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25.10.25

A 49 anni si reinventa edicolante., A 100 anni ancora dietro il bancone: chi è Anna Possi, la barista più longeva d’Italia


 fonte unione  sarda 


La serranda abbassata da mesi, il cartello “Vendesi” ormai scolorito dal sole: sembrava la fine di una piccola storia cittadina, una di quelle che passano inosservate finché non ci si accorge del vuoto che lasciano. E invece no. Da ieri, l’edicola di viale Diaz è tornata a vivere. Dietro al bancone, con la grinta di chi ha deciso di rimettersi in gioco, c’è il 49enne Stefano Spiga, per trent’anni impiegato nel settore
ottico. «Non mi rassegnavo a vedere quella serranda chiusa ogni giorno – racconta – La guardavo dal negozio, proprio dall’altra parte della strada, nel quale ho lavorato fino a due giorni fa. E a un certo punto ho capito che era il momento di cambiare».
La decisione
Così, dopo settimane di riflessione e qualche notte insonne, Spiga ha deciso di comprare il chiosco (per vent'anni appartenuto a Nicola Madeddu) e riaprirlo, dando una svolta netta alla sua vita. Un gesto di coraggio, in tempi in cui le edicole sono in difficoltà. «È vero, il settore è in crisi – ammette Spiga – ma sono convinto che ci siano ancora margini per lavorare, se si ha la volontà di adattarsi e innovare». La riapertura, ieri mattina, è stata una piccola festa spontanea. Il chiosco, ancora semivuoto in attesa delle forniture complete, aveva già in bella vista L’Unione Sarda e alcune riviste. «In tantissimi si sono fermati a salutarmi, a farmi gli auguri, nonostante non avessi organizzato un’inaugurazione. Tutti mi hanno detto che era ora che l’edicola riaprisse».
Il futuro
L’obiettivo di Spiga è che il suo chiosco diventi un punto di riferimento, non solo per chi compra il quotidiano al mattino. «Approfitterò della posizione – spiega – siamo tra scuole, tribunale, Poste e negozi. Voglio aggiungere materiale di cartoleria, gadget, giochi per bambini. E sto valutando di attivare servizi come il ritiro pacchi o l’attivazione dello Spid. Bisogna offrire qualcosa in più, se si vuole sopravvivere». Così, tra i rumori del traffico e l’alternarsi di verde, arancione e rosso del semaforo, viale Diaz ritrova un piccolo cuore pulsante. La scena quotidiana non è poi cambiata così tanto: la via Diaz è sempre la stessa, con il suo via vai di studenti, impiegati e clienti di passaggio. Solo che ora Stefano Spiga la osserva da un’angolazione diversa. Dopo trent’anni dietro le lenti di un ottico, si ritrova dietro al bancone di un chiosco: stessi passanti, visuale identica, ma un lato diverso del marciapiede. «In fondo – scherza – ho solo attraversato la strada, ma la prospettiva è completamente nuova. E la sveglia suona decisamente presto».


.....

A 100 anni ancora dietro il bancone: chi è Anna Possi, la barista più longeva d’Italia
Un bar aperto nel 1958 per una storia irripetibile: a 100 anni (quasi 101) la signora Anna Possi è ancora lì, tutti i giorni, per fare e servire caffè ai tanti avventori del piccolo bar in provincia di Novara.

A cura di Leonardo Ciccarelli


                                   Foto di City News


A quasi cent’anni, Anna Possi è una figura leggendaria nella piccola comunità di Nebbiuno, sul lago Maggiore. Conosciuta da tutti come Anna René in memoria del marito scomparso, è diventata famosa per essere la barista più longeva d’Italia, alla guida del suo bar Centrale dal lontano 1 maggio 1958. Un lavoro iniziato quasi per caso in un giorno simbolico, il Primo Maggio, che per Anna rappresenta più di una data: è il senso stesso della sua vita. "Quando mi chiedono se ho mai pensato di starmene a casa a badare ai figli, rispondo che no, non ci son rimasta a casa, ma i figli li ho badati lo stesso, e pure bene", racconta ridendo a Repubblica. Con l’aiuto della figlia Cristiana, che ogni tanto le fa da interprete per colmare qualche piccolo problema di udito, Anna risponde con lucidità e determinazione a giornalisti, influencer e semplici clienti che affollano il locale. La stessa determinazione che l’ha accompagnata nei suoi oltre sessant’anni dietro al bancone.
La barista più longeva d'Italia mette a sedere tanti colleghi più giovani
Cercando le innumerevoli interviste online è impressionante vedere la vitalità di questa donna secolare. Non si tratta solo di gioia di vivere ma di vivacità mentale. D'altronde è lei la prima a dire che ha 100 anni "ma tante volte mi chiedo come sia possibile, non avranno mica sbagliato la data?" dice scherzando a Emanuele Ferrari, food blogger da oltre mezzo milione di follower che l'ha intervistata di recente. Nata a Vezzo, in provincia Verbano Cusio Ossola, in Piemonte, nel 1924, i suoi genitori avevano una trattoria. Lei ha cominciato a causa della guerra, perché doveva aiutare in famiglia: la polenta preparata in casa e portata ai partigiani. Con la fine del conflitto si trasferisce prima a Novara e poi a Genova, sempre per lavorare nel mondo della ristorazione. Il grande passo nel 1958 con l'apertura del bar Centrale a Nebbiuno, in provincia di Novara.
 daun servizio della rai  

"Per me il lavoro ha sempre rappresentato l’indipendenza economica, ma anche il servizio agli altri", spiega. E per Anna il lavoro non ha mai conosciuto pause: nemmeno durante le festività comandate come Natale o Pasqua il bar Centrale chiude le porte. La sua carriera, però, non è iniziata con il bar. Cresciuta in una famiglia che gestiva una trattoria con pensione, Anna ha imparato sin da giovane cosa significasse darsi da fare. "Dopo essere stata in collegio dalle Marcelline, alle magistrali, a 18 anni mi sono messa a fare un po’ di tutto: aiutavo in cucina, servivo ai tavoli. Non ho mai pensato di non lavorare".

Abbiamo però detto che Anna Possi, nonostante l'età, metterebbe a sedere tanti colleghi più giovani: la sua vivacità sta anche nell'apertura mentale. È una donna al passo coi tempi e difende le nuove generazioni dicendo che non è vero che non vogliono lavorare i ragazzi d'oggi, non sono tutti scansafatiche. Il problema sta nelle condizioni di lavoro offerte: "Se offri paghe adeguate, i dipendenti li trovi. Vedo offerte troppo basse, sia per gli uomini sia per le donne". Quando Repubblica tocca il tema delle molestie e dei ricatti sul lavoro, Anna è netta: "Son cose che non dovrebbero mai accadere, in nessun settore. Il lavoro è un diritto per tutti e non si dovrebbe mai essere ricattati per ottenerlo o per mantenerlo". Lei, che è stata anche cameriera da giovane, non ricorda episodi del genere, ma ribadisce che è essenziale vigilare affinché il rispetto prevalga sempre. Sul lavoro è una vera macchina: precisa, meticolosa, attenta a tutte le carte e quando il Corriere della Sera prova a ipotizzare il milione di caffè fatti o forse di più, lei dice di non averne idea e che le approssimazioni non le piacciono, quindi non risponde. Il bar è sempre affollato, sia perché lei è una vera attrattiva sia perché è un classico bar di provincia. Quello che oggi è "classico" però "un tempo era il bar più moderno della zona — prosegue Anna al Corriere — perché siamo stati i primi ad avere i juke-box, i flipper, il biliardino e altri videogiochi che ora non ricordo. Erano gli anni '70, una vita fa". Qui c'è passato anche il Milan, l'ultimo Milan del grande Nereo Rocco, con Gianni Rivera e un giovanissimo Fulvio Collovati ma anche quello non fortunatissimo di Pippo Marchioro che personalmente andava al bar tutti i giorni durante il ritiro. Non solo Milan, anche Inter: "Negli anni '60 veniva a trovarci Angelo Moratti, che era amico di una signora del paese. Prendevano il caffè assieme nel weekend" dice a Italia a Tavola. Anna ha trattato tutti sempre alla stessa maniera "sia i clienti storici, sia quelli da un caffè al volo e poi mai più visti, sia i vip".
A Emanuele Ferrari ha poi aggiunto di non voler mai chiudere il bar per dare sempre un servizio ai clienti e che non vuole andare in pensione perché "non riuscirei a staccarmi da questo ambiente, è la mia vita. Io sono sempre presa dal lavoro e dalle cose da fare". Quando il giovane influencer le dice che è diventata una star, lei risponde con un gentile segno di diniego dicendo che le star non le piacciono, "Io sono sempre l'Anna. Ho il mio lavoro, che mi piace, e faccio una vita semplice". Il suo bar Centrale "non è un bar, è un punto di ritrovo" e per questo motivo lei vuole sempre essere a disposizione di tutti, anche quando ha ormai un secolo sulle spalle.

26.9.25

C’ERA UNA SVOLTA - raccontare ai bambini il movimento della Global Sumud...

In sostegno al movimento umanitario, civile, globale e pacifico più grande della storia:Global Sumud Flotilla. Siate liberi di condividere questa storia con i bambini che avete intorno, che siate genitori , insegnanti, educatori o esseri umani responsabili. Perché il sentimento di empatia e umanità si coltiva così come si apprende il saper riconoscere dove “c’è il giusto” e dove invece “non c’è.”. Anche se dai bambini abbiamo tanto da imparare, non lasciamoli soli. Siate liberi di ascoltarla , tradurla , silenziarla e leggergliela voi. Siate liberi e difendete la libertà.

14.9.25

la giornata dei minatori

   canzone  suggerita  \  colonna  sonora 
  sfiorisci  bel  fiore  - enzo janacci 


miniera  di porto flavia  

Rischi di crolli, esplosioni e pochi diritti. Queste erano le condizioni di lavoro dei minatori fino all’inizio del Novecento: siamo stati in Sardegna per ripercorrere la giornata tipo del minatore.

per chi vuole approfodire Storia mineraria della Sardegna - Wikipedia oppure  il  video   qua  sotto 






 ⁕ Il fiore di campo nasce in miniera, luogo di sofferenza e simbolo della fatica e dello sfruttamento dell'uomo, e diventa l'inciso che sottolinea le altre situazioni drammatici che propone la canzone: la guerra e la morte per amore.Sarà un fiore vero e proprio o un fiore smbolico (non appare molto probabile che un fiore possa nascere in una miniera sotto terra), per esempio una giovane o giovanissima donna che porta luce e amore per un breve periodo nella vita di un minatore, come Arletty-Clara nel film Alba tragica innamorata dell'operaio Jean Gabin? (è un film del 1939 di Marcel Carnè sceneggiato da Jacques Prevert, un capolavoro).In ogni caso una immagine molto forte che illumina questa bella canzone, molto diversa dal resto della produzione di Enzo Jannacci, e che si iscrive pienamente nel campo delle canzoni di miniera. da   Musica & Memoria / Enzo Jannacci - Sfiorisci bel fiore  

17.8.25

ci sarà qualcuno\a che raccoglie l'eredità di Pippo Baudo oppure la sua morte è Una parabola comune, un mondo culturale definitivamente tramontato.?


Da quel  poco  che  ricordo di  pippo baudo    era  come  M.Bongiorno      che  entra   nelle  case  degli 
italiani con garbo e  cultura  .  Infatti  , tale miei vaghi  ricordi,  vengono confermati    da    quest  post  dell'amico 

Mario Domina

    Pippo Baudo e Raffaella Carrà erano il compromesso storico dell'Italia nazional-popolare.Erano la TV che ha costruito una lingua e un sentire comuni, una vera e propria koinè, erano il calore del sabato sera in famiglia (ed erano anche la fuga per reazione dialettica da quell'abbraccio soffocante) - da Chissà se va a Sanremo, con un'infinita teoria di canzoni e cantanti ed artisti di ogni tipo; erano la festa e lo specchio di un'Italia che non c'è più - con pregi e difetti, vizi e virtù, ma ora come ora riesco solo a vederne le qualità.Pippo Baudo era poi siciliano, di Militello in val di Catania (un paese bellissimo), e il pensiero va inevitabilmente ai miei (di madre era quasi coetaneo).Una parabola comune, un mondo definitivamente tramontato.

Infatti la mia domanda credo che dìsarà destinata a non trovare riposta in quanto : << riposta è importante solo quando fai domanda giusta . cit karate kid 4>> perchè nel bene e nel male con lui se ne va un pezzo profondo, articolato, pulsante della televisione italiana. Non soltanto un conduttore, non solo un volto noto. Pippo come dicono le croinache era un radar, un direttore d'orchestra che sentiva la musica prima che iniziasse, un visionario con lo smoking addosso e il fiuto dei grandi talent scout americani, quelli che con uno sguardo capiscono se c'è una scintilla.
In un Paese che spesso inciampa nel provincialismo e nella nostalgia, Baudo ha saputo essere classico senza mai diventare vecchio. Ha attraversato decenni con la leggerezza di chi conosce bene il proprio mestiere: la conduzione come arte, la diretta come coreografia, il palco come un'estensione della propria anima. Perché Pippo non presentava, accoglieva. Accoglieva gli spettatori, i concorrenti, i cantanti, i comici e soprattutto i giovani.
L'elenco di coloro che "ha lanciato Baudo" somiglia più a una galleria di ritratti che a una semplice lista  qui   su  :  <<Pippo Baudo - Wikipedia >> per  ulteriori   approfondimenti  .


2.9.24

Oristano il burattinaio Antonio Marchi saluta il suo pubblico

Dopo 41 anni l’artista non sarà più dietro le quinte per far muovere i suoi personaggi, «ma non sarà un vero addio, dialogherò col pubblico». Il racconto di una passione che ha fatto la storia artistica recente della città

Oristano
Quello di Antonio Marchi, apprezzato artista 79enne di Oristano, non è un vero e proprio ritiro dalle scene, ma l’annuncio di un cambiamento: «Se mi chiameranno proporrò un altro tipo di spettacolo. Allestirò ancora la mia baracca, ma non andrò dietro le quinte per muovere e far vivere i miei personaggi. Semmai starò sulla scena in piedi, magari con in braccio uno dei burattini che mi aiuterà a

dialogare con il pubblico». Cappuccetto rosso non andrà più nel bosco e il principe non risveglierà più la bella addormentata. Anche Tziu Bachis non racconterà più la storia antica della Sardegna, almeno non nella baracca dei burattini che Marchi ha realizzato con le sue mani: «Ho 78 anni: la mia schiena è talmente malandata da non permettermi più di tenere le braccia in alto per far muovere i miei burattini», spiega l’artista che per quarantun’anni i burattini li ha portati in giro per il mondo. Apprezzato ceramista, pittore e scultore, diploma di maestro ceramista e insegnante in pensione, era poco più che un bambino quando, a undici anni, divenne allievo del pittore Carlo Contini e del maestro ceramista Antonio Manis. La passione per i burattini scoppia nella metà degli anni Settanta, dopo l’incontro con i burattinai Ferrari di Parma. «Restai affascinato dalla possibilità di creare personaggi e raccontare storie e favole nei teatri e per strada – racconta –. Decisi di cimentarmi anche io in quest’arte, però non ho voluto utilizzare il legno come fanno altri burattinai, ma la ceramica che è anche la materia d’arte che contraddistingue Oristano». Con la moglie Teresa, che gli sta accanto per muovere i personaggi ai quali disegna e realizza lei stessa i costumi, Antonio Marchi fonda la Compagnia Baracca e Burattini. Inizia così un’avventura che porterà la famiglia – per lungo tempo anche i figli Francesco e Renata diventano burattinai – lontano, a Madrid ad esempio, dove Antonio tiene un corso di ceramica. A Oristano e non solo, per anni i suoi burattini sono stati spettacolo immancabile per Natale, ma anche soggetti di laboratori nelle scuole. «Ho scritto trentanove racconti per burattini, dedicati ai bambini, ma anche agli adulti – racconta –. Ho riproposto storie celebri, da Pinocchio a Biancaneve, passando per la Bella addormentata nel bosco. I tre porcellini, invece, li ho ambientati in Sardegna e sono diventati “I tre porcellini a Belvì”. Con i burattini ho raccontato la storia antica, immaginando fenici e romani che incontrano e dialogano con i sardi». Non solo favole, ma anche commedie dialettali, nel copione dei burattini di Antonio Marchi che ha proposto una trasposizione di Pibiri sardu, di Antonio Garau il compianto commediografo oristanese al quale ha dedicato un centro documentale con la raccolta di scritti, foto e manifesti. Il centro documentale ha sede nella bottega di via Dritta: locali del Comune dove Marchi realizza ed espone le sue opere. «Il teatro dei burattini e delle marionette è un’arte che va scomparendo: è un lavoro difficile che prevede grande dedizione. Ci possono volere anni per realizzare uno spettacolo. E ai giovani, purtroppo, la nostra arte interessa sempre meno», dice sconsolato il burattinaio. «Mi dispiace di non aver trovato allievi ai quali passare il testimone», racconta amareggiato, ritrovando il sorriso appena un bambino si affaccia alla bottega per salutare: «Buongiorno signor Geppetto, sono venuto a vedere Pinocchio».

8.8.23

Bongiovanni, la sfida dei figli Barbara e Andrea tra spartiti, vinili e cd: “Ora pure la classica si ascolta sul cellulare” ma io resisto

 


È sicuramente un’istituzione. Per la musica e la cultura, ma non solo. «E portarlo avanti per me è quasi un dovere», spiega Barbara Bongiovanni, socia assieme al fratello Andrea di Bongiovanni, negozio ed editore musicale fondato nel 1904.La data fa impressione.«Sì. La data ufficiale in realtà per mio padre era 1905, poi abbiamo trovato dei cataloghi datati 1904. Il mio bisnonno Francesco era arrivato a Bologna a fine Ottocento dalla Sicilia per il servizio militare, venne assunto in un negozio di musica che dopo un anno ha rilevato. Ha iniziato lui a pubblicare e vendere spartiti e ad affittare strumenti, conserviamo ancora il suo flauto. Il negozio si chiamava “Stabilimento musicale Francesco Bongiovanni” ed era sotto il Pavaglione, poi si è spostato in via Rizzoli e nel 2000 in via Ugo Bassi. È stato gestito da Francesco, poi Edoardo e Teresita negli anni della guerra. Mio padre Giancarlo dopo un periodo di lavoro in Agip si è dedicato al negozio continuando le edizioni musicali e avviando per primo le registrazioni dal vivo, con un concerto di Mirella Freni che gli valse un premio della critica discografica».

&nbsp;Il titolare Bongiovanni con Luciano Pavarotti&nbsp;

 Il titolare Bongiovanni con Luciano Pavarotti 

 

Ora ci siete voi.

«Mio fratello Andrea fin dagli anni ’80 e ‘90, che si dedica soprattutto alle edizioni, e io in negozio. Chiaro che oggi è tutto diverso, è un po’ come per il mio bisnonno, che sarà stato sicuramente traumatizzato dal passaggio da spartiti e spettacoli in teatro alle registrazioni dei concerti».

EIKON STUDIO di Gianluca Perticoni
EIKON STUDIO di Gianluca Perticoni 

EIKON STUDIO di Gianluca Perticoni
EIKON STUDIO di Gianluca Perticoni 

Oggi com’è?

«È tutto online, e questo colpisce soprattutto la musica classica. L’utente di classica, a meno che non sia un collezionista, non cerca le ultime uscite ma ascolta tutto sul telefono a costo zero o quasi, anche noi ci dobbiamo reinventare».

In che modo?

«Prima al piano terra avevamo le registrazioni, i cd e i dvd, mentre nel seminterrato gli spartiti. Dall’anno scorso abbiamo portato al piano del negozio gli spartiti e i dischi, sotto non abbiamo ancora deciso cosa fare. Forse, ma ci stiamo ancora pensando, potremmo mettere strumenti per chi si vuole esercitare, come gli studenti fuorisede. Ma al momento quello che ci sostiene, assieme agli spartiti, sono cd e vinili di musica leggera, perché il fruitore della leggera ha un rapporto diverso col disco, magari sono ragazzi che appendono il disco in camera».

Si direbbe il contrario, che l’ascoltatore di classica sia più “tradizionale”.

«No, non vengono più ristampate le cose vecchie e a parte qualche rarissima eccezione escono poche novità di classica, il mercato è quasi azzerato e le case si adeguano. Qui vengono soprattutto persone che cercano dischi fuori catalogo. L’altro giorno, per esempio è venuto un uomo che cercava Wagner cantato in italiano da un cantante specifico. L’abbiamo trovato».

Non è un tradimento affidarsi alla musica leggera?

«No, la classica e l’opera ce l’abbiamo ancora, ma non esce quasi più niente di nuovo, forse la gente questo non lo capisce. Per un po’ sono andate bene alcune registrazioni dal vivo, ma oggi va tutto su You Tube. La musica leggera l’avevamo da tanto tempo, poi negli anni ’80, con l’apertura di Ricordi mio padre decise di toglierla. Quando Ricordi ha chiuso l’abbiamo riproposta».

C’è un ritorno del vinile?

«Sì, per fortuna, mentre il cd è in declino. Le stesse case discografiche non sanno bene cosa pubblicare perché non è facile prevedere la risposta. È uscito un cd di Taylor Swift che si è esaurito immediatamente perché ne avevano stampate poche copie».

Ma com’è portare avanti un’istituzione della musica?

«Per me è la mia vita. È una cosa che sento istintivamente di dover portare avanti, perché la adoro. Adesso poi mio figlio Marcello ha un entusiasmo incredibile, è anche più bravo di me».

Ma chi è il cliente tipo?

«C’è il cantante di opera che viene a prendere gli spartiti, studenti e insegnanti di musica, oppure giovani che comprano cd o vinili. Ci sono meno clienti di lirica o sinfonica, o i clienti di una volta: per anni sono venute persone tutti i giorni a chiedere le ultime uscite e comprare dischi».

Quali sono gli autori cui siete più legati?

«Beh, sicuramente Respighi o Cimara, pubblicati dal mio bisnonno, poi il cantante Alfredo Kraus, ma anche Mirella Freni, Mariella Devia, Renato Bruson».

Avete anche inventato il “firmacopie”.

«Più o meno, sì. Mio padre coglieva l’occasione dei concerti e invitava cantanti e maestri in negozio a firmare gli album, ci sono passati tra gli altri Luciano Pavarotti, Riccardo Muti, ma anche Kraus, Cortez, Lavirgen».

30.6.23

Sono sempre bei tempi la storia di Luigi Luini

C’è un uomo che da 78 anni ogni notte si alza, accende il forno e fa felici tutti quelli che passano dal suo panificio. È Luigi Luini che domani compie 92 anni e che nella sua lunga vita ha visto Milano cambiare ma non ha mai perso la convinzione che “sono sempre bei tempi”

ecco  la storia  di  questa  settimana    della  newsletters     altre storie     rubrica   di  Mario Calabresi


«Una volta mi alzavo alle tre di notte per fare il pane. Adesso alle due sono già sveglio: passano gli anni e dormo sempre meno. Mi giro e rigiro nel letto ma non vedo l’ora di alzarmi. Alle cinque scendo, sono sempre il primo ad arrivare. Controllo che sia tutto a posto, che non manchi nessun ingrediente. E poi accendo il forno».


Luigi Luini


Domani, sabato primo luglio, Luigi Luini, professione panettiere, compie 92 anni. È un pezzo della storia di Milano, il suo negozio dietro il Duomo resiste dal 1949 e i suoi panzerotti sono famosi in tutto il mondo. Non esiste giorno in cui non ci sia la fila davanti alla sua vetrina. Il signor Luini ha cominciato a lavorare quando aveva 14 anni e non è mai veramente andato in pensione: «Al mio sessantacinquesimo compleanno tutti mi chiedevano quando mi sarei ritirato e io rispondevo: “Ho il contratto fino a ottanta” e poi lo prorogo ogni anno».
Il suo negozio per me è un luogo del cuore. Quando ero studente di liceo, saltavo spesso la scuola per andare all’emeroteca della Biblioteca Sormani a leggere i giornali degli anni Settanta. Volevo capire la nascita degli anni di piombo. Era un’immersione nel passato, faticosa e certi giorni anche dolorosa. Quando uscivo avevo bisogno di qualcosa che mi facesse stare bene, e allora avevo il mio piccolo rito: andavo a prendere due panzerotti mozzarella e pomodoro da Luini. Erano sempre bollenti, e d’inverno, quando gli davi il primo morso, fumavano. Mi facevano felice, e ancora oggi è così. Negli anni ho conosciuto il signor Luini, siamo diventati amici e sono stato il primo cliente a entrare nel suo negozio il giorno che ha riaperto dopo il primo lockdown. Questa settimana mi sono presentato alle sette e mezza, mi sono infilato sotto la saracinesca, che era ancora mezza abbassata, per fargli gli auguri e per farmi raccontare la sua storia.


L’ingresso del panificio Luini in una foto degli anni ‘70


Con lui c’è sempre la signora Anna, con cui ha festeggiato 53 anni di matrimonio: «Mi sono sposato tardi, avevo già 39 anni, ma lavoravo e basta e non avevo occasione per fare conoscenze. Poi, un giorno, ero a casa di mia mamma Giuseppina e sulle scale incontriamo la figlia della sua vicina, che aveva 25 anni. “Guarda che bella ragazza - dice mia madre - te la devo presentare”. E così abbiamo cominciato a uscire insieme». Nel 1970 si sposano, il viaggio di nozze nelle Dolomiti è la prima vacanza della vita di Luigi, l’anno dopo arriva Cristina, la prima figlia, e poi nel ‘74 Emanuela. La signora Anna lo convince che ad agosto bisogna chiudere e andare in vacanza, che esiste il mare, e chiede che smettano di abitare sopra il negozio, ma almeno a una distanza di quindici minuti a piedi.
La sua è una storia di fatica, ma con un'accezione positiva del termine. «Mia madre lavorava fin da giovanissima nella trattoria dei suoi genitori a Codogno, lì una domenica ha conosciuto mio padre, che faceva il panettiere. Era la metà degli anni Venti. Alla fine della guerra c’era una grande energia e la sensazione che tutte le occasioni fossero a Milano. Io e le mie sorelle convincemmo mamma e papà a trasferirci e trovammo un negozio in Piazzale Bacone. Io avevo quattordici anni ma nessuna voglia di studiare. Mio padre, quando lo capì, disse una frase soltanto: “Se non studi, ti alzi la notte”. Dal giorno dopo cominciai a lavorare con lui».


Una foto storica del laboratorio del panificio durante la preparazione dei taralli pugliesi


Nel 1949 si spostano in via Santa Radegonda, a poche decine di metri dalla Galleria Vittorio Emanuele, nel centro più centro di Milano: «Erano case popolari, qui abitava la gente comune, non c’era mica la moda. Le famiglie affittavano una camera e la persona più illustre del palazzo era il maestro di canto dell’ultimo piano. Accanto a noi c’era la latteria, poi un fruttivendolo, un barbiere e un elettricista. Questo era il centro di Milano. Tutto è cambiato negli anni Ottanta, sono cominciate le grandi ristrutturazioni che hanno espulso il popolo».
Il signor Luigi ricorda ogni decennio, l’eco della strage di Piazza Fontana, la folla dei funerali in Duomo, la bomba fuori dalla Questura in via Fatebenefratelli - «Sono passato di lì con la Vespa pochi istanti dopo, stavo portando il pane a un ristorante» -, l’arrivo delle boutique di lusso, i turisti giapponesi che hanno cominciato a fotografare il suo negozio. Gli chiedo se abbia rimpianti, quale sia stato il decennio più bello: «Sono sempre bei tempi. Sono stati tutti belli, mica solo quelli in cui si è giovani. Quando guardo le mie figlie che mandano avanti il negozio e fanno migliorie e innovazioni sono contento».

Il panificio Luini il giorno della riapertura dopo il lockdown


Nel 1949 però i panzerotti non c’erano: «Ricordo i primi cortei, chiedevano “pane e lavoro”, dopo qualche anno però “pane” non lo dicevano più e allora ho pensato che dovevamo fare qualcosa di diverso. Siamo stati i primi a fare i panini imbottiti quando i panettieri non li facevano, poi le pizze, ma i vigili vennero a farci un verbale perché anche questo non era previsto. Alla fine ho tirato fuori la ricetta dei panzerotti. Era in un quaderno di ricette di mia madre, figlia di un immigrato pugliese. All’inizio li faceva lei, poi dovette lasciare il negozio e allontanarsi perché era diventata allergica alla farina. La verità è che i polmoni se li era rovinati in trattoria. Fumavano tutti, c’era una nebbia di sigarette e lei aveva sempre la tosse».
I grandi cambiamenti nell’organizzazione del negozio sono avvenuti al passaggio di secolo, quando è mancata Franca, la sorella più grande, e Carla è andata in pensione. «Loro due erano inflessibili: alle 13 buttavano fuori i clienti perché si doveva chiudere per la pausa. Riaprivamo solo alle 16, ma così perdevamo tutto il pranzo degli impiegati e degli studenti. Sono arrivate le mie figlie e hanno rivoluzionato gli orari: non si apre più alle 7 ma alle 10 e poi si fa orario continuato fino alle otto di sera». Le figlie hanno rifatto il negozio, hanno messo un silos per la farina nel sotterraneo - così non si devono più sollevare e trasportare i sacchi da 25 chili - e semplificato l’elenco dei prodotti. Ma non sono riuscite ad evitare che il padre arrivi alle 5 per accendere il forno.


Luigi Luini con la gerla sulle spalle mentre consegna il pane


Il signor Luigi parla ormai da un’ora, mi racconta di quando ha iniziato a fare le forniture in giro per la città: «Portavo il pane agli alberghi alle 5 per la prima colazione, poi a mezzogiorno facevo le consegne nei ristoranti. Nel tardo pomeriggio un nuovo giro. Andavo io con la Vespa e la gerla sulla schiena. Non mi sono mai riposato, ma che vita ragazzi! Un giorno, mentre portavo il pane all’Hilton, sono stato investito da una Cinquecento. Mi ha fatto fare un volo che ancora me lo ricordo. Sono stato ingessato per quaranta giorni. Ero a casa e allora mia moglie mi mette in braccio la piccola: “Tieni la Cristina, che vado a fare la spesa”. Ma lei scoppia a piangere, non mi aveva mai visto e mi aveva preso per un estraneo». Dopo una settimana comincia a lavorare con il gesso la notte.


Luigi Luini con la moglie Anna e le figlie, Cristina a sinistra ed Emanuela


Nella fila fuori ci sono sempre gli impiegati che lavorano in centro e tantissimi turisti, al momento scarseggiano ancora i cinesi ma ci sono tanti arabi, americani e spagnoli. Gli faccio la domanda a cui non risponde mai: quanti panzerotti vendete ogni giorno? «Tutti me lo chiedono, dipende dalle stagioni, d’inverno le file sono più lunghe, mentre con il caldo se ne vendono meno. Non esiste un numero fisso».
Insisto. Abbassa la voce e finalmente mi risponde: «Più di 5mila».
Il prezzo è lo stesso da anni: 2 euro e 80 centesimi. «Io non voglio fare le cose gourmet, voglio che sia per tutti. Sono un panettiere».


29.1.23

L’intuito del giornalista e la strage di piazza Fontana di Emiliano Morrone


da
 https://www.corrieredellacalabria.it/2023/01/28/lintuito-del-giornalista-e-la-strage-di-piazza-fontana/


Sabato, 28 Gennaio
Ultimo aggiornamento alle 20:00

LA STORIA
«L’intuito del giornalista e la strage di piazza Fontana»
Questa è una bella storia di giornalismo sul posto, sul campo. Il caso, qualcuno parlerebbe di fortuna o di destino, ebbe un ruolo fondamentale. Ma l’intuito e la bravura personale fecero il resto…
                                    di Emiliano Morrone


Questa è una bella storia di giornalismo sul posto, sul campo. Il caso, qualcuno parlerebbe di fortuna o di destino, ebbe un ruolo fondamentale. Ma l’intuito e la bravura personale fecero il resto. La strage di piazza Fontana favorì la carriera di un giovane giornalista, proveniente da Cosenza. Ho tirato fuori questo ricordo di mio zio Luigi Morrone, detto Gino, che dopo quella strage diventò una firma di punta del quotidiano nazionale “Il Giorno”. Buona lettura.
Milano, 12 dicembre 1969. Quel giorno ero di “corta” (leggi “giorno di riposo per i giornalisti”) e, non so perché, mi ero vestito come un commissario di polizia. Camicia bianca, abito di buon taglio, cravatta scura, un bel cappotto grigio quasi nuovo. Avevo bisogno di starmene in pace: il 29 dicembre mi sarei sposato e avevo una certa fretta di compilare la lista degli invitati. Scelsi di rintanarmi nella nuova sala stampa dei carabinieri, in via Moscova, che disponeva di comodissime poltrone e, soprattutto, non era molto frequentata.
Quando entrai, diedi un’occhiata al panorama: ero solo tra una pila di luccicanti telefoni appena installati e alcune poltrone in pelle assolutamente invitanti. Cominciai il mio “lavoro”, ma fui subito interrotto dal trillo fastidioso di uno dei telefoni. Non risposi, mandando mentalmente al diavolo lo scocciatore. Il telefono insisteva. Fui tentato di staccare e riattaccare. Ma poi prevalse il buon senso: poteva essere una chiamata importante. Non appena misi all’orecchio il microfono, dall’altra parte udii una voce concitata: “Capitano C. (era il comandante del pronto intervento), è scoppiata una bomba in piazza Fontana… alla banca, ma forse è scoppiata una caldaia…”. Riattaccai, in gran fretta raccolsi le mie cose e mi precipitai all’uscita. Cercai un taxi e diedi l’indirizzo, nel frattempo cercavo di riordinare le idee, di organizzarmi. Pensai: in piazza della Scala devo scendere e correre a piedi, la zona sarà transennata.
Ero giovane e atletico (45 anni fa!), perciò bruciai le tappe e arrivai in una piazza gremita di gente vociante e disperata. Mi diressi con decisione all’ingresso e un poliziotto si fece subito da parte lasciandomi entrare. Il mio look assolutamente casuale e involontario aveva funzionato. Fino ad allora avevo sempre pensato che l’inferno fosse una trovata geniale per spaventare i piccoli peccatori come me, ma una volta nel salone sventrato della banca capii che l’inferno esiste davvero ed era proprio lì sotto i miei occhi sgomenti. Spaventoso, terrificante, apocalittico: cadaveri dilaniati; dappertutto, persino spiaccicati sulle pareti, sangue e pezzetti di pelle umana; gente che soffriva e urlava; una grande buca al centro del salone, coperta con dei tavolacci, mostrava tutta la violenza di una bomba ad alto potenziale appena scoppiata. E poi sirene, lettighe, medici e infermieri.
Un cronista, entrato al seguito del cardinale giunto a benedire le salme, davanti a tanta atrocità, non resse e piombò a terra come morto. Anch’io ero come paralizzato. Ma il mestiere, il senso del dovere mi richiamano alla realtà: comincio a contare i corpi dei poveretti dilaniati dal micidiale ordigno, prendo con meticolosità appunti, cerco di contattare il giornale. Esco dal salone, a caccia di un telefono (quelli interni erano tutti fuori uso), lo trovo nella farmacia accanto. Il vicedirettore del giornale, informato, scende all’ingresso della sede e dirotta verso piazza Fontana tutti i giornalisti che a quell’ora cominciavano i loro turni di lavoro. “Cercate di contattare Morrone, è dentro la banca”, urlava. Ebbi qualche problema a rientrare, ma alla fine, non so come, tornai in quel maledetto salone. Quel tragico pomeriggio riuscii a rendermi utilissimo al giornale. Al caporedattore chiesi timidamente: “Non firmatemi l’elenco dei morti e dei feriti”. Riattaccò, ma il giorno dopo la mia firma fu adeguatamente collocata.
Passai una notte insonne, c’era un tg regionale che dava il numero dei morti, un numero diverso dal mio. Chiamai il giornale più volte e alla fine il capocronista mi urlò: “Vai a dormire, quel tg ha un disco e ripete sempre la stessa notizia, sono esatte le tue informazioni. Buonanotte”. Io, che ero visibilmente provato, diciamo pure sotto shock, mi ero rifugiato a casa della mia ragazza, Giuliana, che da lì a poche settimane sarebbe stata mia moglie. La mia futura suocera Cristina era impegnata, con un efficace lavoro di olio di gomito, a ripulire le scarpe quasi nuove, sporche, diciamo imbrattate di sangue e tagliuzzate da tante piccole schegge di vetro. Alla fine tornarono lustre. Ma io quelle scarpe non le ho più calzate.

1.1.23

Pelé rifiutò 700 mila euro per ballare in tv. "Non posso, rappresento il calcio"



questo aneddoto di Pele recentemente scomparso conferma  come ho  detto  in << morte di un campione >> quanto fosse un grande anche al di fuori dal calcio






SAN PAOLO — Non ha giocato in Italia, Pelé, nonostante un contratto pronto o quasi di Angelo Moratti. Ma avrebbe potuto venire qui per ballare. In tv, come il suo amico-rivale Diego Armando Maradona. L'idea era più che concreta. Risale a qualche anno fa, e per provare a realizzarla s'erano mossi intermediari calcistici e figure della televisione italiana. Ma andiamo con ordine.
Pelé, 700 mila euro per ballare in tv
Provate a immaginare: una notte danzante, sugli schermi italiani, con protagonista O Rei. Siamo alla fine del primo decennio degli Anni Duemila. Non è passato molto da quando Maradona ha incantato il pubblico italiano del sabato sera. Così, a qualcuno viene l'idea: perché non provarci anche con Pelé? Da quel momento parte la mediazione: due agenti sportivi coinvolti, un intermediario che avvicina una persona vicinissima a Pelé, una sorta di segretario particolare che filtra i contatti col mito, l'uomo con cui chiunque sogna di avere a che fare, e non solo su un campo di calcio. La proposta è di quelle quasi irrinunciabili. La tv che vuole Pelé - sul fatto se fosse una rete pubblica o privata vincono le resistenze delle fonti - è pronta a garantirgli un contratto degno di un calciatore professionista: 700 mila euro complessivi per esibirsi tre volte, una al mese per tre mesi di fila. Sarebbe dovuto venire in Italia qualche giorno prima per le prove per poi andare in scena.

Pelè e il suo numero 10: le immagini d'epoca dalla gioviniezza agli anni d'oro

La carriera di Pelé

 
Pelé in tv, no all'offerta: "Rappresento il calcio"
I discorsi vanno avanti con intermediari, si affinano i dettagli, i coinvolgimenti si allargano. Insomma, a un certo punto il progetto inizia a sembrare concreto. Poi però arriva il colpo di scena: quando la palla passa proprio nelle mani di Pelé, il mito scomparso lo scorso 29 dicembre a 82 anni, decide di spazzarlo in tribuna. "Obrigado, ma non voglio legare la mia immagine a niente che non sia connesso al mondo del calcio". E quando chi gli era vicino gli ha fatto notare l'importanza della cifra, Pelé ha anche aggiunto di preferire eventi benefici utili a sostenere cause importanti. Insomma, un altro "no" all'Italia dopo quel contratto con l'Inter stracciato per la rivolta popolare che mise a rischio l'incolumità del presidente del Santos. Spesso, negli ultimi anni, consulenti vicini a Pelé gli hanno spiegato che avrebbe potuto commercializzare meglio il proprio marchio: fare una linea stile Jordan, monetizzare un nome che conoscono in tutto il mondo. Niente da fare. E così il Pelé ballerino, almeno per noi, resta un miraggio.

3.12.22

Gli sms? Cose superate. Roba da antiquari. - Giampaolo Cassita

Gli sms? Cose superate. Roba da antiquari.
Oggi si naviga con WhatsApp, Instagram, Messenger, tik tok, telegram ed altre piccole diavolerie.
Mandare un sms è davvero molto “vintage”. Certo, roba vecchia, penseranno in molti. Ne è passato del tempo. Ma quanto? Esattamente 30 anni.
Solo 30 anni. Il primo sms (acronimo di Short Message Service, in italiano servizio messaggi brevi) viene inviato il 3 dicembre del 1992 ed è un ingegnere britannico a scrivere sulla rete GSM Vodafone: “Merry Christmas”. Eppure, a pensarci bene, nel 1992 non possedevo neppure un cellulare che acquistai solo nel 1995: un gigantesco Nokia con tanto di antenna detraibile che faceva molto “James Bond”.
Vivevo all’Asinara e il telefono cellulare era davvero una necessità e il suo avvento fu salutato con molta enfasi e felicità. Si poteva, davvero, comunicare tra una diramazione e l’altra senza passare per la radio.
Era possibile, tramite telefono, raggiungere chiunque in qualsiasi momento. Poi, il mio numero 368 divenne obsoleto.
Fu l’avvento del GSM che distrusse quel mondo semplice e disinvolto ancorato al telefono, convinti che una telefonata allungasse la vita.
I primi SMS li composi su quei telefonini orribili blu “effetto puffo” che regalava la “Esso”.
Era complicatissimo scrivere perché occorreva utilizzare la tastiera con tre lettere e pigiare il tasto sino a trovare la lettera giusta.
Diventammo bravi, alcuni erano velocissimi, altri perdevano il loro tempo a ricercare la lettera e, alla fine, desistevano.
Cominciarono le abbreviazioni TVB, TVMB, ki sei? ke dici? ma qnd mai, dv ti trv e continuavano anche quelli che, come me, scrivevano tutto “per benino” virgole e punti compresi.
Sono passati solo 30 anni dal primo SMS e sembra che si parli della preistoria.
E’ stato un secolo breve e troppo veloce. C’è gente che si è detta addio con un SMS.
Pensavo fosse una cosa triste e assurda. Fino a quando non ho scoperto che c’è gente che fa l’amore con WhatsApp.
Sono rimasto all’antica e il buon vecchio sms sembra essere quasi una dolcissima poesia di Petrarca in questi momenti terribili e veloci.
TVB. Senza più passione. 

26.5.22

1924, così nacque lo scudetto: un affare di cuore Un unicum a livello europeo ed il libro il mio nome è scudetto di Marco impiglia ed Annalena Tappenier la prima donna a lavorare in una cava di marmo

da  il fatto quotidiano del 25\52022


 Per più di 75 anni è stato rigorosamente a sinistra. Era così importante cucirlo sul cuore che in due occasioni – quando le divise non avevano né sponsor, né marchi, né nomi stampati – per non sloggiare lo stemma del club (anch’esso da inserire preferibilmente là dove si mette la mano sul cuore) si

trovarono soluzioni innovative: nel 1969 la Fiorentina, fresca del suo secondo titolo, cucì accanto al tricolore un giglio viola a mo’ di fiocco; il Torino, nel 1976, campione per la settima volta, il toro rampante granata ce lo volle impresso sopra come un tatuaggio. Fu la Lazio, dopo il secondo titolo vinto nel 2000, a spostarlo a destra, imitata l’anno dopo dai cugini della Roma (ma nelle stracittadine, si sa, è meglio non abusare dei titoli di parentela) l’anno seguente dopo il terzo trionfo. Sarà la Juventus (36 titoli), a metà anni 2000, a spostarlo a centro casacca. Ed è lì che lo si è visto più spesso negli ultimi 15-20 anni sulle maglie bianconere e su quelle nerazzurre dell’inter (19). Vedremo dove sceglierà di cucirlo l’anno prossimo il Milan, fresco campione d’italia per la diciannovesima volta nella sua storia. Ma dovunque sarà, il simbolo del cuore è sempre quello: lo scudetto



La storia del distintivo tricolore – un unicum europeo, fatta eccezione per il Portogallo – che la squadra

vincitrice del campionato di Serie A ha il diritto di cucirsi sulle maglie per il campionato successivo, ce la racconta oggi lo storico Marco Impiglia nel volume ampiamente illustrato e autoprodotto Il mio nome  è   scudetto (256 pagine in quadricromia, 150 copie numerate, lo si può richiedere scrivendo a marco.impiglia@gmail.com).
L’origine dello scudetto è eminentemente politica. Fu infatti Gabriele D’annunzio a inventarlo nel 1920, durante l’occupazione di Fiume. Sulle maglie della squadra cittadina che in un’amichevole sfidò i militari, il “vate” fece cucire (e il volume presenta una preziosa documentazione fotografica) un distintivo tricolore verde-bianco-rosso, mondato dagli stemmi di casa Savoia, poiché quella di Fiume era un’autoproclamata Repubblica.Il passaggio al campionato italiano di calcio è breve. Nel 1924 la Figc concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi lo “scudetto” sulle maglie. L’onore toccò per primo al club allora più titolato d’italia, il Genoa.

Il Grifone, quell’anno campione per la nona volta, il 3 settembre 1924 (dopo un primo esordio in un match amichevole contro l’alessandria) scese in campo a Marassi contro la Cremonese col tricolore cucito sulle casacche rossoblù. Finì 3-0 per i padroni di casa, primo gol del mitico Renzo De Vecchi detto “il figlio di dio”. L’inizio di una storia che dura ancora oggi.

TUTTE LE SQUADRE scudettate sono belle, soprattutto quelle a cui capita o è capitato di rado: il Bologna di Bulgarelli, la Fiorentina di De Sisti e Chiarugi, la Lazio di Chinaglia, il Cagliari di Gigi Riva, il Torino di Pulici e Graziani, il Verona di Bagnoli, la Roma di Falcao e Di Bartolomei, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini e ancora la Lazio e la Roma di inizio anni 2000. Ma lo stesso, ovviamente, vale per i tre club più blasonati (Juventus, Inter e Milan) che in oltre 120 anni di storia si sono divisi 74 titoli in tre. Un solo club, pur avendo vinto sette campionati, non ha mai cucito lo scudetto sulle maglie: la gloriosa Pro Vercelli. Ai tempi di Fiume e di D’annunzio le bianche casacche dei pionieri piemontesi avevano infatti già vinto tutto. Un’altra, invece, ha diritto di esibire, sempre, una piccola coccarda che non è uno scudetto ma è tricolore: lo Spezia, vincitore del campionato di guerra Alta Italia del 1944, torneo mai riconosciuto dalla Figc, vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia, che – nonostante la leggenda – non era una squadra di dilettanti ma semplicemente di atleti (molti erano ex del Livorno che nel 1943 sfiorò lo scudetto) inquadrati nei Vigili del Fuoco per esentarli dal servizio militare nella Rsi, così come il Torino era “Torino-fiat” e la Juventus “Juventus-cisitalia”.

Ma c’è una squadra il cui binomio con il tricolore è indissolubile: il Grande Torino.

Nel 1924 la Figc Concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi il “triangolo” sulle maglie: sempre a sinistra, Lazio e Roma lo spostano a destra

Gli “Invincibili” di Valentino Mazzola vinsero cinque scudetti consecutivi, dal 1943 al 1949, e morirono tutti insieme sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. Dalle macerie del bimotore schiantatosi sul terrapieno della Basilica tanto cara ai torinesi, spuntarono subito le maglie granata scudettate, quelle che i ragazzi di Ferruccio Novo indossavano in ogni fotografia.E non è un caso che lo scudetto che ancora oggi si sfoggia sulle maglie dei campioni sia lo “scudetto Grande Torino”, che la Figc volle sulle maglie dei granata campioni nel 1942-43, dopo la forzata sosta bellica, già nel campionato 1945-46, ancora prima della proclamazione della Repubblica, così come lo conosciamo oggi, mondato (proprio come aveva voluto D’annunzio un quarto di secolo prima) da ogni simbolo sabaudo e, ovviamente, fascista, che negli anni 30 e primi anni 40 avevano sostituito lo scudetto tricolore sulle maglie dei campioni d’italia.

Il volume Io sono scudetto, non a caso, verrà presentato venerdì al museo del Grande Torino di Grugliasco. E non è un caso – per tornare al simbolo del cuore – se il Torino nel 1976 optò per uno scudetto “tatuato” con il toro rampante: forse fu per non confonderlo con quello degli “Invincibili”. Un dilemma – per sfortuna dei tifosi granata – che non si è più riproposto.



Nella cava, quando si spengono le macchine, sembra di essere dentro una cattedrale

Nel posto in cui lavora Annalena, la luce del sole non arriva mai. Per terra c’è un mare di fango pallido, d’inverno la temperatura scende sottozero e l’unico suono che rimbomba tra le pareti infinite è il fracasso dei macchinari. Ogni mattina alle 6.30 lei e i suoi 16 colleghi (tutti uomini) salgono a bordo del minivan che si arrampica fino a 1.526 metri d’altitudine, nel Parco nazionale dello Stelvio. Annalena comincia il turno che è ancora buio e ne esce 10 ore dopo, con la faccia bianca come una statua, senza sapere se fuori troverà bel tempo o due metri di neve. Annalena Tappeiner, 25 anni e un corpo da bambina infilato nella felpa doppia, fa la cavatrice nella cava di marmo di Lasa-Weißwasserbruch, in Alto Adige. Per quanto ne sa, è l’unica donna in Italia a fare questo mestiere. Ed è felice. «Qui dentro per me il tempo vola», dice, mentre regola il taglio di un blocco grande quanto un monolocale. «In mezzo a tutto questo bianco è un po’ come stare sulla Luna».

Che il suo futuro non sarebbe stato in ufficio o all’università, Annalena l’ha capito presto, alle medie. «Le ore inchiodata al banco per me erano una tortura. Per imparare io devo fare, non ascoltare». Per qualche anno ha lavorato come commessa in un panificio. Poi ha deciso che ne aveva abbastanza, di segale e di Alto Adige.

La sveglia all’alba. Il freddo. I blocchi di pietra da tagliare, grandi come case. I colleghi maschi dicevano che avrebbe retto tremesi. Ma lei è felice. «È come lavorare sulla Luna»

Del suo stipendio mette via tutto quello che può per comprarsi un container. «Vorrei sistemarlo inmezzo a un prato e vivere lì. Nel silenzio, tra le stelle»

Voleva andare lontano, «in un posto con almeno un oceano nel mezzo». Dall’Australia, dove ha fatto la ragazza alla pari, è tornata indietro con qualche tatuaggio e due certezze: primo, è inutile avere paura dei ragni, anche di quelli più grossi, «basta spostarli con un pezzo di carta». Secondo, per stare bene ha bisogno delle montagne. Le sue montagne. Rientrata a Lasa, ha frequentato per un paio d’anni la scuola professionale per scalpellini. «È una scuola famosa, per frequentarla arrivano anche dall’Englandia», spiega, nel suo italiano ruvido e sorridente. Nel frattempo, continuava a cercare un lavoro che non la chiudesse in una stanza. Un giorno si è offerta in una vetreria, ma l’hannomandata via in malo modo: mica è un lavoro da femmine, questo. Finché sua mamma non le ha mostrato un annuncio del Vinschger, il quotidiano locale. La Lasa marmo, che produce uno dei marmi più puri del mondo, il preferito dell’architetto Calatrava, cercava personale. «Al telefono mi hanno chiesto: lei è interessata al posto in amministrazione, giusto? Quando ho risposto che volevo andare in cava quasi non ci credevano». Al suo primo giorno di lavoro, gli altri operai hanno scommesso che non avrebbe retto tremesi. Un anno e mezzo dopo Annalena è ancora in galleria, col cappuccio della felpa infilato sotto il casco e gli occhi incollati alla pietra, ché qui se ti distrai rischi la pelle. I suoi colleghi ogni tanto la chiamano mädel, “ragazzina”, «ma mi aiutano e mi hanno insegnato tutto quello che so. È come avere 16 papà». Quando alle 5 del pomeriggio scende giù dalla montagna, per lei comincia un’altra giornata. Va ad arrampicare sul Martello, oppure si siede al pianoforte e suona «le canzoni tristi», quelle che la rilassano. E quando non c’è nessuno che l’ascolta, canta. «Anche nella cava, quando si spengono le macchine. Sembra di essere in una cattedrale». Di tutte le belle cose che fanno i suoi coetanei in città non le importa nulla: Annalena non beve alcol, usa i social controvoglia e la discoteca le fa venire il mal di testa. «Amo stare da sola e lavorare all’uncinetto, così posso pensare. Oppure chiacchierare davanti al camino con Romina, la mia coinquilina, mentre beviamo una tisana».

Dalla Val Venosta, spiega, i giovani scappano appena possono. La Svizzera è vicina e si guadagna il doppio, e a Vienna c’è una specie di colonia altoatesina. «Questa è una terra dura, c’è chi ti guarda storto se parli italiano, se sei gay. A me non pesa, perché penso che a essere chiusa è solo la testa di certa gente, mica la mia. Ad altri sì». Dello stipendio da cavatrice, che sfiora i 2 mila euro, mette da parte tutto quello che riesce. Il suo sogno è quello di comprarsi una casa. Anzi, un container. «Vorrei metterlo in mezzo a un prato e vivere lì». Il container può essere anche grigio, assicura, tanto lo riempirà di fiori. L’importante è che intorno ci sia silenzio, così può suonare quanto le pare. E che alzando lo sguardo, la sera, si vedano solo le stelle. «Per me, questa è la libertà».



Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   Dopo  la  morte  nei  giorno scorsi  all'età  di  80 anni   di  Maurizio Fercioni ( foto al  centro    )  considerato il primo tatuat...