Macchine da scrivere, vecchie radio analogiche, dischi e giradischi, telefoni a disco e telefonini anni Novanta-primi Duemila, macchine fotografiche a rullino e calcolatrici elettroniche: ad Assemini c’è una porta oltrepassata la quale si fa un salto indietro nel tempo. È l’uscio della pasticceria-caffetteria di via Sardegna. Il cliente non abituale entra ignaro, con il desiderio di assaporare un buon croissant e sorseggiare un cappuccino caldo. Non si aspetta certo di trovarsi di fronte una sorta di macchina del tempo, come nel film “Ritorno al futuro”. Ad aver creato questo artificio è stato il titolare del bar, il 49enne Emanuele Cani, nostalgico collezionista retrò di centinaia di oggetti, tutti rigorosamente funzionanti, legati alla comunicazione.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
25.3.25
Assemini. «Il mio bar è un viaggio nel tempo» In mostra oggetti che raccontano com’è cambiata la comunicazionee la tecnologia .,
20.12.24
«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur
Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André di Pomezia, Plesso Martinelli. Quest’anno ha la quinta elementare: «Un bel gruppo di studenti che mi sono coltivata piano piano. Mi dispiacerà lasciarli andare, ma il nostro lavoro è questo: dargli le ali per volare per conto loro». E’ arrivata in Italia a cinque anni dalla Somalia: erano i primi anni 70. La sua mamma era già qui e lei, che aveva avuto la poliomielite, venne per farsi curare e stare con la sua famiglia. L’idea era di tornare a casa dopo qualche anno. E invece: scuole elementari, medie, magistrali in collegio dalle suore e in contemporanea Ospedale Spolverini, don Gnocchi, operazioni ripetute per poter rafforzare le gambe e stare in piedi con le stampelle. Poi il Magistero e l’impossibilità di fare i concorsi perché non aveva la cittadinanza. A vent’anni dal suo arrivo, nel 1989, riesce a ottenerla e dal 1992 insegna felicemente a Pomezia. E’ sposata e ha una figlia di undici anni: «Questo è il mio Paese. Ho fatto qui le scuole».Come sono stati gli inizi come maestra?
«Quando ho saputo che sarei andata a insegnare a Pomezia, sono stata a vedere la scuola con mio padre. Troviamo il collaboratore, gli spiego che sono la nuova maestra. Lui, molto gentile, ci fa entrare, ci racconta come funziona la scuola, giriamo per aule e corridoi e io lo saluto dicendo che tornerò nel giro di qualche settimana. Quando ho preso servizio vedevo gli insegnanti un po’ cauti nei miei confronti. Una volta entrati più in confidenza mi hanno detto che il collaboratore aveva detto loro che parlavo a stento italiano».
Le è mai capitato un episodio spiacevole con i colleghi?
«Tempo fa c’era una collega che durante il collegio dei docenti mi diceva: “Tu come la pensi, cioccolatino?”. Le sembrava di usare un vezzeggiativo. Le ho fatto notare che se voleva usare un tono affettuoso avrebbe potuto chiamarmi con un diminutivo: Rahmuccia, casomai. La collega si è offesa».
Aneddoti, ricordi, ferite di una maestra nera, per di più con le gambe rese incerte dalla poliomielite. Rahma Nur è appassionata di poesia, ha scritto racconti e saggi, l’ultimo nell’Alfabeto della scuola democratica (Laterza, a cura di Christian Raimo). E’ diventata insegnante per caso e per necessità: «Non era il mio sogno: studiavo lingue e volevo viaggiare, scrivere e fare l’interprete, però ho passato il concorso, volevo essere indipendente e avere un lavoro. C’erano già state troppe lungaggini».
Non aveva cercato altri posti?
«Avevo provato a fare qualche colloquio ma sono una persona nera e con disabilità. Mentre studiavo sono stata presso una signora che mi chiamava la sua “dama di compagnia”».
Lei l’ha avuta dura. Ritiene che i tempi siano cambiati?
«Ho vissuto momenti davvero tristi e difficili. Nel collegio dove ho fatto le superiori mi sono sentita sola e non capita. Gli assistenti mi dicevano: perché non torni nel tuo Paese? Una volta risposi a una di questi assistenti, allora ero più coraggiosa… Le dissi: siete voi che siete venuti nel mio Paese in Somalia, a farci colonia».
E oggi?
«Oggi ci sono più persone che approfondiscono: si parla di più di antirazzismo, antiabilismo, femminismo. Sono persone che studiano e si documentano. Dall’altro lato però vedo che non ci si vergogna più di essere definiti razzisti, anzi, ci sono molti che si sentono orgogliosi di dire: "questi non li voglio qui nel mio Paese". Sono persone che hanno paura di affrontare questi temi perché non hanno gli strumenti per capire e superare i pregiudizi.
E i bambini?
I bambini sono più curiosi che paurosi. I miei studenti sono più preoccupati perché io non posso accompagnarli in gita o al campo scuola visto che non ci sono strutture accessibili. Quando tornano hanno pudore a dirmi che si sono divertiti, perché sono tristi per me. Purtroppo, le scuole non sono organizzate per gli insegnanti disabili. Ma loro i bambini mi vedono come persona, mi disegnano con la mia carrozzina blu piena di stickers, per loro è normale».
Lei, avendo vissuto tra due culture, porta in classe qualcosa di diverso o anche di più di altri suoi colleghi?
«Credo di sì. Per esempio, oltre ai nostri autori classici faccio conoscere sempre poeti e poetesse di lingua inglese non solo europee. Ho fatto con i bambini lavori sulla poesia afroamericana, o su Mahmud Darwish con la poesia “Pensa agli altri”; mi piace molto Nicky Giovanni, una poetessa e attivista americana che è appena scomparsa. Un altro progetto che i bambini hanno amato molto è quello sulla poesia “Homesick blues” di Langston Hughues: l’abbiamo ascoltata letta da lui, abbiamo provato a tradurla, ci abbiamo messo la musica, il blues. Bellissimo… Ma faccio anche Ungaretti».
Chi le ha dato una mano nei momenti di difficoltà?
«Ricordo due insegnanti. Adriana è stata la mia maestra a Roma: diceva alla mia mamma che non dovevo stare lì nell’istituto, perché ero super, capace e sensibile. Ma io avevo bisogno di cure, della fisioterapia e non c’era alternativa. E’ stata la prima a credere in me e a farmelo capire. Poi ricordo con affetto la prima collega che mi ha accolta e sostenuta, Carmela Crea. Temevo di non essere in grado di entrare in comunicazione con i bambini. Poi ho capito che, se io non avevo paura, loro mi avrebbero visto soltanto come colei che ama il proprio lavoro e ama trasmettere curiosità e amore per il sapere.
E ora come si trova in classe?
«In classe sto bene, è il mio luogo sicuro e spero sempre lo sia anche per i miei studenti ma siamo molto soli: se hai un gruppo non omogeneo di studenti formato da italiani, neoarrivati, seconde generazioni devi diversificare anche le attività, dividendo gli studenti in gruppi. Bisognerebbe potenziare l’insegnamento dell’italiano L2, non in orario extrascolastico, ma dentro la scuola, per dare a tutti la possibilità di lavorare insieme anche facendo cose diverse. Trovo poi che si tenda a non dare importanza all’acquisizione degli strumenti culturali, alla capacità di pensare criticamente. Ci chiedono concentrarci sul fatto che lo studente deve essere inserito nel mondo del lavoro: ma questo viene dopo, prima bisogna imparare a imparare e poi è possibile scegliere la propria strada».
E le sue colleghe, lei come le vede?
«Ci sono tantissime insegnanti sensibili alla diversità culturale: cercano di conoscere le realtà che hanno in classe, di capire la cultura e la religione. I testi sui quali formarsi ci sono, ma in generale in Italia prevale la paura della diversità: è più facile chiedere ai bambini di omologarsi e assimilare la nostra cultura. Ma lo studio della storia e della cultura è già previsto: la questione è come aprirsi anche noi agli altri, alle alterità che abitano le nostre aule».
E come si fa?
«Per cominciare dobbiamo saper pronunciare bene i nomi dei nostri alunni: saper dire bene Mohamed o Jasmine è un primo passo per creare incontro, chiedere al mio alunno che lingua si parla a casa, che cibo si mangia, quali sono le feste. Creare dei momenti in cui festeggiare anche le feste degli altri: lei ha mai sentito parlare della festa della primavera in Romania, per esempio? Da qui parte l’integrazione o meglio “l'accoglienza nelle differenze”, dal riconoscere i nostri alunni per aprire un dialogo. Siamo noi adulti, noi insegnanti, che dobbiamo aiutarli: se non siamo pronti noi, come possono essere pronti loro a vivere serenamente?»
Se potesse, che cosa cambierebbe nella scuola?
“Semplificherei. Ci sono troppi progetti che non portano a nulla, toglierei i soldi a quei progetti e li userei per far funzionare bene la scuola, per gli arredi e per la sicurezza”.
P.s
mentre leggendo i commenti a tale notizia non ho saputo controllarmi ed ho risposto a questo commentoi idiota e fuorviante
Franz Pier11m
Ma potrebbe andare in africa la c e tanto bisogno di insegnanti, invece di stare qui a dire stupidaggini.
@Franz Pier perchè invece non ci vai tu in africa . coi capisci perchè si fugge e si corrono rischi per venire qui e poi ne riparliamo . scusa dove sarebberoi le stupidaggini che dice , elencale grazie
18.10.24
Semestene ha aumentato il n degli abitanti sono 123 grazie alla nascista della sardo cinese Landhe Yu .,Lo chef Leonardo Barberio «Era il momento di tornare a casa e di mettermi in gioco»
Lo so che tali articoli potranno sembrare ovvi e scontati , ma in una regione del sud o centro italia , dopve l'interno si spopola a scapito delle dei grossi centri delle coste o s'emigra tali notizie \ storie sono importanti .
da la nuova sardegna 18\10\2024
La piccola Landhe Yuèstata partorita incasa ed è diventata la 123esima abitante del paese Sui tetti diSemestene ritorna la cicogna dopo 57 anni di attesa Giovedì scorso è nata in casa la piccola Landhe Yu Dal 2010 nel paese solo 4bambini e nessun parto domestico La sindaca: «Ogni nuovo arrivo rappresenta perla comunità un dono prezioso . È la vita che sboccia»
Semestene
Si chiama LandheYue già il suono sta per raccontare una storia, che mette insieme la Sardegna con l'oriente più estremo, Cina e Mongolia.Se poi si aggiunge che la bimba è nata inuno dei paesi più piccoli della Sardegna e che lo ha fatto non in una fredda stanza di ospedale, ma fra le mura di casa sua, 57 anni dopo l’ultimo parto domestico nel paese,la storia si fa ancora più in teressante. La piccola è diventata la 123esima abitante di Semestene, piccolissimo comune del Meliogu, il 10 ottobre alle 10 di sera.I genitori sono Antonio Sotgiu, semestenese, e Jean Se-Jing, nata negli Stati Uniti e di origini sino-mongole. Il nome della bimba mette insieme il sardo landhe, ghianda, con un omaggio ai nonni materni
una veduta del piccolo centro del Meilogu
che furono storici cineasti cinesi. A dare la notizia dell'arrivo della piccola Landhe Yu sono stati proprio i due genitori, che hanno affisso sul balcone di casa, nel quartiere di Cantara Jana, un cartello con su scritto semplicemente:“Est nada”. Antonio e Jean si sono conobbero durante un progetto di agroecologia e arte e decisero di vivere nel piccolo paesino, ponendosi fin da subito l’obiettivo del parto in casa.«Lagravidanza di Jean è stata seguita e monitorata dai servizi ospedalieri — spiega il marito, ma durante tutto il periodo abbiamo ricevuto l'’accompagnamento di due ostetriche straordinarie, Viola Usai e Silvia Collu, che da anni lavorano in tutta l'isola per assistere le famiglie di genitori che vogliono far nascere i propri figli in casa. A loro va tutta la nostra riconoscenza». Tra professionisti e neo genitori si è creato subito un legame strettissimo, come racconta Viola Usai: «Ci siamo conosciuti a Oristano, la scorsa primavera. Ho raccontato a loro di me e di come lavoro con le coppie insieme alla mia collega Silvia Collu. Ho spiegato che seguiamo un percorso fatto inizialmente di incontri mensili che poi si fanno più frequenti. Creiamo un rapporto di fiducia reciproca, conosciamo le famiglie e le case dove avvengono i parti. Da quell'incontro Jean e Antonio sono andati via con il desiderio più forte di voler vivere a casa la nascita della loro bimba. Daliè iniziato il percorso con Silvia, fatto di incontri periodico fino all'alba del 10 ottobre, quando mamma Jean e la piccola Landhe Yu hanno iniziato il loro viaggio insieme, seguendo il ritmo delle contrazioni che, come onde, hanno accompagnato dolcemente questa bimba su questa ter ra, avvolte e coccolate dalle braccia, dalle mani, dalle parole e dall'emozione di babbo Antonio fino alle 22, quando èatterrata fra le nostre mani». A gioire con la famiglia è l'intero paese rappresentato dalla sindaca Antonella Buda: «Ogni nuova nascita rappresenta perla comunità undono prezioso. È la vita chesboccia, fonte di speranza e promessa di futuro. Landhe Yu arriva nella nostra piccola comunità a distanza di un anno dall’ultima nascita». Nel piccolo centro del Meilogu, le nasci tesono eventi speciali: «Andando a ritroso, dopo il gioioso evento del 2023, dobbiamo arrivare al 2021 per trovare un nuovo nato, poi il 2015 e infine al 2012. Però oggi con altrettanta gioia salutiamo e diamo il benvenuto alla piccola Landhe Yu. A nome dell'amministrazione comunale e della comunità di Semestene auguro a lei e ai suoi genitori una vita lunga e felice, circondata dall'affetto dei suoi cari».
Le reazioni: «Siamo felicissimi, è il simbolo della rinascita»
Un uomo sulla quarantina, in evidente silenzio stampa, intento a fumare una sigaretta sui gradini di casa, alla domanda se avessesaputo della
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uno dei tanti murales di semestene qui gli altri semestene murales - Cerca Immagini (bing.com) |
N.B scusate ma ho oco tempo per estrapolare il testo dal pdf
sempre sullo stesso tema è la storia riportatami via watsapp dall'amico Emiliano Morrone di san giovanni in fiore piccolo paese della calabria
da Emiliano Morrone
Buongiorno per tutto il giorno. Sul Corriere della Calabria è appena uscita la storia di Leonardo Barberio, chef di San Giovanni in Fiore che ha studiato e lavorato fuori regione, dall'Inghilterra al Trentino, con il desiderio di aprire un ristorante a casa sua. Il suo sogno si è infine realizzato: il giovane ha comprato e ripreso un locale nel centro storico della città silana, nel suggestivo quartiere "Curtigliu". Dopo tanti sacrifici e anni di emigrazione, questo ragazzo è rientrato e ci ha raccontato la sua scelta, i suoi obiettivi. È una storia di volontà, tenacia, passione per il mestiere. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria
«Era il momento di tornare a casa e di mettermi in gioco»
Lo chef Leonardo Barberio: «Per me il ritorno era rimasto un pallino fisso, non avevo mai dubitato delle mie intenzioni né perduto la meta del Sud»
Pubblicato il: 18/10/2024 – 10:25
Emiliano Morrone
«Ero rimasto con soli 1000 euro, avevo speso tutti i risparmi per aprire un ristorante a casa mia, il sogno della vita». Occhi vivi, volto disteso, lo chef Leonardo Barberio, trentaseienne, sorride e si racconta mentre sorseggia un caffè cremoso in un locale à la page di San Giovanni in Fiore, di cui è originario. Da adolescente, Leonardo aveva lavorato in diverse cucine del Crotonese, per guadagnare i soldi necessari allo studio e all’aggiornamento continuo; a conoscere indirizzi, culture e orizzonti della gastronomia; ad acquisire le basi idonee a lanciarsi nella ristorazione in proprio. Sacrifici, consapevolezza, visione. E la «doppia sfida personale»: viaggiare in modo da formarsi bene e poi rientrare nella propria terra per contribuire alla crescita collettiva con una cucina originale di qualità, successo, richiamo.
Diplomato all’istituto alberghiero di Soverato, nel 2007 il giovane parte per Coventry, in Inghilterra, insieme al suo amico Cristian, altro sangiovannese. È un’occasione d’oro per impratichirsi, perfezionare la lingua anglosassone, incrementare le entrate e capire le abitudini degli inglesi: ai fornelli, a tavola, nel quotidiano. Nel 2009 Leonardo si iscrive all’Alma, scuola internazionale di Cucina italiana ubicata nel palazzo ducale di Colorno (Parma) e a lungo diretta dal grande Gualtiero Marchesi. Lì il ragazzo impara che ogni piatto si crea, come diceva Marchesi, «partendo dal perché» e comprende l’importanza delle materie prime per il palato e il benessere del cliente. Poi si concentra sugli impasti, tra i fondamenti della cucina, e ne sperimenta regole e segreti, affascinato dalle loro alchimie.
Il percorso
Leonardo completa il percorso all’Alma e, data la reputazione della scuola, subito viene chiamato nell’area del Garda: dalla storica Bardolino all’incantevole Sirmione e oltre. Dopo trova posto a Verona e più avanti in varie località del Trentino-Alto Adige. «Avevo alle spalle – precisa lo chef – 14 stagioni estive e otto invernali: una fatica immane perché gli orari dell’estate erano quasi ininterrotti e dovevi essere efficiente ed efficace ogni giorno. Era il momento di tornare a casa, di costruire il mio futuro a San Giovanni in Fiore, di mettermi in gioco, di portare nella mia comunità tutto il bagaglio personale di saperi, sapori, idee e motivazioni legato alla mia progettualità. Per me il ritorno era rimasto un pallino fisso, non avevo mai dubitato delle mie intenzioni né perduto la meta del Sud».
Sentire queste parole fa effetto, soprattutto davanti all’incertezza del presente, allo spopolamento delle aree interne, ai giudizi prevalenti sulla Calabria; in cui, va riconosciuto, in genere si preferisce l’assistenza pubblica all’intraprendenza privata. Nel 2015 Leonardo era rimasto colpito da un ristorantino che affaccia sull’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore, dove aveva cenato con amici. Gli era piaciuta la posizione, l’odore di antico del quartiere “Curtigliu” – a forma di spirale come il Draco magnus et rufus di Gioacchino da Fiore – e delle mura del locale, già oggetto di ristrutturazione. Nel 2019, lo chef avvia la trattativa per comprare l’immobile e la licenza. A febbraio 2020 conclude l’accordo, poi arrivano il Covid e lo stop forzato. Pertanto, con un investimento di circa 100mila euro, il giovane riattrezza la cucina e realizza un forno di sua progettazione per proporre la pizza contemporanea, che, spiega, «si basa su nuovi sistemi di impasto e, per quanto mi riguarda, sulla selezione e lavorazione delle farine». Tuttavia, Leonardo deve attendere il Primo maggio 2021, per iniziare l’attività. «Non c’era data migliore per festeggiare il valore del lavoro», commenta. Era ancora il periodo delle mascherine, dei timori, dei cibi da asporto. «Ma – ricorda il ragazzo – avevo una fila interminabile, all’esterno, per la leggerezza, la fragranza, la digeribilità e la bontà della mia pizza».
La valorizzazione del territorio
Da allora, lo chef – anche grazie al laboratorio ricavato di fronte al suo ristorante – crea abbinamenti con prodotti del territorio, punta sul biologico, prepara tortellini, tortelloni, ravioli e raviolacci ripieni di selvaggina, carne di struzzo, ricotta di capra e porcini, funghi disidratati e
fermentati. Ancora, Leonardo inventa particolari farciture delle pizze, prosegue la ricerca sugli impasti, parte spesso per frequentare corsi specifici e ha pronto il «”forno verde” con gli ortaggi della zona, coltivati secondo la tradizione contadina del luogo». Il suo piatto forte è però «il padellino», ispirato dai consigli della nonna Barbara, che gli aveva descritto una pietanza tipica degli abitanti di Lorica, in cui l’anziana viveva in mezzo alla natura. «L’ho ricreata – chiarisce lo chef – impastando farine di ceci e grano, tassativamente biologiche. La cottura avviene poi al vapore, all’interno di un tegamino. È un lievitato alternativo che condisco intanto con porcini, culatta di suino nero, scaglie di tartufo, una mousse di pecorino e una riduzione di basilico. Ho battezzato le sue versioni principali con i nomi “Da dove veniamo” e “Ricordo di infanzia”, per ribadire che il futuro dipende dal passato».Emigrazione, volontà, ingegno, carisma
Pieno di stupore per la propria terra, Leonardo è aiutato da alcuni giovani, tra cui Desirée, ragazza salernitana innamorata della Sila; Luigi, cantautore ed ex cameraman della tv nazionale; Alessandro, che in località Serrisi si dedica, nel tempo libero, all’agricoltura di nicchia privilegiando la patata a pasta viola. Il gruppo è affiatato «e – sottolinea lo chef – partecipe degli sforzi incessanti per elevare la qualità del servizio, l’unico obiettivo di chi crede che il lavoro renda liberi». Leonardo ha una biografia di emigrazione, volontà, ingegno, carisma. Di amore per le radici. A San Giovanni in Fiore e dintorni è un periodo felice nel campo della ristorazione. Lo chef Antonio Biafora ha confermato la stella Michelin e ottenuto quella verde per l’impegno nella sostenibilità ambientale. Studio, cura dei dettagli, coraggio e determinazione si stanno imponendo in questo settore. Oggi esiste una marcata consapevolezza delle potenzialità turistiche e ricettive della Sila, favorita dalla competizione costruttiva tra giovani professionisti, che si stimano a vicenda e collaborano fra di loro. Vincenzo Ammirati, per esempio, è un pizzaiolo che si è fatto notare al Festival di Sanremo e Federica Greco, di cui avevamo scritto (leggi qui), è un’apprezzata pasticciera nel panorama italiano. Sono ragazzi che sognano lo sviluppo sostenibile del territorio, che lavorano per questa causa. Senza rumore, senza paura, senza complessi di inferiorità. (redazione@corrierecal.it)
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28.3.24
La storia della classe con 21 alunni e 20 lingue parlate. Un docente: “I test Invalsi ci dicono che in italiano siamo sopra la media” risposta a salvini che vuole ridurre il numero degli stranieri nelle classi scolastiche
DI COSA STIAMO PARLANDO
Salvini all'attacco dopo il caso Pioltello: «Chiudere per il Ramadan? Resa all'Islam. Troppi bambini stranieri nelle nostre classi» - Open
Da https://www.orizzontescuola.it/ e da https://corrieredelveneto.corriere.it/
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In classe 21 studenti e 20 lingue diverse, la preside: “La lingua non è ostacolo ma ricchezza”
La storia della classe con 21 alunni e 20 lingue parlate. Un docente: “I test Invalsi ci dicono che in italiano siamo sopra la media”
Un albero di carta, ricco di simbolismo e di storie, accoglie gli studenti di una scuola media di Padova. Le sue foglie e i suoi cuori rossi raccontano una storia di multiculturalità, mescolando venti lingue diverse, tra cui dialetti, inglese, francese, berbero, turco, swahili, moldavo, hausa, yoruba, arabo, padovano, romanesco, darija, rumeno e bengalese.
Un microcosmo di futuro
Come segnala il Corriere della Sera, in questa classe di ventuno bambini che si affacciano all’adolescenza, le lingue si mescolano e si intrecciano, creando un microcosmo di futuro. La loro diversità diventa una ricchezza, un’opportunità per crescere e imparare gli uni dagli altri.
L’impegno per l’integrazione
L’istituto comprensivo, situato nel quartiere Arcella a dieci minuti dalla stazione ferroviaria, conta un 39% di studenti extra Ue o con almeno un genitore straniero. La scuola si impegna a favorire l’integrazione non solo attraverso le lezioni, ma anche con una serie di attività extracurricolari pomeridiane facoltative: flamenco, atletica leggera, musica, disegno, laboratori di lettura e ripetizioni.
Sogni e desideri
Nordin, nato a Padova da genitori marocchini, sogna di diventare ingegnere. Cynthia, nigeriana, aspira a fare la medico o la pallavolista. Angela, nata a Padova da genitori dello Sri Lanka, vorrebbe diventare hostess. Souhail, nato a Marrakech, si trasferì in Italia sei anni e mezzo fa e desidera diventare ingegnere aerospaziale. Adele, romana, sogna di fare l’attrice.
La lingua come strumento di inclusione
In classe si parla italiano, ma l’inglese è la seconda lingua. Il dialetto viene usato a volte per non farsi capire dagli altri. Le parole si mescolano quando sono sulla punta della lingua, ma non vogliono saltare fuori. La scuola insegna anche la Lis, la lingua dei sordomuti, per avere uno strumento universale di comunicazione.
Risultati Invalsi sopra la media
I risultati dei test Invalsi confermano l’efficacia dell’approccio inclusivo della scuola. “In italiano siamo sopra la media della Regione, dell’Area Nordest e dell’Italia”, afferma il vicepreside Thomas Bertalot.
......
Padova, la classe con 21 studenti e 20 lingue diverse: «Imparano in fretta»
Alla prima A della scuola media Zanella, nel quartiere Arcella. La professoressa: «Non ci trovano nulla di strano, per loro è normale»
Ester è di origini congolesi, ha 11 anni e parla l’italiano, il francese, il lingala e il litetela (lingue che si parlano nell’area del Congo). Il suo compagno di banco si chiama Adam è di origini marocchine e oltre all’italiano parla arabo, berbero, derija e francese. Miracle, nigeriana, parla italiano, inglese, igbo. Angela invece arriva dallo Sri Lanka e conosce il Tamil, il cingalese, l’inglese, il francese e un italiano perfetto. E poi ci sono anche il romeno, il moldavo il turco, il mandarino. In questa prima A della scuola media Giacomo Zanella, nel quartiere Arcella di Padova, ci sono 21 ragazzini e si parlano 20 lingue. Alcuni hanno i genitori che tradizionalmente parlano due lingue diverse a scuola imparano l’italiano, francese e l’inglese. Fuori dalla loro aula hanno disegnato un grande albero con tante foglie colorate, quelle rosse indicano una delle loro «lingue madri», e se ci mettiamo anche i dialetti perché «anche quelli sono lingue madri», spiega la professoressa di lettere Loretta De Martin, le lingue diventano 23 perché ci sono anche il padovano, l’ostiense e il romanesco.
Le domande e le curiosità
«Quando abbiamo detto ai ragazzi che arrivava una giornalista per chiedergli di tutte le lingue che parlano ci hanno chiesto «perché?» – spiega la professoressa De Martin – non ci trovano nulla di strano, per loro è normale». I 21 ragazzi sono tutti figli di stranieri che abitano nel quartiere, sono frutto di un «melting pot» che non comincia alla scuola Zanella, ma molto prima, sin dalla scuola dell’infanzia dell’istituto comprensivo, passando per le elementari. I bambini figli di genitori italiani sono cinque o sei, una ragazzina è di Roma, e ci tiene a sottolinearlo. «Questa classe è un tripudio di domande – spiega la prof – sono curiosi, imparano in fretta, adesso stiamo facendo un percorso sul racconto autobiografico, che implica l’ascolto dell’altro, ecco perché a volte devo frenare la foga delle mani alzate: quando qualcuno sgomita per prendere la parola, di solito non ascolta quello che sta dicendo l’altro».una prof e recuperato il portafogli, il sindaco lo premia: "Ragazzi non siate indifferenti"
C'è chi conosce anche il veneto
Basta lanciare lì qualche domanda per venire travolti dall’entusiasmo. La prima, che viene spontanea, è in che lingua parlino tra loro: «In italiano e in inglese» , rispondono pronti. «Conoscono anche il veneto – aggiunge alla prof, che si rivolge direttamente ai ragazzi - dite voi, che parole conoscete?», la risposta arriva subito: «Freschin! schei!» ridono tutti. Sono molti gli studenti che in questo periodo stanno facendo il ramadam. «Ne sono orgogliosi – spiega la docente – per loro è un passaggio che segna la crescita: stanno diventando grandi, fanno le cose che fanno gli adulti». Ma non è difficile non mangiare tutto il giorno? È Adam a prendere la parola: «Ci svegliamo alle 4 del mattino: preghiamo, mangiamo e torniamo a dormire, poi non tocchiamo né cibo né acqua fino alle 18.26, e ogni giorno allunghiamo di un minuto». Gli amici lo prendono in giro e scherzando dicono che in realtà anche lui non vede l’ora che finisca il Ramadam per mangiare: «Un po’ sì, sono contento di farlo ma so già che quando finirà ci riempiremo la casa di cose buonissime e mi rifarò sui miei compagni di classe che adesso mangiano tutto quello che vogliono».
Musica e sport
E lo sport? In prima A si praticano il calcio, l’atletica, la danza classica, il freesbee. Molti tengono per la Juve, ma non sono la maggioranza. Ascoltano Ghali, Simba la Rue, Mahmood non è tra i più gettonati, molti di loro ascoltano i cantanti in voga nelle loro terre d’origine. A vegliare sui ragazzi la preside Chiara Lusini e il vicepreside Thomas Bertalot: «La lingua non è mai un ostacolo, anzi, è una ricchezza - spiega la professoressa Lusini - dispiace che l’anno prossimo l’istituto comprensivo verrà smembrato, per risparmiare le spese di direzione e segreteria, ma l’anima di questa scuola resta». «I ragazzi imparano tanto con i laboratori, che in questa scuola sono molto apprezzati - spiega il vice preside Bertalot - quanto ai risultati basta vedere le prove invalsi: qui si raggiungono obiettivi medio alti, unica pecca? Ci piacerebbe avere qualche rampa in più per le persone con disabilità».
9.3.24
[ i Nuovi Italiani ] IL giorno in cui ho smesso di essere invisibile la storia di Danielle Madam
La solitudine, la rabbia, le giornate passate fuori dalla classe, seduta in corridoio. E poi un professore si ferma: «Vieni in palestra con me». Inizia così la carriera di lanciatrice del peso di Danielle Madam, ma soprattutto inizia così la sua nuova vita, quella in cui si vuole bene
di Mario Calabresi
Ci sono persone che ci restano nella testa e continuano a venirci in mente anche se le abbiamo incontrate una sola volta. A fare la differenza è una frase o un’immagine che si impiglia nei nostri pensieri. L’immagine che non ho dimenticato è quella di una ragazzina infelice e irrequieta che passa le sue giornate seduta nel corridoio della scuola, vicino al calorifero, a guardare dalla finestra. Gli insegnanti la mandano regolarmente fuori dalla classe perché non segue e disturba. Nessuno di quelli che passano si cura di lei, che si sente incompresa e invisibile. Finché un uomo non si ferma: è il professore di educazione fisica. Le propone di lasciare il corridoio e di seguirlo in palestra. Un gesto che cambierà per sempre la vita della ragazzina.
Danielle Madam durante la registrazione dell’ultima puntata del mio podcast Altre/Storie
Danielle è nata in Camerun ed è arrivata in Italia all'età di sette anni insieme a suo fratello gemello Ivan. La mamma, per sottrarli ad una faida familiare, li aveva affidati a uno zio che viveva a Miradolo Terme, vicino a Pavia. I due bambini cominciano una nuova vita e crescono in fretta, lo zio lavora sempre e arriva a casa solo la sera, così Danielle impara a fare la spesa, a cucinare, e a prendersi cura del fratello. Scoprono la neve e si sentono accolti dalla scuola e dal paese. Ma quando hanno nove anni lo zio muore all’improvviso e il loro equilibrio si spezza di nuovo: i servizi sociali li dividono e mandano lei dalle suore e lui dai preti. Si riescono a vedere solo mezz’ora la settimana. Tutto va in pezzi.
Danielle si riempie di dolore ed è sempre arrabbiata: la bambina che faceva da mamma a suo fratello diventa intrattabile. Comincia la scuola media e i voti non sono mai sopra il 4, le insegnanti chiamano continuamente le suore per lamentarsi: «Non volevo seguire nessuna regola, ero costantemente irrequieta. Le professoresse dicevano: “Se devi disturbare sei fuori”.
Nessuno si chiedeva che cosa stessi passando, nessuno si preoccupava della mia situazione, così io stavo seduta fuori dalla classe e quello era il modo in cui passavo le mie giornate».
Oggi Danielle, che ha 26 anni e di cognome si chiama Madam, racconta tutto con il sorriso, con grande calma e pace. Se ci riesce è grazie a quell’incontro con il professore di ginnastica, Giampiero Gandini.
Danielle insieme a suo fratello Ivan
«Mi disse: “Perché invece di stare lì seduta non vieni a provare a lanciare il peso? Ci sono le gare tra poco e ci manca proprio la pesista. Secondo me tu potresti fare bene, vieni con me, andiamo fuori a provare”. Siamo andati in giardino, ho iniziato a lanciare e ho visto lo stupore nella sua espressione». Da quel momento Danielle inizia ad allenarsi tutti i giorni: «Ero in seconda media e il professor Gandini veniva in classe e diceva: “Devo prendere Madam perché dobbiamo andare giù a lanciare”. Le professoresse erano senza parole. I compagni non capivano. Io avevo qualcosa da fare e non ero più seduta fuori».
Poche settimane dopo la iscrive alla prima gara, tra le scuole della provincia di Pavia: «L’ho vinta e ho adorato il senso della vittoria. I miei compagni, che fino a quel momento non mi avevano mai calcolata, cominciano a farmi i complimenti e a voler essere miei amici».
Da quel momento cambia tutto, fuori e dentro di lei: «Avevo un valore e lì è iniziato il mio viaggio. Ho capito che volevo continuare a vincere e che per riuscirci dovevo continuare ad allenarmi. Le cose mi venivano semplici. Era incredibile. Non c'erano più mille passaggi, non c'erano assistenti sociali, non c'era il tribunale, c'ero solo io che impegnandomi ottenevo dei risultati».
Danielle con in mano il peso prima di prepararsi al lancio
L’idea di non essere più invisibile e di avere un valore contamina ogni aspetto della sua vita: «Mi sono detta: perché non provo a trasferire questi valori che sto imparando, grazie allo sport, anche nella scuola? La mia situazione era disastrosa a dir poco, ma ho iniziato a studiare per vedere che cosa veniva fuori, per vedere se l'emozione che provavo nello sport potevo provarla anche con gli studi. E così è stato». Comincia con la matematica: «Per me era sempre stata come l’aramaico, e invece è diventata la mia materia preferita perché è molto metodica, come gli allenamenti: se tu fai gli esercizi con costanza i risultati arrivano». Le professoresse chiamano le suore che, preoccupate, si presentano a scuola: «Rimasero stupite di fronte alla domanda: “Cosa è successo? Come ha fatto a passare dal 4 all’8?”. La risposta a me era chiarissima: avevo bisogno che qualcuno credesse in me più di quanto lo facessi io».
Danielle premiata a un meeting nazionale di atletica leggera con una delle 25 medaglie ricevute nella sua giovane carriera
Il viaggio di Danielle la porta sempre più in alto, fino a vincere cinque campionati italiani nelle sue categorie di età e a raccogliere 25 medaglie. Poi si qualifica per i mondiali, per scoprire, però, che non può partecipare, perché non è italiana e la maglia azzurra non la può indossare. «Rappresentare l'Italia, il posto che mi ha accolta, era un po’ come ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato e permesso di essere la persona che sono. Ero incredula, non capivo perché non potessi, ma da quel momento diventare cittadina italiana è stato il mio più grande obiettivo».
Danielle capisce che si diventa italiani solamente se si nasce in Italia e che non basta nemmeno fare tutte le scuole e raggiungere la maggiore età «Io sono arrivata qui all'età di sette anni, per cui dovevo seguire l'iter degli adulti: dieci anni di residenza e tre anni di redditi. Ma io ero dalle suore e non avevo famiglia e nemmeno redditi».
Ma non molla, prende la maturità, si iscrive all’università e continua ad allenarsi, a gareggiare e a fare le file davanti alla questura all’alba. Diventata maggiorenne non può più stare dalle suore, loro le trovano un posto dove abitare ma deve mantenersi, così fa la babysitter e la sera le consegne delle pizze con la bicicletta.
Non si scoraggia e dopo 17 anni in Italia riesce a diventare cittadina e nello stesso momento a laurearsi in Scienze della Comunicazione. Oggi vive a Roma dove lavora e tiene seminari e workshop per le aziende: «Parlo dell’importanza della diversità e dell'inclusione. Cerco di trasmettere quello che ho imparato».
L’immagine del professore che si ferma e parla con la ragazzina seduta in corridoio, l’avevo sentita raccontare da Danielle alla presentazione del libro del demografo Francesco Billari sull’Italia del futuro. Quel gesto era stato capace di cambiare la direzione e il destino di una vita e volevo conoscere tutto il resto del racconto, così ci siamo incontrati a Roma e la voce di Danielle è diventata protagonista della nuova puntata del mio podcast Altre/Storie che potete ascoltare qui.
20.2.24
Sindaco leghista nega la cittadinanza a una donna marocchina (in Italia da 21 anni): «Non capisce neanche "come ti chiami?"»
Ha ragione tale sindaco . Qui non si tratta di razzismo ma : di coerenza e di buon senso .Se una persona che decide di prendersi la cittadinanza italiana e risiede per 20 anni senza conoscere la lingua tanto da non capire cosa gli viene chiesto di giurare non la merita . A prescidere che sia un sindaco di un ideologia opposta alla mia , ha perfettamente ragione
Il sindaco leghista di Pontoglio Alessandro Pozzi © Social (Facebook etc) |
Il sindaco di Pontoglio l'ha fatto di nuovo. Il leghista Alessandro Pozzi ha negato la cittadinanza a una donna marocchina, residente in Italia da 21 anni. Era successo già nel 2022, con una donna di origini indiane. Con un lungo post sui social, Pozzi ha spiegato che «è stata un gesto doveroso, di rispetto verso i cittadini di origine straniera che sono diventati italiani e si sono integrati nella nostra comunità».«Questa signora, residente in Italia dal 2003 (21 anni), ha purtroppo dimostrato, non solo di non possedere il livello minimo di conoscenza della lingua italiana, ma, ancor più preoccupante, durante la cerimonia ha mostrato difficoltà nel capire la richiesta di pronunciare il giuramento richiesto dalla normativa. Come vostro rappresentante, e ancor prima come pubblico ufficiale, è mio dovere udire il giuramento dell'intervenuto: questa signora, dopo tre richieste, non è riuscita a pronunciarlo - ha scritto -. Negare la cittadinanza è stata una conseguenza inevitabile».Continua Pozzi: «Non sapere nemmeno rispondere ad un semplice "Come ti chiami?", dopo oltre 20 anni, solleva non solo legittime preoccupazioni pratiche, ma anche interrogativi più ampi sulle barriere che potrebbero esistere nel processo di integrazione, sia a livello familiare che sociale. È preoccupante pensare che una donna possa trascorrere così tanto tempo in Italia senza acquisire una conoscenza minima della lingua del paese ospitante, ciò solleva dubbi sulla reale inclusione nel corso di questi anni. Mi pare evidente che non abbia mai voluto integrarsi e partecipare ai corsi di italiano offerti, messi a disposizione anche dal mio Comune dove non era tra gli iscritti. Nemmeno a quelli di Chiari. Questo sarebbe stato il "primo passo" necessario, in virtù della richiesta di ottenimento della cittadinanza.
11.8.23
l'italia sta diventando sempre più exenofoba ed razzista . il caso del ristorante Ginger People & Foodad Agrigento
N.B il post doveva essere diverso ma la risposta del il titolare del locale Carmelo Roccaro sotto riportata , a differenza di molti media , integralmente , mi ha spiazzato e fatto cambiare percorso
15.12.21
dietro le quinte di strappare lungo i bordi di zero calcare lo studio di animazione Doghead, Da migranti a modelli: una nuova vita in sartoria Beteyà, Nel papiro erotico tutta la satira degli egizi
Beteyà, in mandingo Bello e Buono, è una start up di abbigliamento con due negozi in Sicilia, ma soprattutto un progetto di integrazione ben riuscito portato avanti dall’associazione Don Bosco 2000.
Si laurea con 110 e lode, ma a discutere la tesi è l'avatar creato con l'intelligenza artificiale: «Lo abbiamo educato nella discussione della tesi»
da msn.it Veronica Nicoletti, classe '98, è tra le prime studentesse d'Italia a discutere la tesi col supporto del suo avatar, re...
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