustamente inserisce nella sua inchiesta, un viaggio spesso doloroso tra i conflitti e le lacerazioni che misero alla prova la tenuta dello Stato democratico e che soprattutto durante il sequestro Moro non risparmiarono neppure gli ambienti ecclesiastici.
«Specchio del mondo che la circondava, la Chiesa accoglieva in sé una pluralità di anime, diverse per sensibilità e visione strategica, e alternava aperture e arrocamenti, rigore e coraggiosa disponibilità all'ascolto». Da un lato le alte gerarchie mediarono tra lo Stato e le Br per il rilascio del giudice genovese Mario Sossi, dall'altro invece sposarono la linea della fermezza nel caso di Aldo Moro. Sul fronte delle parrocchie, intanto, non si fermò mai e poi mai l'opera instancabile e magari silenziosa di sacerdoti semplici come padre Ernesto Balducci o don Salvatore Bussu. «Sono certo - ha raccontato Bonisoli ad Annachiara Valle - che la storia del terrorismo sarebbe stata diversa se a Badu 'e Carros, e in tante altre carceri italiane, non ci fosse stato qualcuno in grado di accogliere il nostro grido e di trasformarlo in positivo».

Luciano Piras

15.7.16

Padova Due Palazzi, corsi anti-Isis per chi lavora in carcere Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti.

Ecco  , per  evitare   l'ennessimo attentato   degli stronzi    fondamentalisti    e i  soliti  serminoni   pieni  d'odio  generalizzato     dei malpancisti \  populisti   e  non solo  .Oltre  alle   consuete   regole del buon senso
 1)    evitare generalizzazioni stupide  e  forvianti      non sempre  chi  è mussulmano  è  necessariamente   \  per  forza    terrorista  . E'  come     se   dicessimo  che  noi  cattolici     siamo    tutti per  i roghi  e l'inquisizione
2)  esistono nell'islam  , come  neele altre fedi  (  compresa la nosta  )  diverse correnti  \  scuole  di  pensiero  oltre  a quelle  fanatiche  \  fondamentaliste
3) vedere nele  diversi  fedi   anche le cose  positive  non solo  quele  negative   cioè 50  e  50 

ecco  come fare terra bruciata senza usare bombe ed armi o finanziare dittature o  i nemico
  vedere  la  storia

"TERRORISMO ISLAMICO"
(Breve lezione di storia per chi non sa o non vuole sapere)
Sino agli anni 80 l'Afghanistan era una repubblica democratica, laica e socialista. La religione era permessa ma non era tollerato alcun radicalismo. Le ragazze portavano la minigonna e compivano studi universitari. Un signore in cravatta vendeva dischi. Avevo un amico laggiù, faceva il medico. Gli Usa, reduci dal disastro Vietnam, per pure ragioni ideologiche (guerra fredda imperante) sobillarono una guerriglia antigovernativa, sino a che l'Afghanistan chiese l'intervento della Russia, nazione confinante e da sempre in strette relazioni. A quel punto Usa e Gran Bretagna cominciarono ad armare in modo massiccio le fazioni ribelli di stampo radicale, usando come mediatore un saudita la cui famiglia risiedeva a Boston, Osama Bin Lader. I guerriglieri erano addestrati in Pakistan dalla CIA. Dopo dieci anni i russi si ritirarono, vinse la guerriglia islamica e prese il potere la fazione più estremista, quella dei Talebani. Bin Laden fondò Al Qaeda. L''Afganistan tornò al medioevo e sparì dalla cronaca. Il mondo lo riscopri l'11 settembre del 2001. Il resto della storia ognuno se la racconti come vuole, a partire dalla guerra in Iraq.
foto di Raffaele Mangano.

foto di Raffaele Mangano.


   da  http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/07/15/http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/07/15/

Due Palazzi, corsi anti-Isis per chi lavora in carcere

Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti. Protocollo d’intesa con il Bo per il rispetto delle diversità culturali e religiose

PADOVA. Le carceri del Triveneto si preparano per meglio affrontare la sfida contro il fondamentalismo islamico, iniziando la lotta contro il terrorismo da dietro le sbarre. Padova è stata inclusa nel programma, finanziato dalla Comunità europea, per evitare la radicalizzazione nelle carceri e migliorare la valutazione del rischio. Tutti gli operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, saranno formati ad hoc per riconoscere gli individui a rischio e farli desistere da posizioni estremiste. Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti. Tutti gli operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, saranno formati ad hoc per inquadrare gli individui a rischio e farli desistere da posizioni estremiste. Lo scopo è evitare che alcuni detenuti una volta usciti dal carcere passino dall’estremismo ideologico all’azione violenta, trasformando le strutture di detenzione in una palestra e un luogo di incontro
«L’obiettivo è analizzare i contesti detentivi», spiega Angela Venezia, direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato penitenziario per il Triveneto, «e trovare chiavi di lettura che permettano di interagire con i soggetti, potenzialmente aggressivi, che dimostrano simpatia per il mondo islamico. Il progetto sarà avviato con la collaborazione di un agenzia di formazione e sarà in rete con università e dipartimenti penitenziari esteri». In Europa la radicalizzazione è una minaccia crescente, per questo la Commissione si è impegnata a sostenere gli stati membri finanziando programmi di formazione per gli addetti ai lavori del sistema giudiziario penale. Lo scopo è evitare che alcuni detenuti una volta usciti dal carcere passino dall’estremismo ideologico all’azione violenta, trasformando le strutture di detenzione in una palestra e un luogo di incontro.
Un rischio che si è già trasformato in realtà in altre città come Parigi. Amedy Coulibaly, uno degli attentatori che ha commesso la strage di Charlie Hebdo, era stato in carcere per rapina a mano armata e, stringendo legami con un secondo attentatore, Chérif Koauchi, è uscito intenzionato a portare a termine un attacco terroristico.
Attualmente circa 750 persone sono recluse al Due Palazzi. Metà dei detenuti provengono da 60 paesi diversi. A loro è dedicato un nuovo protocollo d’intesa per il rispetto delle diversità religiose, che nasce tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e il Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata (Fisppa) dell’Università. L'iniziativa è stata presentata ieri al Bo, alla presenza del rettore Rosario Rizzuto, del direttore Fisppa Vicenzo Milanesi e del provveditore Enrico Sbriglia. «Sono coinvolti
5 ricercatori con competenze multilinguistiche», specifica Mohammed Khalid Rhazzali, coordinatore, «sottoporremo ai detenuti stranieri questionari di indagine, con l’obiettivo di capire come organizzare gli spazi e i tempi per le diverse abitudini e pratiche religiose».

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...