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18.10.24

Semestene ha aumentato il n degli abitanti sono 123 grazie alla nascista della sardo cinese Landhe Yu .,Lo chef Leonardo Barberio «Era il momento di tornare a casa e di mettermi in gioco»

 Lo so che  tali  articoli  potranno  sembrare  ovvi e  scontati  ,  ma  in una  regione        del  sud  o  centro italia      ,  dopve  l'interno  si spopola   a  scapito delle    dei grossi  centri delle   coste  o   s'emigra    tali notizie  \  storie     sono  importanti  . 

  da  la  nuova  sardegna   18\10\2024

La piccola Landhe Yuèstata partorita incasa ed è diventata la 123esima abitante del paese  Sui tetti di
Semestene  ritorna la cicogna  dopo 57 anni di attesa Giovedì scorso è nata in casa la piccola Landhe Yu  Dal 2010 nel paese solo 4bambini e nessun parto domestico  La sindaca: «Ogni nuovo  arrivo rappresenta  perla comunità  un dono prezioso . È la vita che sboccia» 


Semestene 
Si chiama LandheYue già il suono  sta per raccontare una storia, che mette insieme la  Sardegna con l'oriente più  estremo, Cina e Mongolia.Se poi si aggiunge che la bimba è nata inuno dei paesi più piccoli della Sardegna e che lo ha fatto non in  una fredda stanza di ospedale, ma fra le mura di casa sua, 57 anni dopo l’ultimo parto domestico nel paese,la storia si fa ancora più in teressante. La piccola è diventata la 123esima abitante di Semestene, piccolissimo comune del Meliogu, il 10 ottobre alle 10 di sera.I genitori sono Antonio Sotgiu, semestenese, e Jean Se-Jing, nata negli Stati Uniti e di origini sino-mongole. Il nome della  bimba mette insieme il sardo landhe, ghianda, con un omaggio ai nonni materni

                                                   una veduta  del piccolo  centro del Meilogu             


che furono storici cineasti cinesi. A dare la notizia  dell'arrivo della piccola Landhe Yu sono stati proprio i due genitori, che hanno affisso sul balcone di casa, nel quartiere di Cantara Jana, un cartello con su scritto semplicemente:“Est nada”. Antonio e Jean si sono conobbero durante  un progetto di agroecologia e arte e decisero di vivere nel piccolo paesino, ponendosi fin da subito l’obiettivo del parto in casa.«Lagravidanza di Jean è stata seguita e monitorata dai servizi ospedalieri — spiega il marito, ma durante tutto il periodo abbiamo ricevuto l'’accompagnamento di due ostetriche straordinarie, Viola Usai e Silvia Collu, che da anni lavorano in tutta l'isola per assistere le famiglie di genitori che vogliono far nascere i propri figli in casa. A loro va tutta la  nostra riconoscenza». Tra professionisti e neo genitori si è creato subito un legame strettissimo, come racconta Viola Usai: «Ci siamo conosciuti a Oristano, la scorsa primavera. Ho raccontato a loro di me e di come lavoro con le coppie insieme alla mia collega Silvia Collu. Ho spiegato che seguiamo un percorso fatto inizialmente di incontri mensili che poi si fanno  più frequenti. Creiamo un rapporto di fiducia reciproca, conosciamo le famiglie e le case dove avvengono i  parti. Da quell'incontro  Jean e Antonio sono andati via con il desiderio più forte di voler vivere a casa la  nascita della loro bimba. Daliè iniziato il percorso  con Silvia, fatto di incontri periodico fino all'alba del  10 ottobre, quando mamma Jean e la piccola Landhe Yu hanno iniziato il loro  viaggio insieme, seguendo  il ritmo delle contrazioni  che, come onde, hanno accompagnato dolcemente  questa bimba su questa ter ra, avvolte e coccolate dalle braccia, dalle mani, dalle parole e dall'emozione di  babbo Antonio fino alle 22, quando èatterrata fra le nostre mani».  A gioire con la famiglia è  l'intero paese rappresentato dalla sindaca Antonella  Buda: «Ogni nuova nascita  rappresenta perla comunità undono prezioso. È la vita chesboccia, fonte di speranza e promessa di futuro. Landhe Yu arriva nella nostra piccola comunità a distanza di un anno dall’ultima nascita». Nel piccolo  centro del Meilogu, le nasci tesono eventi speciali: «Andando a ritroso, dopo il gioioso evento del 2023, dobbiamo arrivare al 2021 per trovare un nuovo nato, poi il 2015 e infine al 2012. Però oggi con altrettanta gioia salutiamo e diamo il benvenuto alla piccola Landhe  Yu. A nome dell'amministrazione comunale e della  comunità di Semestene auguro a lei e ai suoi genitori una vita lunga e felice, circondata dall'affetto dei suoi cari».
Le reazioni: «Siamo felicissimi, è il simbolo della rinascita» Un uomo sulla quarantina, in evidente silenzio stampa, intento a fumare una sigaretta sui gradini di casa, alla domanda se avessesaputo della

uno  dei    tanti  murales      di semestene  qui  gli altri  
semestene murales - Cerca Immagini (bing.com)
bella notizia risponde con un lapidario cenno affermativo con il capo . Un'altra signora, evidentemente informata sui fatti, liquida la questione con un ieratico: «Eja, già lo sappiamo!». Ci pensa, la guida alpina (non autoctona) Marco Corti, che possiede una casa a Semestene e passa diversi periodi dell’anno in paese, a riaccenderel’entusiasmo: « Finalmente! Siamo contentissimi e speriamo che sia indice che qualcosa sta cambiando. Noi ci mettiamo del nostro, abbiamo organizzato da poco una tre giorni dedicata alle esplorazioni, e alla visione di documentari sul conspe- leologi e docenti universitari e in conclusione una cena offerta a base di polenta taragna, c'è stata grande partecipazione. Questo paese merita tanto». Ed eeffettivamente il paese merita: pulito, accogliente e decorato dai bellissimi murales di Pina Monne, che sve- lano un'anima vagamente artistica del luogo. Inoltre il piccolo centro è dotato di un’area camper, un anfiteatro e una piscina comunale Quella che non è presente invece, è la linea telefonica e figurarsi quella internet. Mancanze che riportano agli anni in cui era nata in casal’ultima semestenese, esclusa Landhe Yu. E alla guida aplina Marco Corti fa coro l'indispensabile cicerone Enzo Piu, gestore del bar: «Nel paese ultimamente ci sono tanti eventi culturali e non solo, una delle ultime serate di karoke del mio locale ha visto la partecipazione di 120 persone. Inoltre abbiamo ospitato la presentazione del libro di Vindice Lecis “L’Alternos-il romanzo della sarda rivoluzione”». Il bar, come in tutti i piccoli paesi, è il perno sociale su cui ruota tutta la vitalità del paese: «Semestene si trova in una via di mezzo,adappena 6chilometri dalla 131, dunque riusciamo ad intercettare tutti i ragazzi dei paesi, è fondamentale che in qualche modo ci incontri e nonsi perda la voglia di incontrarsi, punto a far diventare il locale un centrosociale, è l’unico modo. Il paese è stato infatti fortemente colpito dallo spopolamento, e dagli anni '60 a oggi si è passati dai circa 600 abitanti ai poco più di 120, enon tutti sono residenti, però resistiamo» conclude Enzo Piu. Ma

 N.B scusate ma ho oco tempo per estrapolare il testo dal pdf


  sempre  sullo stesso  tema     è  la  storia   riportatami  via  watsapp    dall'amico   Emiliano Morrone     di san giovanni  in fiore  piccolo paese  della  calabria 

 da  Emiliano  Morrone  

Buongiorno per tutto il giorno. Sul Corriere della Calabria è appena uscita la storia di Leonardo Barberio, chef di San Giovanni in Fiore che ha studiato e lavorato fuori regione, dall'Inghilterra al Trentino, con il desiderio di aprire un ristorante a casa sua. Il suo sogno si è infine realizzato: il giovane ha comprato e ripreso un locale nel centro storico della città silana, nel suggestivo quartiere "Curtigliu". Dopo tanti sacrifici e anni di emigrazione, questo ragazzo è rientrato e ci ha raccontato la sua scelta, i suoi obiettivi. È una storia di volontà, tenacia, passione per il mestiere. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria

la lente di emiliano

«Era il momento di tornare a casa e di mettermi in gioco»

Lo chef Leonardo Barberio: «Per me il ritorno era rimasto un pallino fisso, non avevo mai dubitato delle mie intenzioni né perduto la meta del Sud»

Pubblicato il: 18/10/2024 – 10:25
            Emiliano Morrone  


«Ero rimasto con soli 1000 euro, avevo speso tutti i risparmi per aprire un ristorante a casa mia, il sogno della vita». Occhi vivi, volto disteso, lo chef Leonardo Barberio, trentaseienne, sorride e si racconta mentre sorseggia un caffè cremoso in un locale à la page di San Giovanni in Fiore, di cui è originario. Da adolescente, Leonardo aveva lavorato in diverse cucine del Crotonese, per guadagnare i soldi necessari allo studio e all’aggiornamento continuo; a conoscere indirizzi, culture e orizzonti della gastronomia; ad acquisire le basi idonee a lanciarsi nella ristorazione in proprio. Sacrifici, consapevolezza, visione. E la «doppia sfida personale»: viaggiare in modo da formarsi bene e poi rientrare nella propria terra per contribuire alla crescita collettiva con una cucina originale di qualità, successo, richiamo.
Diplomato all’istituto alberghiero di Soverato, nel 2007 il giovane parte per Coventry, in Inghilterra, insieme al suo amico Cristian, altro sangiovannese. È un’occasione d’oro per impratichirsi, perfezionare la lingua anglosassone, incrementare le entrate e capire le abitudini degli inglesi: ai fornelli, a tavola, nel quotidiano. Nel 2009 Leonardo si iscrive all’Alma, scuola internazionale di Cucina italiana ubicata nel palazzo ducale di Colorno (Parma) e a lungo diretta dal grande Gualtiero Marchesi. Lì il ragazzo impara che ogni piatto si crea, come diceva Marchesi, «partendo dal perché» e comprende l’importanza delle materie prime per il palato e il benessere del cliente. Poi si concentra sugli impasti, tra i fondamenti della cucina, e ne sperimenta regole e segreti, affascinato dalle loro alchimie.

Lo chef Leonardo Barberio

Il percorso

Leonardo completa il percorso all’Alma e, data la reputazione della scuola, subito viene chiamato nell’area del Garda: dalla storica Bardolino all’incantevole Sirmione e oltre. Dopo trova posto a Verona e più avanti in varie località del Trentino-Alto Adige. «Avevo alle spalle – precisa lo chef – 14 stagioni estive e otto invernali: una fatica immane perché gli orari dell’estate erano quasi ininterrotti e dovevi essere efficiente ed efficace ogni giorno. Era il momento di tornare a casa, di costruire il mio futuro a San Giovanni in Fiore, di mettermi in gioco, di portare nella mia comunità tutto il bagaglio personale di saperi, sapori, idee e motivazioni legato alla mia progettualità. Per me il ritorno era rimasto un pallino fisso, non avevo mai dubitato delle mie intenzioni né perduto la meta del Sud».
Sentire queste parole fa effetto, soprattutto davanti all’incertezza del presente, allo spopolamento delle aree interne, ai giudizi prevalenti sulla Calabria; in cui, va riconosciuto, in genere si preferisce l’assistenza pubblica all’intraprendenza privata. Nel 2015 Leonardo era rimasto colpito da un ristorantino che affaccia sull’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore, dove aveva cenato con amici. Gli era piaciuta la posizione, l’odore di antico del quartiere “Curtigliu” – a forma di spirale come il Draco magnus et rufus di Gioacchino da Fiore – e delle mura del locale, già oggetto di ristrutturazione. Nel 2019, lo chef avvia la trattativa per comprare l’immobile e la licenza. A febbraio 2020 conclude l’accordo, poi arrivano il Covid e lo stop forzato. Pertanto, con un investimento di circa 100mila euro, il giovane riattrezza la cucina e realizza un forno di sua progettazione per proporre la pizza contemporanea, che, spiega, «si basa su nuovi sistemi di impasto e, per quanto mi riguarda, sulla selezione e lavorazione delle farine». Tuttavia, Leonardo deve attendere il Primo maggio 2021, per iniziare l’attività. «Non c’era data migliore per festeggiare il valore del lavoro», commenta. Era ancora il periodo delle mascherine, dei timori, dei cibi da asporto. «Ma – ricorda il ragazzo – avevo una fila interminabile, all’esterno, per la leggerezza, la fragranza, la digeribilità e la bontà della mia pizza».


La valorizzazione del territorio

Da allora, lo chef – anche grazie al laboratorio ricavato di fronte al suo ristorante – crea abbinamenti con prodotti del territorio, punta sul biologico, prepara tortellini, tortelloni, ravioli e raviolacci ripieni di selvaggina, carne di struzzo, ricotta di capra e porcini, funghi disidratati e

fermentati. Ancora, Leonardo inventa particolari farciture delle pizze, prosegue la ricerca sugli impasti, parte spesso per frequentare corsi specifici e ha pronto il «”forno verde” con gli ortaggi della zona, coltivati secondo la tradizione contadina del luogo». Il suo piatto forte è però «il padellino», ispirato dai consigli della nonna Barbara, che gli aveva descritto una pietanza tipica degli abitanti di Lorica, in cui l’anziana viveva in mezzo alla natura. «L’ho ricreata – chiarisce lo chef – impastando farine di ceci e grano, tassativamente biologiche. La cottura avviene poi al vapore, all’interno di un tegamino. È un lievitato alternativo che condisco intanto con porcini, culatta di suino nero, scaglie di tartufo, una mousse di pecorino e una riduzione di basilico. Ho battezzato le sue versioni principali con i nomi “Da dove veniamo” e “Ricordo di infanzia”, per ribadire che il futuro dipende dal passato».

Emigrazione, volontà, ingegno, carisma

Pieno di stupore per la propria terra, Leonardo è aiutato da alcuni giovani, tra cui Desirée, ragazza salernitana innamorata della Sila; Luigi, cantautore ed ex cameraman della tv nazionale; Alessandro, che in località Serrisi si dedica, nel tempo libero, all’agricoltura di nicchia privilegiando la patata a pasta viola. Il gruppo è affiatato «e – sottolinea lo chef – partecipe degli sforzi incessanti per elevare la qualità del servizio, l’unico obiettivo di chi crede che il lavoro renda liberi». Leonardo ha una biografia di emigrazione, volontà, ingegno, carisma. Di amore per le radici. A San Giovanni in Fiore e dintorni è un periodo felice nel campo della ristorazione. Lo chef Antonio Biafora ha confermato la stella Michelin e ottenuto quella verde per l’impegno nella sostenibilità ambientale. Studio, cura dei dettagli, coraggio e determinazione si stanno imponendo in questo settore. Oggi esiste una marcata consapevolezza delle potenzialità turistiche e ricettive della Sila, favorita dalla competizione costruttiva tra giovani professionisti, che si stimano a vicenda e collaborano fra di loro. Vincenzo Ammirati, per esempio, è un pizzaiolo che si è fatto notare al Festival di Sanremo e Federica Greco, di cui avevamo scritto (leggi qui), è un’apprezzata pasticciera nel panorama italiano. Sono ragazzi che sognano lo sviluppo sostenibile del territorio, che lavorano per questa causa. Senza rumore, senza paura, senza complessi di inferiorità. (redazione@corrierecal.it)

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13.10.24

«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere corriere della calabria 11\10\2024 di emiliano morrone

 Buongiorno per tutto il giorno. Oggi su LA LENTE parliamo di giovani rientrati in Calabria dal Centro-Nord, di restanza, di promozione del patrimonio di natura e cultura della regione. Lo facciamo raccontando una bella iniziativa promossa a San Giovanni in Fiore dal gruppo "I spontanei". E chiediamo alla politica di ascoltare le istanze dei ragazzi che lavorano per mostrare una Calabria diversa. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.
Grazie per l'attenzione e cordiali saluti.
Emiliano Morrone 



«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere

Una serata organizzata da “I spontanei” a San Giovanni in Fiore ricca di spunti di riflessioni e belle storie di Calabria

 Pubblicato il: 11/10/2024 – 6:38

         di Emiliano Morrone
«Mamma Calabria» è il titolo di un libro di Alessandro Frontera e Danilo Verta appena discusso in profondità nella biblioteca comunale di San Giovanni in Fiore, soprattutto grazie alle domande stimolanti della giornalista Maria Teresa Cortese. Già residente a Milano, Alessandro, l’autore del testo, è una guida ambientale escursionistica, un influencer rientrato in Calabria per promuovere natura, cultura e tradizioni della regione: dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino alla Sila, dalle Serre vibonesi all’Aspromonte.

L’appuntamento è stato promosso dall’associazione “I spontanei”che da qualche anno propone incontri e dibattiti sull’esigenza di ridurre l’emigrazione giovanile, di creare impresa, lavoro e progresso partendo dai punti di forza e debolezza dell’area silana: suggestiva ma in parte isolata e sconnessa, bucolica ma ancora periferica, ispiratrice di slanci creativi ma in un contesto socioculturale alquanto condizionato da invidia, rassegnazione, attendismo, doppiezze, mancanza di coraggio.
La Sila ha una storia di peso – dalle utopie di Gioacchino da Fiore alla Riforma agraria del ’47, dalla vecchia emigrazione operaia a quella intellettuale del presente –, oggi più che mai minata dal capitalismo dell’era digitale, che cancella le identità locali, uniforma storie, usanze e posizioni, struttura e impone il mercato assoluto delle merci.
«Mamma Calabria» è anche il motivo comune degli interventi di quattro giovani che, durante la presentazione del volume di Frontera, hanno raccontato le loro storie di restanza oppure di rientro dal Centro-Nord nel periodo drammatico della pandemia. La mamma è per statuto naturale riferimento e rifugio, richiamo e modello; è la figura che, anche nella dimensione simbolica, alimenta, cura, compatisce; è il genitore che induce all’esperienza fuori dallo spazio domestico e intuisce i problemi, i bisogni della prole.


Così, la metafora «mamma Calabria» è valsa a inquadrare, a chiarire il legame di ciascuno degli intervenuti con i luoghi delle origini: forte, continuo, vitale; capace di riaccendere la luce della speranza in un clima oltremodo tormentato, di riaprire il campo delle possibilità, di sostituire le illusioni con le motivazioni personali. Si tratta di quattro ragazzi che provengono da esperienze diverse ma affini: Anna Stefanizzi ha inventato il Cammino dei monaci florensi; come “Esperiandanti”, Luigi Candalise mostra su prenotazione i posti della Sila, in bici, a piedi, a cavallo; Ivan Ariella organizza festival d’arte e richiamo; Maria Costanza Barberio porta, con il collettivo “Fiori florensi”, la ludopedagogia nelle piazze e nelle istituzioni, fra bambini e rispettive famiglie. Questi giovani hanno più di 30 anni e meno di 40, indole ambientalista, una dote d’idealismo proveniente dal loro vissuto nel mondo analogico, una robusta volontà di ritagliarsi spazi autonomi in Calabria, intanto professionali e sociali.
Sono giovani che parlano un linguaggio poetico fuori del tempo; che leggono romanzi intramontabili, diari di viaggio e saggi sulla conservazione della memoria; che con video, post e immagini evocative sanno comunicare le loro attività e trasmettere emozioni, divulgare buone pratiche ed esempi positivi. E sono giovani che, come accade altrove nel pianeta, rivendicano le ragioni della propria terra, cercano di collegare la tipicità locale con l’universalità umana, chiedono ascolto alla politica e impegno per la sostenibilità, l’eguaglianza, i diritti irrinunciabili. «Facciamo politica con il gioco, abituando i bimbi alla libertà di espressione e di giudizio», ha detto Maria Costanza. «La Calabria ha tre Parchi nazionali e uno regionale, noi dobbiamo credere nelle nostre radici, nelle nostre potenzialità», ha osservato Luigi, che ha aggiunto: «Da fuori iniziano a guardarci con altri occhi». Ciò perché diversi giovani calabresi hanno espresso talento e capacità; perché da un pezzo la narrazione dominante, ferma al tragico, a lamenti e semplificazioni di comodo, è contrastata da racconti di vicende edificanti, che iniziano a piacere, a diffondersi, a generare interesse, apprezzamento, consenso. «Per restare in questa terra, ognuno deve fare un cammino dentro di sé», ha osservato Luigi, che ha sottolineato: «Il 30 per cento della biodiversità europea è nelle nostre montagne. Se devo fare dei sacrifici, preferisco farli a casa mia». «Siamo quello che camminiamo», ha chiosato Anna. Stefano “Intour” Straface – che a Torino insegnava nella scuola pubblica e ha scelto di rientrare per promuovere via social eventi e prodotti calabresi – ha infine posto l’accento sulla «necessità che gli imprenditori siano formati per capire quanto valga l’impatto nel web, quanto esso sia utile a lavorare in tutti i mesi dell’anno e non soltanto d’estate o nelle vacanze di Natale». È un altro tema che merita ampia riflessione nelle sedi della politica, in parte assente rispetto alle istanze di giovani che lavorano con la cultura, l’arte e gli strumenti tecnologici.

Nelle parole di questi ragazzi c’è molto da cogliere e raccogliere, ma il punto è che la politica, non tutta, non ne comprende la complessità, la finalità, l’utilità. Però, ha obiettato il fotografo e regista Emilio Arnone, instancabile sperimentatore di linguaggi artistici d’avanguardia, «bisogna smetterla con impostazioni sfacciatamente celebrative, serve equilibrio e uno sguardo d’insieme». È sempre l’autenticità, secondo l’intellettuale, che fa la differenza. Insomma, ovunque ci sono storie illuminanti, quindi bisogna stare attenti a non cedere, come capita sui social, a lusinghe facili, «all’apologetica d’ufficio» di certa pubblicistica.
Diventa difficile costruire reti di collaborazione, se non ci sono basi e contenuti comuni, hanno concluso Alessandro, Anna, Luigi, Ivan e Maria Costanza. E spetta alla politica, che dovrebbe affinare lo sguardo e ampliare gli orizzonti, favorire il compito e la collaborazione dei ragazzi che raccontano l’altra Calabria, quella della bellezza, delle tradizioni, del grande patrimonio culturale e ambientale. (redazione@corrierecal.it)

8.8.24

Diario di bordo n 70 anno II «La Sardegna è la mia terra»: la parola alla pastora 23enne Beatrice Marcia ., Un'indagine sulla condizione femminile: discriminazioni politiche, sociali e religiose le foto della yemenita Boushra Almutawakel e dell' iraniana Shadi Ghadiriandi., La Tornanza: il movimento culturale che sfida lo spopolamento del Sud Italia., esitudine , La Tornanza.


«La Sardegna è la mia terra»: la parola alla pastora 23enne Beatrice Marcia
Figlia di genitori sardi, vive in Toscana, dove fa la pastora. La Sardegna? la sua terra, senza se e senza ma. «La Sardegna è una terra che ho nel sangue, amo tutto ciò che la riguardi... quest’Isola è tutto per me. I miei genitori – nonostante siano in Toscana da molto tempo – hanno sempre cercato di mettere un po’ di Sardegna in tutto ciò che fanno, io infatti mi ritengo sarda al 100% e ne vado super fiera.»
«La Sardegna è una terra che ho nel sangue, amo tutto ciò che la riguardi: le tradizioni, i suoi profumi, la mia gente… quest’Isola è tutto per me. Ci tengo anche a dire che i miei genitori – nonostante siano in Toscana da molto tempo – hanno sempre cercato di mettere un po’ di Sardegna in tutto ciò che fanno, io infatti mi ritengo sarda al 100% e ne vado super fiera. Poi, come si fa a non amarla? È la terra più bella al mondo, dove non manca niente, i paesaggi, l’ospitalità delle persone, le infinite tradizioni. In più, mi ha trasmesso il più bel lavoro del mondo.»
Beatrice Marcia, 23 anni, abita nel Casentino, in un piccolo borgo, ma i suoi genitori sono sardi doc: la mamma è nata e cresciuta nell’Isola, mentre il padre è figlio di emigrati sardi arrivati in Toscana negli anni Sessanta.
Molto legata alle sue origini e alla sua terra, la Sardegna, Beatrice – insieme ai suoi genitori – è una pastora. E porta avanti questo mestiere con fierezza.
«Ho studiato come segretaria d’azienda, ma all’età di 16 anni ho lasciato la scuola perché la mia passione per la pastorizia ero molto più forte e il mio cuore mi ha portato a seguire quella strada» racconta. «Adesso, anche se ho solo 23 anni, mi sento molto realizzata. Certo, i sogni da realizzare nel cassetto sono molti, quello più importante è sicuramente ingrandire l’azienda e riuscir a portare avanti tutto ciò con orgoglio.»
In azienda la 23enne si occupa degli animali insieme al babbo e della parte casearia insieme alla mamma.
«La mattina ci svegliamo presto, portiamo in gregge al pascolo, torniamo e mungiamo a mano. Finita la 
fase della mungitura, portiamo il latte in caseificio e lo lavoriamo subito, trasformiamo il latte a crudo e come la mungitura anche il formaggio viene fatto a mano… la sera procediamo allo stesso modo. Aiuto mia mamma anche con le vendite, con i clienti: abbiamo infatti anche la vendita diretta.»
La pastora, un mestiere che, prima prettamente maschile, si sta – finalmente – diffondendo anche tra le donne: «Sono contenta che adesso le ragazze che fanno questo mestiere siano molte, questo significa che questo mestiere non andrà a morire. Però ho osservato che, da quando ho mostrato sui social la mia quotidianità con i miei animali, molte più ragazze non hanno avuto più paura dei pregiudizi delle persone e si sono mostrate per quello che sono e per quello che fanno. Sapere che siamo molte mi riempie il cuore di gioia… ma poi: sono una più bella dell’altra, viva le donne sempre!»
Lei la pastorizia ce l’ha nel cuore, del resto fa parte della quarta generazione.
«Mio babbo è stato molto bravo a tramandarmi tutto ciò. Basta dire che mia mamma, per farmi fare i compiti, mi minacciava: se non li avessi fatti, non mi avrebbe fatta andare con babbo dalle pecore. L’amore per questo mestiere è nato fin da subito, forse anche perché ci sono cresciuta: per me è stato tutto abbastanza naturale e normale. Il sogno che ho avuto fin da piccola che era quello di avere un caseificio, un marchio tutto nostro, così nel 2019 dopo tanti sacrifici ci siamo riusciti: il nostro caseificio è la mia vita, è tutto ciò che ho.»
La soluzione?
«Dovrebbe cambiare il commercio italiano, cioè non far esportare latte estero, ma dare valore al nostro latte. Per quanto riguarda il commercio dei prodotti caseari, dovrebbero essere più tutelate le piccole aziende che producono il proprio prodotto in modo sano, senza essere calpestate dalle grandi industrie e dalle grandi catene commerciali. Tutto ciò porterà a lungo andare alla chiusura delle piccole aziende e l’agricoltura diventerà industria: come tutti noi sappiamo l’industria tende a fare quantità e meno qualità.»
Ma Beatrice non molla, nonostante le difficoltà ha una tempra di ferro, granitica, sarda.
«Non ritengo che il mio lavoro sia pesante, è vero che non esiste un giorno di festa senza aver pensato prima a sistemare gli animali, ma quando scegli di fare questa vita è perché loro sono la tua vita. Il nostro non è un mestiere ma uno stile di vita, la libertà che ti dà questo mestiere è talmente grande che è impagabile, le soddisfazioni che ti dà non danno peso a nessuno sacrificio. A volte mi rendo conto che non faccio la stessa vita dei giovani della mia età, ma a me non interessa perché la mia felicità e la mia giovinezza la voglio vivere così, piena di valori e sacrifici che mi porteranno ad avere una vita piena di obbiettivi da portare a termine.»
https://ihaveavoice.it/
Un'indagine sulla condizione femminile: discriminazioni politiche, sociali e religiose.
Boushra Almutawakel è la prima donna fotografa riconosciuta in Yemen, con le sue foto, indaga sulla condizione femminile nei paesi islamici, mettendo in risalto la discriminazioni politiche, sociali e religiose che subiscono.
La donna è di proprietà dell’uomo che è il suo guardiano e padrone, mentre lei non ha alcuna autonomia legale. Infatti, vale metà in materia di testimonianza legale perché non è riconosciuta come persona con piena capacità giuridica in tribunale. Inoltre, la testimonianza di una sola donna non è presa sul serio se non è sostenuta da quella di un uomo.
Il 60% delle donne è analfabeta, contro il 25% degli uomini. La violenza domestica non è reato, e il tasso di mortalità per il parto è altissima. Le donne non possono uscire di casa, senza il permesso, nemmeno in caso di emergenza o per motivi di salute, e nei casi rarissimi in cui escono lo possono fare solo se accompagnate dal guardiano e coperte completamente dal velo. Sono relegate in cucina insieme alla servitù, e il loro compito è meramente riproduttivo, in quanto la loro maggiore funzione è quella di sfornare figli in quantità.
Il matrimonio infantile è accettato e incentivato, e non è raro che bambine di otto o dieci anni sposino uomini di 28 o 30 anni: il 52% delle ragazze è venduto prima dei 18 anni, il 14% sotto i 15, di cui oltre la metà intorno agli 8 anni, soprattutto in zone tribali e arretrate del Nord-Ovest.



Ma, come chiarisce la 23enne, non sempre è tutto rose e fiori.
«Ci sono anche delle piccole difficoltà, nel nostro mestiere. A volte non tutti i mesi le cose vanno bene in ambito economico, perché comunque ci sono dei periodi in cui ci sono solo uscite: il cambiamento climatico ci rende le cose difficili. Essendo in Toscana abbiamo problemi con la predazione, come gli attacchi dei lupi, e un’altra parte molto complicata è anche la troppa burocrazia, le troppe regole e i troppi limiti da rispettare.»

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La scomparsa della donna. La fotografa yemenita Boushra Almutawakel ( la  prima )  e quella dell'Irania Shadi Ghadirian (  la  second  ) parlano della condizione femminile nei paesi islamici.
La condizione della donna nello Yemen


Shadi Ghadirian è una fotografa iraniana che scatta fotografie che esasperano i costumi della sua cultura iraniana e gli stereotipi arcaici che pone sulle donne contemporanee
In Iran le donne possono contrarre il matrimonio già a 13 anni, anche prima della pubertà se c’è il permesso del tutore.Non sono libere di sposarsi con chi vogliono, senza rischiare di andare incontro al delitto d’onore.Non hanno il diritto di cantare, se non in un pubblico esclusivamente di sole donne, di ballare, di recarsi negli stadi (eccetto per le partite della nazionale).Non possono ricevere un’eredità adeguata.Non possono vestirsi come vogliono, ma hanno l’obbligo di indossare l’hijab.Non possono viaggiare all’estero da sole, se sposate, e hanno bisogno del permesso del marito.Non possono esercitare la carica di Presidente della Repubblica.Non possono condurre la bicicletta.L’età di una donna è di 9 anni per essere considerata penalmente responsabile (per i maschi 15). È prevista la pena di morte per l’adulterio tramite lapidazione. Spesso avviene anche se vengono stuprate.106 donne sono state impiccate nel 2018 e nel 2019, ma i dati dichiarati probabilmente sono per inferiori a quelli reali.Non esiste un numero ufficiale di femminicidi per “violazioni delle norme islamiche o delle consuetudini sociali”.Il 66 % delle donne sposate che hanno partecipato ad una indagine aveva subito violenza domestica almeno una volta nella vita, un numero probabilmente sottostimato rispetto ai casi reali.40 milioni di donne vivono in Iran.40 milioni di donne i cui diritti più basilari vengono quotidianamente calpestati.Queste donne devono essere tutelate.

 

Leggi alcune storie di donne iraniane:

Marziyeh Ebrahim, deturpata con l’acido perché guidava l’auto.  

Samira Zargari, la head coach della squadra iraniana femminile, il cui marito le ha proibito di partecipare ai Mondiali. 
Zahra Esmaili, impiccata già morta per aver ucciso il marito che picchiava lei e figli. 

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Un libro, un podcast, un festival ma anche un hub e un’academy
La Tornanza: il movimento culturale che sfida lo spopolamento del Sud Italia. Le testimonianze
Un processo di rinascita dei territori che parte dall’innesto tra chi, dopo aver viaggiato, decide di tornare nel paese d’origine e mettere a frutto la propria conoscenza, e chi è rimasto; tra il tornante e il restante. Al centro, il viaggio




Non tutti lasciano la propria città o paese d'origine per sempre. C'è chi torna e sono in tanti a farlo. E non solo ritornano, ma cambiano il loro modo di vivere nel loro luogo d'origine e fanno impresa: nasce il progetto “La Tornanza”, il movimento culturale che vuole far rivivere i borghi italiani. La Tornanza è un libro, un podcast, un festival ma anche un hub e un’academy: il progetto di Antonio Prota e Flavio Albano che sfida lo spopolamento del Sud Italia puntando su origine, viaggio e innovazione. Un movimento di rinascita dei territori che parte dall’innesto tra chi, dopo aver viaggiato, decide di tornare nel paese d’origine e mettere a frutto la propria conoscenza, e chi è rimasto; tra il tornante e il restante. Al centro di questi due poli, il viaggio, come innesco del cambiamento, e l’innovazione, come strumento a servizio del capitale umano e del territorio. 

La Tornanza: il libro

Tutto inizia con un libro: “La Tornanza - ritorni e innesti orientati al futuro” - il saggio di Antonio Prota e Flavio R. Albano (Laterza edizioni), due esperti di turismo e marketing territoriale e digitale - che è in realtà il manifesto stesso del movimento. È qui, infatti, che ci sono tutti i concetti fondanti del progetto che poi vengono messi in pratica: l’importanza di tornare dopo il viaggio e scegliere di ristabilirsi nel paese d’origine, portando con sé un background nuovo, una trasformazione che può innestarsi con la conoscenza dei restanti per partecipare attivamente allo sviluppo del territorio. Una crescita fatta di azioni concrete, volte a creare una nuova economia e una nuova società nei territori che da sempre e sempre più spesso vengono abbandonati. Come il progetto FAME (Food, Art, Move, Energy), un movimento culturale che avvia un circolo virtuoso in cui le comunità lavorano insieme per la crescita dei propri territori attraverso una visione comune e una sinergia che unisce agricoltura, turismo, artigianato e commercio, o la teoria dell’innesto, che pone al centro del dibattito socio territoriale i borghi, intesi come una via di ricostruzione sociale e culturale.

La Tornanza: il podcast

Il racconto della tornanza dalla viva voce dei tornanti diventa la base del video podcast itinerante, una serie di narrazioni per raccontare le storie di chi ha deciso di rientrare a casa. Dalla Puglia, alla Basilicata, dalla Campania alla Calabria e non solo: una volta a settimana, un tornante racconta la sua storia, da dove è partito e dunque dove, dopo un lungo viaggio, ha deciso di tornare, ma anche il perchè di questa scelta e il progetto che sta cercando di portare avanti nella sua terra d’origine, forte dell’esperienza maturata durante la sua assenza. 

La Tornanza: i festival

Non solo podcast, però. Proprio nel segno della collaborazione e della condivisione, la tornanza è anche una serie di eventi dal vivo, i Tornanza festival, per guardarsi negli occhi e raccontarsi le proprie esperienze, ma soprattutto le proprie idee, affinché possano essere d’ispirazione. Il primo è stato lo scorso 28 giugno, a Padula, in Campania, e a breve ce ne saranno altri, alcuni in collaborazione con l’Università. Il 17 e il 18 settembre a Potenza, poi il 20 settembre a Matera e il 1 ottobre a Bari.

 

La Tornanza: gli hub

Innovazione per costruire startup, accoglienza dei tornanti e dialogo tra tornanti e restanti: in questo consistono gli hub, i luoghi in cui si lavora e si comincia a creare la base concreta di un’idea. L'obiettivo è costruire hub in vari territori e per il primo sono già pronte le coordinate: aprirà a settembre a La Certosa di Padula in Campania e a Gravina in Puglia.

 

La Tornanza: l’academy

Vera e propria espressione dei concetti fondanti della Tornanza (origine, viaggio e innovazione) l’academy è lo spazio dedicato alla formazione dei tornanti e per coloro che vogliono diventarlo


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Luigi e Luigia litigavano su tutto, ma il cane Tobia ha salvato il loro matrimonio

Luigi e Luigia sono sempre stati una coppia molto litigiosa. Riuscivano a non essere d’accordo su qualunque aspetto: dalle cose importanti ai progetti della vita sino ad arrivare alla scelta della pizzeria del sabato sera.L’uno ha sempre tentato di prevaricare sull’altro e il loro rapporto è sempre stato una sorta di braccio di ferro disfunzionale che non li ha mai portati a una risoluzione effettiva dei disagi. Anche in terapia avevano l’abitudine di interrompersi, sovrastarsi, insultarsi e a volte di
scappare dal setting terapeutico sbattendo la porta del mio studio.Nel momento in cui l’uno andava via dallo studio o dalla relazione, l’altro lo inseguiva.Tra un litigio efferato e un altro anche l’amore scricchiola ma la coppia non riusciva a seppellire l’ascia di guerra.Nonostante gli impegni da parte di tutti, la coppia continuava a essere una coppia altamente disfunzionale. Quando iniziavano a stare un po’ meglio, tornavano a litigare per un nonnulla e il benessere faticosamente costruito svaniva.I partner erano ben consapevoli di non poter mettere al mondo dei bambini, perché loro stessi si consideravano tali, così di comune accordo - almeno questa volta - avevano rinunciato
L’incontro L’amico del cuore di Luigi, Giuseppe, nome di fantasia, fa l’addestratore cinofilo e ha una pensione per cani. Quando Luigi e Luigia vanno a cena con lui e altri amici, l’argomento principale è il lavoro di Giuseppe. Così, tra una pizza e una
birra, l’amico del cuore incanta tutti i commensali con le sue storie.
Racconta di quel cagnone di nome Gigi che soffriva di disturbi del comportamento e che in realtà aveva bisogno d’amore, e che lui aveva curato.
Di Frida che con i suoi disturbi psico-somatici raccontava il disagio della famiglia in cui abitava e che iniziava a stare bene solo quando si trasferiva in pensione. Di Poldo, che aveva l’abitudine di mangiare le sue feci perché era sin troppo solo, annoiato e trascurato.
E poi c’era Tobia, un Bassotto Tedesco a pelo lungo con due occhi neri penetranti e liquorosi, e un caratteraccio. Allegro, giocherellone, buffo, testardo e vivace al tempo stesso, ma veramente impegnativo. Tobia aveva rapito il cuore di tutti.
Tobia e la pensione

Il quattrozampe frequentava abitualmente la pensione di Giuseppe perché i suoi amici umani viaggiavano spesso per lavoro. Durante la pandemia, i proprietari di Tobia sono rimasti per oltre due mesi in Giappone, lasciandolo in pensione.Al loro rientro il quattrozampe si era talmente affezionato a Giuseppe e ambientato nella sua nuova casa che stentava ad andar via.Anche Giuseppe dal canto suo aveva instaurato un rapporto di profondo affetto con Tobia pur consapevole di doverlo restituire alla sua famiglia.In realtà, Tobia non ha mai avuto un carattere particolarmente facile: non amava rimanere da solo in casa e tutte le volte che accadeva distruggeva qualcosa. Questo suo comportamento aggressivo e disfunzionale aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi amici umani, così, un po’ per scherzo, un po’ per sondare il terreno hanno chiesto a Giuseppe se per caso volesse diventare la nuova famiglia di Tobia.Giuseppe non ha esitato neanche un istante e ha ripreso Tobia con sé facendolo diventare un aiuto-addestratore cinofilo.Estate, cane mio non ti conosco. La triste storia di Penelope: dal balcone alla sua nuova vita
La sceltaIl carattere prepotente ed esuberante di Tobia ha messo a dura prova il lavoro di Giuseppe, rendendolo particolarmente complicato.Non voleva rimanere da solo in casa e lo dimostrava con tutte le monellerie in suo possesso. In pensione entrava in competizione con gli altri cani di sesso maschile e man mano che passavano le settimane diventava sempre più morboso e simbiotico nei confronti del suo nuovo amico umano.La vita di Giuseppe era diventata un inferno, ma non poteva più restituirlo perché sentiva una responsabilità enorme.Una sera, tra una pizza e una birra, raccontava a Luigi e Luigia la storia di Tobia. I coniugi, nonostante fossero occupati a litigare, hanno immediatamente mostrato un interesse a dir poco dirompente nei confronti dell’esuberanza di Tobia.(Con il senno di poi, probabilmente, si erano entrambi identificati nelle angosce abbandoniche del quattrozampe e nei frequenti rituali che metteva in atto per attirare l’attenzione).A fine serata hanno chiesto a Giuseppe di incontrare Tobia e di poter stare un po’ con lui.
La sorpresa
Tobia, come sempre, era particolarmente schivo e anche un po’ imbronciato. Non amava ricevere visite, ma preferiva trascorrere la serata sul divano in compagnia di Giuseppe. Ogni persona o cane che frequentava quella casa era considerato per lui una chiara intrusione di campo e di cuore.Quella sera, però, l’incontro tra Tobia, Luigi e Luigia aveva sin da subito presentato delle caratteristiche inedite.Il quattrozampe si è mostrato incuriosito e interessato; probabilmente ha subito sentito l’interesse da parte della coppia.Tutti e tre hanno giocato per l’intera serata, lanciandosi palline e calzini e ridendo a crepapelle. Per la prima volta Luigi e Luigia hanno dimenticato di essere una coppia litigiosa e in crisi e si sono occupati di un altro essere vivente diverso da loro. E Tobia, dal canto suo, ha dimenticato di essere un cane con un carattere difficile e diffidente e si è concesso al gioco.Luigi e Luigia hanno chiesto a Giuseppe di poter adottare Tobia e di poterlo portare a casa con loro. Giuseppe, per poter continuare a vivere a lavorare serenamente, ha acconsentito con una sorta di tacita postilla: nel caso in cui ci fossero stati problemi il quattrozampe sarebbe ritornato a casa sua.
Un anno dopo
La settimana scorsa ricevo una telefonata inaspettata e affettuosa di Luigi e Luigia, che nel mio immaginario erano già separati. In realtà mi raccontano che la loro vita è cambiata profondamente da quando Tobia è entrato a far parte del loro quotidiano. Mi hanno raccontato la loro storia e mi hanno chiesto di scriverla per La Zampa.Hanno poi concluso il racconto dicendomi che grazie all’adozione di Tobia hanno salvato il loro matrimonio, e sempre grazie a Tobia hanno smesso di essere due persone egocentriche e infantili e hanno imparato ad amare e ad essere amati.Tobia ha imparato a rimanere a casa da solo, a non distrugge più nulla e non ululare al silenzio. Luigi e Luigia hanno imparato ad interpretare le esigenze di Tobia e ad ascoltarlo, e nel frattempo hanno imparato ad ascoltarsi l’un l’altro.

Ringrazio Luigi e Luigia per aver avuto fiducia in me e per avere affidato alle mie parole il racconto della loro storia, scritto in esclusiva per La Zampa.





9.3.24

Vincenzo Mancina, l’artista che ha riprodotto le tavole del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore – di Emiliano Morrone




ne ha dipinto 13, acrilico su tela e con la traduzione in italiano dei testi latini

Pubblicato il: 08/03/2024 – 6:40
di Emiliano Morrone





Le Tavole di Gioacchino tradotte in italiano dall’IA

Dall’interpretazione ai fatti, Mancina ha quindi riprodotto le tavole del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. Come amanuense mosso da forza irrefrenabile, d’impulso ne ha dipinto 13, acrilico su tela e con la traduzione in italiano dei testi latini; tranne la spirale di “Mistero della chiesa”, che per intero riporta all’esterno il XII canto del Paradiso, «quale mio omaggio – chiarisce l’artista – a Dante Alighieri». «Per le traduzioni mi sono in parte servito – racconta il nostro interlocutore, cordiale e ospitale come pochi – dell’Intelligenza artificiale, che ho messo a confronto con alcuni libri. Ora Gioacchino è intelligibile dalle persone comuni, perché in ciascuna tavola è presente in lingua italiana la spiegazione che lo stesso abate diede in latino dei propri disegni. Il mio obiettivo è tradurre in altre lingue e portare ovunque la bellezza, la significanza e l’attualità delle opere figurative di questo monaco straordinario, capace di farsi ascoltare dall’imperatrice Costanza d’Altavilla e dai Papi del suo tempo; di costruire nel concreto una comunità di persone sulla base di un modello teologico, assieme urbanistico e politico, riprodotto anche nelle Americhe; di profetizzare uno stato terreno di pace, armonia e giustizia derivato dalla propria esegesi biblica».

L’abate florense e il territorio silano

«Il punto di partenza – sottolinea Mancina – è che Gioacchino concepì qui le sue opere, e noi spesso lo dimentichiamo, presi dalla monotonia quotidiana, dall’ansia del presente, dalla cattiveria che il nuovo capitalismo invisibile trasfonde dentro le coscienze. L’abate lavorò qui, agì qui e da qui si fece conoscere nel mondo. Questa è la più grande ragione di meraviglia, se pensiamo che il suo pensiero resta oggetto di curiosità intellettuale e di studio in tutto il pianeta, mentre il nostro territorio suole mettersi ai margini, ricadere nel vittimismo e nell’autocommiserazione, volgere lo sguardo verso il basso».


Il filosofo Tagliapietra: «Gioacchino introdusse un tempo nuovo»

Che cosa fece l’abate calabrese, qual è il suo merito principale e perché in tanti si innamorano del suo linguaggio e del suo messaggio? Nell’articolo “Gioacchino da Fiore: millennio e utopia”, lo spiega in sintesi il filosofo Andrea Tagliapietra, peraltro fra gli autori della sceneggiatura del film, di Jordan River, “Il Monaco che vinse l’Apocalisse”, dedicato alla vita dell’abate. «Va sottolineato come l’apporto di Gioacchino da Fiore – scrive Tagliapietra – sia stato quello di introdurre un tempo nuovo e una nuova iniziativa storica – il terzo status, la terza età dello Spirito –, che sostituiscono all’agostiniana tensione fra la civitas Dei e la civitas terrena, ovvero fra bene e male e fra trascendenza e immanenza, un conflitto che attraversa l’ecclesia stessa (ecclesia carnalis/ecclesia spiritualis), ma che ha come suo effetto quello di rendere positivo, almeno in parte, il saeculum medesimo».

«Una risposta rivoluzionaria»

«Nell’opera di Gioacchino, nel suo pensare per figurae e nell’impegno di rinnovamento del monachesimo e di ricerca dalla vitae forma apostolica, viene tentata una risposta diversa, autenticamente rivoluzionaria – sottolinea Tagliapietra – seppur interna alla tradizione cristiana, per andare oltre il blocco teologico-politico agostiniano senza necessariamente intraprendere la via della secolarizzazione».


Cristo, Guevara, il cinema e la pubblicità sociale

Nel frattempo, Mancina mostra il suo laboratorio e si sofferma su un quadro datato: un crocifisso con il volto di Ernesto Guevara. «Due figure giganti, Cristo e il Che», commenta, «che hanno sempre ispirato i miei sentimenti e le mie scelte». È «la grande chiesa» cantata da Jovanotti? È una suggestione del globalismo? È il pensiero dell’unificazione teorizzato da Gianroberto Casaleggio nel celebre video “Gaia”? Mancina insiste sul proprio passato per leggere il presente e immaginare il futuro. Nel 1977 era un ragazzo sveglio, curioso, inquieto. Adolescente, allora incominciò a lavorare con il padre al Cinema Eden di San Giovanni in Fiore. Lì gli nacque la passione per le immagini e l’equilibrio ambientale, due caratteristiche del pensiero di Gioacchino. La Rai aveva appena iniziato le trasmissioni a colori, un operaio guadagnava più di 150mila lire al mese, il giornale costava pochi spiccioli, videogiochi e walkmann si affacciavano sul mercato e John Travolta era entrato nel grande schermo con “La febbre del sabato sera”, musiche dei Bee Gees e su tutte Stayin’ Alive. Le arti visuali erano legate all’industria e al commercio. Mimmo Rotella sperimentava frottage, effaçage e plastiforme, poi avrebbe maneggiato le «sovrapitture». Proprio nel ’77, una campagna di “Pubblicità progresso” dedicata all’acqua descriveva inondazioni, frane e smottamenti in metà dei Comuni italiani e avvertiva: «Abbiamo trasformato una fonte di vita in un nemico, che passa, distrugge, uccide».

Fra stragismo e guerra fredda

L’Italia era in mezzo al terrore, alle stragi, ai depistaggi, alle trame della mafia e del potere: dalla sparizione di Mauro De Mauro all’assassinio di Giovanni Spampinato; dall’attentato dell’Italicus all’omicidio di Aldo Moro e di Peppino Impastato; dalla bomba nella stazione di Bologna all’uccisione di Piersanti Mattarella, poi di Pio Latorre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e così via. Questo era il quadro dell’epoca, prima che alla Casa Bianca arrivasse Ronald Reagan con il taglio delle imposte, lo Scudo spaziale per la guerra fredda, la riduzione degli armamenti atomici e, secondo alcuni storici, un ruolo rilevante nel crollo anticipato dell’Unione sovietica di Michail Gorbačëv.

La lezione di pace di Gioacchino

Mancina si formò, dunque, in un contesto di notevole sviluppo economico-sociale, di incertezza e creatività, di fatti angoscianti e massificazione cinematografica, peraltro esposta in dettaglio dal filosofo Slavoj Žižek in una celebre guida. «Lo riconosco: mi hanno molto forgiato, a livello di carattere e visione, le immagini, gli echi, gli effetti e i misteri di quegli anni – confessa l’artista calabrese – di benessere e violenza, di occupazione nell’ambito del lavoro e di precarietà internazionale. Nulla avviene per caso. Mio padre, soprannominato “Bombola nera”, portò il fornello a gas a San Giovanni in Fiore e, ricordo, insegnava a utilizzarlo. Credo che ognuno di noi sia chiamato a illuminare questioni che sembrano marginali, ad aprire argomenti negati alle masse, che seguono mode create, diffuse dal cinema e da ultimo soprattutto dal web. Oggi sono in corso guerre tremende: in Ucraina, nella sponda sudorientale del Mediterraneo e nell’area del Mar Rosso. Viviamo nel mezzo di una crisi totale che può compromettere la vita di ciascuno e la tenuta degli equilibri politici e ambientali del pianeta. È questo, credo, il momento per rilanciare il messaggio di pace e di speranza di Gioacchino, rendendolo il più possibile semplice e chiaro».
Gioacchino, Mancina e il risarcimento nei confronti del presente
«E non c’è modo migliore – conclude Mancina – che tornare ai disegni dell’abate», che, riassume Tagliapietra, sono il «mezzo per continuare a pensare ciò che strutturalmente non può essere inteso mediante concetti e detto ed espresso in parole, se non con formule oscure e da ultimo contraddittorie». Secondo Tagliapietra, «il tempo del terzo status, come mostra icasticamente la figura dei tre cerchi sovrapposti», deve intendersi «come trasformazione qualitativa di qualsiasi istante percorso dalla dialettica fra il tempo e l’eterno». «Vale a dire come tempo messianico in cui, analogamente a ciò che è avvenuto mediante l’Incarnazione, si dà una nuova iniziativa – questo è il passaggio fondamentale dell’analisi di Tagliapietra – dello Spirito nella storia, nell’ordine non solo del compimento rispetto al passato, ma soprattutto del risarcimento nei confronti del presente». (redazione@corrierecal.it)

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8.11.21

Gli Indiana Jones, quelli veri: in Sicilia 73 ricerche archeologiche, così la storia antica verrà riscritta

 

Gli Indiana Jones, quelli veri: in Sicilia 73 ricerche archeologiche, così la storia antica verrà riscritta

Mentre Harrison Ford gira il quinto capitolo della saga di Indy l'Isola vive una stagione irripetibile: dal teatro ellenistico di Agrigento alla città greco-romana scoperta a Tusa, ecco i ritrovamenti che gli studiosi di tutto il mondo stanno portando alla luce



Da un angolo all'altro della Sicilia a chiunque può capitare di incontrare Indiana Jones. E in questa storia Harrison Ford non c'entra: mentre le troupe Disney girano fra Cefalù, Siracusa e il Trapanese il quinto capitolo della saga di Indy, infatti, l'Isola sta vivendo la più straordinaria stagione della sua archeologia, con 73 campagne di ricerca che stanno portando alla luce fra le altre scoperte un teatro ellenistico e un tempio greco ad Agrigento, una città greco-romana nel Messinese, necropoli preistoriche nell'Ennese e navi romane nel mare di fronte a Palermo. A esplorare il sottosuolo e i fondali di quest'avamposto dell'era classica nel cuore del Mediterraneo sono le università di tutto il mondo, che si affidano per gli scavi alle mani di studiosi giovani e vere e proprie leggende viventi dell'archeologia, capaci di raccontare in un soffio di fiato il primo incontro con una statua di 2.500 anni fa, il Giovinetto di Mozia ora tornato in Sicilia dopo essere stato esposto al British Museum e al Getty di Los Angeles.

Al cospetto della storia

Niente che Harrison Ford possa davvero raccontare. "Era un giorno come questo, in autunno - ricorda Francesca Spatafora, che al culmine della carriera è stata direttrice del museo Salinas di Palermo e ora si dedica alla divulgazione - stava per arrivare la stagione delle piogge e quindi ci accingevamo a chiudere la campagna di scavi. Un operaio stava sistemando e venne fuori la parte inferiore di un blocco di marmo lavorato. Ci rendemmo conto che era qualcosa di grosso: chiamammo il sovrintendente dell'epoca, Vincenzo Tusa, e ricominciammo a scavare. Era una statua alta un metro e ottanta, con la testa staccata dal corpo ma perfettamente coincidente". È questa, in fondo, la sfida degli archeologi: entrare in contatto con la storia dell'arte e farle prendere vita, ricalcando e innovando le pagine scritte da tanti studiosi del passato. Ernesto De Miro, Giuseppe Voza, Paola Pelagatti sono tra i fondatori della moderna archeologia e hanno lasciato in Sicilia decine di eredi: da Lorenzo Guzzardi, oggi impegnato in numerosi scavi nel parco di Lentini e Megara Hyblaea che dirige, a Flavia Zisa, docente e firma del lemma di Archeologia della Magna Grecia nell'enciclopedia Treccani, dal primo ricercatore del Cnr Massimo Cultraro a Rossella Giglio, che a Segesta è impegnata a riportare alla luce pezzi della città degli Elimi.

Trovati nel mare delle Egadi 25 rostri: "Riscriviamo l'epilogo della prima guerra punica"

Una stagione irripetibile

Le campagne in corso, del resto, sono un elenco senza fine. Ciascuna delle province siciliane ne ha almeno una: e se in siti patrimonio dell'Umanità come la Valle dei Templi di Agrigento si continuano a scoprire nuove testimonianze della grecità, a stupire è anche l'individuazione di nuovi insediamenti archeologici. E mentre a Calascibetta, nell'Ennese, si lavora su una necropoli preistorica, il nuovo sito più sorprendente è forse quello di Tusa, in provincia di Messina: le università di Palermo, Messina, Oxford e Amiens stanno riportando alla luce pezzo dopo pezzo una città fondata dai greci e poi conquistata dai romani, Halaesa Arconidea, scoprendovi teatri, basi di templi, un'acropoli e un sistema difensivo. "Invece di iniziative spot isolate una dall'altra - osserva l'assessore regionale ai Beni culturali, Alberto Samonà - si è voluto perseguire una direzione, quella di una politica culturale che guarda alle collaborazioni con le università e con gli istituti di ricerca per riportare alla luce le testimonianze del passato. Abbiamo voluto farlo in grande stile, attraverso ricerche un po' dappertutto, in terra e in mare. Il futuro della Sicilia passa dalla riscoperta del nostro passato".

Viaggio nella Sicilia delle scoperte archeologiche, l'assessore: "Così riscriviamo la storia"

Sulle spalle dei giganti

Un'intuizione che, del resto, è l'eredità di Sebastiano Tusa. L'assessore-archeologo morto il 10 marzo 2019 nella tragedia del Boeing 737 Max in Etiopia ha lasciato un'eredità politica e scientifica che si traduce soprattutto nelle ricerche in corso nel suo campo preferito, il mare: al largo di Isola delle Femmine, dove è stata scoperta una nave romana, ma soprattutto sul fondale delle Isole Egadi, dove la scoperta di un'enorme quantità di rostri sta permettendo di riscrivere l'epilogo della prima guerra punica. "Eravamo abituati a pensare che la Battaglia delle Egadi fosse stata combattuta a Cala Rossa, a Favignana - spiega Valeria Li Vigni, che oltre a essere la soprintendente del Mare è anche la vedova di Tusa - Attraverso lo studio delle fonti e attraverso la documentazione raccolta dai pescatori si ottenne invece la certezza che la presenza di innumerevoli ancore lasciate sul fondo a Cala Minnola, a Levanzo, fosse la testimonianza di un appostamento per colpire di sorpresa le truppe cartaginesi". Ne è venuto fuori un tesoro mozzafiato: fino a pochi anni fa i rostri di epoca punica rinvenuti in tutto il mondo si contavano sulle dita di una mano, da allora ne sono stati trovati 25 solo fra le Egadi e il resto del mare siciliano.

A scuola dai pionieri

Sebastiano Tusa e il padre Vincenzo, però, non sono gli unici pionieri dell'archeologia che hanno rivoluzionato il settore in Sicilia. Il decano è Giuseppe Voza, 94 anni, che parla ancora con l'entusiasmo dei primi giorni. Campano di nascita, ha scavato per sei decenni in Sicilia, facendo alcune tra le più belle scoperte dell'Isola: fu lui, nei primi anni Settanta, ad andare in una vecchia masseria nelle campagne intorno a Noto e riconoscere, in una stalla, i mosaici della villa del Tellaro o, più tardi, a far deviare l'allora costruenda autostrada Palermo-Messina per avere scorto in uno dei cantieri alcune tessere musive di quella che è oggi la domus romana di Patti Marina. La folgorazione avvenne un giorno del primo dopoguerra, quando la sua strada si incrociò con quella di Luigi Bernabò Brea, uno dei padri fondatori dell'archeologia moderna. "Ne rimasi affascinato - racconta - e allora gli dissi di alcune scoperte fittili simili a quelle da lui rinvenute a Lipari. Dopo qualche tempo mi telefonò e mi chiese di andare per tre mesi in Sicilia a lavorare con lui. Andai e quei mesi diventarono 60 anni". Tra le sue tante scoperte, quella che ricorda con più entusiasmo è la grande area sacra sotto piazza Duomo, a Siracusa. "Un lavoro meraviglioso - commenta - ricordo che in piazza c'era un oleandro, proprio davanti a palazzo Beneventano, e sotto le sue radici trovai un vaso con la raffigurazione di Artemide 'domatrice delle belve'. Era la prova che il tempio ionico sotto il municipio, poco distante, fosse dedicato a questa dea". L'elenco delle sue scoperte è infinito, però: impossibile, ad esempio, non citare le centinaia di statuette di Demetra nell'area del santuario scoperto a ridosso del santuario della Madonna delle Lacrime, a Siracusa. "Manufatti bellissimi - racconta - che raccontavano la vita di questo luogo. Scoperte che oggi continuano ad emozionare nel museo Paolo Orsi a cui ho lavorato per anni e che ho creato ispirandomi ai più grandi musei con i quali compete in meraviglia e ricchezza".

I ritrovamenti di Halaesa Arconidea, a Tusa 
Parlano i veri Indiana Jones

Quest'eredità, adesso, dev'essere portata avanti dai giovani ricercatori impegnati in Sicilia. Lo sa bene Daniele Malfitana, che dirige la Scuola di specializzazione in Archeologia dell'università di Catania: "La soddisfazione per chi pratica la ricerca sul campo o in laboratorio - osserva il docente siciliano, che dirige uno scavo a Portopalo di Capopassero per portare alla luce un sistema di tonnare e gli stabilimenti per la lavorazione del pesce in antichità - è proprio quella di vedere la soddisfazione dello studente quando si impadronisce di un metodo, sa applicarlo e riesce ad interpretare ciò che ha in mano o ciò che sta studiando. Insomma, quando si trasmette il mestiere". Già, condividere emozioni: come sta provando a fare Rosalba Panvini, ex soprintendente di Ragusa, Catania, Caltanissetta e Siracusa, oggi impegnata nelle ricerche al Bosco Littorio, a Gela. "Adesso - sorride - torno a scavare con i ragazzi nel luogo in cui ho fatto la più bella scoperta della mia carriera, l'emporio di Gela". Ne è passato di tempo dal 1981, quando fu chiamata proprio da De Miro per scavare nella necropoli di contrada Pezzino, ad Agrigento. "Avevo 25 anni ed ero appena diventata mamma - ricorda - un'emozione e una fatica indescrivibile. Se tornassi indietro rifarei tutto". Impossibile sottrarsi: "Non so perché ho scelto di fare l'archeologo ma l'ho sempre voluto - racconta Dario Palermo, a cui sono legati 40 anni di scavi a Prinias in Grecia e, in Sicilia, alcune grandi scoperte tra cui il sito di Monte Polizzello e di Sant'Angelo Muxaro - e il mio primo scavo, a Rocchicella, da universitario fu la conferma di un sogno che si realizzava". Con lui, a Rocchicella per volere di Luigi Bernabò Brea, c'era anche Massimo Frasca, già docente di Archeologia della Magna Grecia all'università di Catania, che ha dedicato molti decenni di scavi alla città greca di Leontinoi, dove adesso tornerà a scavare da docente in pensione. "Avevo 14 anni - racconta - quando mi regalarono un gioco in cui si vedevano le piramidi tridimensionali. Fu l'inizio di una passione mai finita. Abitavo a piazza Lanza, nel cuore di Catania, all'epoca con pochi palazzi e tanti prati dove giocare tra cui quello in cui c'era un ipogeo: qui sognavo battaglie e fantasticavo". Un sogno da fare a occhi aperti, per scoprire le meraviglie un tempo immaginate. E senza uno straccio di effetti speciali. Perché alla fine non ci sono i titoli di coda. Alla fine c'è il privilegio di avere riscritto la storia.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...