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10.10.25

Nicolina Giagheddu madre di Emanuele Ragnedda feminicidia di Cinzia Pinna conferma e rafforza quando detto sul figlio : << [...] Non so come stia, non ci parlo. Non parlo con lui, non parlo con l’avvocato di mio figlio e non parlo con il padre di mio figlio >>

 se prima s' aveva , sottoscritto compreso  (   coraggio  della  madre del   femminiciia  : « Deve pagare, merita l’inferno: piango per la famiglia di Cinzia Pinna prima che per lui » ) , qualche che dubbio .se  quello che  aveva detto Nicolina Giagheddu madre  di Emanuele Ragnedda    reo confesso  del  femminicidio di Cinzia  Pinna  adesso non se ne dovrebbero avere di più . Non credo sia  più necessario aspettare il processo per vedere se tali dichiarazioni sono spontanee o dettate da opportunismo ( cosa a cui non credo dopo le ultime dichiarazioni ) .Infatti come ha  dichiarato  non ricordo  doce  di  preciso  è  stata lei  a  telefonare  al 112  per  far  arrestare   il  figlio  .
 Il silenzio della famiglia Pinna pesa quanto le parole della Giagheddu. Donna coraggiosa . Nicolina si dimostra dura con lui, ma allo stesso tempo fiera e pronta a combattere anche contro il suo stesso figlio, per dare giustizia alla donna che ha ucciso, Cinzia Pinna.tutta la mia stima per quel che possa valere . infatti leggo sulla pagina fb

Stamane ho avuto il piacere di parlare telefonicamente con la signora Nicolina Giagheddu, madre di Emanuele Ragnedda, reo confesso dell’omicidio di Cinzia Pinna.
Inutile negarvi di come sia stato colpito, ancora una volta, dalla grandezza di questa donna.
Dopo l’istanza di scarcerazione presentata dall’avvocato Luca Montella, per il figlio Emanuele, la signora ha voluto ribadirmi: “Sono totalmente contraria. Mio figlio ha sbagliato e deve pagare il suo prezzo con la giustizia”.
Poco più tardi, poi, l’intervista con l’Unione Sarda dove signora Nicolina è tornata sul tentato suicidio del figlio: “Quando uno non ci riesce vuol dire che non ci ha provato bene. Chi si vuole suicidare, si suicida”.
E poi, ancora sul figlio ha aggiunto: “Non so come stia, non ci parlo. Non parlo con lui, non parlo con l’avvocato di mio figlio e non parlo con il padre di mio figlio”.
UNA GRANDE DONNA. CHE ANCORA UNA VOLTA CI INSEGNA TANTO

5.10.25

la favola della gomma e della matita [ autore ignoto ]

  trovata in rete  su  Ti Amo Amore



Un giorno, la gomma guardò la matita e, con voce gentile, le chiese:
– Come stai, amico mio?
La matita rispose seccamente, senza nemmeno alzare lo sguardo:
– Non sono tuo amico. Ti odio.
La gomma, colpita da quelle parole taglienti, domandò con tristezza:
– Perché?
– Perché cancelli sempre quello che scrivo – ribatté la matita con rabbia trattenuta.
Ma la gomma, con la dolcezza che nasce da chi conosce il proprio scopo, disse:
– Io cancello solo gli errori. Lo faccio per aiutarti.
– E perché dovresti farlo? – insistette la matita, ancora diffidente.
– Perché è la mia natura. Sono nata per questo – spiegò la gomma, con una calma che non chiedeva nulla in cambio.
La matita scosse la testa:
– Questo non è un vero lavoro.
– Eppure il mio compito è tanto importante quanto il tuo – rispose la gomma con convinzione.
– Ti sbagli, sei arrogante. Scrivere è più nobile che cancellare – insistette la matita, alzando la voce.
Ma la gomma non si scompose:
– Togliere ciò che è sbagliato è come riscrivere ciò che è giusto.
A quel punto, la matita restò in silenzio, colpita da quelle parole semplici ma profonde. Poi, con un filo di malinconia, sussurrò:
– Ti vedo ogni giorno più piccola…
La gomma sorrise teneramente:
– È vero. Ogni volta che cancello un errore, perdo un pezzetto di me. Ma lo faccio volentieri, perché so che sto aiutando.
La matita, con voce roca e occhi lucidi, aggiunse:
– Anche io mi sento più corta ogni giorno…
La gomma allora gli si avvicinò e lo consolò:
– Vedi? Nessuno può fare del bene senza rinunciare a qualcosa di sé. È questo il segreto.
Poi lo guardò con affetto sincero e chiese:
– Mi odi ancora?
La matita, finalmente serena, sorrise:
– Come potrei? Ti vedo sacrificarti ogni giorno per gli altri. Ogni mattina ti svegli, e sei un po’ meno di ieri… ma solo perché hai donato speranza e sollievo.
E allora, con la voce del cuore, concluse:
– Se non puoi essere una matita per scrivere la felicità degli altri, sii una buona gomma che cancella i loro dolori. E semina speranza, ovunque tu passi.Perché il bene non fa rumore… ma lascia un segno che nessuna gomma potrà mai cancellare.

15.9.25

il mio grillo parlante

 Mi rendo conto che non tutti abbiano quella voce fuori campo interiore che fa la telecronaca di ogni loro gesto,o se l'abbiamo siamo forti da ignorarla , ma la mia in questo momento ha appena detto:
"Ed eccolo di nuovo intento a scrivere e condividere stronzate su quel cazzo di social, 'sto perdigiorno"Lo so, a volte è molto scurrile ed opprimente .Ma a volte utilissimo perchè mi evita di finire nei guai e di fare figure di 💩 ed alcune volte a ttraverso i suoi consigli saggi e la sua voce di esperienza, il grillo parlante  come  pinocchio  mi ha aiutato  a riconoscere le conseguenze delle sue azioni e a prendere decisioni migliori o quanto meno a ragionare prima di prendere una decisione o mi è stata utile in un tormento interiore quando l'ho ascoltato .



Infatti essendo ribelle preferisco farmi io un esperienza perchè   



  con  questo  è  tutto  

12.9.25

Samuele Fiori «Punto da una cubomedusa, emozione più forte del dolore» Studente di scienze naturali ha incontrato la specie rara nelle acque dell'Argentiera

la nuova saregna 12\9\2025

 Sassari 
Un dolore fortissimo, che ancora dura dopo qualche giorno. Ma anche una altrettanto forte emozione, per essere entrato, un po’ bruscamente, in contatto con il “
terrore del Mediterraneo”: una cubomedusa, nota anche come “medusa scatola”.Una specie capace di causare gravi ustioni con le sue nematocisti che in alcune specie, come la “vespa di mare”, possono avere esiti letali.A raccontare la sua dolorosa scoperta Samuele Fiori, studente di Scienze Naturali all’università di Sassari e divulgatore scientifico in erba con le sue pagine social “scienzapelata”, che ha incrociato la cubomedusa durante un’escursione nelle meravigliose acque dell’Argentiera e ha avuto il sangue freddo, nonostante il forte dolore, di riprendere ma medusa, riuscendo così a individuare la specie esatta con l’auto del suo professore.«È Carybdea marsupialisL’unica cubomedusa presente nel Mediterraneo – racconta – è quasi impossibile vederla in acqua visto che è praticamente trasparente. Ha dei lunghi tentacoli, che che possono raggiungere i 30 centimetri, e nonostante sia meno pericolosa delle sue sorelle che prediligono le regioni tropicali, può causare ustioni significative».

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Nel Mediterraneo la presenza di questa specie è ormai abbastanza comune, anche se i principali avvistamenti si registrano a largo di Siracusa, nel Golfo di Trieste, a Lignano Sabbiadoro e la laguna di Grado, «Ma sta colonizzando aree sempre più vaste – spiega Samuele –. Con l’aumento delle temperature (predilige acque calde), la pesca a strascico e la pesca intensiva che eliminano i suoi predatori naturali stanno aumentando esponenzialmente di numero.

 E può capitare che i venti, come il forte maestrale dei giorni scorsi, le spingano sulle coste della Sardegna, come quella dell’Argentiera dove l’ho incontrata».Un incontro comunque raro: «Devo dire che, nonostante il dolore sia stato atroce – spiega lo studente di scienze naturali – ho subito pensato: che figata. Anche perché poco prima, sempre nella stessa spiaggia, ho visto un Ctenophoro “cintura di Venere", un organismo trasparente e gelatinoso che vive principalmente in mare aperto. Il suo corpo, così come quello di molte meduse, è costituito principalmente da acqua; presenta delle ciglia vibranti disposte a pettine, in grado di produrre particolari iridescenze. Io li chiamo discoteche ambulanti».«Sono specie incredibili – continua il giovane –. E, nonostante la Carybdea marsupialis mi abbia fatto una brutta ustione, sono fermamente convinto che vadano rispettate e ammirate e non demonizzate. Il tratto di mare in cui le ho trovate è difficilmente raggiungibile ed è un angolo inviolato, e protetto, di paradiso, come tanti tratti della nostra bellissima Sardegna. Certo, le specie marine vanno riconosciute e trattate con rispetto, altrimenti si rischia di fargli, e di farsi, davvero del male. Ma alla fine assolvono solo il loro compito nel ciclo naturale e siamo noi che dobbiamo imparare a conviverci».

9.7.25

Arunima Sinha è una giovane atleta indiana che ha subito schiaffi dalla vita . ma si è sempre rialzata

                                                                 da facebook

 Arunima Sinha è una giovane atleta indiana, piena di sogni. Ha giocato a pallavolo a livello nazionale e sta cercando di entrare nelle forze armate, come previsto in India per chi eccelle nello sport. Ha 23 anni e una strada chiara davanti a sé: servire il Paese, diventare qualcuno, rendere orgogliosa la sua famiglia. Ma tutto cambia in una notte.Nel 2011 sta viaggiando in treno per recarsi a un esame d’ammissione. È sola. Durante il tragitto, un gruppo di uomini sale sul vagone per rapinare i passeggeri. Le chiedono soldi e la catenina che porta al collo. Lei si rifiuta, opponendosi con dignità. In risposta, quei criminali la spingono giù dal treno in corsa.Cade sui binari e, pochi istanti dopo, viene investita da un altro treno. Le ruote le tranciano la gamba sinistra. Rimane distesa lì, sanguinante, tra le pietre e le traversine, per tutta la notte. Alcuni racconti dicono che provi a tenersi sveglia contando le stelle, unico modo per non perdere conoscenza. Quando viene finalmente soccorsa, le condizioni sono critiche. La portano in ospedale e le amputano una gamba. Seguono infezioni, dolori lancinanti, depressione. E, come se non bastasse, inizialmente alcuni giornali mettono persino in dubbio la sua versione dei fatti.Ma Arunima, in quel letto d’ospedale, prende una decisione. Quella tragedia non sarà la fine della sua storia. Sarà l’inizio. Mentre è ancora in cura, legge un libro su Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi a scalare l’Everest. In quel momento prende una decisione che suona come pura follia: scalerà il tetto del mondo. Con una gamba sola.Riacquista lentamente forza e mobilità. Si rivolge a Bachendri Pal, la prima donna indiana ad aver raggiunto l’Everest, che decide di allenarla. Arunima inizia così il suo percorso: dalle colline più basse dell’Himalaya ai picchi sempre più alti, imparando tutto da zero. Cade molte volte, si fa male, ma non si ferma mai. Ha una protesi di metallo alla gamba e una determinazione che nessun dolore riesce a incrinare.Dopo oltre un anno di preparazione, nell’aprile del 2013, parte per la spedizione più importante della sua vita. Ogni passo verso la cima è una lotta contro il freddo, l’altitudine, la mancanza d’ossigeno. Ma anche contro il ricordo di quella notte che l’aveva spezzata. Il 21 maggio 2013, Arunima Sinha raggiunge la cima dell’Everest. Pianta la bandiera indiana e un cartello in memoria di sua madre. In quell’istante, l’intera India la guarda con occhi diversi. Non più come una vittima, ma come una conquistatrice.Dopo l’Everest non si ferma: scala le vette più alte di tutti e sette i continenti, diventando la prima donna amputata al mondo a farlo. Fonda un’organizzazione per aiutare le donne vittime di violenza e ustioni. Porta la sua storia nelle scuole, nei villaggi, ovunque possa accendere una scintilla. Parla con forza, senza mai vittimismo. Racconta come si può rinascere anche dopo essere stati spezzati in due.“Non voglio essere ricordata per ciò che ho perso, ma per ciò che ho fatto con ciò che mi è rimasto.”

21.5.25

convivere o cancellare il dolore ? no . trasformarlo in forza

leggi anchei  miei precedenti Post


 Ogni notte prima  d'andare  a   dormire     mi faccio   un riassunto  della    giornata  . E  prorio durante una di queste mi è venuto  alla mente   questo il video  di    che  afferma 


La malattia e il dolore fanno parte della vita e si manifestano per darci un segnale o un messaggio che sta a noi capire e interpretare. La malattia non va combattuta, ma compresa e accolta attraverso l'amore che proviamo verso noi stessi e l'amore che ci arriva dalle persone a noi care
Mi sono chiesto ma con il dolore dobbiamo conviverci , cancllarlo \ rimuoverlo oppure trasformarlo ? poi mi durante la notte mi è ritornata alla mente una discussione che ebbi con il mio analista
Trasformare o cancellare il dolore sono due approcci molto diversi, con implicazioni significative per il benessere.Infatti dopo inutili e frustanti tentativi di rimuovere il dolore e la sofferenza ho capito che Il dolore non scompare. Cambia forma. Impariamo a conviverci, a camminarci accanto… e, a volte, a trasformarlo in forza. il dolore non è una fine, ma un inizio . Infatti   Spesso l'istinto primario è quello di cancellare il dolore, di farlo sparire. Questo desiderio è comprensibile, poiché il dolore, sia fisico che emotivo, è un'esperienza sgradevole. Tuttavia, la totale cancellazione del dolore è raramente possibile o desiderabile.Il dolore, specialmente quello psicologico ed emotivo, non è semplicemente qualcosa da eliminare. È un segnale, un'informazione che il nostro corpo e la nostra mente ci stanno dando. Ignorarlo o reprimerlo può portare a problemi maggiori nel lungo periodo. Ad esempio, il dolore emotivo non elaborato può trasformarsi in ansia, depressione o difficoltà relazionali. Cercare di "anestetizzarlo" a forza può aggravare la sofferenza, rendendo ancora più difficile il momento che stiamo attraversando.Trasformare il dolore: un percorso di crescita è un concetto molto più potente e realistico. Si tratta di accettare la presenza del dolore e di utilizzarlo come catalizzatore per la crescita, la comprensione e il cambiamento. Questo processo implica:
  • Accettazione: Il primo passo è riconoscere e accogliere il dolore, senza giudicarlo o cercare di scacciarlo. Permettersi di sentire ciò che si prova, anche se spiacevole, è fondamentale.
  • Comprensione: Chiedersi cosa il dolore stia cercando di comunicarci. Qual è la sua origine? Quali lezioni possiamo imparare da questa esperienza? Spesso, il dolore ci indica che qualcosa non va bene nella nostra vita o che abbiamo bisogno di fare dei cambiamenti.
  • Elaborazione: Il dolore va elaborato, non represso. Questo può avvenire attraverso la riflessione personale, la scrittura, l'arte, o il confronto con persone fidate o professionisti. Dare un significato al proprio vissuto, anche caotico, lo rende più comprensibile e meno disturbante.
  • Resilienza e risorsa: Molte persone riescono a trasformare il dolore in una vera e propria risorsa, una fonte di forza interiore e creatività. Le esperienze difficili, una volta elaborate, possono renderci più empatici, più consapevoli delle nostre risorse e più aperti a nuove prospettive. Non si tratta di rendere il dolore piacevole, ma di far sì che, una volta attraversato, le "lacrime si trasformino in perle".
  • Azione: Il dolore può essere una spinta per agire, per cambiare ciò che non funziona, per creare nuove opportunità o per rafforzare i legami con gli altri.

In sintesi cancellare il dolore è spesso un obiettivo irrealistico e controproducente. La trasformazione del dolore, invece, è un percorso che, sebbene difficile, offre la possibilità di crescere, imparare e rafforzare la propria resilienza. Imparare a "lasciare che il dolore sia semplicemente quello che è" e ad attraversarlo, piuttosto che fuggirlo, è la chiave per superarlo e farne una fonte di crescita personale.In alcuni casi, soprattutto quando il dolore è cronico, opprimente o paralizzante, il supporto di uno specialista (psicologo, psicoterapeuta) può essere fondamentale per guidarci il processo di elaborazione e trasformazione.
«  semplice   a  dirsi  ma  difficile  a  farsi   » .
  Vero . Ognuno di noi reagisce in modo diverso al dolore, quindi trovare ciò che funziona per te è fondamentale.  Trasformare il dolore è un processo che richiede tempo, ma può diventare un'opportunità per crescita e cambiamento. Ecco alcune strategie che possono aiutarti:
  • Espressione creativa: Scrivere, dipingere, suonare uno strumento o qualsiasi altra forma d’arte può dare voce alle emozioni in modo potente.

  • Movimento e corpo: Lo sport, la danza o persino una passeggiata nella natura possono aiutare a canalizzare e rilasciare il dolore.

  • Meditazione e respirazione: Tecniche come la mindfulness e la respirazione profonda possono favorire l’accettazione e la trasformazione delle emozioni difficili.

  • Connessione con gli altri: Parlarne con amici fidati o un terapeuta può alleggerire il peso e aiutarti a trovare nuove prospettive.

  • Trasformare il dolore in azione: Molti trovano senso nel contribuire a una causa o nel supportare altri che affrontano sfide simili.

  • Dare un nuovo significato: Cercare di vedere la propria esperienza come un’opportunità di apprendimento e crescita può cambiare completamente il rapporto con il dolore

Quindi Il dolore è una parte inevitabile della vita, ma il modo in cui lo affrontiamo può fare una grande differenza. Cancellarlo completamente potrebbe non essere possibile, ma trasformarlo è una scelta potente  .
Alcuni trovano sollievo esprimendolo attraverso l’arte, la scrittura, la musica o il movimento. Altri scelgono di imparare da esso, trovando forza nelle difficoltà e trasformandolo in crescita personale. A volte, il dolore può diventare il motore di un cambiamento positivo, spingendoci a riscoprire ciò che conta davvero.
Ci sono molte tecniche che possono aiutarti a gestire il dolore e trasformarlo in qualcosa di più gestibile.
E quali ? eccone altre che potrebbero esserti utili:
  • Scrittura terapeutica: Tenere un diario, scrivere lettere (anche se non le invii) o creare poesie può essere un modo potente per dare forma ai tuoi sentimenti.

  • Tecniche di rilassamento: Lo yoga, la respirazione diaframmatica e la visualizzazione guidata possono calmare la mente e il corpo.

  • Esposizione graduale: Se il dolore è legato a un evento traumatico, affrontarlo a piccoli passi può aiutare a ridurre la sua intensità nel tempo.

  • Rituali simbolici: Creare un gesto simbolico—come accendere una candela per una persona cara o scrivere ciò che vuoi lasciare andare su un foglio e poi distruggerlo—può aiutare nel processo di guarigione.

  • Terapie alternative: Tecniche come la musicoterapia, l'aromaterapia, la terapia del suono o l'agopuntura possono favorire un senso di benessere.

  • Atti di gentilezza: Fare qualcosa di positivo per gli altri può aiutarti a sentirti connesso e trovare un senso di scopo.

a  te  scegliere   quale . 
Ok grazie  


In sottofondo 
Shkodra Elektronike – Zjerm  (  qui  la  traduzione di  https://lyricstranslate.com/it/  Shkodra Elektronike - Zjerm (traduzione in Italiano)  da  Eurovision 2025

8.12.21

dal dolore e dal lutto rinasce la vita il caso di una vedova del bataclan ed altre storie

Lei è Floriane. Vive a Parigi. Ha 16 anni. Conosce un ragazzo, si chiama Renaud, è bello come il sole. Il primo bacio ha il sapore di zucchero. Floriane e Renaud si prendono per mano, crescono insieme, finita la scuola decidono di sposarsi. È il 2015.
 Manca qualche settimana al matrimonio. Al Bataclan suonano gli Eagles of Death Metal. Floriane e Renaud corrono al concerto. Le prime note sono energia pura. D’improvviso un rumore secco. Attimi di silenzio. Poi il caos. Tutti fuggono, urlano. Floriane intravede degli uomini con i fucili. Il terrore la invade. Non capisce più nulla, si gira, si rigira. Renaud! Dove sei Renaud! Floriane lo cerca disperata, ma è un vortice di corpi, luci, grida. Viene investita da una marea umana, si ritrova in un angolo buio, si acquatta. Le sale il cuore in gola a ogni sparo, il tempo perde consistenza, poi tutto tace. Floriane si alza, il pavimento è ricoperto di qualcosa che la sua testa si rifiuta di registrare. Si trascina verso l’uscita. È pieno di ambulanze e polizia, luci, sirene. Non sa come, a un certo punto si ritrova tra le braccia del padre. Bambina mia, mi dispiace, il tuo Renaud non ce l’ha fatta. Floriane rivede il pavimento. Il dolore le toglie il fiato. Non mangia, non dorme, il ricordo del suo amore lacera le sue povere carni. È il 2017. Floriane è satura, ha bisogno di sfogarsi. Pigia i tasti del computer, affida il suo grido d’aiuto ai social. Qualche giorno dopo riceve un messaggio. Ciao, mi chiamo Johannes, scusa l’intrusione ma le tue parole mi sono risuonate dentro, quella sera anch’io ho perso mia moglie. Si scrivono, all’inizio poche timide frasi. Poi Floriane rompe gli argini, e butta fuori tutto. Rabbia, paura, odio. Tutto il giorno, tutti i giorni. Solo lui può capirla, solo lui conosce quel dolore. Dopo alcuni mesi, decidono di incontrarsi. Un abbraccio, tante lacrime, e un inaspettato bacio dal sapore di zucchero. Oggi Floriane e Johannes sono marito e moglie. Si sono presi per mano e hanno attraversato il dolore. Dal loro amore è nata Berenice. Il suo nome significa vittoria.

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Lui è Kakà. Vive a Porto Alegre, in Brasile. Ha 14 anni. La sua famiglia non ha il becco di un quattrino, Kakà esce da scuola e vende panini agli angoli delle strade. Fa il barista, il fattorino, lo spazzino, trascorre giornate intere davanti all’ufficio di collocamento. Non è schizzinoso, va bene tutto, purché sia un lavoro onesto. Passano gli anni, Kakà porta il suo curriculum ovunque, riceve tante porte sulla faccia, ma non molla. Dorme a casa di amici, a volte per strada, usa i soldi che guadagna per pagarsi gli studi, finché a trent’anni la ruota gira e diventa addirittura assessore comunale. Kakà piange di gioia, finalmente può tirare il fiato. Ma non dimentica. Ogni momento libero lo passa fuori da quel maledetto ufficio di collocamento, offre consigli e un caffè alle persone in coda. È il 2019. Kakà esce dal lavoro, per poco non inciampa in grossi sacchi della spazzatura abbandonati per strada, mezzi aperti. Il marciapiede è ricoperto di cartacce, Kakà le raccoglie una a una. Fa per buttarle, gli cade l’occhio su alcune scritte, resta di sasso. Non è carta straccia, sono dei curricula. Kakà sente un nodo alla gola. Stringe quei fogli tra le mani e torna a casa. Legge ogni singola riga, accarezza le lettere, divora con gli occhi le fotografie. Su una delle pagine è stata aggiunta una scritta a mano. Vi prego assumetemi, ho usato tutto quello che avevo per pagare la copisteria. Kakà batte il pugno sul tavolo. Non è giusto! I giorni successivi li passa a sistemare, aggiustare, riscrivere laddove l’inchiostro è troppo rovinato. A lavoro ultimato, sistema i fogli dentro una cartellina, la infila nello zaino ed esce. Setaccia tutte le aziende che cercano personale, si assicura che quei preziosi documenti arrivino sulla scrivania giusta. Dopo settimane di ricerca, consegna l’ultimo dei sessantadue curricula. Kakà si asciuga le lacrime. Non sa come andrà a finire, ma di una cosa è certo. Dietro ognuno di quei fogli ci sono sacrifici, esperienza, talenti, speranze. Una vita, che va rispettata.

10.11.21

La campionessa dei droni: "Non cammino, so volare"., Tra le baracche romane la scuola degli ultimi., il fu mattia pascal esiste vive a follonica

Tre volte campionessa italiana di drone racing, un Guinnes world record, la nomina ad Alfiere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella e tanta passione per il volo. Che per lei è la cosa più vicina alla libertà. Luisa Rizzo è una pilota salentina di droni, ha 18 anni e con un radiocomando e i droni realizzati da papà Michele gira l'Italia e il mondo. 

Grazie a lui ha scoperto un mondo che doveva essere uno strumento per conservare la forza nelle mani e combattere la sma che la accompagna ed è diventato una professione, tra gare di velocità contro i normodotati e riprese cinematografiche. I due Rizzo sono diventati un simbolo nel circuito, con un rapporto che va oltre quello tra padre e figlia: sono una squadra, tra aiuti reciproci e condivisione. Una metafora della vita

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Una passeggiata tra i resti degli acquedotti dell'antica Roma per raccontare la storia di  L'associazione culturale Ottavo Colle promuove queste attività per far conoscere ai romani e non "uno dei figli migliori di Roma", che nel 1968, arrivato nella parrocchia di Pontecorvo, affacciandosi dalla finestra della sua chiesa, vide per la prima volta le file e file di baracche della capitale.

 E proprio in una baracca di nove metri quadri, appartenuta a una prostituta, civico 725, aprì la scuola per i ragazzi dell'Acquedotto Felice, considerati bambini di serie B e quindi lasciati indietro dalla pubblica istruzione. Si cominciava alle tre di pomeriggio con la lettura dei giornali, poi c'era il momento di disegnare quello di cui si era discusso in classe, su fogli riciclati e con pastelli a cera. E proprio tramite il disegno Don Roberto, prete di borgata, riuscì a far entrare il mondo nelle baracche, trattando gli argomenti più disparati, da Malcom X a Ghandi e Che Guevara, racconta Marzia Consalvi della Biblioteca Raffaello di Roma, dove è conservato il fondo Don Sardelli, che lui stesso donò a questo istituto pochi anni prima di morire, proprio per la vicinanza all'Acquedotto Felice

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Per 25 anni l’hanno creduto morto, invece abitava con la moglie a pochi chilometri di distanza.

E un giorno all’improvviso si è presentato agli amici di un tempo


6.11.21

dal dolore rinasce la vita le storie di Germana Stefanini e quella di padre Pier Luigi Maccalli

  Musica  consigliata 
Paolo Fresu e Uri Caine - Lascia ch'io pianga

 da  https://www.mariocalabresi.com/stories/

Quando Germana chiuse la finestra



Il “processo proletario” a Germana Stefanini
prima della sua esecuzione

Era il 28 gennaio, un venerdì, l’anno era il 1983. A Roma faceva caldo per essere inverno, c’erano 13 gradi quando Germana scese dall’autobus e si diresse verso casa. Aveva un cappottino rosso e si fermò sul portone a cercare le chiavi nella borsa. Quel giorno scadeva la legge sui pentiti del terrorismo, a collaborare o a prendere le distanze dalla lotta armata erano stati in settecento, sui giornali quella mattina si ragionava sulla fine di una stagione.
 Forse si poteva finalmente cominciare a respirare. Invece, nel momento in cui aprì la porta, Germana venne spinta nell’androne: due uomini e una donna le dissero di salire in casa con loro senza fiatare. Erano le tre e mezza del pomeriggio. L’ultimo che avrebbe vissuto. Prima di sera la vita di molte persone sarebbe cambiata per sempre: quella di due ragazzi che avrebbe preso una direzione imprevista e feconda, quella di un bambino che non rimase orfano perché aveva la febbre, quella di una donna che ancora vive prigioniera di una storia da cui ha scelto di non uscire.

La finestra del palazzo di via Albimonte, nel quartiere Prenestino-Labicano dove abitava Germana Stefanini


Quanti anni hai?
“Cinquantasette”
Hai la licenza media?
“No”
Che c’hai?
“La quinta elementare”
Perché hai scelto questo mestiere?
“Perché non sapevo come poter vivere. Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia perché non sapevo come poter vivere”
Hai fatto un concorso?
“No, sono entrata perché mio padre era invalido di guerra”
Tuo padre era agente di custodia?
“No, idraulico”
Ma tu questo mestiere perché lo fai?
“Perché morto mio padre dove andavo a lavorare?”
Ma tu lo sapevi dove andavi a lavorare no?
“Io sono sempre stata appresso a mia madre e a mio padre, ho avuto due sorelle malate, che poi sono morte, sono sempre stata a combattere con gli ospedali”
Ma è il primo lavoro che facevi questo?
“Sì, perché avevo papà invalido di guerra”
E tuo marito?
“Non sono sposata”
Tu prendi la pensione?
“No, come potevo prendere la pensione se non ho mai lavorato?”
La pensione di tuo padre invalido?
“No, non me l’hanno mai data”.

La donna risponde a tutte le domande del “processo proletario”, si chiama Germana Stefanini, è una vigilatrice penitenziaria, una guardia carceraria addetta “ai pacchi”, controlla cosa contengano quelli destinati ai detenuti. Ha 57 anni e ha cominciato a lavorare nel carcere a quasi cinquant’anni. Ogni giorno fa quarantacinque minuti di autobus per raggiungere Rebibbia e altrettanti per tornare. È una donna del popolo, vive in un piccolo appartamento al quarto piano di un palazzone del Prenestino, nella periferia romana.
Sono tre terroristi rossi a interrogarla, sono quelli che l’hanno sequestrata mentre infilava le chiavi nel portone di casa. I brigatisti l’hanno fatta sedere su una poltroncina in salotto, hanno appeso sul muro alle sue spalle uno striscione propagandistico contro le carceri, i pentiti e i dissociati, e l’hanno fotografata con una polaroid. Le hanno chiesto di raccontare come funziona il carcere di Rebibbia, lei ha risposto come poteva e per quello che sapeva, immobile con le mani giunte e con ancora addosso il cappottino rosso. Alla fine “dell’interrogatorio” ha cominciato a piangere e uno dei brigatisti le ha detto in romanesco: “Nun piagne, tanto non ce ne frega un cazzo”. 

Sono insoddisfatti, la picchiano, provano a catturare anche una donna che abita al piano di sopra, di nome Mirella, anche lei guardia carceraria a Rebibbia. Obbligano Germana ad aprire la finestra e a chiamarla, le tengono una pistola puntata alla schiena. Mirella si affaccia, ma risponde che non può scendere, che il suo bambino ha la febbre alta e che non può lasciarlo solo. Così si salverà. Si affaccia anche un ragazzo, si chiama Massimo, è il fidanzato di sua nipote. Germana gli fa segno di tornare subito in casa e gli dice che non vuole vederli, che “non gli servono a niente”. 

Germana Stefanini
 con la nipote Marisa
Massimo chiude la finestra e non capisce perché la zia sia così sbrigativa e antipatica. I terroristi insistono, vogliono che convinca Mirella a scendere, ma Marisa si rifiuta di chiamarla di nuovo e chiude definitivamente la finestra. Allora emettono la loro sentenza: condannata a morte per la sua funzione repressiva dei prigionieri proletari comunisti. La caricano su una Fiat 131, la portano in campagna, le ordinano di entrare nel portabagagli, lei lo fa  stringendo fino all’ultimo la sua borsetta nera, poi le sparano in testa. La abbandonano lì, nel baule, come fecero con Aldo Moro.La polaroid che la ritrae, insieme a un delirante volantino di tre pagine, vengono fatti ritrovare il giorno dopo in un cestino dei rifiuti davanti al Ministero del lavoro.Conosciamo le parole esatte del suo interrogatorio, che era stato registrato, perché i nastri vennero trovati alcuni mesi dopo in un covo brigatista. I tre terroristi, due uomini e una donna, invece vengono arrestati al termine della diciannovesima rapina che compiono in pochi mesi, questa volta a un ufficio postale, durante la quale sequestrano gli impiegati. Vengono condannati all’ergastolo per l’omicidio di Germana. La terrorista donna, irriducibile, non ha mai rivisto le sue posizioni, continua a combattere lo “Stato borghese” come se gli Anni Settanta non fossero mai finiti, ed è ancora detenuta nel carcere di Latina. Perché racconto questa storia di quasi quarant’anni fa? Per un motivo che apparentemente non c’entra proprio nulla. Alcuni giorni fa, alla fine della presentazione della Guida alle Osterie d’Italia di Slow Food a Milano, mi si è avvicinata una coppia con un forte accento romanesco. Lui, un omone con una grande barba bianca, mi ha dato una gran pacca sulla spalla, si è presentato come Massimo Pulicati e mi ha dato il biglietto del suo ristorante di Roma, invitandomi ad andare a trovarlo. Tornato a casa ho cercato chi fosse su Google ho trovato una storia di quelle che amo, quelle in cui da un dramma fiorisce qualcosa di nuovo e di buono. Così sono andato a Roma e mi sono seduto a un tavolo della sua osteria in via dei Banchi Vecchi, ho ordinato una pasta cacio e pepe e lui, senza bisogno di preamboli e presentazioni, è venuto a sedersi e ha cominciato a raccontare«Sono nato nel 1961 a Tor Pignattara, a scuola andavo malissimo, tanto che venni bocciato. A diciassette anni, a una festa, ho conosciuto una ragazza di tre anni più giovane, Maria Luisa detta “Marisa”, e la mia vita è cambiata. Siamo insieme da 44 anni. Marisa aveva una zia che lavorava in carcere, faceva la guardia, si chiamava Germana Stefanini. Un giorno la zia Germana ci chiamò e ci disse che cercavano secondini che avessero un minimo di cultura, non la quinta elementare come lei, ma almeno il diploma. Le prigioni erano piene di ragazzi che avevano studiato e ci volevano “guardie” all’altezza. Era il 1981, l’anno della mia maturità, mi convinse a ritirarmi per andare a Cassino al corso di Polizia penitenziaria. Avrei poi sostenuto l’esame da privatista. Il giorno del mio ventesimo compleanno, il 7 maggio, cominciò il mio tirocinio in carcere, due mesi a Rebibbia per imparare “sul campo”. Mi mandarono al reparto G12, dove c’erano detenuti accusati di sovversione, erano di Autonomia operaia e di gruppi dell’estrema sinistra. In una cella c’era uno che chiamavano il “Professore”, una sera gli domandai se fosse davvero un professore e lui mi disse di sì, allora gli chiesi se potesse darmi una mano a preparare la maturità e lui acconsentì. Così scelsi di essere di turno tutte le sere e facemmo il ripasso di Storia e di Italiano, se ce la feci a passare l’esame con 58 e a diplomarmi lo devo anche a lui. Si chiamava Toni Negri e solo dopo capii chi fosse e di cosa veniva accusato».

Massimo Pulicati e sua moglie Marisa

Massimo parla ad alta voce e senza sosta, senza quasi prendere fiato, si interrompe solo quando i suoi occhi, che controllano tutta la sala, notano che a qualcuno manca un piatto o che su un tavolo è finito il vino. Mentre discutiamo degli Anni Settanta, del terrorismo, delle rivolte nelle carceri, e nel frattempo mi fa assaggiare una specie di fenomenale porchetta di vitello – il carcotto – che prepara sua moglie, capisco cosa significa la parola “oste”: non è il proprietario di un ristorante ma tante cose insieme. È un intrattenitore, uno che fa sentire a casa i clienti, un racconta storie, uno che ama ognuno dei piatti che escono dalla sua cucina, uno che non si stanca mai. Lo osservo, la faccia sembra quella di un guru indiano ma i modi mi fanno pensare alle osterie del tempo del Marchese del Grillo di Alberto Sordi: un gran caos e una grande allegria. Quando arriva a parlare del rapimento della zia Germana abbassa la voce, gli occhi vanno da un’altra parte, diventano assenti: «Era una donna mite, provata dalla vita, le spararono in testa. Quel giorno si ruppe tutto dentro di me. Diventai cattivo, avrei voluto farla pagare ad ognuno di quelli che stavano in carcere. Anche Marisa, nel frattempo, era diventata una guardia carceraria. Ci spostarono entrambi a lavorare in ufficio, ma non poteva durare, resistemmo ancora un po’ poi ci licenziammo e scappammo da Roma. Scegliemmo la campagna per ripulirci la vita e per sentirci liberi. La madre di Marisa, la nonna Anna che aveva fatto la cuoca a Roma, ci aiutò ad aprire una trattoria a Zagarolo. Cominciò così la nostra seconda vita. Avrei avuto bisogno di altri maestri, ma questa volta senza ombre. La prima sera un cliente mi chiese se avessi Chardonnay o Sauvignon, risposi che non trattavo quelle ditte. Scoppiò a ridere e mi spiegò che si trattava di due vigneti, di due tipi di vino, non di due aziende. Mi resi conto dell’abisso della mia ignoranza e gli chiesi chi fosse il massimo esperto di vino in Italia, mi rispose: Gino Veronelli. Il giorno dopo trovai il suo numero nell’elenco telefonico di Bergamo, presi coraggio e lo chiamai a casa. Gli spiegai che ero un oste e gli chiesi se mi potesse insegnare qualcosa sul vino. Pensò che fossi matto ma mi disse di andare al Vinitaly per conoscerlo. Iniziò un’amicizia che durò per 24 anni. Mi ha cambiato la vita, mi diede un elenco di regole e di cose da fare. Mi disse che dovevo risparmiare per andare a mangiare nei ristoranti più importanti e che lo dovevo fare con la predisposizione mentale giusta: “Vai come se fosse il giorno della prima comunione: vestiti bene e accogli la novità e il cambiamento”. Poi aggiunse: “Più vini bevi e più impari; più cibi assaggi e più impari”. Così cominciai un giro d’Italia che non ho ancora concluso. Il primo treno mi portò a Milano, andai in via Bonvesin della Riva da Gualtiero Marchesi, per provare a capire cosa fosse un ristorante in cui un solo piatto costava il doppio di un intero menù alla mia osteria. Mi portavo dietro un quadernetto in cui scrivevo le impressioni e ciò che scoprivo e presto mi resi conto che quello che faceva la differenza non erano i piatti ma le emozioni che ti davano, le storie che c’erano dietro. Sono così riconoscente a Veronelli e all’amicizia che abbiamo avuto che ogni anno, per ricordarlo, faccio una festa nella data della sua nascita e una cena nel giorno della sua morte».Nel frattempo, Massimo e Marisa si spostano da Zagarolo a Grottaferrata, dove aprono “L’Oste della Bon’Ora” e quattro mesi prima dell’arrivo della pandemia trovano il coraggio di tornare nel cuore di Roma, in via dei Banchi Vecchi al numero 140. «Ero a Milano, tentato di portare la mia esperienza di oste al Nord, quando mi è suonato il telefono: era un amico che mi diceva che si era liberato un locale poco lontano da Campo de’ Fiori. Quante volte avevo ripetuto che non c’erano più osterie vere nel centro di Roma, ma soprattutto che non c’erano più osti. Sono corso a vederlo e a convincermi è stato il grosso muro perimetrale del Cinquecento. Ho pensato che era arrivata l’ora di tornare a casa». Massimo oggi ha sessant’anni, non riesce a immaginare quale sarebbe stata la sua vita se la zia Germana non avesse incontrato quelle tre persone al portone, di certo non sarebbe mai diventato un oste, non avrebbe riempito il suo taccuino di storie di cibo, non avrebbe assaggiato migliaia di vini, non avrebbe costruito una cultura dell’accoglienza insieme a Marisa. Ma una certezza ce l’ha, e mentre me la dice, non di persona ma in un messaggio vocale che mi manda quando sono già tornato a casa, gli si incrina la voce: «Il regalo più grande che ha fatto a tutti noi, a me a Marisa, a Mirella e al suo bambino, è di averci salvato la vita e di averci regalato un’altra vita. In un gesto eroico ha scelto di pagare da sola».



La libertà di guardare il soffitto

29 ottobre 2021 
«Ho visto per 25 volte la luna piena illuminare il deserto e ogni volta ho sperato che fosse l’ultima. Vedevo passare gli aerei di linea, osservavo le loro scie, cercavo di immaginare le vite delle persone a bordo, e mi sforzavo di credere che un giorno sarei tornato anch’io a guardare il deserto da un oblò. Ma il mio sogno più grande, un desiderio ancor più forte di dormire su un materasso, era di aprire gli occhi e vedere un soffitto. “Quando vedrò un soffitto sulla mia testa – mi ripetevo – allora sarò salvo”».

                                                   Padre Pier Luigi Maccalli
Il braccialetto rosario realizzato da padre Maccali
con la stoffa di un turbante usato
per proteggersi la testa dal sole

Pier Luigi Maccalli, sacerdote italiano della Società delle Missioni Africane, è tornato a vedere il soffitto a ottobre dello scorso anno, dopo aver passato 25 mesi prigioniero di un gruppo di jihadisti che fanno parte della galassia di Al Qaeda nel Maghreb. La sua storia, il diario del suo rapimento e di due anni terribili incatenato tra le dune del deserto, sono diventati un libro che abbiamo presentato insieme e questo mi ha dato la possibilità di ascoltare la sua voce e i suoi racconti. Padre Maccalli ha sessant’anni, viene da Madignano, un paese in provincia di Cremona, ha la barba bianca, una faccia aperta e solare e un modo di parlare semplice e diretto. L’esperienza che ha vissuto ha lasciato un segno profondo dentro di lui, una ferita insanabile che non riesce, e probabilmente non riuscirà mai, a dimenticare. «Sono stato rapito il 17 settembre del 2018 e per i primi 22 giorni mi hanno tenuto incatenato giorno e notte a un albero. La catena, lunga poco più di un metro mi stringeva la caviglia, non potevo muovermi. È stata l’umiliazione più grande: trattato come si trattavano una volta i cani in campagna». Porta sempre con sé tre oggetti che gli ricordano che cosa ha passato ma anche come ha resistito. Il primo lo ha al polso, è un braccialetto di stoffa con dei nodi, è il rosario che si era costruito e che recitava silenziosamente ogni mattina, quando gli toglievano i ceppi notturni dai piedi e poteva camminare in circolo per un’ora. Il tessuto ormai è scuro, lo aveva strappato dal turbante che teneva in testa per proteggersi dal sole, nei mesi si è impregnato di sabbia e sudore.Poi dalla tasca tira fuori una piccola bustina da cui estrae due pezzi di legno intagliati, ci ha lavorato con pazienza per settimane, tenendoli sempre separati. Ora li mette insieme, come faceva soltanto la notte quando tutti dormivano, e forma una croce in legno. L’ha costruita pensando alla croce incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz. L’ha fatta per non sentirsi solo, per ricordarsi quanta sofferenza ed ingiustizia c’è nel mondo. «Per molto tempo mi sono sentito abbandonato, avvolto da un deserto fuori e dentro di me, non sentivo la voce di Dio. Poi l’ho trovato nel silenzio».«Ho vissuto per 25 mesi in una prigione a cielo aperto, in mezzo al deserto di sabbia del Sahara, di giorno un caldo infernale, il vento bollente e la luce bruciavano la pelle e gli occhi. La notte dormivo per terra, solo con una stuoia, l’acqua sapeva di benzina. La sete era tantissima, ma versavo sempre un po’ della mia acqua in una scatola di latta per gli uccelli che, sfiniti dal caldo, venivano a bere. Li osservavo con il loro ciuffettino e mi sentivo in pace. Mi hanno fatto girare nel deserto di dune, tra Mauritania, Mali e Algeria. La mattina era la parte più facile della giornata, all’alba mi toglievano le catene, passeggiavo in circolo e recitavo il rosario in silenzio, poi preparavo del tè sulle braci e alle 11 cucinavo il riso per il pranzo. Poi la giornata finiva perché il sole era troppo forte e il caldo soffocante e si doveva stare immobili all’ombra, con la testa e gli occhi coperti. Al tramonto camminavo ancora un’ora in cerchio, mangiavo il riso rimasto e poi mi rimettevano le catene. La mia unica consolazione erano le stelle, questa cupola di stelle che scendeva fino all’orizzonte. Di fronte a quella sensazione di infinito anche la mia condizione diventava relativa, mi sentivo un puntino nell’universo e le stelle mi davano speranza».

La croce in legno costruita da padre Maccalli pensando a quella incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz

Il terzo oggetto che tiene in tasca è un anello spezzato della sua catena, era riuscito a romperlo con un lavoro infinito, lo usava come cacciavite per allentare un pochino i bulloni che gli stringevano le caviglie. Questo anello, insieme con il rosario di stoffa e la croce sono i tre simboli del suo calvario, della sua resistenza e della sua fede.
Quando gli chiedo se avesse paura, mi risponde: «Tristezza. Ho passato due anni di tristezza profonda, mi vedevo ridotto ad uno stato che non avrei mai immaginato, io che rido e scherzo sempre, che cerco di portare gioia nelle cose, che faccio studiare i ragazzi e con loro scavo pozzi. 

Anche i rapitori erano ragazzi, avevano al massimo vent’anni, erano la faccia di un’Africa molto lontana da quella colorata in cui ho lavorato a lungo, un’Africa oscura, dove si sprecano vite ad abbracciare un kalashnikov. Io ero ostaggio, ma li osservavo e pensavo che i veri ostaggi erano loro, non sapevano leggere e nemmeno scrivere, passavano le giornate con lo smartphone tra le mani ad ascoltare inni alla jihad e a guardare video di propaganda. Una sera uno di questi ragazzi me ne mostra uno in cui si vedono altri giovani che sparano a ripetizione con le mitragliette. Allora gli chiedo se ascolta mai musica. Si blocca, mi guarda e poi si mette a cercare nel telefono e alla fine fa partire un video con raffiche di kalashnikov: “Questa è musica”. Poi aggiunge: “Io aspetto soltanto il giorno in cui potrò farmi saltare in aria”».

L’anello spezzato della catena a cui era legato padre Maccalli

Dopo un anno di prigionia padre Maccalli ottiene di poter ascoltare la radiolina di un rapitore che va e viene dal campo, la prima volta in cui l’accende è la fine del 2019, sente parlare di un virus che ha colpito la Cina, un mese e mezzo dopo sente che è arrivato in Italia, ma non capisce che cosa sia. «Immaginavo una forte influenza, forse un po’ più forte del solito, ma non potevo immaginare cosa stesse succedendo al mio paese, che è tra Crema e Codogno». Poi l’uomo della radiolina torna e porta le ultime notizie: quel virus sta facendo strage in Europa e negli Stati Uniti. «Erano su di giri, contenti, festeggiavano e ripetevano che era il flagello di Dio contro l’Occidente. Poi arrivarono le notizie che i contagi si erano estesi ai paesi arabi e nel nord Africa e i loro toni si smorzarono, gli entusiasmi si spensero».

Il libro di  “Catene di libertà. Per due anni rapito nel Sahel”, edito da EMI

«Mi hanno rubato due anni di vita e di missione, che significavano due anni di alfabetizzazione, scuola, costruzione di pozzi. Ho fatto pace con tutto questo solo dopo l’abbraccio della mia famiglia e della mia diocesi, che hanno vegliato, mi hanno atteso, hanno pregato tutte le sere e non hanno mai perso la speranza. Quell’abbraccio mi ha allargato il cuore e mi ha commosso. Oggi guardo a questi due anni come ai più fecondi del mio ministero missionario. Ho pianto al ritorno, sono stati due anni pieni di lacrime, la pioggia che ha irrigato il mio deserto».Padre Maccalli è stato liberato l’8 ottobre del 2020, ma tra le dune altre donne e uomini erano rimasti prigionieri, tra loro una suora colombiana, Gloria Cecilia Narváez Argori, che dopo 4 anni e 9 mesi ha ritrovato la libertà soltanto due settimane fa.


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