Dopo 41 anni l’artista non sarà più dietro le quinte per far muovere i suoi personaggi, «ma non sarà un vero addio, dialogherò col pubblico». Il racconto di una passione che ha fatto la storia artistica recente della città
Oristano Quello di Antonio Marchi, apprezzato artista 79enne di Oristano, non è un vero e proprio ritiro dalle scene, ma l’annuncio di un cambiamento: «Se mi chiameranno proporrò un altro tipo di spettacolo. Allestirò ancora la mia baracca, ma non andrò dietro le quinte per muovere e far vivere i miei personaggi. Semmai starò sulla scena in piedi, magari con in braccio uno dei burattini che mi aiuterà a
dialogare con il pubblico». Cappuccetto rosso non andrà più nel bosco e il principe non risveglierà più la bella addormentata. Anche Tziu Bachis non racconterà più la storia antica della Sardegna, almeno non nella baracca dei burattini che Marchi ha realizzato con le sue mani: «Ho 78 anni: la mia schiena è talmente malandata da non permettermi più di tenere le braccia in alto per far muovere i miei burattini», spiega l’artista che per quarantun’anni i burattini li ha portati in giro per il mondo.
Apprezzato ceramista, pittore e scultore, diploma di maestro ceramista e insegnante in pensione, era poco più che un bambino quando, a undici anni, divenne allievo del pittore Carlo Contini e del maestro ceramista Antonio Manis. La passione per i burattini scoppia nella metà degli anni Settanta, dopo l’incontro con i burattinai Ferrari di Parma. «Restai affascinato dalla possibilità di creare personaggi e raccontare storie e favole nei teatri e per strada – racconta –. Decisi di cimentarmi anche io in quest’arte, però non ho voluto utilizzare il legno come fanno altri burattinai, ma la ceramica che è anche la materia d’arte che contraddistingue Oristano». Con la moglie Teresa, che gli sta accanto per muovere i personaggi ai quali disegna e realizza lei stessa i costumi, Antonio Marchi fonda la Compagnia Baracca e Burattini. Inizia così un’avventura che porterà la famiglia – per lungo tempo anche i figli Francesco e Renata diventano burattinai – lontano, a Madrid ad esempio, dove Antonio tiene un corso di ceramica.
A Oristano e non solo, per anni i suoi burattini sono stati spettacolo immancabile per Natale, ma anche soggetti di laboratori nelle scuole. «Ho scritto trentanove racconti per burattini, dedicati ai bambini, ma anche agli adulti – racconta –. Ho riproposto storie celebri, da Pinocchio a Biancaneve, passando per la Bella addormentata nel bosco. I tre porcellini, invece, li ho ambientati in Sardegna e sono diventati “I tre porcellini a Belvì”. Con i burattini ho raccontato la storia antica, immaginando fenici e romani che incontrano e dialogano con i sardi».
Non solo favole, ma anche commedie dialettali, nel copione dei burattini di Antonio Marchi che ha proposto una trasposizione di Pibiri sardu, di Antonio Garau il compianto commediografo oristanese al quale ha dedicato un centro documentale con la raccolta di scritti, foto e manifesti. Il centro documentale ha sede nella bottega di via Dritta: locali del Comune dove Marchi realizza ed espone le sue opere. «Il teatro dei burattini e delle marionette è un’arte che va scomparendo: è un lavoro difficile che prevede grande dedizione. Ci possono volere anni per realizzare uno spettacolo. E ai giovani, purtroppo, la nostra arte interessa sempre meno», dice sconsolato il burattinaio. «Mi dispiace di non aver trovato allievi ai quali passare il testimone», racconta amareggiato, ritrovando il sorriso appena un bambino si affaccia alla bottega per salutare: «Buongiorno signor Geppetto, sono venuto a vedere Pinocchio».
È sicuramente un’istituzione. Per la musica e la cultura, ma non solo. «E portarlo avanti per me è quasi un dovere», spiega Barbara Bongiovanni, socia assieme al fratello Andrea di Bongiovanni, negozio ed editore musicale fondato nel 1904.La data fa impressione.«Sì. La data ufficiale in realtà per mio padre era 1905, poi abbiamo trovato dei cataloghi datati 1904. Il mio bisnonno Francesco era arrivato a Bologna a fine Ottocento dalla Sicilia per il servizio militare, venne assunto in un negozio di musica che dopo un anno ha rilevato. Ha iniziato lui a pubblicare e vendere spartiti e ad affittare strumenti, conserviamo ancora il suo flauto. Il negozio si chiamava “Stabilimento musicale Francesco Bongiovanni” ed era sotto il Pavaglione, poi si è spostato in via Rizzoli e nel 2000 in via Ugo Bassi. È stato gestito da Francesco, poi Edoardo e Teresita negli anni della guerra. Mio padre Giancarlo dopo un periodo di lavoro in Agip si è dedicato al negozio continuando le edizioni musicali e avviando per primo le registrazioni dal vivo, con un concerto di Mirella Freni che gli valse un premio della critica discografica».
Il titolare Bongiovanni con Luciano Pavarotti
Ora ci siete voi.
«Mio fratello Andrea fin dagli anni ’80 e ‘90, che si dedica soprattutto alle edizioni, e io in negozio. Chiaro che oggi è tutto diverso, è un po’ come per il mio bisnonno, che sarà stato sicuramente traumatizzato dal passaggio da spartiti e spettacoli in teatro alle registrazioni dei concerti».
EIKON STUDIO di Gianluca Perticoni EIKON STUDIO di Gianluca Perticoni
Oggi com’è?
«È tutto online, e questo colpisce soprattutto la musica classica. L’utente di classica, a meno che non sia un collezionista, non cerca le ultime uscite ma ascolta tutto sul telefono a costo zero o quasi, anche noi ci dobbiamo reinventare».
In che modo?
«Prima al piano terra avevamo le registrazioni, i cd e i dvd, mentre nel seminterrato gli spartiti. Dall’anno scorso abbiamo portato al piano del negozio gli spartiti e i dischi, sotto non abbiamo ancora deciso cosa fare. Forse, ma ci stiamo ancora pensando, potremmo mettere strumenti per chi si vuole esercitare, come gli studenti fuorisede. Ma al momento quello che ci sostiene, assieme agli spartiti, sono cd e vinili di musica leggera, perché il fruitore della leggera ha un rapporto diverso col disco, magari sono ragazzi che appendono il disco in camera».
Si direbbe il contrario, che l’ascoltatore di classica sia più “tradizionale”.
«No, non vengono più ristampate le cose vecchie e a parte qualche rarissima eccezione escono poche novità di classica, il mercato è quasi azzerato e le case si adeguano. Qui vengono soprattutto persone che cercano dischi fuori catalogo. L’altro giorno, per esempio è venuto un uomo che cercava Wagner cantato in italiano da un cantante specifico. L’abbiamo trovato».
Non è un tradimento affidarsi alla musica leggera?
«No, la classica e l’opera ce l’abbiamo ancora, ma non esce quasi più niente di nuovo, forse la gente questo non lo capisce. Per un po’ sono andate bene alcune registrazioni dal vivo, ma oggi va tutto su You Tube. La musica leggera l’avevamo da tanto tempo, poi negli anni ’80, con l’apertura di Ricordi mio padre decise di toglierla. Quando Ricordi ha chiuso l’abbiamo riproposta».
C’è un ritorno del vinile?
«Sì, per fortuna, mentre il cd è in declino. Le stesse case discografiche non sanno bene cosa pubblicare perché non è facile prevedere la risposta. È uscito un cd di Taylor Swift che si è esaurito immediatamente perché ne avevano stampate poche copie».
Ma com’è portare avanti un’istituzione della musica?
«Per me è la mia vita. È una cosa che sento istintivamente di dover portare avanti, perché la adoro. Adesso poi mio figlio Marcello ha un entusiasmo incredibile, è anche più bravo di me».
Ma chi è il cliente tipo?
«C’è il cantante di opera che viene a prendere gli spartiti, studenti e insegnanti di musica, oppure giovani che comprano cd o vinili. Ci sono meno clienti di lirica o sinfonica, o i clienti di una volta: per anni sono venute persone tutti i giorni a chiedere le ultime uscite e comprare dischi».
Quali sono gli autori cui siete più legati?
«Beh, sicuramente Respighi o Cimara, pubblicati dal mio bisnonno, poi il cantante Alfredo Kraus, ma anche Mirella Freni, Mariella Devia, Renato Bruson».
Avete anche inventato il “firmacopie”.
«Più o meno, sì. Mio padre coglieva l’occasione dei concerti e invitava cantanti e maestri in negozio a firmare gli album, ci sono passati tra gli altri Luciano Pavarotti, Riccardo Muti, ma anche Kraus, Cortez, Lavirgen».
C’è un uomo che da 78 anni ogni notte si alza, accende il forno e fa felici tutti quelli che passano dal suo panificio. È Luigi Luini che domani compie 92 anni e che nella sua lunga vita ha visto Milano cambiare ma non ha mai perso la convinzione che “sono sempre bei tempi”
ecco la storia di questa settimana della newsletters altre storie rubrica di Mario Calabresi
«Una volta mi alzavo alle tre di notte per fare il pane. Adesso alle due sono già sveglio: passano gli anni e dormo sempre meno. Mi giro e rigiro nel letto ma non vedo l’ora di alzarmi. Alle cinque scendo, sono sempre il primo ad arrivare. Controllo che sia tutto a posto, che non manchi nessun ingrediente. E poi accendo il forno».
Luigi Luini
Domani, sabato primo luglio, Luigi Luini, professione panettiere, compie 92 anni. È un pezzo della storia di Milano, il suo negozio dietro il Duomo resiste dal 1949 e i suoi panzerotti sono famosi in tutto il mondo. Non esiste giorno in cui non ci sia la fila davanti alla sua vetrina. Il signor Luini ha cominciato a lavorare quando aveva 14 anni e non è mai veramente andato in pensione: «Al mio sessantacinquesimo compleanno tutti mi chiedevano quando mi sarei ritirato e io rispondevo: “Ho il contratto fino a ottanta” e poi lo prorogo ogni anno». Il suo negozio per me è un luogo del cuore. Quando ero studente di liceo, saltavo spesso la scuola per andare all’emeroteca della Biblioteca Sormani a leggere i giornali degli anni Settanta. Volevo capire la nascita degli anni di piombo. Era un’immersione nel passato, faticosa e certi giorni anche dolorosa. Quando uscivo avevo bisogno di qualcosa che mi facesse stare bene, e allora avevo il mio piccolo rito: andavo a prendere due panzerotti mozzarella e pomodoro da Luini. Erano sempre bollenti, e d’inverno, quando gli davi il primo morso, fumavano. Mi facevano felice, e ancora oggi è così. Negli anni ho conosciuto il signor Luini, siamo diventati amici e sono stato il primo cliente a entrare nel suo negozio il giorno che ha riaperto dopo il primo lockdown. Questa settimana mi sono presentato alle sette e mezza, mi sono infilato sotto la saracinesca, che era ancora mezza abbassata, per fargli gli auguri e per farmi raccontare la sua storia.
L’ingresso del panificio Luini in una foto degli anni ‘70
Con lui c’è sempre la signora Anna, con cui ha festeggiato 53 anni di matrimonio: «Mi sono sposato tardi, avevo già 39 anni, ma lavoravo e basta e non avevo occasione per fare conoscenze. Poi, un giorno, ero a casa di mia mamma Giuseppina e sulle scale incontriamo la figlia della sua vicina, che aveva 25 anni. “Guarda che bella ragazza - dice mia madre - te la devo presentare”. E così abbiamo cominciato a uscire insieme». Nel 1970 si sposano, il viaggio di nozze nelle Dolomiti è la prima vacanza della vita di Luigi, l’anno dopo arriva Cristina, la prima figlia, e poi nel ‘74 Emanuela. La signora Anna lo convince che ad agosto bisogna chiudere e andare in vacanza, che esiste il mare, e chiede che smettano di abitare sopra il negozio, ma almeno a una distanza di quindici minuti a piedi. La sua è una storia di fatica, ma con un'accezione positiva del termine. «Mia madre lavorava fin da giovanissima nella trattoria dei suoi genitori a Codogno, lì una domenica ha conosciuto mio padre, che faceva il panettiere. Era la metà degli anni Venti. Alla fine della guerra c’era una grande energia e la sensazione che tutte le occasioni fossero a Milano. Io e le mie sorelle convincemmo mamma e papà a trasferirci e trovammo un negozio in Piazzale Bacone. Io avevo quattordici anni ma nessuna voglia di studiare. Mio padre, quando lo capì, disse una frase soltanto: “Se non studi, ti alzi la notte”. Dal giorno dopo cominciai a lavorare con lui».
Una foto storica del laboratorio del panificio durante la preparazione dei taralli pugliesi
Nel 1949 si spostano in via Santa Radegonda, a poche decine di metri dalla Galleria Vittorio Emanuele, nel centro più centro di Milano: «Erano case popolari, qui abitava la gente comune, non c’era mica la moda. Le famiglie affittavano una camera e la persona più illustre del palazzo era il maestro di canto dell’ultimo piano. Accanto a noi c’era la latteria, poi un fruttivendolo, un barbiere e un elettricista. Questo era il centro di Milano. Tutto è cambiato negli anni Ottanta, sono cominciate le grandi ristrutturazioni che hanno espulso il popolo». Il signor Luigi ricorda ogni decennio, l’eco della strage di Piazza Fontana, la folla dei funerali in Duomo, la bomba fuori dalla Questura in via Fatebenefratelli - «Sono passato di lì con la Vespa pochi istanti dopo, stavo portando il pane a un ristorante» -, l’arrivo delle boutique di lusso, i turisti giapponesi che hanno cominciato a fotografare il suo negozio. Gli chiedo se abbia rimpianti, quale sia stato il decennio più bello: «Sono sempre bei tempi. Sono stati tutti belli, mica solo quelli in cui si è giovani. Quando guardo le mie figlie che mandano avanti il negozio e fanno migliorie e innovazioni sono contento». Il panificio Luini il giorno della riapertura dopo il lockdown
Nel 1949 però i panzerotti non c’erano: «Ricordo i primi cortei, chiedevano “pane e lavoro”, dopo qualche anno però “pane” non lo dicevano più e allora ho pensato che dovevamo fare qualcosa di diverso. Siamo stati i primi a fare i panini imbottiti quando i panettieri non li facevano, poi le pizze, ma i vigili vennero a farci un verbale perché anche questo non era previsto. Alla fine ho tirato fuori la ricetta dei panzerotti. Era in un quaderno di ricette di mia madre, figlia di un immigrato pugliese. All’inizio li faceva lei, poi dovette lasciare il negozio e allontanarsi perché era diventata allergica alla farina. La verità è che i polmoni se li era rovinati in trattoria. Fumavano tutti, c’era una nebbia di sigarette e lei aveva sempre la tosse». I grandi cambiamenti nell’organizzazione del negozio sono avvenuti al passaggio di secolo, quando è mancata Franca, la sorella più grande, e Carla è andata in pensione. «Loro due erano inflessibili: alle 13 buttavano fuori i clienti perché si doveva chiudere per la pausa. Riaprivamo solo alle 16, ma così perdevamo tutto il pranzo degli impiegati e degli studenti. Sono arrivate le mie figlie e hanno rivoluzionato gli orari: non si apre più alle 7 ma alle 10 e poi si fa orario continuato fino alle otto di sera». Le figlie hanno rifatto il negozio, hanno messo un silos per la farina nel sotterraneo - così non si devono più sollevare e trasportare i sacchi da 25 chili - e semplificato l’elenco dei prodotti. Ma non sono riuscite ad evitare che il padre arrivi alle 5 per accendere il forno.
Luigi Luini con la gerla sulle spalle mentre consegna il pane
Il signor Luigi parla ormai da un’ora, mi racconta di quando ha iniziato a fare le forniture in giro per la città: «Portavo il pane agli alberghi alle 5 per la prima colazione, poi a mezzogiorno facevo le consegne nei ristoranti. Nel tardo pomeriggio un nuovo giro. Andavo io con la Vespa e la gerla sulla schiena. Non mi sono mai riposato, ma che vita ragazzi! Un giorno, mentre portavo il pane all’Hilton, sono stato investito da una Cinquecento. Mi ha fatto fare un volo che ancora me lo ricordo. Sono stato ingessato per quaranta giorni. Ero a casa e allora mia moglie mi mette in braccio la piccola: “Tieni la Cristina, che vado a fare la spesa”. Ma lei scoppia a piangere, non mi aveva mai visto e mi aveva preso per un estraneo». Dopo una settimana comincia a lavorare con il gesso la notte.
Luigi Luini con la moglie Anna e le figlie, Cristina a sinistra ed Emanuela
Nella fila fuori ci sono sempre gli impiegati che lavorano in centro e tantissimi turisti, al momento scarseggiano ancora i cinesi ma ci sono tanti arabi, americani e spagnoli. Gli faccio la domanda a cui non risponde mai: quanti panzerotti vendete ogni giorno? «Tutti me lo chiedono, dipende dalle stagioni, d’inverno le file sono più lunghe, mentre con il caldo se ne vendono meno. Non esiste un numero fisso». Insisto. Abbassa la voce e finalmente mi risponde: «Più di 5mila». Il prezzo è lo stesso da anni: 2 euro e 80 centesimi. «Io non voglio fare le cose gourmet, voglio che sia per tutti. Sono un panettiere».
da https://www.corrieredellacalabria.it/2023/01/28/lintuito-del-giornalista-e-la-strage-di-piazza-fontana/
Sabato, 28 Gennaio Ultimo aggiornamento alle 20:00
LA STORIA «L’intuito del giornalista e la strage di piazza Fontana» Questa è una bella storia di giornalismo sul posto, sul campo. Il caso, qualcuno parlerebbe di fortuna o di destino, ebbe un ruolo fondamentale. Ma l’intuito e la bravura personale fecero il resto… di Emiliano Morrone
Questa è una bella storia di giornalismo sul posto, sul campo. Il caso, qualcuno parlerebbe di fortuna o di destino, ebbe un ruolo fondamentale. Ma l’intuito e la bravura personale fecero il resto. La strage di piazza Fontana favorì la carriera di un giovane giornalista, proveniente da Cosenza. Ho tirato fuori questo ricordo di mio zio Luigi Morrone, detto Gino, che dopo quella strage diventò una firma di punta del quotidiano nazionale “Il Giorno”. Buona lettura. Milano, 12 dicembre 1969. Quel giorno ero di “corta” (leggi “giorno di riposo per i giornalisti”) e, non so perché, mi ero vestito come un commissario di polizia. Camicia bianca, abito di buon taglio, cravatta scura, un bel cappotto grigio quasi nuovo. Avevo bisogno di starmene in pace: il 29 dicembre mi sarei sposato e avevo una certa fretta di compilare la lista degli invitati. Scelsi di rintanarmi nella nuova sala stampa dei carabinieri, in via Moscova, che disponeva di comodissime poltrone e, soprattutto, non era molto frequentata. Quando entrai, diedi un’occhiata al panorama: ero solo tra una pila di luccicanti telefoni appena installati e alcune poltrone in pelle assolutamente invitanti. Cominciai il mio “lavoro”, ma fui subito interrotto dal trillo fastidioso di uno dei telefoni. Non risposi, mandando mentalmente al diavolo lo scocciatore. Il telefono insisteva. Fui tentato di staccare e riattaccare. Ma poi prevalse il buon senso: poteva essere una chiamata importante. Non appena misi all’orecchio il microfono, dall’altra parte udii una voce concitata: “Capitano C. (era il comandante del pronto intervento), è scoppiata una bomba in piazza Fontana… alla banca, ma forse è scoppiata una caldaia…”. Riattaccai, in gran fretta raccolsi le mie cose e mi precipitai all’uscita. Cercai un taxi e diedi l’indirizzo, nel frattempo cercavo di riordinare le idee, di organizzarmi. Pensai: in piazza della Scala devo scendere e correre a piedi, la zona sarà transennata. Ero giovane e atletico (45 anni fa!), perciò bruciai le tappe e arrivai in una piazza gremita di gente vociante e disperata. Mi diressi con decisione all’ingresso e un poliziotto si fece subito da parte lasciandomi entrare. Il mio look assolutamente casuale e involontario aveva funzionato. Fino ad allora avevo sempre pensato che l’inferno fosse una trovata geniale per spaventare i piccoli peccatori come me, ma una volta nel salone sventrato della banca capii che l’inferno esiste davvero ed era proprio lì sotto i miei occhi sgomenti. Spaventoso, terrificante, apocalittico: cadaveri dilaniati; dappertutto, persino spiaccicati sulle pareti, sangue e pezzetti di pelle umana; gente che soffriva e urlava; una grande buca al centro del salone, coperta con dei tavolacci, mostrava tutta la violenza di una bomba ad alto potenziale appena scoppiata. E poi sirene, lettighe, medici e infermieri. Un cronista, entrato al seguito del cardinale giunto a benedire le salme, davanti a tanta atrocità, non resse e piombò a terra come morto. Anch’io ero come paralizzato. Ma il mestiere, il senso del dovere mi richiamano alla realtà: comincio a contare i corpi dei poveretti dilaniati dal micidiale ordigno, prendo con meticolosità appunti, cerco di contattare il giornale. Esco dal salone, a caccia di un telefono (quelli interni erano tutti fuori uso), lo trovo nella farmacia accanto. Il vicedirettore del giornale, informato, scende all’ingresso della sede e dirotta verso piazza Fontana tutti i giornalisti che a quell’ora cominciavano i loro turni di lavoro. “Cercate di contattare Morrone, è dentro la banca”, urlava. Ebbi qualche problema a rientrare, ma alla fine, non so come, tornai in quel maledetto salone. Quel tragico pomeriggio riuscii a rendermi utilissimo al giornale. Al caporedattore chiesi timidamente: “Non firmatemi l’elenco dei morti e dei feriti”. Riattaccò, ma il giorno dopo la mia firma fu adeguatamente collocata. Passai una notte insonne, c’era un tg regionale che dava il numero dei morti, un numero diverso dal mio. Chiamai il giornale più volte e alla fine il capocronista mi urlò: “Vai a dormire, quel tg ha un disco e ripete sempre la stessa notizia, sono esatte le tue informazioni. Buonanotte”. Io, che ero visibilmente provato, diciamo pure sotto shock, mi ero rifugiato a casa della mia ragazza, Giuliana, che da lì a poche settimane sarebbe stata mia moglie. La mia futura suocera Cristina era impegnata, con un efficace lavoro di olio di gomito, a ripulire le scarpe quasi nuove, sporche, diciamo imbrattate di sangue e tagliuzzate da tante piccole schegge di vetro. Alla fine tornarono lustre. Ma io quelle scarpe non le ho più calzate.
questo aneddoto di Pele recentemente scomparso conferma come ho detto in << morte di un campione >> quanto fosse un grande anche al di fuori dal calcio
SAN PAOLO — Non ha giocato in Italia, Pelé, nonostante un contratto pronto o quasi di Angelo Moratti. Ma avrebbe potuto venire qui per ballare. In tv, come il suo amico-rivale Diego Armando Maradona. L'idea era più che concreta. Risale a qualche anno fa, e per provare a realizzarla s'erano mossi intermediari calcistici e figure della televisione italiana. Ma andiamo con ordine.
Pelé, 700 mila euro per ballare in tv
Provate a immaginare: una notte danzante, sugli schermi italiani, con protagonista O Rei. Siamo alla fine del primo decennio degli Anni Duemila. Non è passato molto da quando Maradona ha incantato il pubblico italiano del sabato sera. Così, a qualcuno viene l'idea: perché non provarci anche con Pelé? Da quel momento parte la mediazione: due agenti sportivi coinvolti, un intermediario che avvicina una persona vicinissima a Pelé, una sorta di segretario particolare che filtra i contatti col mito, l'uomo con cui chiunque sogna di avere a che fare, e non solo su un campo di calcio. La proposta è di quelle quasi irrinunciabili. La tv che vuole Pelé - sul fatto se fosse una rete pubblica o privata vincono le resistenze delle fonti - è pronta a garantirgli un contratto degno di un calciatore professionista: 700 mila euro complessivi per esibirsi tre volte, una al mese per tre mesi di fila. Sarebbe dovuto venire in Italia qualche giorno prima per le prove per poi andare in scena.
Pelè e il suo numero 10: le immagini d'epoca dalla gioviniezza agli anni d'oro
La carriera di Pelé
Pelé in tv, no all'offerta: "Rappresento il calcio"
I discorsi vanno avanti con intermediari, si affinano i dettagli, i coinvolgimenti si allargano. Insomma, a un certo punto il progetto inizia a sembrare concreto. Poi però arriva il colpo di scena: quando la palla passa proprio nelle mani di Pelé, il mito scomparso lo scorso 29 dicembre a 82 anni, decide di spazzarlo in tribuna. "Obrigado, ma non voglio legare la mia immagine a niente che non sia connesso al mondo del calcio". E quando chi gli era vicino gli ha fatto notare l'importanza della cifra, Pelé ha anche aggiunto di preferire eventi benefici utili a sostenere cause importanti. Insomma, un altro "no" all'Italia dopo quel contratto con l'Inter stracciato per la rivolta popolare che mise a rischio l'incolumità del presidente del Santos. Spesso, negli ultimi anni, consulenti vicini a Pelé gli hanno spiegato che avrebbe potuto commercializzare meglio il proprio marchio: fare una linea stile Jordan, monetizzare un nome che conoscono in tutto il mondo. Niente da fare. E così il Pelé ballerino, almeno per noi, resta un miraggio.
Oggi si naviga con WhatsApp, Instagram, Messenger, tik tok, telegram ed altre piccole diavolerie.
Mandare un sms è davvero molto “vintage”. Certo, roba vecchia, penseranno in molti. Ne è passato del tempo. Ma quanto? Esattamente 30 anni.
Solo 30 anni. Il primo sms (acronimo di Short Message Service, in italiano servizio messaggi brevi) viene inviato il 3 dicembre del 1992 ed è un ingegnere britannico a scrivere sulla rete GSM Vodafone: “Merry Christmas”. Eppure, a pensarci bene, nel 1992 non possedevo neppure un cellulare che acquistai solo nel 1995: un gigantesco Nokia con tanto di antenna detraibile che faceva molto “James Bond”.
Vivevo all’Asinara e il telefono cellulare era davvero una necessità e il suo avvento fu salutato con molta enfasi e felicità. Si poteva, davvero, comunicare tra una diramazione e l’altra senza passare per la radio.
Era possibile, tramite telefono, raggiungere chiunque in qualsiasi momento. Poi, il mio numero 368 divenne obsoleto.
Fu l’avvento del GSM che distrusse quel mondo semplice e disinvolto ancorato al telefono, convinti che una telefonata allungasse la vita.
I primi SMS li composi su quei telefonini orribili blu “effetto puffo” che regalava la “Esso”.
Era complicatissimo scrivere perché occorreva utilizzare la tastiera con tre lettere e pigiare il tasto sino a trovare la lettera giusta.
Diventammo bravi, alcuni erano velocissimi, altri perdevano il loro tempo a ricercare la lettera e, alla fine, desistevano.
Cominciarono le abbreviazioni TVB, TVMB, ki sei? ke dici? ma qnd mai, dv ti trv e continuavano anche quelli che, come me, scrivevano tutto “per benino” virgole e punti compresi.
Sono passati solo 30 anni dal primo SMS e sembra che si parli della preistoria.
E’ stato un secolo breve e troppo veloce. C’è gente che si è detta addio con un SMS.
Pensavo fosse una cosa triste e assurda. Fino a quando non ho scoperto che c’è gente che fa l’amore con WhatsApp.
Sono rimasto all’antica e il buon vecchio sms sembra essere quasi una dolcissima poesia di Petrarca in questi momenti terribili e veloci.
Per più di 75 anni è stato rigorosamente a sinistra. Era così importante cucirlo sul cuore che in due occasioni – quando le divise non avevano né sponsor, né marchi, né nomi stampati – per non sloggiare lo stemma del club (anch’esso da inserire preferibilmente là dove si mette la mano sul cuore) si
trovarono soluzioni innovative: nel 1969 la Fiorentina, fresca del suo secondo titolo, cucì accanto al tricolore un giglio viola a mo’ di fiocco; il Torino, nel 1976, campione per la settima volta, il toro rampante granata ce lo volle impresso sopra come un tatuaggio. Fu la Lazio, dopo il secondo titolo vinto nel 2000, a spostarlo a destra, imitata l’anno dopo dai cugini della Roma (ma nelle stracittadine, si sa, è meglio non abusare dei titoli di parentela) l’anno seguente dopo il terzo trionfo. Sarà la Juventus (36 titoli), a metà anni 2000, a spostarlo a centro casacca. Ed è lì che lo si è visto più spesso negli ultimi 15-20 anni sulle maglie bianconere e su quelle nerazzurre dell’inter (19). Vedremo dove sceglierà di cucirlo l’anno prossimo il Milan, fresco campione d’italia per la diciannovesima volta nella sua storia. Ma dovunque sarà, il simbolo del cuore è sempre quello: lo scudetto
La storia del distintivo tricolore – un unicum europeo, fatta eccezione per il Portogallo – che la squadra
vincitrice del campionato di Serie A ha il diritto di cucirsi sulle maglie per il campionato successivo, ce la racconta oggi lo storico Marco Impiglia nel volume ampiamente illustrato e autoprodotto Il mio nome è scudetto (256 pagine in quadricromia, 150 copie numerate, lo si può richiedere scrivendo a marco.impiglia@gmail.com). L’origine dello scudetto è eminentemente politica. Fu infatti Gabriele D’annunzio a inventarlo nel 1920, durante l’occupazione di Fiume. Sulle maglie della squadra cittadina che in un’amichevole sfidò i militari, il “vate” fece cucire (e il volume presenta una preziosa documentazione fotografica) un distintivo tricolore verde-bianco-rosso, mondato dagli stemmi di casa Savoia, poiché quella di Fiume era un’autoproclamata Repubblica.Il passaggio al campionato italiano di calcio è breve. Nel 1924 la Figc concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi lo “scudetto” sulle maglie. L’onore toccò per primo al club allora più titolato d’italia, il Genoa.
Il Grifone, quell’anno campione per la nona volta, il 3 settembre 1924 (dopo un primo esordio in un match amichevole contro l’alessandria) scese in campo a Marassi contro la Cremonese col tricolore cucito sulle casacche rossoblù. Finì 3-0 per i padroni di casa, primo gol del mitico Renzo De Vecchi detto “il figlio di dio”. L’inizio di una storia che dura ancora oggi.
TUTTE LE SQUADRE scudettate sono belle, soprattutto quelle a cui capita o è capitato di rado: il Bologna di Bulgarelli, la Fiorentina di De Sisti e Chiarugi, la Lazio di Chinaglia, il Cagliari di Gigi Riva, il Torino di Pulici e Graziani, il Verona di Bagnoli, la Roma di Falcao e Di Bartolomei, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini e ancora la Lazio e la Roma di inizio anni 2000. Ma lo stesso, ovviamente, vale per i tre club più blasonati (Juventus, Inter e Milan) che in oltre 120 anni di storia si sono divisi 74 titoli in tre. Un solo club, pur avendo vinto sette campionati, non ha mai cucito lo scudetto sulle maglie: la gloriosa Pro Vercelli. Ai tempi di Fiume e di D’annunzio le bianche casacche dei pionieri piemontesi avevano infatti già vinto tutto. Un’altra, invece, ha diritto di esibire, sempre, una piccola coccarda che non è uno scudetto ma è tricolore: lo Spezia, vincitore del campionato di guerra Alta Italia del 1944, torneo mai riconosciuto dalla Figc, vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia, che – nonostante la leggenda – non era una squadra di dilettanti ma semplicemente di atleti (molti erano ex del Livorno che nel 1943 sfiorò lo scudetto) inquadrati nei Vigili del Fuoco per esentarli dal servizio militare nella Rsi, così come il Torino era “Torino-fiat” e la Juventus “Juventus-cisitalia”.
Ma c’è una squadra il cui binomio con il tricolore è indissolubile: il Grande Torino.
Nel 1924 la Figc Concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi il “triangolo” sulle maglie: sempre a sinistra, Lazio e Roma lo spostano a destra
Gli “Invincibili” di Valentino Mazzola vinsero cinque scudetti consecutivi, dal 1943 al 1949, e morirono tutti insieme sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. Dalle macerie del bimotore schiantatosi sul terrapieno della Basilica tanto cara ai torinesi, spuntarono subito le maglie granata scudettate, quelle che i ragazzi di Ferruccio Novo indossavano in ogni fotografia.E non è un caso che lo scudetto che ancora oggi si sfoggia sulle maglie dei campioni sia lo “scudetto Grande Torino”, che la Figc volle sulle maglie dei granata campioni nel 1942-43, dopo la forzata sosta bellica, già nel campionato 1945-46, ancora prima della proclamazione della Repubblica, così come lo conosciamo oggi, mondato (proprio come aveva voluto D’annunzio un quarto di secolo prima) da ogni simbolo sabaudo e, ovviamente, fascista, che negli anni 30 e primi anni 40 avevano sostituito lo scudetto tricolore sulle maglie dei campioni d’italia.
Il volume Io sono scudetto, non a caso, verrà presentato venerdì al museo del Grande Torino di Grugliasco. E non è un caso – per tornare al simbolo del cuore – se il Torino nel 1976 optò per uno scudetto “tatuato” con il toro rampante: forse fu per non confonderlo con quello degli “Invincibili”. Un dilemma – per sfortuna dei tifosi granata – che non si è più riproposto.
Oggi
Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO PAVESI
Nella cava, quando si spengono le macchine, sembra di essere dentro una cattedrale
Nel posto in cui lavora Annalena, la luce del sole non arriva mai. Per terra c’è un mare di fango pallido, d’inverno la temperatura scende sottozero e l’unico suono che rimbomba tra le pareti infinite è il fracasso dei macchinari. Ogni mattina alle 6.30 lei e i suoi 16 colleghi (tutti uomini) salgono a bordo del minivan che si arrampica fino a 1.526 metri d’altitudine, nel Parco nazionale dello Stelvio. Annalena comincia il turno che è ancora buio e ne esce 10 ore dopo, con la faccia bianca come una statua, senza sapere se fuori troverà bel tempo o due metri di neve. Annalena Tappeiner, 25 anni e un corpo da bambina infilato nella felpa doppia, fa la cavatrice nella cava di marmo di Lasa-Weißwasserbruch, in Alto Adige. Per quanto ne sa, è l’unica donna in Italia a fare questo mestiere. Ed è felice. «Qui dentro per me il tempo vola», dice, mentre regola il taglio di un blocco grande quanto un monolocale. «In mezzo a tutto questo bianco è un po’ come stare sulla Luna».
Che il suo futuro non sarebbe stato in ufficio o all’università, Annalena l’ha capito presto, alle medie. «Le ore inchiodata al banco per me erano una tortura. Per imparare io devo fare, non ascoltare». Per qualche anno ha lavorato come commessa in un panificio. Poi ha deciso che ne aveva abbastanza, di segale e di Alto Adige.
La sveglia all’alba. Il freddo. I blocchi di pietra da tagliare, grandi come case. I colleghi maschi dicevano che avrebbe retto tremesi. Ma lei è felice. «È come lavorare sulla Luna»
Del suo stipendio mette via tutto quello che può per comprarsi un container. «Vorrei sistemarlo inmezzo a un prato e vivere lì. Nel silenzio, tra le stelle»
Voleva andare lontano, «in un posto con almeno un oceano nel mezzo». Dall’Australia, dove ha fatto la ragazza alla pari, è tornata indietro con qualche tatuaggio e due certezze: primo, è inutile avere paura dei ragni, anche di quelli più grossi, «basta spostarli con un pezzo di carta». Secondo, per stare bene ha bisogno delle montagne. Le sue montagne. Rientrata a Lasa, ha frequentato per un paio d’anni la scuola professionale per scalpellini. «È una scuola famosa, per frequentarla arrivano anche dall’Englandia», spiega, nel suo italiano ruvido e sorridente. Nel frattempo, continuava a cercare un lavoro che non la chiudesse in una stanza. Un giorno si è offerta in una vetreria, ma l’hannomandata via in malo modo: mica è un lavoro da femmine, questo. Finché sua mamma non le ha mostrato un annuncio del Vinschger, il quotidiano locale. La Lasa marmo, che produce uno dei marmi più puri del mondo, il preferito dell’architetto Calatrava, cercava personale. «Al telefono mi hanno chiesto: lei è interessata al posto in amministrazione, giusto? Quando ho risposto che volevo andare in cava quasi non ci credevano». Al suo primo giorno di lavoro, gli altri operai hanno scommesso che non avrebbe retto tremesi. Un anno e mezzo dopo Annalena è ancora in galleria, col cappuccio della felpa infilato sotto il casco e gli occhi incollati alla pietra, ché qui se ti distrai rischi la pelle. I suoi colleghi ogni tanto la chiamano mädel, “ragazzina”, «ma mi aiutano e mi hanno insegnato tutto quello che so. È come avere 16 papà». Quando alle 5 del pomeriggio scende giù dalla montagna, per lei comincia un’altra giornata. Va ad arrampicare sul Martello, oppure si siede al pianoforte e suona «le canzoni tristi», quelle che la rilassano. E quando non c’è nessuno che l’ascolta, canta. «Anche nella cava, quando si spengono le macchine. Sembra di essere in una cattedrale». Di tutte le belle cose che fanno i suoi coetanei in città non le importa nulla: Annalena non beve alcol, usa i social controvoglia e la discoteca le fa venire il mal di testa. «Amo stare da sola e lavorare all’uncinetto, così posso pensare. Oppure chiacchierare davanti al camino con Romina, la mia coinquilina, mentre beviamo una tisana».
Dalla Val Venosta, spiega, i giovani scappano appena possono. La Svizzera è vicina e si guadagna il doppio, e a Vienna c’è una specie di colonia altoatesina. «Questa è una terra dura, c’è chi ti guarda storto se parli italiano, se sei gay. A me non pesa, perché penso che a essere chiusa è solo la testa di certa gente, mica la mia. Ad altri sì». Dello stipendio da cavatrice, che sfiora i 2 mila euro, mette da parte tutto quello che riesce. Il suo sogno è quello di comprarsi una casa. Anzi, un container. «Vorrei metterlo in mezzo a un prato e vivere lì». Il container può essere anche grigio, assicura, tanto lo riempirà di fiori. L’importante è che intorno ci sia silenzio, così può suonare quanto le pare. E che alzando lo sguardo, la sera, si vedano solo le stelle. «Per me, questa è la libertà».
Una ludoteca, anzi un Centro per la cultura ludica, dove anziani e bambini giocano insieme. A Finale Ligure un progetto per prevenire il disagio sociale. Divertendosi
Da zero a 99 anni: il paese dei giochi senza età Una ludoteca, anzi un Centro per la cultura ludica, dove anziani e bambini giocano insieme. A Finale Ligure un progetto per prevenire il disagio sociale. Divertendosi
di Giulia Destefanis
C'era una volta "sali e tabacchi" Una storia d'Italia raccontata attraverso l'evoluzione della tabaccheria: a Roma apre un museo che spazia tra chinino e brillantina, schedine e monopolio di Stato
Camilla Romana Bruno
Tra monti, pecore e pastori: storia di un filo di lana
Da risorsa a scarto: il prodotto della tosatura è ormai considerato un rifiuto speciale. Ma in Val Camonica la filiera della fibra naturale si trasforma in arte
"Prendi solo fotografie e lascia solo impronte". La frase che ai più può sembrare senza logica
per gli urbexer di tutta Italia è come un vero e proprio mantra: "Vuol dire che il luogo deve essere amato e rispettato e nulla va toccato o portato via".
In sintesi da https://ascosilasciti.com/it/chi-siamo/
ASCOSI LASCITI, IN “PAROLE POVERE”
Il progetto Ascosi Lasciti nasce nel 2010, dall’occhio del regista ed autore TV Alessandro Tesei (fondatore). Il suo tema principale è l’abbandono di infrastrutture, trattato in tutti gli aspetti. Si sviluppa grazie al lavoro di squadra di un team ramificato sul territorio, coordinato da Davide Calloni (amministratore), e prende la sua forma finale grazie alla sinergia tra gli esperti web di Passionlab e Subwaylab. Nel 2020 il progetto si fa associazione culturale grazie all’impegno di Cristiano La Mantia (presidente) e dei soci fondatori (E. Bai, M. Montaperto, L. Licciardi et al.). A capo della parte editoriale, i due redattori (F. Coppari, G. Imburgia) che si avvalgono del supporto di un gruppo di reviewers. Le pagine “social” del progetto sono tra le più seguite in Italia ed in Europa su questo tema. I responsabili (M. D’odorico, L. Rosa, M. De Leonibus, V. Genco e A.Ciampalini et al.) ne curano quotidianamente i contenuti fotografici e divulgativi. Tra gli autori più attivi spiccano i nomi, in ordine di maggior apporto, di J. Della Giacoma, V. Fanelli, E. Macchiavelli, C. Catinello, C. Goffi.; senza contare la preziosissima collaborazione con i gruppi nazionali di Tesori Abbandonati, PLAI, tra i più seguiti in Italia, e i gruppi territoriali più attivi di Derive Suburbane, Obiettivo Uno, Liotrum e Ascosi Lasciti Marche. Il collante di un gruppo così numeroso? L’amore per l’urbex (esplorazione urbana), volta alla riscoperta di luoghi dimenticati.
"Non si tratta solo di fare l'intruso in un mondo che non possiamo più vedere - raccontano esploratori urbani esperti - Ma è anche riportare in vita attraverso fotografie quei posti che ormai sono stati dimenticati da tutti". Negli ultimi anni in Italia sono nati sempre più gruppi urbex con l'intento di documentare tutti quei posti abbandonati che ci sono nel nostro paese. Tra i primi a portare avanti questa professione c'è ascosi lasciti: un progetto nato per "condividere le esplorazioni e le storie dei più suggestivi luoghi nascosti in Italia e nel mondo - raccontano gli autori - Oltre i luoghi abbandonati, vogliamo documentare attraverso i nostri reportage ciò che ruota attorno alle città fantasma, i relitti e i sotterranei. L'intento è quello di prendere coscienza dell'immenso patrimonio immobiliare sommerso ma anche quello di raccontare aneddoti e di informare
Le elezioni finiscono 22 a 22, ora ècaccia al “traditore”
I DUECANDIDATI SINDACO HANNO LO STESSO NUMERO DI VOTI: ORA DEVONO SCOVARE E CONVINCERE L’UNICA SCHEDA BIANCA Un pugno di case e il mini municipio
Oggi
Dall’inviato Andrea Greco
Quarantaquattro voti divisi per due col resto di una scheda bianca. A Rondanina, il più piccolo Comune della Liguria, a mille metri di altezza e a mille curve da Genova, gli elettori si sono divisi tra i due candidati: 22 voti li ha presi l’ingegnere Gaetanino Tufaro, altrettanti l’ex vigile del fuoco Claudio Casazza. A fare da ago della bilancia l’unica scheda bianca, il 45 esimo voto rimasto in sospeso, a cui tutti in paese cercano di dare un volto: la posta in gioco è alta, domenica 16 i rondanelli (così si chiamano gli abitanti) dovranno andare a votare di nuovo e in caso di parità anche al ballottaggio la legge prevede che conquisti la carica di sindaco il più anziano tra i contendenti, in questo caso Tufaro. «Sono ottimista perché, come certi turni di Champions, posso contare su due risultati utili su tre. A dire il vero pensavo di vincere subito: ho già fatto il sindaco del paese, essendo stato il direttore tecnico dell’ospedale Gaslini di Genova ho capacità amministrative e avevo un vero programma. Poi a ribaltare i pronostici sono state le parentele, e le divisioni». Le parentele? «Ma certo: in paese gli elettori reali sono una cinquantina, molti però vivono lontano e hanno solo la residenza. I 22 voti del mio avversario vengono da tre famiglie del paese, di cui una esprime ben nove voti: praticamente da soli hanno il 20 per cento. I miei consensi invece credo di averli raccolti tra chi vive e lavora fuori. Gente più aperta, che qui definiscono con diffidenza “i villeggianti”». L’altro candidato, ClaudioCasazza, era anche lui convinto di vincere: «Avevo contato e ricontato i voti chemi avevano promesso, avrebbero dovuto essere 26 o 27, e mi avrebbero assicurato una vittoria piena, e invece alla fine qualcuno non ha mantenuto la parola». Chi? «Qualcuno dei “villeggianti” deve aver cambiato idea». Intanto tra il municipio presidiato da Francesca, l’unica impiegata, e il bar, trattoria e posto telefonico pubblico Cresci, l’unico esercizio commerciale del paese, cresce l’attesa. La figlia della titolare, mentre serve ai tavoli piatti di cinghiale in umido racconta: «La cosa positiva è che domenica sapremo subito chi ha vinto, a fare lo spoglio ci mettiamo un quarto d’ora», ma la sintesi politica più lucida la dà una signora di passaggio: «Il ballottaggio? È una fortuna, almeno domenica abbiamo qualcosa da fare...».
poiché non capisco il perchè blogger non legge il codice embed dei video li potete trovare sull'url dell'articolo
Le combattenti furono 35mila, altre 20mila ebbero funzioni di supporto. E poi le migliaia di arrestate, torturate, condannate dai tribunali fascisti. Eppure il contributo delle donne nella battaglia per la libertà è stato a lungo lasciato ai margini del racconto. "Ci chiesero di non sfilare" ha raccontato tempo fa Lidia Menapace. Ilfatto.it ha intervistato 4 di loro: Mirella Alloisio, Francesca Laura Wronowski, Teresa Vergalli e Ida Valbonesi. Storie diverse, spirito comune: "La comunanza di sentimenti fra persone che non si conoscevano, ma che si riconoscevano come appartenenti alla stessa idea di umanità”
“Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza. Abbiamo rischiato come gli uomini ma allora in tanti ci guardavano male. E il giorno della Liberazione ci chiesero di non sfilare”. Lidia Menapace, nome di battaglia Bruna,
partigiana, parlamentare, pacifista, morta nel dicembre scorso a 96
anni, è stata una delle partigiane che hanno partecipato alla guerra di
liberazione. E’ stata una delle più note. Ma per troppo tempo le donne
della Resistenza sono state relegate nel ruolo di staffetta quasi come
se quel compito non fosse rischioso quanto combattere. “Il loro
contributo – spiega a ilFattoQuotidiano.it la storica Isabella Insolvibile – è stato disconosciuto. Purtroppo a volte sono stati gli stessi partigiani
a non dare il giusto peso a quanto avevano fatto le donne per
acconsentire la rivoluzione”. Chi conosce bene la Resistenza, tuttavia,
sa che le donne ebbero un ruolo fondamentale: “Intanto – sottolinea Insolvibile – per fare la staffetta serviva un gran coraggio ma dobbiamo ricordare che alcune di loro comandarono le formazioni partigiane; altre si occuparono dei posti di cura e non poche combatterono alla pari degli uomini”. Secondo i calcoli dell’Anpi le partigiane “combattenti” furono 35mila, altre 20mila
ebbero funzioni “di supporto”. Tra loro ci furono 16 medaglie d’oro e
17 medaglie d’argento al valor militare, 512 commissarie di guerra.
Oltre 4600 furono arrestate, torturate e condannate dai tribunali
fascisti. Una di loro era Francesca Del Rio, nome di battaglia Mimma, staffetta della 144esima Brigata Garibaldi. I nazisti la sottoposero a indicibili torture, sevizie, mutilazioni nella caserma di Ciano d’Enza (ora nel Comune di Canossa). Eppure non disse mai i nomi dei compagni di battaglia. Riuscì a fuggire in modo rocambolesco e a raggiungere il comando partigiano. Era incinta e, dopo un parto difficile, perse il bambino. E’ morta nel 2008: due giorni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella le ha conferito la medaglia d’oro al merito civile come “mirabile esempio di eccezionale coraggio e di straordinario impegno per i valori della libertà e della democrazia”.
Mirella, la prof di francese: “Senza di noi la Resistenza non sarebbe stata possibile”
Mirella Alloisio,
96 anni, ex professoressa di francese di Perugia, quella storia, che è
anche la sua, la racconta così: “Son entrata nella Resistenza perché non ne potevo più di guerre.
A 16, 17 anni, una ragazza doveva vivere perennemente con il
coprifuoco, non poteva andare a casa di un’amica. Oggi siamo travolti
dalla pandemia ma non possiamo paragonarla a quel periodo che abbiamo
vissuto: la guerra non è stata un fenomeno naturale ma è stata voluta da
Mussolini e se tutti fossero stati antifascisti non si sarebbe fatta”. In battaglia la chiamavano Olga: “Facevo parte della segreteria del Comitato regionale ligure. Avevo 17 anni.
Eravamo in tre: una compagna di 25 anni che stenografava e trascriveva
le riunioni; un ragazzo di 23 che aveva il compito di cercare le sedi
dove il Comitato si riuniva ed io che dovevo tenere i collegamenti con i
comitati di liberazione periferici. Andavo da una parte all’altra della provincia
a piedi, in treno o in tram se giravo in città. Dovevo portare le
direttive e loro mi davano altre informazioni. Bisognava essere
estremamente puntuali”. Mirella ha fatto di tutto: si è presa cura dei
feriti; è stata addestrata a sparare “anche se per fortuna non ce n’è mai stato bisogno”. “Senza le donne – sottolinea – la Resistenza non sarebbe stata possibile”.
All’inizio lei e i suoi compagni non davano nell’occhio. “Quando si
sono resi conto di chi eravamo – racconta – ad ogni arresto c’era la
tortura. Ancora oggi non ci posso pensare”.La
voce di Mirella si fa più fioca. Qualche attimo di silenzio e poi
riprende con un messaggio a chi vive l’oggi: “Durante la Resistenza
abbiamo fondato i gruppi di difesa della donna. Avevamo iniziato a
pensare al domani: all’avere gli stessi diritti degli uomini;
a poter accedere a tutte le carriere. Nel 2021 non siamo arrivati
ancora al punto che desideravamo. Ecco perché credo che ogni donna ma
anche ciascun uomo debba credere nel valore della partecipazione”.
Francesca Laura, la nipote di Matteotti: “Fascismo? E’ ovunque ci sono ignoranza e violenza”
A Milano vive Francesca Laura Wronowski, ex partigiana di 97 anni, nipote di Giacomo Matteotti,
da mercoledì insignita dell’Ordine al Merito della Repubblica con il
grado onorifico di Commendatore. “Come donna, devo ringraziare un’altra
donna, mia madre, meravigliosa e combattiva cognata di Giacomo Matteotti. Trascinava alla lotta: mi ha insegnato l’intransigenza e la coerenza,
anche a costo dell’emarginazione, come è successo alla mia famiglia
durante gli anni del regime fascista. Io sono combattiva per
temperamento, ragione per cui la Resistenza in montagna mi è risultata
affine. Come donna, ho sempre ricevuto il massimo rispetto da tutti i combattenti di Giustizia e Libertà con i quali ho condiviso la lotta antifascista e antinazista, partecipando su un piano di parità ad azioni militari, come la liberazione dei prigionieri ebrei dal campo di Calvari, nell’entroterra di Chiavari, dove operavamo”.Kiki,
questo era il suo nome di battaglia, ricorda così il suo 25 aprile:
“Ero stata inviata, insieme a due uomini della mia Divisione, a Genova, con la missione di prendere possesso di un albergo
per farne il nostro quartier generale. Ricordo i pensieri e le
preoccupazioni di quel giorno (la città era ancora in mano ai tedeschi) e
ricordo, giunti alla periferia industriale della città, un’altra donna, una partigiana jugoslava, che sorridendo entusiasta volle regalarmi a tutti i costi il suo cinturone e una piccola rivoltella a tamburo. Un episodio che mi è sempre rimasto impresso, per la comunanza di sentimenti fra persone che non si conoscevano, ma che si riconoscevano come appartenenti alla stessa idea di umanità”.
Ad
accumunare queste donne è la loro lucidità, il desiderio di essere
ancora partecipi, presenti nella storia: “Ad una ragazza di 12-13 anni
vorrei dire che il fascismo è ancora attuale. Non sul piano politico,
ovviamente, ma come forma mentis. Dico spesso a mio figlio, anche se non è più un giovane, che il fascismo si può sintetizzare in due parole: ignoranza e violenza, laddove la seconda è figlia primogenita della prima”.Kiki ha le idee chiare: “Rivedo l’espressione della mentalità
fascista, che fu all’origine dell’assassinio di mio zio Giacomo
Matteotti il 10 giugno del 1924, ogniqualvolta ho notizia di un episodio
di bullismo, ogni volta che un disabile o un senzatetto vengono aggrediti senza motivo, ogni volta che una donna viene picchiata o uccisa per affermare il proprio dominio. Tutti questi comportamenti esprimono lo stesso nichilismo
frutto di ignoranza che dette vita e animò il fascismo nei suoi
comportamenti abietti, al di là degli scopi politici che Mussolini ed i
suoi si proponevano. Il fascismo è quindi sempre vivo nella società
contemporanea, e perciò deve essere altrettanto vivo l’antifascismo”.
Teresa, la maestra di storia: “Il mio pensiero va a Francesca Del Rio, ecco chi era”
E poi c’è chi come Teresa Vergalli, classe 1927, in montagna ha insegnato la storia ai partigiani. Maestra di scuola primaria di Bibbiano
non ha mai smesso, dopo la Liberazione, di raccontare quello che
avevano fatto e ancora oggi ama parlare ai bambini. Una lezione l’ha
tenuta anche questa settimana ai ragazzi della quinta primaria di Madignano (Cremona). Oggi è tra gli ospiti della maratona organizzata da Casa Cervi alla quale partecipano anche don Luigi Ciotti, GianfrancoPagliarulo, Diego Bianchi
e tanti altri. “In questi giorni posso raccontare non tanto di me ma di
un’altra donna che ha fatto la staffetta ed è stata arrestata e
torturata per un mese dai fascisti: si chiamava Francesca Del Rio, nome di battaglia Mimma”. Martedì sera Teresa ha avuto la notizia che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
ha conferito a Francesca la Medaglia d’oro al merito civile. “Lei è
morta nel 2008 ma io ci tenevo a questo riconoscimento. Mimma era
riuscita a fuggire nella notte dalla sua prigione ferendosi e congelandosi i piedi
al punto da non poterli più usare ma non si è mai arresa, ha voluto
continuare la sua missione nella Resistenza facendosi portare in
montagna un cavallo con il quale poteva proseguire a fare la staffetta.
E’ rimasta famosa come la partigiana a cavallo”. La maestra Vergalli riassume così il ruolo delle donne durante quegli anni: “Noi facevamo da radio, da telefono, da guardia del corpo”
Ida, la sarta di Forlì: “Noi abbiamo lottato per un futuro migliore. Ma serve ancora lottare”
Il 25 aprile tutte queste donne lo vivranno come se fosse quello del
1945. Lo si capisce dall’emozione che si intuisce nel parlare con Ida Valbonesi, sarta di Forlì, nome di battaglia Idina:
“Ho 97 anni ma ho ancora le idee chiare. Faccio fatica a seguire tutto
quello che succede nel mondo ma ai giovani dico: state attenti, guardate
il vostro futuro perché è in pericolo. Noi abbiamo lottato per darvi un avvenire migliore. Non è successo. Serve ancora lottare”.
Ida ricorda la fratellanza e la vicinanza, l’amore che c’era per la
libertà: “La gente ci aiutava perché non voleva più la guerra. Per
arrivare al 25 aprile abbiamo trovato la forza per unirci. Oggi dobbiamo
ritrovare quello spirito. Abbiamo lottato per avere la libertà
ora dobbiamo difenderla fino in fondo”. Storie di vita che affondano le
radici in un passato che continua a essere vivo in queste donne. Tutte
sanno che ci sarà un giorno in cui non potranno più raccontare, essere
presenti in piazza, parlare ai giovani, ma ascoltandole si ha
l’impressione che si sentano ancora le ragazze di ieri.
Tutti i video fanno parte del Memoriale della Resistenza, portale
dell’Anpi all’indirizzo noipartigiani.it, frutto del lavoro di raccolta
di testimonianze di numerosi volontari coordinati da Laura Gnocchi e
Gad Lerner. Il Memoriale è raggiungibile a questo indirizzo.