Una classe di 28 ex alunni di terza media del 1964 della scuola media statale Eugenio De Carlo di Vernole il 26 giugno scorso si è data appuntamento. Stessa scuola, stessa classe, diplomati nel 1964, si sono rivisti nel 2024 . Si tratta di una classe, la III A composta da soli ragazzi, che su idea di Fausto Rizzo (uno degli ex studenti) ha deciso di rivedersi, in nome di quella amicizia indissolubile. Fra loro spicca anche la presenza di Pantaleo Corvino, direttore sportivo del Lecce, un pezzo di storia del calcio italiano.
I ragazzi all’epoca frequentavano la scuola a Vernole, ma provenivano dai paesi vicini. Tutta la classe si è incontrata proprio in quella che era la scuola, nella loro aula, dove attualmente c’è la sede di una associazione. Nel giardino c’era ancora la pertica.
«Per noi l'amicizia è qualcosa di sacro - spiega Fausto, oggi docente - e con questo spirito abbiamo voluto rivederci, dedicando un pensiero a chi non c'è più. Ci siamo lasciati nel 1964 e adesso siamo uomini, in pensione o realizzati, c'è chi è diventato medico chi direttore di banca e tanto altro ancora. Certo non potremo mai dimenticare quei bellissimi anni, ai nostri tempi le classi erano divise per sesso, noi maschi dovevamo indossare obbligatoriamente camicia e cravatta. Erano i tempi in cui pur non avendo molto, ci divertivamo. Vernole era l’unico paese dove c’erano le scuole medie e noi ci spostavamo in corriera, perciò prima di entrare in classe facevamo una partita con un pallone di stoffa». Insomma la classe 1964 correva sui binari del futuro, che aveva come unico denominatore il filo dell'amicizia. E quanti ricordi: dalle partite in cortile all'insegnante più giovane che aveva preso la patente e acquistato la macchina, ma che non sapendo fare marcia indietro faceva tutto il giro dell'isolato per poter tornare a casa. Oppure ancora qualcuno ricorda come copiare un compito fosse un richiamo a migliorare, perché l’originale era peggiore del copiato. Dopo aver trascorso un po’ di tempo insieme tutta la classe si è poi trasferita in un ristorante per poter condividere il pranzo, dove sono stati raggiunti da monsignor Mauro Carlino per la benedizione. «Ci siamo ritrovati - dice uno dei partecipanti - dopo più di mezzo secolo e come per incanto siamo tornati a vibrare, con amicizia, complicità e fratellanza che scandivano i giorni. Dobbiamo essere orgogliosi di aver vissuto finora la nostra vita tenendo sempre la barra dritta e di aver trasmesso quei valori che come ricordava Pantaleo Corvino hanno accompagnato la nostra vita e che abbiamo trasmesso ai nostri figli, cresciuti come noi». Dunque emozioni su emozioni che si sono concluse con un attestato honoris causa a ogni alunno della classe terza sezione A, che ha conseguito il diploma di scuola media il 30 giugno 1964 e dopo sessant'anni invece riceve la laurea di “Amico per sempre”.
La foto ritrovata del soldato Usa. "Quella sono io 79 anni fa"Ermina Zappoli aveva 14 anni quando nel 1945 fu ritratta da Hans George. "Con me c’erano mia sorella e mia zia. Ora l’immagine finirà in un museo"
Ermina Zappoli (a destra) mostra la vecchia foto (a sinistra) scattata da Hans George
Modena, 31 maggio 2024 – Una fotografia scattata 79 anni fa quando la Seconda guerra mondiale era ormai finita, è arrivata in Italia dagli Usa e,
con grande sorpresa, sono state individuate le tre persone ritratte. Si
deve al ricercatore Andrea Sabattini, di San Cesario, e ai colleghi
dell’associazione Green Line II, se si è giunti a questo risultato. La
foto la scattò, dopo il 20 aprile 1945, il soldato statunitense Hans George,
medico della compagnia B della 10ª divisione da montagna, morto nel
’65. Faceva parte di un album di quando, arruolatosi volontario, venne
in Italia a combattere. L’ha trovata per caso la signora Dana Miller
nella soffitta dei nonni materni, amici di Hans.“Toh, quella sono io, era appena finita la guerra”, ha esclamato quando ha visto l’immagine Ermina Zappoli, ora residente a Porretta Terme.
Aveva 14 anni allora e abitava con la famiglia alla Costa di Affrico di
Gaggio Montano. “Ho subito riconosciuto mia sorella Anna e la zia
Imelde Verardi – dice –. La foto fu fatta a casa di zia Imelde a Labante di Castel d’Aiano.
Eravamo appena ritornati dallo sfollamento. In casa nostra trovammo i
soldati brasiliani, mentre dalla zia c’erano gli americani. “Andate a
vedere se sono ancora tutti vivi“, ci disse nostra madre. Non avevamo
più notizie da mesi. Per fortuna non mancava nessuno”. Ermina, che
abbiamo incontrato a Porretta, ha espresso un
desiderio: “Chiedo al Signore almeno un altro anno di vita per poter
vedere il museo che stanno allestendo a Castel d’Aiano i ragazzi di
Green Line II. Vi sarà anche la foto ritrovata. Ma merito proprio così
tanto?”.
Articolo che mi coinvolge personalmente perchè ho vissuto l'esperienza di un familiare , mia nonna paterna malata malata di tale malattia per la quale all'epoca non c'erano cure e le nuove tecnologie per bloccare ( già le: telecamere , le vhs e i registratori analogici per lei la mettevano in crisi figuriamoci se fosse viva ancora oggi con il digitale ) i suoi ricordi .
Una figlia cattura i ricordi del padre, malato di Alzheimer e quei momenti diventano il luogo in cui si ritrovano, come quando lei era bambina e lui la faceva addormentare. Quella testimonianza sulla malattia è diventata il podcast “Smemorati”, una storia preziosa che ci ricorda quanto sia importante ascoltare le persone che amiamo . Questa è la storia di una figlia che, durante il lockdown di quattro anni fa, decide di intervistare ogni pomeriggio il suo vecchio padre, quasi novantenne, per tenerlo vivo, per non perdere il filo di un rapporto reso impossibile dal virus e dalle chiusure. È la storia di una malattia, l’Alzheimer, che porta via, giorno dopo giorno, ricordi e coscienza. È la storia di come la voce possa lasciare traccia e diventare una memoria potente e indissolubile.
«È iniziato tutto nel 2020, in piena pandemia. I miei genitori che vivevano a Bergamo – la provincia più colpita nella prima ondata di Covid – per fortuna erano in Liguria a svernare. Mia madre era preoccupata: “il Giulio” era più taciturno del solito, forse depresso, per via della clausura, a cui tutti eravamo costretti. Oggi so che si chiamava apatia ed era uno dei sintomi della sua malattia». A raccontare è Anna Maria Selini, giornalista e scrittrice, e “il Giulio” (rigorosamente con l’articolo come lo hanno sempre chiamato al paese) è suo padre, nato a Calcinate nel 1932. «In quel periodo mi ero fissata di voler scrivere biografie e così, per esercitarmi e al tempo stesso distrarre mio padre, ho deciso di intervistarlo online. Ci davamo appuntamento a una certa ora – mia madre lo segnava sull’agenda – e anche se qualcuno lo aiutava a collegarsi, ogni volta dovevo rispiegargli tutto. Mio padre era anche un po’ sordo e metà del tempo lo passavamo io a ripetere le domande, che non aveva sentito, e lui le risposte, che dopo pochi secondi dall’averle pronunciate aveva già dimenticato».Perché Giulio aveva l’Alzheimer. Il primo allarme era scattato nel 2015, quando si era allontanato e per ore aveva vagato per la città in stato confusionale: non sapeva dove fosse, nonostante conoscesse bene la zona. Poi si era ricordato di avere nel portafoglio il numero di cellulare della moglie e una persona che lo aveva notato in difficoltà lo aveva aiutato a chiamarla. La moglie era stata la prima ad accorgersi che le sue dimenticanze e una certa svagatezza non erano più normali nemmeno per la sua età, ma qualcosa di più, e di diverso.«La diagnosi di Alzheimer per mio padre è arrivata, per fortuna, ad età avanzata, a 85 anni. Per fortuna, perché sono le forme precoci solitamente le più violente e veloci. Mio padre era a uno stadio moderato della malattia e non ha mai necessitato di ricoveri o trattamenti ospedalieri. Se non alla fine». Il Giulio è mancato il 10 gennaio di quest’anno.Anna Maria però aveva avuto l’intuizione e la cura di ascoltarlo a lungo, di raccogliere le sue storie e i suoi ricordi in quel lungo viaggio nel passato che avevano fatto insieme. All’inizio erano memorie familiari, poi aveva cominciato ad andare indietro nel tempo: «Raccontava di personaggi famosi conosciuti quando era bambino. Da una specie di Maciste, finito sulla “Domenica del Corriere” per aver sollevato la bocca di un cannone, al capo fascista della zona cacciato da mia nonna a mestolate. Dal principe Junio Valerio Borghese (personaggio storico della destra eversiva italiana, con Mussolini a Salò e poi organizzatore di un tentativo di colpo di Stato nel 1970) che aveva visto chiuso nello stanzino dell’osteria di famiglia, a un conte morto in carcere per le percosse. Ma come potevo credergli? Negli ultimi anni era diventato una specie di amabile e scaltro bugiardo: non diceva quasi mai “non mi ricordo”, aveva sempre una spiegazione e un racconto, spesso irreale, che lui, però, sapeva rendere estremamente credibile».
Inizialmente Anna Maria pensa che quelle storie siano frutto della fantasia, d’altronde la memoria del papà si stava deteriorando in modo veloce e costante: «Mio padre non riconosceva la stagione in corso, anche se per indovinarla bastava guardare fuori dalla finestra. Spesso non ricordava i nomi dei nipoti e a volte anche di noi figli. Il giorno del mio matrimonio, dopo avermi accompagnata all’altare, ha chiesto chi si fosse sposato. Era difficile convivere con i buchi della sua memoria, specie per mia madre. Io invece ho deciso di infilarmi in quei buchi. Se nel presente mio padre sembrava evaporare, nel passato, invece, tornava forte. E allora era lì che lo portavo».
Il padre insiste con le sue storie, e ogni volta aggiunge particolari, così Anna Maria decide che vale la pena scoprire se siano vere: «Mi sono messa a spulciare gli archivi, sono finita nelle cantine, sono andata a caccia di novantenni, sono finita in un convento di suore e al cimitero». Ma vuole anche capire la traiettoria della malattia, le sue conseguenze, sapere cosa sta succedendo nella testa di suo padre, così parla con medici, associazioni per i familiari dei malati di Alzheimer e psicologi. Raccoglie tantissimo materiale ma non sa cosa farne, all’inizio pensa di scriverne un racconto, ma non trova la forma giusta: «Ho provato con la sceneggiatura, l’autobiografia e anche le memorie familiari, ma c’era sempre qualcosa che non andava». Poi si iscrive alla prima edizione della Chora Academy (il corso per imparare a fare i podcast) e riesce a entrare: c’erano 300 posti ma le richieste erano più di 4mila.Mentre frequenta lezioni e laboratori le viene l’illuminazione: al centro del racconto ci deve essere la voce del Giulio e la magia che sapeva evocare, così al termine dell’Academy presenta il suo progetto, la storia del viaggio nella memoria di suo padre. Passa le selezioni e la sua serie podcast inizia così a diventare realtà.
Ma il suo lavoro cresce e da fatto privato diventa un lavoro collettivo, capace di raccontare l’Alzheimer e il dramma dei malati e delle loro famiglie. Lo fa con delicatezza, persino con ironia e leggerezza. Quando ho ascoltato per la prima volta questo podcast, che si chiama “Smemorati”, ho avuto la conferma di come la capacità di mettere le persone al centro renda possibile affrontare ogni tema, anche il più difficile e complesso. E lo ha fatto talmente bene che la serie ha trovato anche uno sponsor – GE Healthcare –, quello di un’azienda che cercava il modo giusto per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla malattia.
Ci si affeziona al Giulio, gli si vuole bene, e grazie al lavoro di ricerca della figlia comprendiamo cos’è la malattia e come funziona. Il rapporto tra loro due, durante le interviste, è meraviglioso: «Era il mondo in cui io e lui ci incontravamo, un tempo tutto per noi, un po’ come quando da piccoli la sera i genitori ci raccontano le storie prima di dormire».Mentre Anna Maria lavorava a Smemorati, Giulio è mancato, e questo ha fatto sì che si buttasse ancora di più nel podcast: «Volevo che il mondo conoscesse il Giulio e volevo tenerlo qui. La scrittura è stata una prima fondamentale elaborazione del lutto e Smemorati per me è la più bella conclusione possibile del rapporto con mio padre, un rapporto che l’Alzheimer – anche questo sembrerà strano – ha rafforzato.È come se il Giulio fosse diventato un suono, per me unico, ma allo stesso tempo capace di arrivare ed emozionare tanti.Questa storia ci ricorda quanto sia importante raccogliere memorie, ricordi, fare domande e ascoltare. Ogni volta che parlo nelle scuole dico ai ragazzi di ricordarsi che i loro nonni non saranno eterni, che non li devono dare per scontati, ma farsi raccontare le loro vite. Un patrimonio che capiranno nel tempo quanto sia prezioso. «La cosa più bella – conclude Anna Maria – me l’hanno detta i miei nipoti, mi hanno ringraziato per avergli regalato per sempre la voce del nonno. Non ci avevo pensato, ma un podcast è anche questo».
«Difficile ricostruire tutte le prove ma in famiglia si è sempre detto che apparteneva a lei» Forse quel cimelio apparteneva all’automobile dell’amante del Duce Dopo Piazzale Loreto l’acquisto all’asta e lo sbarco della vettura in Sardegna
Si è arrampicato su una scala, ha fatto un buco nel controsoffitto e poi
ha cominciato a infilarci la testa e
le mani. Giovanni Buscarinu, forte del
suo passato da muratore, è un tipo abituato a farsi le cose da solo. «L’idea era
quella di creare una piccola soffitta dove conservare alcuni attrezzi – racconta –. Ma a un certo punto ho trovato
una lastra di ferro arrugginito. L’ho tirata fuori e mi sono reso conto che si trattava di una vecchia targa di auto. Quindi ho preso il telefono e ho chiamato la
persona che, qualche tempo fa, mi aveva venduto la casa». Dall’altra parte della cornetta la risposta che mai si sarebbe aspettato: «Ma quella è di Claretta
Petacci! Stai a vedere che, alla fine, quella vecchia storia era vera». Certo, sembra assurdo: un pezzo dell’auto dell’amante di Benito Mussolini finito chissà
per quale motivo nel buio soffitto di
una casa nel centro di Nulvi. Roba da
non credere. Ma forse qualcosa di vero
c’è, anche se per ora resta ancora tutto
avvolto nel mistero. Sono i vecchi ricordi e le testimonianze orali
un immagine di claretta petacci durante una vacanza
ad alimentare un piccolo giallo storico che sembrava ormai essersi perso come un fantasma tra le mura di una vecchia casa.
«Nella nostra famiglia si è sempre parlato della presenza di una Lancia appartenuta a Claretta Petacci – racconta Antonina Tedde, la donna che ha venduto la
casa a Giovanni Buscarinu –. La acquistarono mio padre e mio zio subito dopo la guerra. Poi venne venduta e non
so che fine abbia fatto. Quando morì
mio padre ero molto piccola e non ho
neanche mai visto quell’auto. E nemmeno la targa, che adesso è invece
spuntata fuori dal nulla. A dir la verità
non posso dire con certezza che quella
Lancia appartenesse in precedenza
proprio alla Petacci, ma sicuramente
in famiglia se n’è sempre parlato. È una
storia che è stata tramandata. Ora sarebbe bello se qualcuno riuscisse a scoprire la verità». Il numero di targa trovato a Nulvi è questo: GE 18323. E l’epoca
è quella fascista. Sulla lastra di ferro, infatti, c’è ancora il simbolo del fascio littorio.
Il ritrovamento Il tesoro in una soffitta: quasi come accade nei film. Giovanni Buscarinu, nulvese, ha da poco acquistato da Antonina Tedde
una signorile abitazione che si trova
in via Vittorio Veneto, proprio accanto al municipio del paese. Così si è
messo a fare un po’ di lavori per adattare gli spazi della casa alle sue esigenze. Alcuni giorni fa, dunque, il momento di fare un bel buco in un controsoffitto realizzato parecchi anni
fa, comunque successivamente alla
costruzione della casa. Esattamente
nell’angolo dove un tempo passava
la canna fumaria di un caminetto e
dove i vecchi proprietari avevano
creato un affumicatoio per salumi,
formaggi e ricotte. «È lì che ho trovato la targa, piegata e arrugginita. È stato un caso – racconta ancora incredulo Giovanni Buscarinu –. Era stata sistemata chissà quanti anni fa come
paratia, un modo per evitare che i topi raggiungessero i prodotti conservati nell’affumicatoio». Appassionato di ogni oggetto che abbia una storia da raccontare, Buscarinu ha quindi avvisato Antonina Tedde per annunciare il ritrovamento e anche per
soddisfare la sua curiosità. «Ho pensato che potesse significare qualcosa
per la sua famiglia – racconta –. E così
mi ha raccontato della storia di Claretta Petacci. Ci tengo a sottolineare
che non terrò la targa per me, la restituirò a lei».
Una vecchia storia Antonina Tedde, 66enne, che oggi
non vive più a
Nulvi, quando il padre Damiano morì aveva soltanto 4 anni. «So che lui,
insieme al fratello Giovanni Tommaso, acquistò una Lancia dopo la guerra. Forse all’asta o comunque in una
fiera in continente» racconta la donna. I fratelli Tedde erano dei commercianti e non se la passavano male. Però, non sapevano guidare. «Infatti
per un periodo hanno anche avuto
un autista – dice Antonina –. Credo
che acquistarono l’auto un po’ per sfizio, quasi uno schiribizzo. Poi la Lancia venne presto rivenduta, io infatti
non l’ho mai vista e oggi non è rimasto nessun documento. La targa, invece, evidentemente è rimasta a casa
ed è stata quindi messa in quella soffitta. Non se sapevo nulla. In famiglia, comunque, alcuni parenti mi
hanno sempre detto che quella vecchia Lancia era appartenuta a Claretta Petacci. Ma non ho mai avuto la
certezza di ciò. A dir la verità ci ridevo
su, mi sembrava una fantasia. Allo
stesso tempo, però, potrebbe anche
essere vero. Chissà. Ora che nella nostra vecchia casa è stata trovata una
targa, per giunta con il simbolo del fascio, si riaccende la mia curiosità». Almeno sul web
non sembra esserci traccia di una
Lancia con il numero della targa trovata a Nulvi. Ma non è da escludere il
fatto che l’auto acquistata negli anni
Quaranta dai fratelli Tedde fosse stata in qualche modo utilizzata dai Petacci, magari negli anni Trenta, magari per un breve periodo, per poi finire
all’asta dopo la caduta del fascismo.
È abbastanza nota, invece, la storia
che riguarda una fiammante Lancia
modello Astura, però con targa vaticana e quindi non con alle spalle
quella trovata a Nulvi. Un’auto su cui si
trovava a bordo tutta la famiglia Petacci quando, nell’aprile del 1932,
lungo la strada che da Roma porta a
Ostia, venne sorpassata da una Alfa
Romeo 6C1750 Gran Turismo rossa
con al volante lo stesso Benito Mussolini. Dopo qualche scambio di occhiate e sorrisi, Claretta Petacci sarebbe riuscita ad attirare l’attenzione del dittatore italiano, che aveva
già tempestato di lettere di ammirazione. Dopodiché i due si incontrarono e Claretta Petacci divenne presto
la giovane amante di Mussolini, che
un altra foto della Petacci
era da un pezzo sposato con Rachele
Guidi. Era una delle tante relazioni
portate avanti dal capo del fascismo:
una storia comunque duratura e profonda che si concluse con una raffica
di mitra nel 1945.Claretta Petacci, classe 1912, aveva 29 anni in meno di
Mussolini. E seguì il fondatore del fascismo fino all’ultimo dei suoi giorni.
Furono infatti fucilati dai partigiani il
28 aprile del 1945, a Giulino di Mezzegra, in provincia di Como. E questo
dopo una ultima notte passata insieme, piantonati dai partigiani che, solo qualche ora prima, avevano catturato Mussolini mentre cercava di fuggire in Svizzera travestito da soldato
tedesco. Si dice che Claretta Petacci
sia stata colpita dal fuoco nel tentativo di proteggere l’ormai ex Duce dai
proiettili. I loro corpi vennero infine
trasportati a Milano per essere esposti in piazzale Loreto, insieme a quelli di altri gerarchi fascisti. Esattamente nello stesso punto in cui, neanche
un anno prima, vennero fucilati ed
esposti al pubblico quindici partigiani
da https://www.corrieredellacalabria.it/2023/01/28/lintuito-del-giornalista-e-la-strage-di-piazza-fontana/
Sabato, 28 Gennaio Ultimo aggiornamento alle 20:00
LA STORIA «L’intuito del giornalista e la strage di piazza Fontana» Questa è una bella storia di giornalismo sul posto, sul campo. Il caso, qualcuno parlerebbe di fortuna o di destino, ebbe un ruolo fondamentale. Ma l’intuito e la bravura personale fecero il resto… di Emiliano Morrone
Questa è una bella storia di giornalismo sul posto, sul campo. Il caso, qualcuno parlerebbe di fortuna o di destino, ebbe un ruolo fondamentale. Ma l’intuito e la bravura personale fecero il resto. La strage di piazza Fontana favorì la carriera di un giovane giornalista, proveniente da Cosenza. Ho tirato fuori questo ricordo di mio zio Luigi Morrone, detto Gino, che dopo quella strage diventò una firma di punta del quotidiano nazionale “Il Giorno”. Buona lettura. Milano, 12 dicembre 1969. Quel giorno ero di “corta” (leggi “giorno di riposo per i giornalisti”) e, non so perché, mi ero vestito come un commissario di polizia. Camicia bianca, abito di buon taglio, cravatta scura, un bel cappotto grigio quasi nuovo. Avevo bisogno di starmene in pace: il 29 dicembre mi sarei sposato e avevo una certa fretta di compilare la lista degli invitati. Scelsi di rintanarmi nella nuova sala stampa dei carabinieri, in via Moscova, che disponeva di comodissime poltrone e, soprattutto, non era molto frequentata. Quando entrai, diedi un’occhiata al panorama: ero solo tra una pila di luccicanti telefoni appena installati e alcune poltrone in pelle assolutamente invitanti. Cominciai il mio “lavoro”, ma fui subito interrotto dal trillo fastidioso di uno dei telefoni. Non risposi, mandando mentalmente al diavolo lo scocciatore. Il telefono insisteva. Fui tentato di staccare e riattaccare. Ma poi prevalse il buon senso: poteva essere una chiamata importante. Non appena misi all’orecchio il microfono, dall’altra parte udii una voce concitata: “Capitano C. (era il comandante del pronto intervento), è scoppiata una bomba in piazza Fontana… alla banca, ma forse è scoppiata una caldaia…”. Riattaccai, in gran fretta raccolsi le mie cose e mi precipitai all’uscita. Cercai un taxi e diedi l’indirizzo, nel frattempo cercavo di riordinare le idee, di organizzarmi. Pensai: in piazza della Scala devo scendere e correre a piedi, la zona sarà transennata. Ero giovane e atletico (45 anni fa!), perciò bruciai le tappe e arrivai in una piazza gremita di gente vociante e disperata. Mi diressi con decisione all’ingresso e un poliziotto si fece subito da parte lasciandomi entrare. Il mio look assolutamente casuale e involontario aveva funzionato. Fino ad allora avevo sempre pensato che l’inferno fosse una trovata geniale per spaventare i piccoli peccatori come me, ma una volta nel salone sventrato della banca capii che l’inferno esiste davvero ed era proprio lì sotto i miei occhi sgomenti. Spaventoso, terrificante, apocalittico: cadaveri dilaniati; dappertutto, persino spiaccicati sulle pareti, sangue e pezzetti di pelle umana; gente che soffriva e urlava; una grande buca al centro del salone, coperta con dei tavolacci, mostrava tutta la violenza di una bomba ad alto potenziale appena scoppiata. E poi sirene, lettighe, medici e infermieri. Un cronista, entrato al seguito del cardinale giunto a benedire le salme, davanti a tanta atrocità, non resse e piombò a terra come morto. Anch’io ero come paralizzato. Ma il mestiere, il senso del dovere mi richiamano alla realtà: comincio a contare i corpi dei poveretti dilaniati dal micidiale ordigno, prendo con meticolosità appunti, cerco di contattare il giornale. Esco dal salone, a caccia di un telefono (quelli interni erano tutti fuori uso), lo trovo nella farmacia accanto. Il vicedirettore del giornale, informato, scende all’ingresso della sede e dirotta verso piazza Fontana tutti i giornalisti che a quell’ora cominciavano i loro turni di lavoro. “Cercate di contattare Morrone, è dentro la banca”, urlava. Ebbi qualche problema a rientrare, ma alla fine, non so come, tornai in quel maledetto salone. Quel tragico pomeriggio riuscii a rendermi utilissimo al giornale. Al caporedattore chiesi timidamente: “Non firmatemi l’elenco dei morti e dei feriti”. Riattaccò, ma il giorno dopo la mia firma fu adeguatamente collocata. Passai una notte insonne, c’era un tg regionale che dava il numero dei morti, un numero diverso dal mio. Chiamai il giornale più volte e alla fine il capocronista mi urlò: “Vai a dormire, quel tg ha un disco e ripete sempre la stessa notizia, sono esatte le tue informazioni. Buonanotte”. Io, che ero visibilmente provato, diciamo pure sotto shock, mi ero rifugiato a casa della mia ragazza, Giuliana, che da lì a poche settimane sarebbe stata mia moglie. La mia futura suocera Cristina era impegnata, con un efficace lavoro di olio di gomito, a ripulire le scarpe quasi nuove, sporche, diciamo imbrattate di sangue e tagliuzzate da tante piccole schegge di vetro. Alla fine tornarono lustre. Ma io quelle scarpe non le ho più calzate.
Mia madre, quando noi figlie eravamo ragazze, ogni tanto ripeteva di badare a non lasciare tutto d'un colpo eventuali fidanzatini. Era un consiglio di cui ebbi a capire l'importanza in seguito. Da bambine, ai miei tempi, era sempre validissima la proibizione delle caramelle dagli sconosciuti. Un nostro zio, buono come il pane ma un pò ruspante, passato il tempo delle caramelle, ci diceva di non accettare da nessuno sigarette di droga. Noi lo prendevamo
affettuosamente in giro per via di quelle sigarette, ma ognuno, in famiglia, ci mise del suo per proteggerci dai tempi difficili già da allora. Ricordo, a proposito, un fatto molto brutto, culmine di un amore sfortunato e anche breve, che portò alla scomparsa dalla faccia della terra di Anastasia, detta Sia, che, dopo una storia con un ragazzo, decise di lasciarlo. Era costui uno straniero di zone problematiche del mondo, ma questa è una nota "di colore" e basta, che non influì più di tanto sul drammatico accadimento. Sia, una giovane e brava insegnante, non voleva più essere la ragazza di quest'uomo che un giorno le sparò mentre erano in auto a parlare. Anni fa andai a trovare i genitori nella loro casa fuori città che non era nè di mare nè di montagna, ma semplicemente una di quelle case in cui si portano certe cose che non servono, le piccole collezioni di pupazzetti, le enciclopedie, qualche soprammobile di troppo, la barchetta a vela di legno da appoggiare sul vecchio televisore. In casa c'erano i genitori di Anastasia. Nel sottoscala, il babbo, in silenzio, era impegnato a sistemare uno scaffale. La madre Rosa, imbiancata nel crine, dopo le frasi di circostanza, mi raccontò del drammatico fatto pregandomi di non toccare l'argomento col marito. Me lo disse a gesti e mezze parole sussurrate con lo sguardo. Non ricordo cosa mi riferì di tutta la vicenda giudiziaria. Sapeva con certezza che ora sua figlia stava bene, nonostante la precoce e dolorosa interruzione della sua avventura umana e questo fatto le era stato riferito da una medium "specializzata" in madri disperate. Venni rassicurata sul fatto che nessuno le spillasse soldi, ma, chissà... Rosa appariva tranquilla, quasi ciarliera, come se stesse in seduta psicanalitica, come avesse bisogno di essere rafforzata nelle sue convinzioni.
Uscii dopo qualche ora, da quella casa piena di cimeli, frastornata, e, con qualche lacrima di sincero dolore, pensai alle raccomandazioni di mia madre, alle caramelle e alle sigarette di droga. Aprii il finestrino e sputai lacrime e rabbia perché anche mandare a fare in culo un fidanzato è un fatto che può decidere della vita o della morte di una donna, e a questo non riuscivo e non riesco a dare una logica o anche poco logica spiegazione.
Fu, forse, l'ultima estate pienamente estate. Le estati dei bambini, interminabili, sprofondate, azzurre, che duravano mesi e non bastavano mai. Le estati delle nonne, delle letture e delle scoperte. Anch'io ero scoperta, il mio petto minuscolo e fiorito, ma acerbo e senza sesso. Per gli adulti. Talvolta anche per me. Ma non sempre. Nell'estate del '73 ero "fidanzata" con Giorgio, da #Vercelli. Durò due lunghi anni, sapeva di ghiaccioli multicolori, di spiagge libere, di short e di labbra. Sì, le labbra avevano un sapore. D'acqua tiepida e molle, rotonda e innocente. Lo vissi, quel momento di pace totale, di libertà spontanea, per cui anche i vecchi sorridevano, e per quel momento ancora vivo, viviamo tutti. E scrivevo, sempre e ovunque. Poi l'autunno, l'#austerity. Anche quella la ricordo bene. E gli #anni70 dovrei raffigurarli così, strade nere, abiti ridicoli e strizzati con qualche retrogusto di povertà. Ma sono realtà parziali, da adulti. Durante l'austerity io sfrecciavo con la bici su carreggiate neglette come in una novella di #Buzzati. Ma senza inquietudine. In quello che ora è il #parconord e che un tempo tutti chiamavano #campovolo arrivavano le #pecore a pascolare. C'era solo prato anzi erba e nessuno si chiedeva perché, esisteva e basta. Ricordo il razionamento del #sale. Al suo posto in tavola comparivano contenitori a cilindro con esaltatori di sapidità, robaccia chimica. Che però sopportai e persino mi piacque, mi percepivo al centro d'una grande epopea di resistenza. Tanto poi l'estate sarebbe tornata, e con essa le letture, i componimenti. E Giorgio.
Oggi è l'11 settembre e come ogni anno che passa è sempre più difficile scrivere o parlare di quello che successe 21 anni fa senza cadere nella : retorica patriotica ,
stuchevolezza , nel conflitto ideologico , nel non dimenticheremo mai ma poi si continua con la stessa politica estera che n'è alla base .
la soluzione sarebbe quella di mettere video del silenzio ( sarà retorico ma davanti a simili eventi non ne riesco a farne a meno ) come quello riportato sotto . altri video molto spesso retorici con le immagini di quello che è stato .Infatti tale evento , da qualunque parti lo si racconti \ celebri è un evento entrato dentro di noi ed rimasto impresso come se fosse sucesso poco fa .
E' rimasto talmente impresso che ancora si fa fatica a vederlo come qualcosa d'archiviare ed andare avanti . La mia visione degli eventi , visto che non colpi solo le due torri, come ci viene propinato nel 90 % dei documentari , ma anche : l'edificio dei pentagono ( il terzo aereo ) ed il volo United Airlines 93 ( il quarto aereo ) , venne fatto inizialmente dirigere verso Washington per colpire la Casa Bianca, ma precipitò successivamente in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania, a seguito di un'eroica rivolta dei passeggeri , è quella del film collettivo https://it.wikipedia.org/wiki/11_settembre_2001_(film) che che ripeto da anni. eccovi un riassunto delle trame dei corti che mi hanno comìlpito di più e che rappresentano ,la mia visione che ripeto d'anni , su tali eventi per gli altri consultate l'url citato nella riga precedente
:1) Episodio #02: "Francia" Regia: Claude Lelouch New York, 11 settembre 2001: una giovane fotografa francese sordo-muta è ospite del fidanzato, guida turistica per disabili che sta per portare un gruppo in visita alle Torri Gemelle. Dopo che lei ha tentato di spiegargli che una storia a distanza come la loro non ha nessuna possibilità di riuscita, cerca di lasciargli un messaggio al computer prima d'andarsene, spiegandogli che solo un miracolo può tenerli ancora assieme. In quel momento lui torna a casa coperto di polvere, sfuggito miracolosamente all'attentato. ., 2) Episodio #06: "Regno Unito"Regia: Ken Loach Pablo, profugo cileno a Londra, scrive una lettera ai familiari delle vittime degli attentati dell'11 settembre 2001, ricordando loro il "suo" 11 settembre: quello del 1973, quando il generale Augusto Pinochet attuò un colpo di Stato, sostenuto dagli USA, contro Salvador Allende, presidente democraticamente eletto nel 1970. Pablo narra nella sua lettera del coinvolgimento statunitense nel finanziamento di gruppi di destra e di eversione, fino al golpe, e delle violenze e delle torture subite da lui e dai suoi connazionali. Costretto prima a cinque anni di prigione e poi all'esilio, dichiara di non poter più tornare in Cile perché la sua famiglia e i suoi figli ormai sono nati e cresciuti nel Regno Unito. Pablo conclude la sua lettera con l'auspicio che, così come lui si unirà nel ricordo delle vittime dell'11 settembre 2001, così loro si uniranno a lui nel ricordo delle vittime dell'11 settembre 1973 ., 3) Episodio #09: "India" Regia: Mira Nair Una donna pakistana non ha più notizie del figlio Salman dal giorno degli attentati alle Torri Gemelle. CIA e FBI la interrogano ripetutamente, poiché ritengono che il giovane, di fede musulmana, possa essere collegato agli attentati. In particolare, fanno molte domande sul perché non si sia presentato al lavoro quel giorno e sul perché, nonostante avesse deciso di intraprendere la carriera medica e di abbandonare l'accademia di Polizia, detenesse ancora il tesserino di quest'ultima.Mentre la donna non si rassegna alla scomparsa del figlio, i media iniziano a riferire la notizia di un suo coinvolgimento nell'attentato, cosa che non fa che acuire l'isolamento in cui la donna e la famiglia sono piombati. Solo dopo sei mesi, il resti del ragazzo vengono identificati fra quelli ritrovati fra le macerie e viene ristabilita la verità: si scopre che il giovane è morto mentre prestava soccorso sul luogo degli attentati. Durante l'elegia funebre, la madre denuncia il clima di sospetto che si è creato contro la sua famiglia e contro la comunità musulmana negli Stati Uniti. ., Episodio #09: "India" Regia: Mira Nair Una donna pakistana non ha più notizie del figlio Salman dal giorno degli attentati alle Torri Gemelle. CIA e FBI la interrogano ripetutamente, poiché ritengono che il giovane, di fede musulmana, possa essere collegato agli attentati. In particolare, fanno molte domande sul perché non si sia presentato al lavoro quel giorno e sul perché, nonostante avesse deciso di intraprendere la carriera medica e di abbandonare l'accademia di Polizia, detenesse ancora il tesserino di quest'ultima.Mentre la donna non si rassegna alla scomparsa del figlio, i media iniziano a riferire la notizia di un suo coinvolgimento nell'attentato, cosa che non fa che acuire l'isolamento in cui la donna e la famiglia sono piombati. Solo dopo sei mesi, il resti del ragazzo vengono identificati fra quelli ritrovati fra le macerie e viene ristabilita la verità: si scopre che il giovane è morto mentre prestava soccorso sul luogo degli attentati. Durante l'elegia funebre, la madre denuncia il clima di sospetto che si è creato contro la sua famiglia e contro la comunità musulmana negli Stati Uniti. ., 4) Episodio #10: "Stati Uniti d'America" Regia: Sean Penn Un anziano trascorre la sua vita da solo in un appartamento oscurato dalle Torri Gemelle. L'uomo, rimasto vedovo, sfoga la sua solitudine parlando con la sua defunta moglie, come se fosse ancora in vita, e coltivando il suo vaso di fiori, appassiti per la mancanza di luce. Il crollo delle Torri finalmente permette alla luce di inondare l'appartamento e rivitalizza all'improvviso i fiori. L'anziano, felice per l'accaduto, fa per mostrare il vaso alla moglie, ma la luce svela l'illusione in cui ha vissuto fino ad allora. Fra le lacrime, rimpiange che la moglie non sia lì a vedere finalmente il vaso rifiorire.
avrei altro da dire . ma preferisco fermarvi qui one evitare polemiche , le solite acciuse di anti americanismo , e bla .... bla .... .
Riporto , dall'amico Augusto Ditel un bellissimo spaccato di vita “locale” che tratteggiano benissimo i protagonisti con un po' di nostalgia dei tempi che furono . Infatti siamo nel magico campo delle bugie a sfondo marinaro, con apoteosi in mitologiche battute di pesca che Stefano Benni definiva “Ittiomachia”
Arriva di buon mattino, parcheggia l’auto al fresco, aggrotta le sopracciglia, inforca gli occhiali da sole, specchiati con lenti blu notte. Accanto allo zaino, ecco spuntare uno shopper mezzo sdrucito, di quelli del supermercato, che contiene un retino nero a maglie fitte. Piomba sulla spiaggia, si rifugia in un cantuccio, a venti centimetri dalla battigia (non stima quelli che la chiamano, sbagliando, bagnasciuga). Estrae il retino, all’interno del quale i tre chili di cozze sembrano riconoscerlo per fargli festa, incuranti del loro destino che le vedrà perire, dopo l’incontro ravvicinato con l’apposito coltellino da “isbucciuladore”, come si ama dire in olbiese doc. Estrae un masso di tre-quattro chili dalla spiaggetta dove i bimbi costruiscono castelli medievali e scolpiscono improbabili montagne. Immerge il retino con i mitili in un piccolo anfratto disseminato di patelle (attenzione: non si possono prendere), copre tutto con il sasso largo e piatto. L’operazione “spurgo in mare” dura un’ora al massimo. Poi, l’assalto garbato. Una, due, tre, quattro,cinque, cinquanta cozze transitano dal guscio allo stomaco in un battibaleno. Passano i turisti, quasi sempre del nord. Lo scrutano, lo osservano senza farsi notare, tra il sospettoso e il divertito. Sono quasi sempre del nord, i vacanzieri curiosi, spesso veneti. Molti rifiutano l’invito a gustare una simile prelibatezza, altri accettano. E gradiscono,rinunciando persino al limone. “Le ha pescate qui?”, domanda la signora, che ignora le tecniche di allevamento e soprattutto il fatto che la parola cozza faccia rima con Olbia, almeno in Sardegna. “Sì, certo - mente lui, indicando uno scoglietto, impervio e lontano una decina di metri. “Dài, tesoro - sussurra la signora al marito incredulo, con gambe e torace bianco latte- domani ci proviamo, poi lo racconteremo ai nostri figli. E diremo loro che la Sardegna è magica anche per questo”.
Lui se la ride sotto i baffi (che non ha) e si ricorda di un vecchio adagio gallurese: “Faula ch’habbisogna, no’ è piccatu, né valgogna”…(una bugia detta per bisogno, non è peccato né vergogna”) Evviva le cozze.
(Ogni riferimento a fatti o a cose reali NON è puramente casuale)
le varie storie sdolcinate sull'ultimo n di topolino ( vedere copertia sinistra ) e la striscia d'oggi della rubrica / foto sotto a centro di penauts proposta da Il Post d'oggi mi hanno riportato alla mente una storia bellissima storia degli anni 90 che letta oggi sarebbe considerata da educande ma al'epoca c'erano ancora forti sacche di perbenissimo e bigottismo . Essa s'intitola Topolino in: “Ho sposato una strega” ( SIC a non averlo conservato oggi varebbe un bel po' di € visto che stando alle dichiarazioni rilasciate da Marconi in un’intervista del 2008, le tavole originali dovrebbero essere state distrutte) . Meno male che c'è la rete a supllire tale mancanza e desiderio di rileggerla o leggerla per la prima volta . Infatti : Questa “parodia del celebre film di René Clair interpretato da Fredric March e Veronica Lake (1944) non ha avuto vita facile. Non è mai stata ristampata, ma, di più, si potrebbe dire: non è mai statastampatacorrettamente; infatti nell'unica edizione (quella su "Topolino" numero 1785 dell'11 Febbraio 1990) le tavole 17 e 18 sono state stampate rispettivamente a pagina 22 e 21 anziché a pagina 21 e 22 come sarebbe stato esatto.
Per questi motivi offriamo per la libera consultazione questa storia, fatti salvi i diritti di ciascuno e con l'impegno di togliere dalla rete queste pagine non appena sarà disponibile in qualsiasi forma una ristampa della storia. >> da inducks.org dove potete trovare l'intera storia
C’è chi come me prova nostalgia per averla scoperta ed letta in tenera età, chi la ricorda con affetto per le sue scelte coraggiose e il suo finale malinconico e persino chi la cita con una punta di sarcasmo, riferendosi al polverone che sollevò pochi giorni dopo la sua uscita in edicola, l’11 febbraio 1990. Da allora, infatti, Topolino in: “Ho sposato una strega” non è da quel che so ed ho letto sull'articolo dell'ottimo e inmformatissimo https://www.fumettologica.it/ : << La storia d'amore più "scandalosa" mai apparsa su "Topolino">> di che trovate sotto di che mai stata ripubblicata e (anche) per questo gode ormai di una grande fama.
Prima del matrimonio
La storia, come moltealtre pubblicate all’epoca, nasceva da un’esigenza precisa: svecchiare Topolino. Il detective dalle grandi orecchie stava diventando antipatico, borioso, saccente, ed era sempre meno popolare tra i lettori. Risolveva velocemente anche i casi più difficili, senza vacillare; non si cacciava mai nei guai e trattava gli amici con fare da superiore. Era raro che ricoprisse un ruolo comico, perché sulla carta era privo di difetti e se non avesse mostrato le sue fragilità più profonde (come sapevano fare Pippo o Paperino) non avrebbe fatto ridere nessuno. Per molti era solo un tipo noioso che cominciava ad aver vissuto troppe avventure. Alcuni sceneggiatori, però, la pensavano diversamente, e tra questi c’era Massimo Marconi. Era molto noto nell’ambiente per essere stato tra i primi a cimentarsi nelle storie su commissione, realizzate in collaborazione di enti come la F.I.S. o per promuovere il lancio di alcuni gadget, e i suoi rapporti con la redazione si erano intensificati nel 1985, quando aveva iniziato a vagliare i soggetti altrui e coordinare l’attività dei colleghi. La sua influenza sull’agenda della rivista era enorme, ed essendo in ottimi rapporti con il direttore di allora, Gaudenzio Capelli, poteva permettersi il lusso di osare nei propri fumetti, che di fatto sottoponeva al suo stesso giudizio.«Quando sono diventato il responsabile delle storie mi sono subito preoccupato di Topolino, il personaggio più debole che c’era allora», ricorda Marconi a Fumettologica. «Tra le varie idee c’era la volontà di uscire dall’impasse che si era creata tra Topolino e Minni, che, a differenza di Paperino e Paperina, non litigavano mai: la loro era una relazione un po’ fiacca. Io volevo dare a Topolino la possibilità di innamorarsi sul serio». In passato era già capitato che il Topo si invaghisse di un’altra, ma alla fine, com’era logico aspettarsi, aveva sempre trionfato l’affetto per Minni. Questa volta, però, le cose sarebbero andate diversamente. Dopo una lite più dura del solito, Topolino si sarebbe concesso una piccola pausa ricreativa fuori città, conoscendo Samantha, una ragazza di cui si sarebbe innamorato e che avrebbe deciso di sposare, nonostante fosse una strega. «Era sicuramente una scelta rischiosa», prosegue Marconi, «ma, se non li avessi fatti sposare, la storia non sarebbe stata così intensa, e io non volevo che si trattasse di una sbandata come tante altre. Dovevano sposarsi».
Marconi era la persona più indicata per portare a termine un’operazione del genere. Già altre volte, in passato, aveva dovuto modellare il comportamento dei personaggi per far fronte alle esigenze di turno (dalla presentazione di un gadget alla réclame di un torneo sportivo) senza tradire la loro natura o lo spirito della rivista. Stavolta, però, c’era di mezzo un matrimonio, e la difficoltà più grande stava nel fare ritorno alla situazione iniziale. Topolino e Samantha si sarebbero dovuti conoscere, innamorare, sposare e poi dividere per sempre: tutto dovevano sembrare fuorché marionette che obbedivano a una volontà superiore. Per scongiurare questo rischio, Marconi trasformò la storia in un’anti-parodia di Ho sposato una strega, una commedia romantica hollywoodiana dove un uomo rispettabile (ma noioso) perdeva la testa per una fattucchiera seducente che si comportava come una ragazzina. Del film rimase soltanto l’idea di fondo, com’era già capitato in un fumetto di qualche anno prima che omaggiava Il tempo delle mele. Lo scopo non era rivisitare i film in chiave disneyana, ma utilizzarli come pretesto per far dire qualcosa di nuovo ai personaggi. Nella fattispecie, grazie all’intervento della magia era possibile mostrare la vita matrimoniale di Topolino e Samantha senza che i due si fossero realmente sposati. In seguito a un incantesimo lanciato dal padre di lei (anch’egli stregone, come nel film), i due coniugi avrebbero vissuto in una dimensione alternativa, il tempo necessario per capire che tra di loro non avrebbe potuto funzionare. Sulla carta, se si escludevano i riferimenti nuziali, c’era ben poco di trasgressivo, ma il rischio di essere fraintesi era dietro l’angolo. A un certo punto della sceneggiatura, nelle intenzioni di Marconi, Topolino e la strega avrebbero dovuto dividere lo stesso letto durante una breve lite, ma il disegnatore, Giorgio Cavazzano, colonna portante della rivista da più di vent’anni, non se la sentì di osare a tal punto e li fece sedere in poltrona. Subito prima di quel dialogo, però, aveva appena disegnato una vignetta destinata a far infuriare migliaia di italiani, buona parte dei quali, di solito, Topolino neanche lo leggevano.
Una storia al di sopra di ogni sospetto
Marconi sapeva fin dall’inizio che “il matrimonio di Topolino” avrebbe attirato l’attenzione della stampa generalista. «All’epoca qualunque cosa pubblicassimo che avesse un riferimento alla realtà o che fosse un minimo notevole finiva sui giornali», dice riferendosi ai fumetti tradotti in latino o alle caricature di Mike Bongiorno e Gianni Agnelli. Lui stesso, sperando di smuovere le acque, aveva inviato un comunicato stampa a qualche testata, ma senza ottenere risultati. La scintilla scoccò quando l’inserto satirico dell’Unità (il settimanale Cuore, fondato e diretto da Michele Serra) riportò la notizia a modo suo. Mise in prima pagina la vignetta in cui i due sposini cominciavano a spogliarsi e titolò con enfasi: «Topolino tromba! Ecco le prove».
Fino a quel momento la casa madre non aveva mai esercitato un vero controllo sulle storie scritte in Italia. L’unico parametro a cui dovevano rispondere, già dalla fine degli anni Settanta, era il rispetto delle minoranze etniche, ripetutamente prese di mira o stereotipizzate dagli autori del periodo precedente. Dopo quello scandalo, osservano Dario Ambrosini e Marco Barlotti in un volume monografico su Giorgio Pezzin, dalla Disney americana arrivò «un deciso giro di vite per limitare i voli pindarici degli sceneggiatori italiani».Il primo a pagarne le conseguenze fu proprio Pezzin, che aveva appena consegnato una storia di stretta attualità dove Topolino e Pippo viaggiavano nel tempo per sventare un colpo di stato ai danni di Michail Gorbaciov. Il progetto era stato approvato (dallo stesso Marconi) ma l’iter di produzione fu subito interrotto.
«Mi sarebbe piaciuto averti come genero»
Topolino in: “Ho sposato una strega” non deluse le aspettative di Marconi per via delle controversie che si crearono, ma perché quasi nessuno, tra i critici e gli addetti ai lavori, si interessò al suo effettivo contenuto. Sarebbe stata da lodare, invece, la caratterizzazione di Topolino, debole e imperfetto come non lo si vedeva da tempo e che finalmente metteva in campo tutti i risvolti della propria personalità, dallo sprezzo del pericolo alla goffaggine un po’ ingenua. Anche i disegni di Cavazzano avrebbero meritato un plauso. «Quando Giorgio si cimentava con questo genere di storie lavorava benissimo», osserva Marconi. «Era capace di realizzare un capolavoro quando lavorava col piede sinistro. Figuriamoci quando lavorava col destro.» Si potrebbero spendere fiumi d’inchiostro sulla precisione del suo tratto, sulla bravura con cui muoveva i personaggi sulla scena o sulla sua padronanza della tavola, ma in questa storia saltano subito all’occhio i costumi, mai così diversi dal solito. Vestaglie, giacche sportive, tute da ginnastica, panciotti, pantaloni col risvolto, salopette e, ovviamente, abiti da sposa. Nell’incipit persino Basettoni indossa una camicia di lana alla moda al posto della solita divisa. Il focus sul guardaroba permise a Cavazzano di interpretare alla grande anche il personaggio di Samantha, che non doveva risultare né poco attraente né troppo lontano dai canoni. Il solo modo per dire qualcosa di più sul suo conto e sui suoi gusti personali fu di farle sfoggiare un outfit dopo l’altro, rendendola memorabile nonostante la stringatezza della sceneggiatura.
La storia, però, non era esente da critiche. Già nel 1991, Romano Scarpa aveva rilasciato dichiarazioni al vetriolo in un’intervista, definendo il progetto «un passo incauto» perché «esclude, toglie di mezzo Minni. Minni non può venire ignorata in quel modo». E in parte è sicuramente vero: la sua sfuriata iniziale può sembrare esagerata o artificiosa, e di certo qualche tavola in più avrebbe giovato, ma è altrettanto evidente che nei piani di Marconi il ruolo di Minni era tutt’altro che secondario.Se in apertura fosse comparsa Samantha, e Topolino avesse tradito subito la fidanzata, sarebbe stato lecito stupirsi, ma nel caso specifico era fondamentale che Mickey conquistasse le simpatie dei lettori, subendo le ire di una figura femminile palesemente nel torto. Solo così il pubblico avrebbe toccato con mano il disagio sentimentale dell’eroe, ingabbiato in un fidanzamento lungo più di 60 anni. Nonostante oggi ne siano passati più di 30 dall’uscita di Topolino in: “Ho sposato una strega”, Marconi la ricorda ancora come una delle più importanti che abbia mai scritto: «È servita a far capire a mia mamma che facevo un lavoro importante, perché sono finito su Oggi», conclude con orgoglio. Ma anche perché, come rilevava Andrea Tosti, mise in evidenza «la capacità di Marconi nel far emergere in maniera naturale e spontanea il lato romantico, e quasi “erotico”, dei propri personaggi; sempre con discrezione, naturalmente». E in modo tutt’altro che scandaloso.