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13.10.25

Il dovere di raccontare senza pregiudizi Il diritto all’immagine e alla dignità vale anche per chi vive ai margini da Emiliano Morrone

 

Un filmato mostra un uomo di colore che vende merce su un marciapiede di corso Garibaldi, a Reggio Calabria. Il video appare su un profilo Facebook, rilanciato da un blog, con la dicitura implicita che l’autore ha già «chiamato la polizia». Sorpreso, l’ambulante fugge con ansia e paura. Nessuna inchiesta, nessun dossier, soltanto un’immagine

confezionata per orientare l’opinione pubblica.

Il post sullo stesso blog accompagna il video con un commento che non informa e, anzi, accusa e addirittura giudica. L’autore, ivi indicato, rende la propria voce parte del racconto. È un metodo che sottrae al lettore la possibilità di giudizio: il finale è già scritto e la condanna già bell’e decretata.
È una prassi pericolosa, poiché manca l’inchiesta. Non ci sono fonti certe, non ci sono verifiche sul contesto del commercio ambulante a Reggio Calabria. Inoltre, non sappiamo da dove l’uomo provenga, se abbia licenza e quale merce venda, di là dal poco che si vede. Eppure, il messaggio che arriva è chiaro: si profila la criminalizzazione prevenuta di un uomo, e soltanto per la sua condizione, accentuata dall’elemento della razza (straniera).
Ma il tema del commercio ambulante e dell’abusivismo è presente a Reggio Calabria. Nelle ultime settimane la polizia locale ha condotto diversi controlli in città: a settembre sono stati sequestrati oltre 11mila pezzi di merce ed elevate sanzioni per circa 20mila euro. In altri interventi si è arrivati al sequestro di otto quintali di prodotti alimentari esposti senza autorizzazione e condizioni igieniche adeguate. Il fenomeno è noto e riguarda anche l’area metropolitana, dove sono stati sanzionati ambulanti con oltre 100 metri quadrati di merce esposta abusivamente, per un valore di decine di migliaia di euro.
Tuttavia, ciò che manca è un’analisi delle cause: perché tante persone, italiane o straniere, si trovano a vendere per strada? Qual è l’impatto dell’inflazione e della crisi economica sul piccolo commercio? Quali spazi di legalità offre oggi la città a chi cerca di sopravvivere onestamente? Di questo non si parla. Né nei video che cercano visibilità sui social, né nei commenti che infiammano le bacheche.
Allora si affaccia un danno grave all’informazione. Sia per chi viene “ripreso” in strada, sia per la comunità. Si tratta di pratiche che rafforzano stereotipi, nutrono pregiudizi e favoriscono la discriminazione. Sono contenuti che pretendono di parlare alla pancia, assai meno alla ragione. Povero Kant!
Le norme deontologiche del giornalismo impongono rispetto della dignità delle persone, cautela nell’uso delle immagini, scrupolo nel verificare fonti e contesto. Sempre. Non si può diffondere l’immagine di uno sconosciuto in un filmato – senza consenso e controllo – con affermazioni che lo espongono al giudizio pubblico e perfino a rischi.
Inoltre, la legge sulla stampa e sulla tutela della privacy disciplina, anche se non in modo perfetto, il diritto all’immagine, specialmente per le persone che non sono figure pubbliche. Un’“informazione” che espone un soggetto non noto, senza circostanze verificate, rischia di trasformarsi in violazione della dignità e di compromettere il diritto alla difesa dell’interessato.
Parlare del compianto William Langewiesche può sembrare elitario. Però, da grande del giornalismo, egli ricordò che «raccontare è scegliere». Chi racconta ha la responsabilità della selezione delle immagini, delle parole, dei toni. Se si vuole mostrare un ambulante e indurlo alla fuga, piuttosto che aprire un’inchiesta sul fenomeno del commercio abusivo, la scelta è politica e di giornalismo ha poco, forse niente.
A Reggio Calabria, nel frattempo, associazioni e istituzioni provano a discutere seriamente del problema. La Camera di Commercio ha avviato incontri sull’economia metropolitana e Confcommercio ha partecipato a convegni nazionali per sostenere i commercianti in difficoltà. Ma mancano ancora spazi di confronto pubblico sul commercio ambulante, segmento economico che spesso cammina tra sopravvivenza e irregolarità.
Sul piano giuridico dell’informazione, è utile ricordare anche le riflessioni del compianto Franco Abruzzo: per essere legittimo, il giornalismo deve avere elementi oggettivi e verificabili e il rispetto dei diritti altrui. Quando queste condizioni mancano, l’informazione degrada, diventa strumento di propaganda oppure di discriminazione.
Occorre che noi giornalisti calabresi, compresi l’Ordine e il sindacato, prendiamo una posizione chiara a seguito di questa vicenda. Bisogna difendere il diritto di tutti, compresi i più vulnerabili, a un’informazione rispettosa, seria e di pubblica utilità. Dovremmo poi chiederci che almeno su questi temi ci siano indagini reali. Quanti ambulanti operano senza autorizzazione nei centri storici dei Comuni calabresi? Quali controlli fanno le autorità? Esistono condizioni sociali che portano le persone a tentare l’illegalità? Dietro c’è la ’ndrangheta o qualche altra organizzazione?
Un’informazione che mostra e condanna senza inchiesta può diventare uno strumento per strumentalizzazioni becere, anche di tipo politico. Chi fa giornalismo sa bene che il potere – e il pericolo – dell’immagine è determinante nel bene e nel male. Non dobbiamo dimenticarlo. Anche, e forse soprattutto, in Calabria. 

                           (
redazione@corrierecal.it)

12.11.23

due italie il caso del libro lettera di una madre afrodiscendente alla scuola italiana di Marilena Umuhoza Delli

ringrazio la carissima Pacmogda Clémentine per     la segnalazione  del  libro    di  Marilena Umuhoza Delli  di   cui  trovate  sotto    la  copertina    ed  una piccla  introduzione presa  dalla  bacheca  di  Clèmentine  . 
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« Sono cresciuta in due Italie. La prima è l’Italia di mio padre, un uomo bianco bergamasco la cui presenza era garanzia di privilegio, appartenenza e riguardo. Scortata da lui ricevevo i saluti della gente in dialetto, regali, sorrisi. Al suo fianco ero automaticamente parte del club “noter”, un’italiana a tutti gli effetti. Papà era letteralmente il mio passaporto.
La seconda è l’Italia di mia madre, una donna nera “immigrata” e con disabilità. La sua presenza era portatrice di razzismo, emarginazione, segregazione. Accompagnata da lei, la gente ci insultava, polizia e vigili ci fermavamo regolarmente per controllare i documenti, la gente posava le borse sui sedili vuoti del pullman (anche di fronte alla stampella di mia madre). Al suo fianco ero l’”extracomunitaria”, la straniera - anche se parlavo un italiano perfetto e masticavi il dialetto, anche se ero nata e cresciuta in Italia”. 
Credo non mi serve aggiungere altro per farvi venire la voglia di leggere questa donna che ha messo nera su bianco quello che noi genitori chiamati stranieri viviamo con i nostri figli. Nel mio caso posso aggiungere che quando sono in compagnia di mio marito e quando sono sola in giro per qualche città, il trattamento è diverso. Quando sono con mia figlia da sola in viaggio e quando siamo in tre é anche diverso. La gente è indifferente solo dove siamo conosciute. Al di fuori di dove viviamo, siamo trattate da stranieri, extracomunitari con poca importanza. Si parla di queste cose perché speriamo che qualcosa possa cambiare perché i nostri figli sono italiani e non devono soffrire perché crescendo si sentono esclusi dai loro propri connazionali. Molti vanno in depressione. Non è giusto.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...