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15.10.24

DIARIO DI BORDO N 82 ANNO II Dalla parte dei disperati: don Mattia “salvato dai migranti”., Mi sono laureata in ospedale mentre assistevo mia figlia"., fratelli siamesi salvi dopo un anno in ospedale: la storia a lieto fine di Amari e Javar ., Da Afghanistan e Irak ai 3mila delle Dolomiti".,

Bologna, 13 ottobre 2024 – Squilla il telefono, è una videochiamata su Whatsapp. L’utenza è quella di uno delle centinaia di uomini e donne incontrati sui barconi in balia delle onde. Don Mattia Ferrari, 31 anni, originario di Formigine nel Modenese, sacerdote da cinque anni sulla nave Mediterranea Saving Humans come
cappellano, è un po’ titubante ma risponde. Sullo schermo appare Sami, un giovane migrante che lui non conosce. Lo hanno riportato in Libia dopo un respingimento. È stato torturato a lungo e poi abbandonato nel deserto. Inutile attivarsi, si affretta a dire il suo contatto, Sami sta morendo, e infatti la chiamata è spirituale. Don Mattia trova le parole giuste, lo benedice, ne sente il fiato debole, vede un abbozzo di sorriso. Morirà poco dopo. A quel punto del libro (Salvato dai migranti, edizioni Edb) ci si ferma necessariamente a pensare, atei o cattolici che siamo, a cosa possa voler dire ricevere sul telefono, in ogni momento, il dolore altrui.
Eppure nelle 276 pagine agili di questo libro – è un tascabile – ogni cosa è raccontata con l’energia di un trentunenne che nella vita fa ciò che gli piace, per cui si sente vocato, è il caso di dirlo. “Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare persone meravigliose”, scrive don Mattia. E queste persone sono disperati che ributtiamo in mare, che mettiamo ai margini delle nostre città, che lasciamo indietro. Ma sono anche centri sociali che accolgono chi non ha spazio, case occupate che diventano ancore di salvezza, vescovi e un papa (che scrive la prefazione del libro) al suo fianco contro i benpensanti e in certi casi la magistratura. Non è retorica la sua, lo si intuisce. Don Mattia è davvero cresciuto grazie a queste situazioni al limite, creando ponti in quei punti del percorso in cui nessuno si sarebbe sognato neppure di passare. Il suo libro, nella sua semplicità, è una finestra spalancata al sole. 

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"Mi sono laureata in ospedale mentre assistevo mia figlia"


©Avvenire


Sull’Appennino Tosco-Emiliano - fra boschi, sentieri e antiche strade romane - si snoda un percorso di trekking dal suggestivo nome di “Via degli Dei”. Ad affrontarlo, sono in tanti. Fra loro, in questi giorni, vi è anche un nutrito gruppo di “camminatori” che da Bologna a Firenze stanno condividendo un viaggio davvero speciale. Lo zaino che portano sulle spalle è la metafora di un peso ben più faticoso da sostenere: quello delle paure e delle difficoltà che gravano su un genitore che deve fronteggiare la malattia di un figlio. È anche l’immagine, però, del bagaglio di esperienza, passione ed energia della Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald, che quest’anno festeggia 25 anni di attività in Italia.
Nata negli Stati Uniti nel 1974, la Fondazione offre accoglienza e supporto alle famiglie che attraversano un percorso difficile e delicato com’è quello della cura di un bambino in un ospedale lontano da casa. In Italia, dal 1999, nelle Family Room (situate all’interno dei principali ospedali italiani) e nelle Case Ronald (posizionate nelle loro vicinanze), sono stati accolti più di 54mila bambini insieme ai loro genitori. E a tutti loro è stata data la possibilità di rimanere uniti e di sentirsi “a casa” anche quando casa è lontana, circondati dall’affetto e dalla disponibilità di operatori e volontari. Per affrontare insieme - proprio come sta accadendo lungo la “Via degli Dei”, in un cammino che unisce la Casa Ronald di Bologna a quella di Firenze - un percorso faticoso e impervio, ma mai solitario.
Un percorso dove la famiglia è sempre al centro e lungo il quale si condividono timori e speranze, lacrime e sorrisi, incombenze quotidiane ed eventi straordinari. Com’è successo a Giusy, la mamma di Aurora, che a Firenze, a Casa Ronald, ha finito per discutere anche la sua tesi di laurea…“Aurora stava male da tempo. Aveva spesso febbre e raffreddore e la notte faticava a dormire, perché non respirava bene. E poi c’erano le otiti, sempre più frequenti. La situazione era complicata e si era reso necessario un intervento, per togliere tonsille e adenoidi. Purtroppo, dove abitiamo (Giusy vive in Sicilia, n.d.r.), i tempi d’attesa erano lunghi. Non potevamo aspettare troppo, però, perché un timpano era già compromesso e non dovevamo correre il rischio che i polmoni o i bronchi entrassero in sofferenza”.
Giusy, allora, contatta un medico dell’ospedale Meyer di Firenze che, dopo aver visitato Aurora, fissa la data dell’intervento. “Non conoscevo Casa Ronald ma quando me ne hanno parlato in reparto, ho avuto subito una sensazione positiva. E per fortuna ho trovato accoglienza lì, perché le cose, nel frattempo, si erano complicate”. Poco prima di partire per la Toscana, infatti, Aurora ha un incidente con la bicicletta. “La ferita al piede si faceva ogni giorno più brutta e non riusciva quasi più a camminare. Sono arrivata a Casa Ronald tenendola in braccio. Dopo pochi minuti, però, mi avevano già trovato un passeggino… Poi, ci hanno mostrato la nostra camera. E ci siamo sentite “a casa”. Non avevamo la nostra famiglia accanto a noi - mio marito era rimasto in Sicilia, con Luigi, il nostro bimbo più piccolo - ma ci siamo subito rese conto che c’erano molte persone che ci avrebbero sostenute e confortate. La cosa che più mi ha colpito è stato l’affetto che ho letto negli occhi di operatori e volontari: ti accolgono con un sorriso, ti dedicano tempo e attenzione. E li senti subito amici, “famiglia”. Ero preoccupata per l’intervento di Aurora e mi mancava tantissimo Luigi.
Se mi fossi ritrovata sola, in una camera d’albergo, sarebbe stato tutto più difficile da affrontare, sia da un punto di vista pratico che, soprattutto, emotivo. La solitudine fa sempre male – prosegue Giusy - e lo fa ancor di più quando sei in un momento di fragilità. Casa Ronald, però, è un’oasi felice dove la solitudine non esiste. Se hai bisogno di conforto, c’è sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere, a cui confidare i tuoi timori, con cui condividere le tue speranze, con cui sorridere anche, per stemperare le tensioni. Ognuno racconta un po’ di sé e insieme si trova la forza per andare avanti. Nei giorni successivi all’operazione, Aurora è stata davvero male. Era debole, non riusciva a mangiare, faticava a bere e a parlare. Ero molto spaventata e stavo sempre accanto a lei. C’era chi si prendeva cura di me, però, mi sosteneva e mi dava piccoli ma preziosi consigli”.
Pian piano, Aurora riprende le forze, ma ancora non può lasciare Firenze, perché la lesione al piede, che si è rivelata peggiore del previsto, ha bisogno di cure.
“Lei era felicissima di rimanere a Casa Ronald, però. Aveva fatto delle amicizie e i volontari le proponevano ogni giorno qualche cosa di nuovo. I clown, le treccine colorate, la gita in città, la visita in una fattoria didattica…”. Per Giusy, intanto, c’è un appuntamento importante che si avvicina: la discussione della sua tesi di laurea magistrale. E la conferma della data arriva quando lei è ancora a Firenze. “Di nuovo, in mio aiuto, sono arrivati i volontari. Si sono occupati di Aurora mentre io discutevo online la mia tesi. E poi, mi hanno organizzato una bellissima festa, con tanto di torta e corona d’alloro. Mi sono stati tutti vicini in un modo che mai avrei potuto immaginare. Dopo un mese dal nostro arrivo, quando è stato il momento di partire, Aurora era davvero triste. E un po’ lo ero anch’io, lo confesso. Casa Ronald è stata fondamentale per dare coraggio a mia figlia e farle affrontare tutto nel modo migliore. Fra le sue pareti si è sentita serena, al sicuro. È un luogo felice, che resterà per sempre nel suo cuore”.
E anche nel cuore di Elisabetta Casa Ronald avrà per sempre un posto speciale, perché è nella Family Room dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna che Giovanni e Michele, i suoi due gemelli, nati lo scorso agosto, hanno “annunciato” il loro arrivo. “Durante la gravidanza, abbiamo scoperto che i bambini, per una sindrome molto rara, erano in pericolo di vita, perché in un sacco amniotico c’era troppo liquido e nell’altro troppo poco. Ci siamo rivolti al Sant’Orsola, dove ci hanno spiegato che per interrompere il malfunzionamento dei vasi della placenta sarebbe stato necessario un intervento molto delicato. Sono stata operata alla Clinica Mangiagalli di Milano e, per fortuna, tutto è andato bene. Salvo la rottura della membrana che separava i due sacchi amniotici. I bambini si sono così trovati a dover “condividere” un unico sacco. Questo ha messo a rischio il normale decorso della gravidanza e ha richiesto dei controlli ecografici sempre più frequenti. Dapprima una volta a settimana, poi una volta al giorno e a quel punto si è reso necessario il ricovero a Bologna.
Io mi sentivo bene, però, e l’idea di entrare in ospedale mi metteva un po’ in ansia. È stato allora che il primario del reparto di ginecologia mi ha parlato di Casa Ronald. La Family Room – prosegue Elisabetta - mi ha fatto subito sentire a mio agio, soprattutto perché Marco, mio marito, ha sempre potuto rimanere accanto a me. La mattina scendevamo in ospedale per le visite e gli esami. Poi, tornavamo “a casa”, dove potevamo prepararci il pranzo, rilassarci, chiacchierare con altri genitori. E quando Caterina, l’altra nostra bimba, veniva a trovarci con i nonni, stavamo con lei in uno spazio accogliente, dedicato al gioco. Intimità, familiarità, sostegno, solidarietà, amicizia: la bellezza di Casa Ronald, per me, è racchiusa in tutte queste parole. È un luogo dove si affrontano insieme i momenti belli e quelli brutti, dove ci si fa compagnia e ci si sostiene, dove si piange e si ride, dove c’è sofferenza e allegria. E dove non si è mai, mai soli”.
Per Elisabetta e Marco i giorni si susseguono nella routine dell’attesa. Fino a che una sera, un po’ in anticipo sui tempi previsti, Giovanni e Michele “decidono” che è arrivato il momento di nascere. “La casa era tranquilla e silenziosa. Eravamo in camera e ci stavamo preparando per andare a dormire. E all’improvviso, mi si sono rotte le acque. Siamo scesi al Pronto Soccorso con un po’ di agitazione, perché mancavano ancora una decina di giorni alla data in cui era stato programmato il cesareo. Ad accogliermi, però, c’era una ginecologa che conoscevo e che mi ha subito tranquillizzato. E la mattina dopo, Casa Ronald si è svegliata con una bella sorpresa… Elisa, la House Manager, è venuta a trovarmi in reparto, con dei regalini per i bimbi, e ha continuato a prendersi cura di noi. Nemmeno per un attimo ci siamo sentiti soli. È una cosa che mi ha colpito molto e che porterò sempre nei miei ricordi: mai avrei immaginato di poter sentire intorno a me così tanta vicinanza, tanto affetto, tanto amore. I bambini sono stati per un po’ nel reparto di neonatologia e per noi restare a Casa Ronald è stato importante, perché ci ha permesso di essere sempre vicini ai nostri figli senza che io fossi costretta ad affrontare ogni giorno un viaggio che, nelle mie condizioni, sarebbe stato faticoso. Ora siamo tornati a casa e Giovanni e Michele crescono e stanno bene. Torniamo in ospedale per i controlli di routine. E ogni volta, passiamo a fare un saluto in Family Room. Per noi sarà sempre un posto speciale, perché è lì che, simbolicamente, abbiamo appeso il primo fiocco per annunciare la nascita dei nostri bimbi”.


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Fratelli siamesi salvi dopo un anno in ospedale: la storia a lieto fine di Amari e Javar

                                              Amari e Javar© Internet (altro)

Dopo oltre un anno trascorso in ospedale, i fratelli siamesi Amari e Javar sono finalmente tornati a casa. La storia di questi due gemelli è iniziata con una scoperta choc: durante la dodicesima settimana di gravidanza, i genitori hanno scoperto che avrebbero avuto due figli siamesi. Fino a quel momento, la madre, Shaneka Ruffin, pensava di essere incinta di un solo bambino.
La decisione di non interrompere la gravidanza
Dopo la diagnosi, i medici avevano consigliato alla coppia di interrompere la gravidanza. Tuttavia, Shaneka e il marito Tim, insieme da sei anni e già genitori di due figli, hanno deciso di ascoltare un secondo parere medico. Hanno scelto di portare avanti la gravidanza e dare alla luce i due gemelli. Questa decisione coraggiosa li ha portati a Philadelphia, dove sono stati seguiti da uno degli ospedali pediatrico più specializzati degli Stati Uniti, uno dei pochi centri che eseguono interventi di separazione dei gemelli siamesi.
Il ritorno a casa dopo un lungo calvario
Dopo un lungo percorso fatto di cure, interventi e tanta speranza, i fratelli siamesi sono tornati finalmente nella loro casa, accolti con grande emozione dai loro genitori. «Non ci possiamo credere», ha dichiarato Shaneka, la madre, raccontando a People quanto sia stato emozionante vedere finalmente i suoi figli a casa. Anche il padre, Tim, ha espresso il suo sollievo: «Il viaggio è stato lungo, ma ora mi sento sollevato», ha dichiarato.

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"Da Afghanistan e Irak ai 3mila delle Dolomiti"

Quella di Luca Fois, sottufficiale delle Forze speciali, è una storia che inizia con un inganno. Vuole fare il militare, ma non ha le carte in regola e così, durante le visite mediche, decide di mentire: «Ero l'anti soldato per eccellenza, non sapevo fare niente, pesavo 68 chili e mi mancavano cinque diottrie. Per entrare nell'Esercito ho dovuto mentire, ma solo perché ci tenevo davvero a indossare la divisa. E così ho piegato le ginocchia e, subito dopo la missione in Libano, ho fatto il laser. Ero un nerd, assolutamente non idoneo, però ci tenevo».

Inizia così un percorso che lo porta prima al 186esimo Reggimento Folgore («avevo amici paracadutisti che mi raccontavano storie incredibili e che erano stati in giro per il mondo»), poi con il 185esimo Rao e, infine, con il Nono Col Moschin che diventa la sua seconda famiglia. «Il training da operatore era propedeutico a quello che avresti potuto affrontare: quando ho sostenuto il corso si usava ancora sangue vero, si somministravano piccole inoculazioni di stress fino a far diventare i soldati resistenti al trauma».Il Nono gli dà tutto e Fois prende tutto: «Ho imparato a studiare nelle forze speciali e parlo sia della tecnica di studio sia dell'organizzazione. Si generava un meccanismo per cui chi era più bravo in una materia, diventava il supporto per gli altri. Si riproponeva lo stesso modus operandi anche all'interno dei distaccamenti: chi era responsabile di una branca, diventava esperto e a prescindere dal grado aiutava gli altri. Le forze speciali premiano le capacità del singolo rispetto al grado».Ci sono le missioni all'estero, in Afghanistan, contro i talebani e in Iraq. E altre, la gran parte, delle quali non può parlare. Nemmeno insistendo c'è nulla da fare. La risposta è sempre la stessa: «Legge 198/2015, segreto di Stato». Perché la vita degli incursori è soprattutto nascosta, non solo quando sono in teatro, ma anche in Patria. E, quando si ha famiglia, non sempre è facile conciliarla col lavoro. Fois diventa papà e, complici le lesioni provocate durante il servizio, lascia il Nono e va a vivere ad Agrate Brianza. Non è più un soldato. Ora è un semplice civile. Reinventarsi non è facile. Proprio per questo motivo, qualche anno prima, Luca aveva fondato con alcuni commilitoni un'associazione - Non dolet - per aiutare i veterani. La «transizione», come viene chiamata in gergo, lo porta al suo grande amore (oltre alla moglie): la montagna. «Ho chiamato un mio collega dicendogli che volevo fare un record, scalare tutti i 4mila delle Alpi, ma era già stato fatto. Non c'è un record delle Dolomiti sopra i 3mila, mi dice un altro amico. Che prosegue: Le cime sarebbero 120, anche se sono state ridotte a 86». Nasce così l'idea di realizzare un record che fosse però anche al servizio della comunità: «Quelli delle Dolomiti non sono percorsi difficili per ragioni di quota, ma perché si stanno ritirando i ghiacciai. Molte vie sono pericolose perché la roccia è marcia e quindi ho pensato, visto che non ci sono dati aggiornati, di raccoglierli io». E così Fois, oltre ai primi sponsor, ottiene anche l'appoggio dell'Associazione nazionale Alpini e insieme a due amici e veterani, Michael Turconi ed Emanuele Chessa, scalerà le 86 cime. «Ora mi sto allenando e l'obiettivo è realizzare il record nel 2025. Raccoglieremo dati, tracciature gp e faremo fotografie. Poi se il Guiness riconoscerà quello che faremo sarà un onore per me, in caso contrario produrrò comunque un buon report aggiornato. E utile per la comunità»

27.9.24

diario di bordo n 78 anno II bimba di 9 anni scrive al CEO di Barilla: “Vorrei una pasta a forma di tappo”. L’azienda dice si ., Crolla pezzo di soffitto a scuola, insegnante salva i suoi studenti ., una barca in escursione salva capinata da franco rugero salva 50 migranti naufragati a largo di lampedusa

 fonte  thesocialpost  








In casa Barilla arriva una novità creativa grazie all’idea di Margherita, una bambina di nove anni di Genova. La piccola, spinta dalla sua inventiva, ha proposto alla storica azienda un nuovo formato di pasta ispirato ai tappi. Margherita, con l’aiuto della madre, ha scritto una lettera direttamente all’amministratore delegato, Gianluca Di Tondo, illustrando la sua proposta.
La lettera della bambina inizia così: “Sono Margherita e ho nove anni e mezzo e mangio sempre la vostra pasta”. Proseguendo, spiega la sua intuizione: “Proprio oggi pensavo di creare un nuovo tipo di pasta: i tappi! Sarebbe proprio una forma di tappo di pennarello dove il sugo rimane all’interno. Se vi piace, potete idearla”.
Dopo circa due mesi, la bambina ha ricevuto una risposta inaspettata direttamente dall’amministratore delegato. Di Tondo le ha comunicato che l’idea era stata trasmessa al reparto responsabile dello sviluppo di nuovi formati di pasta. Ma la storia non si è conclusa con una semplice risposta formale.
Poche settimane dopo, Margherita ha ricevuto una sorpresa speciale: una scatola inviata da Barilla contenente la “sua” pasta a forma di tappo, realizzata appositamente per lei. Insieme alla scatola, c’era anche un nuovo messaggio da parte di Di Tondo, che le ha scritto: “Come ti avevo promesso, abbiamo lavorato sulla tua bellissima idea dei tappi e siamo riusciti a produrre una prima versione nel nostro impianto pilota utilizzando la tecnologia 3D. Ci potrebbe volere un po’ di tempo per riuscire a produrli su larga scala ma nel frattempo volevamo farli avere a te!”
Questo gesto non solo rappresenta un esempio di come le grandi aziende possano interagire in modo diretto e positivo con i loro consumatori, anche i più piccoli, ma mette in luce anche il potenziale che nasce dall’ascolto delle idee innovative. L’attenzione di Barilla verso la proposta di Margherita è un chiaro segno di apertura verso l’innovazione e la creatività, soprattutto quando proviene dalle generazioni più giovani, che spesso riescono a portare prospettive originali nel mondo degli adulti. La pasta a forma di tappo è un esempio di come un’idea semplice possa trasformarsi in un progetto concreto, anche grazie all’utilizzo di tecnologie avanzate come la stampa 3D.

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Un incidente che poteva trasformarsi in tragedia è avvenuto questa mattina all’Istituto Capellini-Sauro della Spezia, dove una porzione di intonaco è crollata dal soffitto di un laboratorio mentre una classe era in piena attività didattica. Grazie alla prontezza dell’insegnante, che si è accorto del cedimento imminente, gli studenti sono stati fatti evacuare dall’aula pochi secondi prima del crollo, evitando così che qualcuno rimanesse ferito.
L’incidente è avvenuto durante la seconda ora di lezione. L’insegnante, notando i primi segnali di cedimento del soffitto, ha immediatamente invitato gli studenti ad abbandonare il laboratorio. Pochi istanti dopo, una parte del soffitto, situato a circa cinque metri d’altezza, è crollata a terra, colpendo l’impianto di illuminazione, diversi banchi e alcuni computer presenti nella stanza.
Nonostante la gravità dell’evento, fortunatamente nessuno è rimasto ferito. L’evacuazione tempestiva e
il sangue freddo del docente hanno permesso di evitare conseguenze ben peggiori. Sul posto sono intervenuti i tecnici dell’istituto per valutare i danni e verificare le condizioni di sicurezza dell’edificio.
L’accaduto ha sollevato nuovamente interrogativi riguardo alla sicurezza delle strutture scolastiche in Italia, dove episodi simili si sono già verificati in passato. Al momento, le autorità stanno indagando per capire le cause del crollo e determinare se vi siano stati problemi di manutenzione o se il cedimento sia dovuto a fattori esterni. Nel frattempo, le lezioni nel laboratorio interessato sono state sospese fino a nuovo ordine, e gli studenti coinvolti, ancora scossi dall’accaduto, hanno ricevuto il supporto degli insegnanti e del personale scolastico.




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  una  barca in   escursione salva    capinata   da   franco rugero  salva    50  migranti   naufragati  a largo di lampedusa  

Lorenzo Tosa
2 h ·

L’uomo qui sotto si chiama Franco Ruggiero, 69 anni, napoletano. È un uomo di mare, un Capitano con la C maiuscola.
E, insieme ai turisti che stava portando in barca per un’escursione, ha appena salvato letteralmente la vita a 50 migranti naufragati a largo di Lampedusa.Quando ha avvistato il barchino in ferro alla deriva carico di uomini, donne e bambini disperati, Ruggiero non ci ha pensato un attimo. Ha prima messo in sicurezza gli ospiti in coperta, poi, con l’aiuto di alcuni passeggeri, ha soccorso il barchino che
imbarcava acqua, tirando a bordo e salvando la vita a decine di migranti in balia delle onde.
In tutto Ruggiero e il suo equipaggio improvvisato, insieme a un’altra imbarcazione poi accorsa, sono riusciti a salvarne 50, tra cui anche una bambina stretta tra le braccia della madre.Cinquanta vite umane, tranne due: un neonato e un ragazzino di 10 anni che - raccontano i testimoni - “vedevamo risalire in acqua e poi sprofondare giù”.L’ennesima tragedia del mare. Che senza Ruggiero e i suoi passeggeri sarebbe potuta diventare una strage, come a Cutro.Guardo quest’uomo e vedo un capitano, un Capitano vero, nell’esercizio delle sue funzioni di essere umano in servizio permanente. Uno che ha messo semplicemente in pratica la prima legge di ogni marinaio: salvare vite in mare. Sempre. A ogni costo. A lui e a tutti quelli che erano su quella barca, in quest’epoca di tenebre della ragione e dell’umanità va solo un immenso, commosso, Grazie.

14.6.24

Le parole del 2023 di mario domina

 Lo  so  che  tale  post       è cronologicamente  del  dicembre  2023 ,  purtroppo   essendo  iscritto  a  diverse  cose     l'hoi  trovato    solo  ora  mentre  svuotavo  l'email   ,   però  il  post  contenuto   è  ancora    attuale  perchè il  contesto  delle  parole   è  ancora    valido  .

 dal  blog  https://mariodomina.wordpress.com/   di    Mario  Domina*  

La prima che mi viene in mente, inevitabilmente, è GUERRA.
La guerra non è mai scomparsa dalla scena, è presente e sempre incombente nelle relazioni umane, anche quando non si vede. Ma due guerre di questa portata – la guerra ucraina (dietro cui c’è quella tra Russia e Occidente) incancrenita, e la guerra israeliano-palestinese mai risolta – ci dicono che le relazioni internazionali stanno subendo una regressione pericolosa: non che in passato non fossero i rapporti di forza a dominare, ma per lo meno era stata costruita un’impalcatura ideologica, giuridica e dialogica, un consesso in cui si tentava di ragionare, mediare, venire a patti. Ora sappiamo che era puro teatro. La scena è nuda. Trasimaco impera.

C’è poi CLIMA. Sulla faglia di questa emergenza si sta costruendo un nuovo gioco globale in cui i fanatismi, gli interessi contrapposti e il capitalismo ridipinto di verde si vanno affrontando, spargendo fumo tutt’intorno. Occorre quindi essere chiari: non c’è una transizione ad un sistema sostenibile senza l’uscita dal Capitale – o, per lo meno, senza l’uscita da un sistema che non prevede l’autonomia del politico nei confronti dell’economico, del pubblico rispetto al privato. Senza un Noi che prevalga sull’Io.

MIGRANTI è un’altra parola-chiave. Una parola che rivela sempre di più, a dispetto di quella strana fluidità nominale dovuta alla forma del participio, una ferrea rigidità gerarchica: si spostano i disperati e i senzafuturo, i profughi che fuggono dalle guerre, ma c’è anche chi emigra per calcoli economici o per desiderio, c’è la fuga dei cervelli e quella dei giovani.
C’è l’inferno dei clandestini e il paradiso dei cosmopoliti nei resort esclusivi.

PATRIARCATO ha fatto furore negli ultimi mesi dell’anno. Mi astengo da ogni futile polemica, e mi limito a dire che “patriarcato” non va mai disgiunto dal sistema di potere socio-economico, ideologico e simbolico di cui è parte (resta da stabilire se davvero il capitalismo post-moderno se ne stia liberando, così come il capitalismo delle origini si liberò dei vincoli feudali). Registro però che: esistono ancora religioni diffuse ad impianto patriarcale (compresa la chiesa cattolica, dominata da una casta maschile) – e Dio non è certo femminile; il potere economico e politico globale è per lo più maschile; si dice ancora per lo più uomo, non essere umano; e il fatto che ai vertici bancari o dell’UE o del governo italiano ci siano donne, non significa che domini il matriarcato (che tra l’altro non è certo l’alternativa desiderabile al patriarcato). Insomma, c’è da rifletterci un bel po’.

EUROPA. Che dire di questa parola: un grande sogno (di pace, giustizia, uguaglianza, libertà) ormai tramontato o, fin dall’inizio, un grande equivoco?
Ormai è certo che Europa equivale a una scorza secca e vuota, un imbroglio per favorire un’aristocrazia ributtante e ricolma di privilegi. Ma anche del suo antonimo “sovranismo” – se non si dice qual è il soggetto e qual è il progetto – non ce ne facciamo nulla.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE. È cosa serissima, ma è anche il termine-spauracchio che più che il luddismo evoca il rovesciamento del rapporto con la tecnica: non noi agiamo la tecnica, ma ne siamo super-agiti. Il problema è che si richiede un livello altissimo di coscienza e di conoscenza per poter scegliere. E non ogni novità deve essere passivamente accolta. O lo può essere, ma con tempi e modalità decise consapevolmente, e dunque non subita passivamente. E decisa da chi, se non dalla sfera politica?

Infine un tris concettuale e sfuggente: COMPLESSITÀ, MULTIPOLARITÀ, MOLTITUDINE.
L’ultimo – per quanto poco proficuo – vuol essere un omaggio a Toni Negri, un altro pezzo di Novecento che si stacca nostalgicamente da un soggetto di trasformazione (o dal suo spettro) che non si sa più che faccia o identità abbia. Un soggetto, direi, alla deriva psicologica.
Ma è certo che l’unificazione del mondo – un processo inesorabile, visto che siamo un’unica specie, unificata in un destino unitario – non può essere pensata se non dialetticamente come complessa e multipolare, ed insieme interconnessa ad una moltitudine di enti, viventi, processi, i più disparati. Il soggetto – se proprio deve ancora esistere – non può che essere plurale. Non un Io, ma un Noi che comprenda ben più degli umani.

(Parole-sacco, nelle quali siamo infilati, e tra le cui spire rischiamo di soffocare – come ben lo ha saputo rappresentare Goya)


























































*Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

26.9.23

chiedono 5 mila € ai migranti Come gli scafisti che dicono di voler fermare e combattere. e poi lo giustificano ma se hanno i soldi per venire fare il viaggio avranno anche i soldi per pagaresi la libertà


 ma  non  si rendono  conto che   cosi    alimentano  di  più  le  mafie   che  li  fanno venire  in  europa  . infatti  esse aggiungeranno a pizzo  che  già   chiedono   quei 5 mila   . 


io non avrei saputo dirlo meglio ecco quindi che a forza di ripetere che hanno telefonini e lo smalto sulle unghie, al governo devono essersi convinti che molti migranti non se la passino affatto male. Dev'essere nata da qui l'idea di chiedere una cauzione ai richiedenti asilo che non avessero piacere a trascorrere qualche settimana di soggiorno in uno dei nostri confortevoli Cpr: un decreto attuativo del dl Cutro prevede che alla modica cifra di 4.938 euro sia possibile evitare di essere trattenuti in un centro di detenzione forzata e si possa attendere in libertà una risposta alla domanda d'asilo. Lo scopo della ‘garanzia finanziaria' è quello di “di garantire allo straniero la disponibilità: a) di un alloggio adeguato, sul territorio nazionale; b) della somma occorrente al rimpatrio; c) di mezzi di sussistenza minimi necessari, a persona”. Che con i prezzi di voli e alberghi di questi tempi tutto sommato non è nemmeno così caro, no? D'altronde quando si viaggia che un po' di soldi escano bisogna metterlo in conto? Quando si dice che la libertà ha un prezzo.😥
Meno male che a destra c'è qualcuno che prova dire la sua e dire che tale scelta è errata e controproducente . E' il caso di Luca Zaia Nei suoi anni alla guida del Veneto, Luca Zaia si è fatto conoscere per la concretezza con cui è solito accostarsi alle questioni da affrontare, senza porsi eccessive remore: cosa sia più o meno ‘ideologicamente' accettabile dire per non scontentare la propria parte politica è una questione che il presidente della Regione non si è mai posto più di tanto. Non può che far riflettere dunque la considerazione avanzata dall'esponente leghista sul tema dei Centri per la permanenza e il rimpatrio, su cui il governo sta puntando molto per affrontare la questione migratoria: “Il Cpr non risolve il problema degli arrivi, questo lo dobbiamo dire per essere corretti nei confronti dei cittadini, visto e considerato che quest'anno avremo più o meno 140-150mila persone che dovranno essere rimpatriate, e si consideri che mediamente ogni anno l'italia riesce a far rimpatriare dalle 3.500 alle 4.000 persone, quando va bene”. La considerazione di Zaia arricchisce il fronte delle criticità avanzate riguardo ai Cpr: non solo il mancato rispetto dei diritti umani e il rischio d'incostituzionalità, ma anche una sostanziale inutilità pratica. Se non si volessero prendere in considerazione i primi due aspetti, sarebbe utile concentrarsi almeno su quest'ultimo.
Infatti

 
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  • Migranti, rissa Meloni-scholz L’UE boccia i 5 mila€ per i Cpr

    La premier al cancelliere: “Stupiti dai fondi alle ong”

    Il tentativo di Giorgia Meloni è quello di cercare sponde europee sull’immigrazione: dopo giorni di tensione, la premier sta provando a costruire un asse con la Francia che ha mostrato la volontà di unirsi alla battaglia per fermare le partenze verso l’europa. Nel frattempo, però, Meloni pressa la Germania che nei giorni scorsi aveva annunciato di aver finanziato alcune organizzazioni non governative per accogliere i migranti. Ieri – come ha anticipato il Corriere – Meloni ha scritto una lettera al cancelliere tedesco Olaf Scholz per denunciare lo “stupore” del governo italiano rispetto al finanziamento delle ong e chiedendo uno sforzo comune per “soluzioni strutturali”. Il governo tedesco ha fatto sapere, tramite un portavoce, che la lettera è stata ricevuta e che risponderà, ma sostiene che Roma sapesse tutto dal novembre scorso. Oggi intanto, Meloni vedrà il presidente francese Emmanuel Macron per un bilaterale: quest’ultimo sarà a Roma per il funerale di Giorgio Napolitano. La premier vorrebbe inoltre portare un nuovo decreto Sicurezza con una stretta sui migranti minori (come accertare l’età sospetta) e per velocizzare l’espulsione di migranti pericolosi.

    LA LETTERA

    di Meloni risale al 23 settembre, ma è stata resa pubblica solo ieri: “Ho appreso con stupore che il Tuo Governo – in modo non coordinato con il Governo italiano – avrebbe deciso di sostenere con fondi rilevanti organizzazioni non governative impegnate nell’accoglienza ai migranti irregolari sul territorio italiano e in salvataggi nel Mare Mediterraneo”. Poi aggiunge che la decisione solleva “interrogativi” perché “per quanto riguarda l’importante e oneroso capitolo dell’assistenza a terra è lecito domandarsi se non meriti di essere facilitata in particolare sul territorio tedesco piuttosto che in Italia”. Inoltre, aggiunge Meloni, “è ampiamente noto che la presenza in mare delle imbarcazioni delle ong ha un effetto diretto di moltiplicazione delle partenze di imbarcazioni precarie che risulta non solo in ulteriore aggravio per l’italia, ma allo stesso tempo incrementa il rischio di nuove tragedie in mare”.

    Così, conclude Meloni, “gli sforzi, anche finanziari, delle nazioni europee interessate a fornire un sostegno concreto all’italia dovrebbero piuttosto concentrarsi nel costruire soluzioni strutturali al fenomeno migratorio, ad esempio lavo

    DIPLOMAZIA GIORGIA VEDE MACRON, MERCOLEDÌ NUOVO DL SICUREZZA

    rando a un’iniziativa Ue con i Paesi di transito della sponda sud del Mediterraneo”. Accordi, sostiene la premier, che costerebbero meno rispetto a quello stretto con la Tunisia. Da Berlino fanno sapere che gli accordi con ong come Sos Humanity e Comunità di Sant’egidio erano noti da mesi, ma non è ancora arrivata una risposta ufficiale. Domenica il governo tedesco si era detto “stupito” dopo le critiche del ministro della Difesa Guido Crosetto sulle ong in un’intervista alla Stampa. Ieri la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha fatto dichiarazioni in senso contrario rispetto alla linea del governo italiano: “Bisogna offrire protezione a chi è pericolo in mare”, ha spiegato, dicendosi contraria a qualunque forma di “blocco navale”. Il cardinale Zuppi invece chiede che la questione migratoria non sia “politicizzata”.

    La polemica tra Roma e Berlino viene amplificata in serata da Antonio Tajani: il ministro degli Esteri da Parigi ha annunciato che giovedì sarà a Berlino per chiedere spiegazioni al governo tedesco sui finanziamenti alle ong. Anche Matteo Salvini ha definito “inaccettabile” l’atteggiamento tedesco. Il governo prova a fare asse con Parigi: oggi Meloni vedrà Macron. Ieri Tajani, nel bilaterale con l’omologa, ha parlato di “soluzioni comuni” col governo francese anche per Ventimiglia. La ministra Catherine Colonna spiega che serve approvare il prima possibile il Patto per le migrazioni e l’asilo.

    PROPRIO QUELLO

    che viene bloccato a livello europeo. Ieri un portavoce della Commissione Ue ha bocciato la cauzione dei 5 mila euro per non finire nei Centri per i rimpatri: “Va valutato caso per caso secondo il principio di proporzionalità”. Anche nella maggioranza ci sono dubbi: il forzista Giorgio Mulè dice che la norma va “affinata”. A livello europeo si sta studiando una zona Sar al largo della Tunisia, ma non si sblocca il Patto sulle migrazioni: a stopparlo Germania, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria. Ieri Orban ha esultato: “Il Patto Ue ha fallito”.

    13.11.21

    sensi di colpa e solidarietà -aiuto non pelosa

    nel corso della  mia  vita  , fin qui  trascorsa  ,  da  solo     e  nelle  sedute   di psico analisi   ho appreso che il senso di colpa  ed la paura   fanno danno  e  tarponano le  ali  se  non affrontati e  trasformati  \ incanalati nella  giusta maniera  . Infatti , ed  è proprio questo il caso , posso anche  se   affrontati   salvare  le  vite  .

    da  https://storiedeglialtri.it/storie/

    “Ancora mi capita di non riuscire a dormire per la paura. Mio figlio ora è qui, non so se per fortuna, se qualcuno da lassù ci ha aiutati o semplicemente perché ha funzionato la manovra, so solo che è importante fare il corso di primo soccorso”.


     Lei è Naomi. Ha 25 anni. Vive a Roma. È fidanzata con Daniele, hanno due figli. Giuliano ha 5 anni, Aureliano ha spento da poco due candeline. È marzo, una sera come tante. Naomi è sola davanti al computer, d’improvviso sente la voce del suo compagno. È nella stanza accanto, ripete il nome del figlio, Aureliano. Il tono è preoccupato. Naomi corre, guarda il bambino, respira in modo insolito. Che cosa è successo? Che ha fatto? Il compagno non riesce a capacitarsi. Intanto il bambino

    peggiora, le labbra sono socchiuse, boccheggia. Naomi ha un lampo. Ha ingoiato qualcosa! Daniele comincia a urlare. Che facciamo? Naomi prende il figlio, agisce d’istinto, gli infila due dita in gola. Daniele la blocca. Tesoro, tempo fa non avevi imparato le manovre di primo soccorso? Naomi ha gli occhi sbarrati, il cuore in gola. Sono passati tanti anni. Tenta di ricordare. Zero, la sua testa è vuota, annebbiata. Intanto le labbra di suo figlio diventano viola, gli occhietti rotolano all’indietro, si chiudono. Naomi è disparata, si conficca le unghie nel viso. Non è possibile, stiamo perdendo! Sbrigati chiama i soccorsi! Daniele afferra il telefono, ma è nel panico, non ricorda il numero. L’ambulanza sta arrivando, il figlio è diventato bianco come un lenzuolo. Naomi è fuori di sé. Apre la porta di casa, grida, chiede aiuto, intanto spinge con le mani sulla schiena di Aureliano. Erano questi i gesti? Ti prego, fa che siano questi. Non può essere, il suo bambino le sta morendo tra le braccia. D’improvviso sente un colpetto di tosse, sotto i suoi piedi rotola una pallina di legno. In quel momento arriva l’ambulanza. Visitano il piccolo. Sta bene. Naomi e Daniele lo stringono tra le braccia, piangono. È tutto finito. La paura e il senso di colpa li tengono svegli ancora oggi. Si sono iscritti entrambi al corso di primo soccorso. Naomi credeva che certe cose capitassero solo agli altri. Non è così. Sono stati fortunati.


    stavo  per  premere  pubblica    quando mi arrivata  la  notifica    di  un aggiornamento  del sito     in questione  ed  ho letto    quest' altra  storia  


    Grazie al suo intervento, molto migranti e rifugiati hanno ottenuto un permesso di soggiorno e trovato lavoro. Di recente Daniel ha abbandonato il ruolo di sacerdote, ma continua a vivere in chiesa in mezzo alle persone a cui offre rifugio.

    Lui è Daniel. Nasce nel villaggio di Flanders, in Belgio, nel 1944. In famiglia sono in dodici, il padre fa i salti mortali per portare il pane in tavola. Daniel ha 10 anni. Sta giocando nella sua stanza. Bussano alla porta di casa. Si sentono delle urla, poi un pianto disperato. È sua mamma. Daniel corre. Che succede? Suo padre è morto, ha avuto un incidente. Daniel punta subito verso il suo letto, vuole andare a nascondersi sotto le coperte. Non può. Un fratellino si lamenta nella culla, un altro lo chiama per giocare. Ora bisogna pensare a loro. Daniel ingoia lacrime amare, e si rimbocca le maniche. Fa il garzone, il portalettere, aiuta le donne del villaggio a lavare e stendere i panni. Guadagna pochi spiccioli, ma
    l’alternativa è la fame. Ogni notte la mamma gli rimbocca le coperte e gli dà un bel bacio. Amore mio, siamo poveri, ma ricordati che una casa grande non vale quanto un cuore grande. Passano gli anni. Daniel riesce anche a studiare, prende la laurea, si trasferisce a Bruxelles e diventa professore di Filosofia. Gli piace stare con i ragazzi, ma gli manca qualcosa. Entra in seminario, dirige la Caritas, non gli piace stare dietro una scrivania. Si fa assegnare una parrocchia e diventa il pastore di una piccola comunità. Daniel si prodiga, è apprezzato, ma è sempre inquieto, non trova pace. Una sera entra in chiesa e per poco non gli prende un colpo. Le navate sono state letteralmente invase da famiglie intere. 


    Donne, uomini, bambini sono stesi per terra, sul pavimento. Daniel acchiappa il diacono e chiede subito una spiegazione. Cosa sta succedendo, che cos’è questo casino? Il ragazzo balbetta. Sono senzatetto, migranti, non sanno dove andare, ho provato a cacciarli. Daniel cammina su e giù, poi si siede a terra, parla, ascolta, osserva. Il suo cuore si riempie di gioia. Distribuisce coperte, vestiti, cibo, non nega un aiuto a nessuno. Restate, questa è casa vostra. Oggi Daniel ha 77 anni, la sua chiesa non è una casa abbastanza grande, ma ha un cuore grande.






    28.7.18

    CASTELBELFORTE. il paese adotta un senegalese aggiornamdento Annullato in extremis il rimpatrio per Marcel, il senegalese per il quale l’intera comunità di Castelbelforte si è mobilitata



    la vicenda 

     è giunta  ora la notizia   che 



    Rimpatrio annullato, Marcel può restare. Già raccolte 500 firme

    Lunedì 30 luglio al via la procedura per il permesso di soggiorno. E il parroco don Alberto si è già offerto di ospitarlo



    CASTELBELFORTE. Annullato in extremis il rimpatrio per Marcel, il senegalese per il quale l’intera comunità di Castelbelforte si è mobilitata. La tenacia del parroco, l’appoggio del sindaco, la disponibilità di un avvocato e le quasi cinquecento firme raccolte in paese hanno centrato il primo e più importante obiettivo: quello di non farlo ripartire. Ora, grazie all’intervento delle più alte cariche amministrative, avrà il tempo di presentare tutta la documentazione necessaria per ottenere il permesso di soggiorno. Venerdì 27 luglio Marcel, accompagnato dal suo legale, è arrivato in questura dove è stato ufficialmente identificato, attraverso le impronte e la foto. Lunedì presenterà tutta la documentazione per ottenere il permesso di soggiorno: dal parere positivo del sindaco di Castelbelforte Massimiliano Gazzani alla disponibilità del parroco don Alberto Ancelotti che gli ha già garantito un alloggio, alla raccolta di firme di tanti cittadini che vogliono che rimanga in paese. Da oltre quattro anni Marcel lavora nell’ambito del volontariato, al servizio di giovani ed anziani, persone deboli e bisognose. Quasi una sorta di adozione cittadina la sua.




    Fassar Marcel Ndiaye è divenuto in breve tempo un personaggio importante, anzi fondamentale, all’interno della comunità. Infatti, grazie alle sue innumerevoli competenze lavorative ed alla bontà d’animo che lo contraddistingue, la popolazione lo ha accolto e coinvolto in numerose attività.
    Dal paese è considerato un uomo affidabile, serio e gentile, sempre disponibile ad aiutare gli altri e particolarmente dedito al volontariato.
    Marcel ricopre altresì un ruolo fondamentale all’interno della parrocchia, dove collabora quotidianamente con il parroco e nel servizio di volontariato con la Caritas, con l’Anspi, con i tanti servizi richiesti dalle famiglie di pensionati e anziani del paese. Canta anche nel coro parrocchiale.
    Molti cittadini di Castelbelforte hanno persino dato la loro disponibilità ad assumerlo.
    E anche il sindaco leghista è dalla sua parte.

    24.7.18

    CASTELBELFORTE Il paese adotta il senegalese: tante firme per farlo restare Un giovane africano deve andarsene perché non ha il permesso di soggiorno. La comunità gli dedica una festa. Con lui anche il sindaco leghista Gazzani




      di Giancarlo Oliani

    CASTELBELFORTE. Fassar Marcel Ndiaye, cittadino senegalese destinato al rimpatrio volontario in Africa per la mancanza del permesso di soggiorno, è il protagonista di una petizione firmata da numerosissimi cittadini di Castelbelforte che vorrebbero trattenerlo nella comunità perché parte della loro grande famiglia. Quasi una sorta di adozione cittadina per l’uomo che da tanti anni lavora e fa volontariato nel paese del Mantovano.


    Fassar Marcel Ndiaye stringe la mano al sindaco Massimiliano Gazzani



    Ndiaye è divenuto in breve tempo un personaggio importante, anzi fondamentale, all’interno della comunità.
    Infatti, grazie alle sue innumerevoli competenze lavorative ed alla bontà d’animo che lo contraddistingue, la popolazione lo ha accolto e coinvolto in numerose attività. Dal paese è considerato un uomo affidabile, serio e gentile, sempre disponibile ad aiutare gli altri e particolarmente dedito al volontariato. Ndiaye ricopre altresì un ruolo fondamentale all’interno della parrocchia, dove collabora quotidianamente con il parroco e nel servizio di volontariato con la Caritas, con l’Anspi, con i tanti servizi richiesti dalle famiglie di pensionati e anziani del paese. Canta anche nel coro parrocchiale.
    Purtroppo Fassar Marcel Ndiaye non ha il permesso di soggiorno ed allora, assecondando l’invito della polizia, al fine di non violare le disposizioni di legge, si è reso disponibile alla procedura di rimpatrio volontario in Senegal, nonostante le sue reali volontà sarebbero quelle di continuare a vivere a Castelbelforte, unitamente a tutta la grande famiglia che lo ha accolto e gli vuole bene.
    L’uomo il prossimo 31 luglio 2018 dovrebbe lasciare Castelbelforte per ritornare in Senegal dove, al contrario dell’attuale situazione, non avrà alcun lavoro né una casa. È davvero incredibile la solidarietà che quest’uomo è riuscito ad accentrare su di sé. Molti cittadini di Castelbelforte hanno infatti dato la loro disponibilità ad assumerlo. E anche il sindaco leghistaMassimiliano Gazzani è dalla sua parte.
    Per questi motivi per domenica 29 luglio i cittadini di Castelbelforte hanno organizzato in onore di Ndiaye una grande festa per chiedere a gran voce che gli venga concesso il permesso di soggiorno. E lanciano un appello affinché il prefetto di Mantova, Sandro Lombardi, possa prendere in considerazione il caso. L’avvocato Zeida Vitali del foro di Mantova, sta lavorando assiduamente per consentire al giovane senegalese di ottenere quel permesso di soggiorno chiesto a gran voce da un’intera comunità. Nei quattro anni vissuti in paese è stato in grado di integrarsi al punto da diventare un vero punto di riferimento per le persone bisognose.

    11.7.17

    Ibrahim, 24 anni, morto di appendicite e di razzismo

    ma in che 💀💣💥💥💩 di paese viviamo ?Questo  è l'unico commento che mi sento da fare leggendo storie come questa che riporto sotto . Va bene che dal punto di vista giudiziario : << Sulla vicenda il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha detto: “Bisogna accertare eventuali responsabilità sulla morte del 24enne ivoriano >> ma  dal punto  di vista etico  morale    tale  persone  e tali atteggiamenti     vanno condannati  .  Prima  di lasciarvi  alla storia   , anticipo   a chi mi dirà , tu che  avresti fatto ?   io  l'avrei porto  anche  a piedi   o  avrei ( non avendo patente  )  dato l'auto   dei  miei  per  poterlo all'ospedale  o  soccorso  se  fossi stato medico   . perché   una persona che   sta male      va soccorsa indipendentetemente  dala nazionalità  . 



    Ibrahim, 24 anni, morto di appendicite e di razzismo





    Marco si è sentito male domenica, mentre era con suo fratello e gli amici. Un ragazzo gentile di 24 anni che parlava cinque lingue, impegnato come volontario per tradurre le informazioni ai richiedenti asilo. Si lamentava per i forti dolori all’addome. I crampi che provoca l’appendicite quando si infiamma. È corso in ospedale, dove lo hanno subito dimesso. «Ma io sto malissimo, mi fa male la pancia!», ripeteva. Non gli hanno creduto.
    Nelle ore successive i dolori aumentano. La sera, Marco non riesce più a stare in piedi. Suo fratello e i suoi amici lo portano alla farmacia di turno, quella di Piazza Garibaldi, a un passo dalla stazione centrale di Napoli. Il farmacista si rifiuta di aprire la porta. Vede il ragazzo contorcersi per il dolore. Lo pregano di chiamareun’ambulanza. Attendono per più di un’ora, mentre Marco è riverso a terra, ma l’ambulanza non arriva. I ragazzi corrono alla fermata dei taxi più vicina, quella di Piazza Mancini. Per accompagnare Marco in ospedale servono dieci euro per la corsa. «Eccoli!», dicono, ma il tassista si rifiuta di caricarli. «Per piacere, sta malissimo!». Niente da fare. I ragazzi sollevano Marco e lo scortano a un’altra farmacia. Il farmacista osserva il ragazzo e gli suggerisce di acquistare farmaci per quindici euro. Marco inghiotte i farmaci, torna a casa, vomita.
    Suo fratello e i suoi amici tentano di nuovo di chiamare un’ambulanza, invano. Si rivolgono a Mauro, che è medico. Telefona anche lui: «Non possiamo mandare un’ambulanza per un ragazzo che vomita». «Ma sta male – li supplica Mauro – è urgente!». Ricostruisce i fatti parlando al telefono con i colleghi, spiega i sintomi. Marco rantola, ha quasi perso conoscenza. «Niente ambulanza, dovete portarlo a farsi visitare alla guardia medica. Nel caso, poi, l’ambulanza la chiamano loro». Suo fratello e gli amici lo prendono in spalla, corrono disperati verso Piazza Nazionale. Fermano una volante dei Carabinieri ma nemmeno quelli vogliono caricare Marco in macchina. Si rimettono a correre.
    Quando arrivano a destinazione Marco non risponde più. I medici capiscono che bisogna chiamare un’ambulanza e operarlo al più presto, ma il più presto era prima.
    Poco dopo l’arrivo in ospedale, Marco è morto.
    È morto perché non si chiamava Marco ma Ibrahim Manneh e veniva dalla Costa D’Avorio, come l’abbiamo ribattezzata noi europei nel 1500, quando abbiamo razziato tutti gli elefanti della zona portandoli all’estinzione.

    Ora   ad  alcuni di voi   potrà sembrare  un caso   ma  ciò  sta  succedendo    sempre  più spesso  ma per   questo    forse perchè  storie  lontane  dai media e dal clamore mediatico , si hanno scarse notizie .


    Infatti -  sempre secondo il fatto quotidiano -La denuncia è partita dai suoi amici: gli attivisti dello sportello medico e legale gratuito dell’Ex Opg Occupato. Stamattina hanno convocato una conferenza stampa per denunciare questa incredibilestoria di razzismo, ingiustizia e malasanità. Non è la prima che denunciano: in un anno di attività ne hanno seguite tante.
    Quella della ragazza shrilankese alla quale, dopo il parto, non consentivano di riconoscere sua figlia perché non aveva i documenti. «Se entro dieci giorni non riconosci il bambino che hai partorito, vieni denunciato per abbandono di minore». I documenti li aveva persi nell’incendio che aveva distrutto la casa. I Carabinieri non avevano accettato la denuncia di smarrimento perché la ragazza non aveva i documenti. «Ora la bimba ha otto mesi, si chiama Violetta».
    Quelle delle decine di ragazzi bisognosi di cure mediche urgenti e intrappolati anche loro in un Comma 22: per ricevere cure urgenti servivano i documenti che arrivavano dopo mesi. «Abbiamo aperto un tavolo con la prefettura e abbiamo ottenuto una circolare ministeriale che chiarisce che non c’è bisogno dei documenti per essere curati».
    Quella delle decine di minorenni soli che arrivano dalla Libia con i segni della tortura addosso: «Li legano, li gettano a terra, li percuotono sotto i piedi e sulle gambe con i bastoni chiodati fino a spaccargli le ossa. Un ragazzo che abbiamo appena visitato ha perso un occhio per una manganellata». Siccome sono ferite cicatrizzate, all’ospedale non vengono refertate, quando invece sarebbe necessario per ottenere asilo politico.
    Quella di Chek, che rischiava di finire come Ibrahim. «Per mesi lo hanno ricoverato e dimesso senza fargli analisi. Solo grazie al nostro intervento e dopo molte insistenze hanno acconsentito a fargli un emocromo e una elettroforesi dell’emoglobina che ha confermato il nostro sospetto: Chek ha un’anemia falciforme omozigote. Adesso sarà seguito da un centro specialistico e curato in modo adeguato ma se fosse morto, chi avrebbe spiegato perché ai suoi genitori? Chi spiega il perché per i tanti figli che muoiono attraversando deserti e mari?».



    L’ambulatorio popolare dell’Ex Opg va avanti grazie a una rete di medici volontari. «Molti di loro non hanno alcuna appartenenza politica», spiega Mauro Romualdo, che voleva partire come medico volontario per l’Africa ma poi l’Africa l’ha trovata a Napoli. Ci sono specialisti di medicina generale, il ginecologo Enrico che lavora in una struttura convenzionata, l’ortopedico Francesco detto Ciccio, un primario in pensione, una pneumologa, una psichiatra del Policlinico, specializzandi in Infettologia, medicina interna legale, infermieri e psichiatri allo sportello di ascolto e sostegno psicologico. L’ambulatorio si è costituito grazie alle donazioni, come i due ecografi arrivati da un ginecologo in pensione. «Sono tante le gravidanze che abbiamo seguito. Da poco è nato Denis, il figlio di una ragazza cinese. «Non parlava italiano, ci capivamo traducendo sul telefono». Per questo, all’Ex Opg ci sono anche i corsi gratuiti di italiano. «Vengono a farsi visitare anche tanti abitanti del quartiere e delle altre zone di Napoli. Un napoletano che non sapeva leggere e scrivere sta imparando qui». Il controllo popolare della salute, lo chiamano.
    Garantire le cure mediche ma anche l’istruzione, l’assistenza legale contro lo sfruttamento e il lavoro nero, il doposcuola, l’asilo, perché le cure non sono solo le medicine, cura è prendersi cura, capire i bisogni, ascoltare. Per salvare Ibrahim sarebbe bastato ascoltarlo e invece è morto di razzismo: un male incurabile, sebbene la ricerca stia facendo passi avanti e passi indietro. Passi indietro a Chioggia, passi avanti a Napoli, all’Ex Opg, dove si aiutano gli immigrati a casa loro, cioè qui.


    Strano  che il minisro  la ministra  della  sanità  e  della salute    non  manda  ,  forse  per  evitare  di perdere lettori  malpancisti   e    filo salvinisti  che stanno avendo sempre  più 😈😕😌 seguaci    fra  la  gente  ,  gli ispettori ne   nelle  farmacie  nè  nel primo ospedale  . Però scometto   che   come tutti   i geniali dilettaqti  in selvaggia parata    saranno presenti  al  funerali  . 





    23.3.17

    MA SI PUò ESSERE PIù IMBECILLI DA METTERE LO SMAIL RISATA O CUORE DAVANTI AD UN TRAGEDIA DI MORTE ?

      CANZONE   CONSIGLIATA  Modena City Ramblers - Pietà l'è Morta

    NON MI VA£" DI RIELABORARE " IL MO POST SU FACEBOOK .LO RIPORTO SENZA FILTRI



    Il forte disagio di chi sulla pagina fb dell'unione sarda ha messo ( evito anche se sono tentato di farlo di mettere i nomi di coloro lo hanno fatto , non mi va di scendere al loro stesso livello ) la reazione con la risata o i cuore A QUESTA NEWS CHE TROVATE SOTTO è ... Patetico !.Quando si capirà che ogni uomo è uguale, che la vita di ogni uomo ha lo stesso valore, forse sarà già troppo tardi.
    Certo che li biasimo e gli insulto , perché è una manifestazione di sadismo molto pericolosa.
    Se uno gode della morte di 200 persone, in questo caso , significa che ha qualche cosa che non va e che non è proprio una persona con cui poter star vicino o che non capisce un .... della vita


    Doppio naufragio di fronte alle coste libiche: "Si temono 240 morti" - Cronaca - L'Unione Sarda.it
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