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Lui è Kakà. Vive a Porto Alegre, in Brasile. Ha 14 anni. La sua famiglia non ha il becco di un quattrino, Kakà esce da scuola e vende panini agli angoli delle strade. Fa il barista, il fattorino, lo spazzino, trascorre giornate intere davanti all’ufficio di collocamento. Non è schizzinoso, va bene tutto, purché sia un lavoro onesto. Passano gli anni, Kakà porta il suo curriculum ovunque, riceve tante porte sulla faccia, ma non molla. Dorme a casa di amici, a volte per strada, usa i soldi che guadagna per pagarsi gli studi, finché a trent’anni la ruota gira e diventa addirittura assessore comunale. Kakà piange di gioia, finalmente può tirare il fiato. Ma non dimentica. Ogni momento libero lo passa fuori da quel maledetto ufficio di collocamento, offre consigli e un caffè alle persone in coda. È il 2019. Kakà esce dal lavoro, per poco non inciampa in grossi sacchi della spazzatura abbandonati per strada, mezzi aperti. Il marciapiede è ricoperto di cartacce, Kakà le raccoglie una a una. Fa per buttarle, gli cade l’occhio su alcune scritte, resta di sasso. Non è carta straccia, sono dei curricula. Kakà sente un nodo alla gola. Stringe quei fogli tra le mani e torna a casa. Legge ogni singola riga, accarezza le lettere, divora con gli occhi le fotografie. Su una delle pagine è stata aggiunta una scritta a mano. Vi prego assumetemi, ho usato tutto quello che avevo per pagare la copisteria. Kakà batte il pugno sul tavolo. Non è giusto! I giorni successivi li passa a sistemare, aggiustare, riscrivere laddove l’inchiostro è troppo rovinato. A lavoro ultimato, sistema i fogli dentro una cartellina, la infila nello zaino ed esce. Setaccia tutte le aziende che cercano personale, si assicura che quei preziosi documenti arrivino sulla scrivania giusta. Dopo settimane di ricerca, consegna l’ultimo dei sessantadue curricula. Kakà si asciuga le lacrime. Non sa come andrà a finire, ma di una cosa è certo. Dietro ognuno di quei fogli ci sono sacrifici, esperienza, talenti, speranze. Una vita, che va rispettata.
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
8.12.21
dal dolore e dal lutto rinasce la vita il caso di una vedova del bataclan ed altre storie
10.11.21
La campionessa dei droni: "Non cammino, so volare"., Tra le baracche romane la scuola degli ultimi., il fu mattia pascal esiste vive a follonica
E proprio in una baracca di nove metri quadri, appartenuta a una prostituta, civico 725, aprì la scuola per i ragazzi dell'Acquedotto Felice, considerati bambini di serie B e quindi lasciati indietro dalla pubblica istruzione. Si cominciava alle tre di pomeriggio con la lettura dei giornali, poi c'era il momento di disegnare quello di cui si era discusso in classe, su fogli riciclati e con pastelli a cera. E proprio tramite il disegno Don Roberto, prete di borgata, riuscì a far entrare il mondo nelle baracche, trattando gli argomenti più disparati, da Malcom X a Ghandi e Che Guevara, racconta Marzia Consalvi della Biblioteca Raffaello di Roma, dove è conservato il fondo Don Sardelli, che lui stesso donò a questo istituto pochi anni prima di morire, proprio per la vicinanza all'Acquedotto Felice
E un giorno all’improvviso si è presentato agli amici di un tempo
6.11.21
dal dolore rinasce la vita le storie di Germana Stefanini e quella di padre Pier Luigi Maccalli
Paolo Fresu e Uri Caine - Lascia ch'io pianga
Quando Germana chiuse la finestra
Il “processo proletario” a Germana Stefanini prima della sua esecuzione |

Sono insoddisfatti, la picchiano, provano a catturare anche una donna che abita al piano di sopra, di nome Mirella, anche lei guardia carceraria a Rebibbia. Obbligano Germana ad aprire la finestra e a chiamarla, le tengono una pistola puntata alla schiena. Mirella si affaccia, ma risponde che non può scendere, che il suo bambino ha la febbre alta e che non può lasciarlo solo. Così si salverà. Si affaccia anche un ragazzo, si chiama Massimo, è il fidanzato di sua nipote. Germana gli fa segno di tornare subito in casa e gli dice che non vuole vederli, che “non gli servono a niente”.
Germana Stefanini con la nipote Marisa |

Massimo parla ad alta voce e senza sosta, senza quasi prendere fiato, si interrompe solo quando i suoi occhi, che controllano tutta la sala, notano che a qualcuno manca un piatto o che su un tavolo è finito il vino. Mentre discutiamo degli Anni Settanta, del terrorismo, delle rivolte nelle carceri, e nel frattempo mi fa assaggiare una specie di fenomenale porchetta di vitello – il carcotto – che prepara sua moglie, capisco cosa significa la parola “oste”: non è il proprietario di un ristorante ma tante cose insieme. È un intrattenitore, uno che fa sentire a casa i clienti, un racconta storie, uno che ama ognuno dei piatti che escono dalla sua cucina, uno che non si stanca mai. Lo osservo, la faccia sembra quella di un guru indiano ma i modi mi fanno pensare alle osterie del tempo del Marchese del Grillo di Alberto Sordi: un gran caos e una grande allegria. Quando arriva a parlare del rapimento della zia Germana abbassa la voce, gli occhi vanno da un’altra parte, diventano assenti: «Era una donna mite, provata dalla vita, le spararono in testa. Quel giorno si ruppe tutto dentro di me. Diventai cattivo, avrei voluto farla pagare ad ognuno di quelli che stavano in carcere. Anche Marisa, nel frattempo, era diventata una guardia carceraria. Ci spostarono entrambi a lavorare in ufficio, ma non poteva durare, resistemmo ancora un po’ poi ci licenziammo e scappammo da Roma. Scegliemmo la campagna per ripulirci la vita e per sentirci liberi. La madre di Marisa, la nonna Anna che aveva fatto la cuoca a Roma, ci aiutò ad aprire una trattoria a Zagarolo. Cominciò così la nostra seconda vita. Avrei avuto bisogno di altri maestri, ma questa volta senza ombre. La prima sera un cliente mi chiese se avessi Chardonnay o Sauvignon, risposi che non trattavo quelle ditte. Scoppiò a ridere e mi spiegò che si trattava di due vigneti, di due tipi di vino, non di due aziende. Mi resi conto dell’abisso della mia ignoranza e gli chiesi chi fosse il massimo esperto di vino in Italia, mi rispose: Gino Veronelli. Il giorno dopo trovai il suo numero nell’elenco telefonico di Bergamo, presi coraggio e lo chiamai a casa. Gli spiegai che ero un oste e gli chiesi se mi potesse insegnare qualcosa sul vino. Pensò che fossi matto ma mi disse di andare al Vinitaly per conoscerlo. Iniziò un’amicizia che durò per 24 anni. Mi ha cambiato la vita, mi diede un elenco di regole e di cose da fare. Mi disse che dovevo risparmiare per andare a mangiare nei ristoranti più importanti e che lo dovevo fare con la predisposizione mentale giusta: “Vai come se fosse il giorno della prima comunione: vestiti bene e accogli la novità e il cambiamento”. Poi aggiunse: “Più vini bevi e più impari; più cibi assaggi e più impari”. Così cominciai un giro d’Italia che non ho ancora concluso. Il primo treno mi portò a Milano, andai in via Bonvesin della Riva da Gualtiero Marchesi, per provare a capire cosa fosse un ristorante in cui un solo piatto costava il doppio di un intero menù alla mia osteria. Mi portavo dietro un quadernetto in cui scrivevo le impressioni e ciò che scoprivo e presto mi resi conto che quello che faceva la differenza non erano i piatti ma le emozioni che ti davano, le storie che c’erano dietro. Sono così riconoscente a Veronelli e all’amicizia che abbiamo avuto che ogni anno, per ricordarlo, faccio una festa nella data della sua nascita e una cena nel giorno della sua morte».Nel frattempo, Massimo e Marisa si spostano da Zagarolo a Grottaferrata, dove aprono “L’Oste della Bon’Ora” e quattro mesi prima dell’arrivo della pandemia trovano il coraggio di tornare nel cuore di Roma, in via dei Banchi Vecchi al numero 140. «Ero a Milano, tentato di portare la mia esperienza di oste al Nord, quando mi è suonato il telefono: era un amico che mi diceva che si era liberato un locale poco lontano da Campo de’ Fiori. Quante volte avevo ripetuto che non c’erano più osterie vere nel centro di Roma, ma soprattutto che non c’erano più osti. Sono corso a vederlo e a convincermi è stato il grosso muro perimetrale del Cinquecento. Ho pensato che era arrivata l’ora di tornare a casa». Massimo oggi ha sessant’anni, non riesce a immaginare quale sarebbe stata la sua vita se la zia Germana non avesse incontrato quelle tre persone al portone, di certo non sarebbe mai diventato un oste, non avrebbe riempito il suo taccuino di storie di cibo, non avrebbe assaggiato migliaia di vini, non avrebbe costruito una cultura dell’accoglienza insieme a Marisa. Ma una certezza ce l’ha, e mentre me la dice, non di persona ma in un messaggio vocale che mi manda quando sono già tornato a casa, gli si incrina la voce: «Il regalo più grande che ha fatto a tutti noi, a me a Marisa, a Mirella e al suo bambino, è di averci salvato la vita e di averci regalato un’altra vita. In un gesto eroico ha scelto di pagare da sola».
La libertà di guardare il soffitto
«Ho visto per 25 volte la luna piena illuminare il deserto e ogni volta ho sperato che fosse l’ultima. Vedevo passare gli aerei di linea, osservavo le loro scie, cercavo di immaginare le vite delle persone a bordo, e mi sforzavo di credere che un giorno sarei tornato anch’io a guardare il deserto da un oblò. Ma il mio sogno più grande, un desiderio ancor più forte di dormire su un materasso, era di aprire gli occhi e vedere un soffitto. “Quando vedrò un soffitto sulla mia testa – mi ripetevo – allora sarò salvo”».
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con la stoffa di un turbante usato
per proteggersi la testa dal sole
Pier Luigi Maccalli, sacerdote italiano della Società delle Missioni Africane, è tornato a vedere il soffitto a ottobre dello scorso anno, dopo aver passato 25 mesi prigioniero di un gruppo di jihadisti che fanno parte della galassia di Al Qaeda nel Maghreb. La sua storia, il diario del suo rapimento e di due anni terribili incatenato tra le dune del deserto, sono diventati un libro che abbiamo presentato insieme e questo mi ha dato la possibilità di ascoltare la sua voce e i suoi racconti. Padre Maccalli ha sessant’anni, viene da Madignano, un paese in provincia di Cremona, ha la barba bianca, una faccia aperta e solare e un modo di parlare semplice e diretto. L’esperienza che ha vissuto ha lasciato un segno profondo dentro di lui, una ferita insanabile che non riesce, e probabilmente non riuscirà mai, a dimenticare. «Sono stato rapito il 17 settembre del 2018 e per i primi 22 giorni mi hanno tenuto incatenato giorno e notte a un albero. La catena, lunga poco più di un metro mi stringeva la caviglia, non potevo muovermi. È stata l’umiliazione più grande: trattato come si trattavano una volta i cani in campagna». Porta sempre con sé tre oggetti che gli ricordano che cosa ha passato ma anche come ha resistito. Il primo lo ha al polso, è un braccialetto di stoffa con dei nodi, è il rosario che si era costruito e che recitava silenziosamente ogni mattina, quando gli toglievano i ceppi notturni dai piedi e poteva camminare in circolo per un’ora. Il tessuto ormai è scuro, lo aveva strappato dal turbante che teneva in testa per proteggersi dal sole, nei mesi si è impregnato di sabbia e sudore.Poi dalla tasca tira fuori una piccola bustina da cui estrae due pezzi di legno intagliati, ci ha lavorato con pazienza per settimane, tenendoli sempre separati. Ora li mette insieme, come faceva soltanto la notte quando tutti dormivano, e forma una croce in legno. L’ha costruita pensando alla croce incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz. L’ha fatta per non sentirsi solo, per ricordarsi quanta sofferenza ed ingiustizia c’è nel mondo. «Per molto tempo mi sono sentito abbandonato, avvolto da un deserto fuori e dentro di me, non sentivo la voce di Dio. Poi l’ho trovato nel silenzio».«Ho vissuto per 25 mesi in una prigione a cielo aperto, in mezzo al deserto di sabbia del Sahara, di giorno un caldo infernale, il vento bollente e la luce bruciavano la pelle e gli occhi. La notte dormivo per terra, solo con una stuoia, l’acqua sapeva di benzina. La sete era tantissima, ma versavo sempre un po’ della mia acqua in una scatola di latta per gli uccelli che, sfiniti dal caldo, venivano a bere. Li osservavo con il loro ciuffettino e mi sentivo in pace. Mi hanno fatto girare nel deserto di dune, tra Mauritania, Mali e Algeria. La mattina era la parte più facile della giornata, all’alba mi toglievano le catene, passeggiavo in circolo e recitavo il rosario in silenzio, poi preparavo del tè sulle braci e alle 11 cucinavo il riso per il pranzo. Poi la giornata finiva perché il sole era troppo forte e il caldo soffocante e si doveva stare immobili all’ombra, con la testa e gli occhi coperti. Al tramonto camminavo ancora un’ora in cerchio, mangiavo il riso rimasto e poi mi rimettevano le catene. La mia unica consolazione erano le stelle, questa cupola di stelle che scendeva fino all’orizzonte. Di fronte a quella sensazione di infinito anche la mia condizione diventava relativa, mi sentivo un puntino nell’universo e le stelle mi davano speranza».

Il terzo oggetto che tiene in tasca è un anello spezzato della sua catena, era riuscito a romperlo con un lavoro infinito, lo usava come cacciavite per allentare un pochino i bulloni che gli stringevano le caviglie. Questo anello, insieme con il rosario di stoffa e la croce sono i tre simboli del suo calvario, della sua resistenza e della sua fede.
Quando gli chiedo se avesse paura, mi risponde: «Tristezza. Ho passato due anni di tristezza profonda, mi vedevo ridotto ad uno stato che non avrei mai immaginato, io che rido e scherzo sempre, che cerco di portare gioia nelle cose, che faccio studiare i ragazzi e con loro scavo pozzi.
Anche i rapitori erano ragazzi, avevano al massimo vent’anni, erano la faccia di un’Africa molto lontana da quella colorata in cui ho lavorato a lungo, un’Africa oscura, dove si sprecano vite ad abbracciare un kalashnikov. Io ero ostaggio, ma li osservavo e pensavo che i veri ostaggi erano loro, non sapevano leggere e nemmeno scrivere, passavano le giornate con lo smartphone tra le mani ad ascoltare inni alla jihad e a guardare video di propaganda. Una sera uno di questi ragazzi me ne mostra uno in cui si vedono altri giovani che sparano a ripetizione con le mitragliette. Allora gli chiedo se ascolta mai musica. Si blocca, mi guarda e poi si mette a cercare nel telefono e alla fine fa partire un video con raffiche di kalashnikov: “Questa è musica”. Poi aggiunge: “Io aspetto soltanto il giorno in cui potrò farmi saltare in aria”».

Dopo un anno di prigionia padre Maccalli ottiene di poter ascoltare la radiolina di un rapitore che va e viene dal campo, la prima volta in cui l’accende è la fine del 2019, sente parlare di un virus che ha colpito la Cina, un mese e mezzo dopo sente che è arrivato in Italia, ma non capisce che cosa sia. «Immaginavo una forte influenza, forse un po’ più forte del solito, ma non potevo immaginare cosa stesse succedendo al mio paese, che è tra Crema e Codogno». Poi l’uomo della radiolina torna e porta le ultime notizie: quel virus sta facendo strage in Europa e negli Stati Uniti. «Erano su di giri, contenti, festeggiavano e ripetevano che era il flagello di Dio contro l’Occidente. Poi arrivarono le notizie che i contagi si erano estesi ai paesi arabi e nel nord Africa e i loro toni si smorzarono, gli entusiasmi si spensero».

«Mi hanno rubato due anni di vita e di missione, che significavano due anni di alfabetizzazione, scuola, costruzione di pozzi. Ho fatto pace con tutto questo solo dopo l’abbraccio della mia famiglia e della mia diocesi, che hanno vegliato, mi hanno atteso, hanno pregato tutte le sere e non hanno mai perso la speranza. Quell’abbraccio mi ha allargato il cuore e mi ha commosso. Oggi guardo a questi due anni come ai più fecondi del mio ministero missionario. Ho pianto al ritorno, sono stati due anni pieni di lacrime, la pioggia che ha irrigato il mio deserto».Padre Maccalli è stato liberato l’8 ottobre del 2020, ma tra le dune altre donne e uomini erano rimasti prigionieri, tra loro una suora colombiana, Gloria Cecilia Narváez Argori, che dopo 4 anni e 9 mesi ha ritrovato la libertà soltanto due settimane fa.
31.1.21
18.2.18
Palermo, la rinascita di Noemi: "Ho visto papà uccidere mamma, ma ora non lo odio più"
qui l'articolo da repubblica d'oggi rungrazio Gianfranco Vanni per averla posta su facebook
Noemi D’Alba sorride ma gli occhi blu tradiscono un passato di dolore. «Non dimenticherò mai quei rumori e quelle immagini», dice mentre abbassa lo sguardo e trattiene le lacrime.
Dietro a una porta di legno massello che sfondò a calci nel 2012 si ritrovò davanti alla sua nuova vita ad appena 12 anni. Il padre, un carabiniere, uccise a colpi di pistola la moglie e poi si suicidò nella loro camera da letto dell’alloggio in caserma. La coppia era separata da alcuni mesi, lui era molto geloso.
Noemi, oggi lei ha 18 anni.
Quali sono i suoi sogni per il futuro?
«Vorrei partecipare al concorso per carabiniere. Sono un perito chimico ma vorrei studiare biologia per poi entrare nel Ris. Ma il mio più grande sogno, quello che coltivo da bambina, è scoprire la cura per il cancro. Chissà...».
Carabiniere come suo padre?
«Sì anche se i primi due anni l’ho odiato. Poi, col tempo, ho compreso che era un sentimento inutile e l’ho perdonato. È stato comunque l’uomo che mi ha donato la vita. Sono anche andata a trovarlo al cimitero. Gli ho parlato e, per quel che può valere, gli ho raccontato come sta andando la mia vita».
Lei quel giorno fu molto determinata e lucida. Ha avuto un gran coraggio.
«Il coraggio l’ho avuto soprattutto nel vietare alla mia sorellina di 5 anni di entrare in quella stanza e di portare con sé quel ricordo. Ho preservato la sua memoria, lei è la mia sorellina e l’ho protetta.
L’affidai ai vicini e chiamai subito il 118. In un primo momento l’operatore non credette a quello che gli raccontai. Pensò a uno scherzo e mi disse che era impossibile che in una caserma dei carabinieri stesse accadendo una cosa del genere. Gli urlai e si rese conto della mia disperazione e che tutto purtroppo era vero».
Un giudice decise di affidare lei e sua sorella a una zia. Come è andata la sua vita?
«Ho dovuto lasciare Palermo e trasferirmi ad Aragona, un paesino dell’Agrigentino. I primi tre anni ho sofferto moltissimo per questo, poi ho cominciato a farmi alcuni amici. Lo studio mi ha aiutata così come la musica. Ma appena ho compiuto 18 anni ho provato ad andare via. Sono stata sei mesi in Puglia dove ho lavorato come cameriera».
E perché è tornata?
«Mi mancavano gli amici e mia sorella. E soprattutto sono tornata perché mi voglio preparare bene per il concorso nell’Arma. Se dovesse andar male cercherò un altro lavoro magari ad Agrigento».
Cosa le ha permesso di andare avanti?
«La forza di volontà, non mi abbatto davanti a niente. A tutti i figli che come me sono rimasti senza genitori vorrei lanciare un messaggio di speranza. Bisogna non lasciarsi sopraffare dalle emozioni negative, dai sensi di colpa, dalla tristezza. Bisogna gioire nonostante tutto».
Cosa pensa degli uomini?
«Il fatto che abbia odiato un uomo non vuol dire che li odio tutti.
Vorrei dire agli uomini che se una storia finisce per qualsiasi motivo, bisogna accettare con serenità la rottura. E soprattutto a un padre vorrei dire che oltre all’amore per la sua donna c’è anche l’amore, forse più grande, per i suoi figli».
Cos’è l’amore?
«Azzardo una risposta. È un sentimento che ha tante sfumature. L’amore non è soltanto quello verso un uomo, c’è anche l’amore per i familiari e quello per gli amici. Gli amici sono stati determinanti nella mia esistenza, non mi hanno fatto sentire sola. In pochi sanno del mio passato e mi conoscono a fondo. E poi sono stata fortunata perché con mia zia ho instaurato un rapporto molto materno».
E la gelosia?
«Può essere piacevole in un rapporto se dosata bene, ma distruttiva se diventa accecante».
È innamorata?
«Sì».
Che ricordi sono rimasti della
vita prima del 2012 ?
«Ricordi bellissimi e anche alcuni meno belli. Mamma è stata una modella, poi si è dedicata completamente a noi. Era molto presente anche nei momenti di crisi con papà. Percepivo che c’era qualcosa che non andava e ho anche assistito ad alcuni litigi. Ma in quale famiglia non ce ne sono?».
Ha mai temuto che potesse finire in quel modo?
«Assolutamente no. Ero una bambina e speravo che i miei genitori ritornassero insieme».
Il suo cantante preferito è Bon Jovi, c’è una canzone che porta nel cuore?
«È “Always”. Parla di una storia di amore che finisce. L’uomo rimasto senza la sua donna soffre e spera in un’altra possibilità, quella anche oltre la vita».
Nel portafoglio porta due foto.
«Sono quelle di mamma e papà.Sono una accanto all’altra.Mamma e papà per sempre con me».
Dopo aver sparato a mia madre si suicidò Ho capito che odiarlo era inutile. Sono anche andata al cimitero a trovarlo e raccontargli come va la mia vita Mi sono diplomata e adesso vorrei fare il carabiniere come lui Agli uomini voglio dire: imparate ad accettare la fine delle vostre storie
Da Repubblica di oggi
10.4.16
notti d'ospedale di © Matteo Tassinari
No
dolore è gonfio
Alle due di notte fisso ancora il soffitto e ascolto i lamenti dei malati. Il mio amico di stanza dorme di un sonno stanco e gravoso da sopportare. Sono i principi attivi (cinque) che gli circolano nel sangue attraverso diverse sacche di flebo, da mattino a sera, che non l’aiutano e giustamente, si lamenta dal dolore.
Ma la notte abbonda la sua consistenza desolante con le sue freddezze e scheletriche immaginazioni. Tutto quel che ci circonda si dilata proprio quando un gemito si fa spazio fra i corridoi illuminati a neon spenti, gremendo spazi vuoti dove corrono le emergenze, perché è di notte che il tormento alza il volume dell'odissea. Non so quanto tempo passa che avverto l’amicizia del water. La prostata fa il suo lavoro, mentre impiego qualche minuto per arrivare ad espellere l’ultima goccia possibile d’urina dalla vescica.
Questi sono gli orgasmi rimasti in un periodo affannoso per quanto difficoltoso. Ma la notte in ospedale non scema affatto le sue mestizie, semmai le aggrava, le allarga fino ai ponti dell'acutizzazione di ogni singola particella corporea malata. Le rafforza, le ingrossa, le addiziona, le incrementa senza alcuna spiegazione se non futile o vacua. A volte penso: chissà come moriva la gente prima dell’invenzione di tante malattie. Mi accontento del pensiero di Louis Pasteur: "Noi beviamo, mangiamo o respiriamo il 90 per cento delle nostre malattie".
quando parte imperturbabile il prurito su tutto il tessuto corporeo dovuto ad una forma di Vasculite a causa della riattivazione del sangue. Prendo la spazzola comprata in ferramenta dalle setole coriacee, per assicurarmi un deciso quarto d’ora di pace pur sapendo che un quarto d’ora dopo il prurito alienante tornerà. Il sangue, come saprete, va dovunque. Gli piace così, girare a zonzo. Solo che grattarsi al centro della schiena, bisogna essere artisti autentici e io ci riesco perché ho le braccia lunghe e la schiena pure. La stamina viaggia dappertutto alla stessa velocità di una qualsiasi connessione Internet senza intoppi. È la vita. A volte credi che due occhi ti guardino e invece non ti vedono neanche. A volte credi d'aver trovato qualcuno che cercavi e invece non hai trovato nessuno. Succede. E se non succede, è un miracolo. Ma i miracoli non durano. L’uomo può essere il capitano del suo destino, ma anche vittima della sua glicemia.
Gratto. Gratto. Gratto, mi accorgo però che quel che gratto non è più prurito, ma è diventato bruciore. Basta. Appoggio la spazzola sul comodino, altrimenti va a finire che vedo il sangue. Con una spugna passo sul corpo acqua fisiologica cercando di lenire le parti più lese per poi darmi un poco di Nivea. Del resto, il rapporto che ho con le creme, da il senso di accedere alla solitudine mentre una malattia immaginaria trovo che sia peggiore di una vera malattia. Continuando nei meandri della mia mente arrivo a pensare che ci sia tanta salute nella malattia. Si, proprio così, com'è vero che non il medico, ma un altro malato capisce la sofferenza di un malato.
Gli antistaminici sono acqua
fresca. Solo il Cortisone metterebbe a tacer tutto, ma a causa di effetti collaterali talmente insopportabili che preferisco tenermi il prurito rinunciando al Cortisone e i suoi fuochi d’artificio. Passa il tempo. Non so quanto, intanto la scienza si consulta mentre il paziente può solo sopportare. Fu per questo che Sigmund Freud una volta disse: "Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente bisogna morire"? Nulla di originale...
nel mezzo mangio un’arancia. Sono le quattro di notte e penso a Bowie e capisco ancora più profondamente che una generazione, con lui, se n’è andata davvero. Penso a Gesù, l’unica risposta a tanta tribolazione. Pensieri anarchici, forse bakuniani, contestatori, ribelli e sovversivi, che sfiorano le meningi a 38 di febbre. Dormo un’oretta forse più.
Sono le cinque e mi aspetto da un momento all’altro le luci del mattino e penso che tra un’ora, decisa, entrerà un’infermiera a prelevare un po’ di sangue da me e dal mio amico, per vedere a che punto stanno i cd4 e la Viremia, e penso che gran parte di quello che i medici sanno è insegnato loro dai malati, consapevole del fatto che il miglior medico è colui che con più abilità sa infondere la speranza. Diceva Jannacci, medico pure lui: "da medico ragiono esattamente così, la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa". Come ho sempre pensato che ogni medico dovrebbe essere ricco di conoscenze e non soltanto di quelle che sono contenute nei libri, ma i suoi pazienti dovrebbero essere i suoi libri. In buona sostanza, la malattia è un conflitto tra la personalità di entrambi e l’anima.
Mi metterà la “Farfalla” (un ago che s’infila nel braccio) per non forare troppe volte la pelle e avere una via d’accesso costantemente pronta per gli aghi da dove passa tutta la chimica. E’ un condotto che mi porto attaccato alla perfezione al braccio per quattro o cinque giorni, per poi cambiarlo affinché non infetti la vena in questione. Che invenzione fantastica la “Farfalla”. Se non ci fosse saremmo pieni di flebiti, noi uomini spaventati. E quasi l’alba e l’infermiera di turno sta per iniziare il suo pellegrinaggio lungo la corsia. Eccola. Prima di vederla, vedo la luce al neon dell’anticamera, affinché troppa illuminazione non ci crei fastidio per noi esseri dormienti e stanchi di mille tempeste dove si sono persi senza domande.
BUONGIORNO! E’ il caloroso saluto della nostra amica infermiera, la risposta è un po’ più sonnolenta. Si sente appena ed è assai impasticciata quanto mescolata a chissà quali sogni. E’ partita la giornata di un reparto per persone con malattie infettive e anche di più. La giornata passa, ritorna la notte, la storia e circa simile a quella precedente. Buona notte, ricomincia il calvario.
18.2.16
Dolore [ perchè pubblico anche i necrologi sui social e sul blog ]
4.10.14
il giorno di dolore che ciascuno ha . credere o non credere alle coincidenze
6.1.14
fotografare e combattere il cancro la stroria di Angelo merendino e sua moglie
emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello
Apro l'email e tovo queste "lettere " di alcuni haters \odiatori , tralasciando gli insulti e le solite litanie ...

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Come già accenbato dal titolo , inizialmente volevo dire Basta e smettere di parlare di Shoah!, e d'aderire \ c...
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Aveva ragione de Gregori quando cantava : un incrocio di destini in una strana storia di cui nei giorni nostri si è persa la memor...