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26.11.22

Un nome nuovo per ricominciare

   da  https://www.mariocalabresi.com/stories/


Da quattordici mesi Claudia vive libera ma nascosta, quando esce di casa cerca di parlare in giro il minimo indispensabile e si preoccupa di non lasciare tracce, i suoi due figli sono iscritti a scuola con un falso nome, non chiama mai i genitori e la sorella dal suo telefono, teme che la possano rintracciare. Claudia un anno e due mesi fa è scappata da un marito violento e criminale, lui la sta cercando e le ha promesso che la ammazzerà. Il marito è un camorrista, oggi è in carcere, ma il clan è sulle sue tracce ed è già riuscito a trovare dove vivono i genitori di Claudia e poi ha rintracciato la sorella. Anche loro avevano fatto la scelta estrema di abbandonare la casa e il lavoro e di andare a vivere lontani da Napoli, ma non è servito. L’hanno capito la mattina che nella casella della posta hanno trovato una lettera. L’aveva spedita quell’uomo dal carcere. Era la dimostrazione che l’ultima promessa fatta a Claudia era stata mantenuta: “Non te la potrai mai rifare, una vita, perché io ti darò sempre la caccia, per te sarà sempre un inferno. Ti troverò”.

Una mattina all’alba Claudia ha abbandonato Napoli con i suoi due figli, scegliendo di lasciarsi alle spalle la sua vita precedente e il marito violento

Claudia oggi sogna di diventare invisibile, ma questa non sarebbe la fantasia impossibile di una bambina ma una possibilità reale se il nostro Parlamento facesse una piccola modifica a una legge, quella che permette il cambio di generalità per i pentiti, i testimoni e i collaboratori di giustizia e estendesse la possibilità anche a chi abbandona un contesto mafioso. Claudia non è la sola, nella sua situazione ci sono almeno quaranta donne che sono scappate da mariti ‘ndranghetisti, mafiosi o camorristi. Molte di queste donne sono scappate per seguire i figli che i tribunali hanno allontanato dai contesti criminali dei padri, Claudia invece ha scelto di andarsene una mattina prima dell’alba.

Quella per dare a queste donne una nuova possibilità e proteggerle da violenza e vendette è una battaglia che da tempo portano avanti Libera, la rete di associazioni contro le mafie, e Don Luigi Ciotti. Insistono perché ci sia una nuova legge, sanno che non può essere utilizzata la legge ordinaria che permette il cambio di generalità, perché questa prevede che l’atto sia pubblicato nel comune del luogo di nascita e questo, evidentemente, renderebbe tutto inutile.

Claudia chiede soltanto un nome e un cognome nuovi ma non può essere una collaboratrice di giustizia o una testimone perché non è mai stata parte del sistema criminale. C’è un’avvocata che si è sempre occupata del tema, si chiama Vincenza Rando, nelle ultime elezioni è stata eletta senatrice e sta lavorando a un disegno di legge per permettere a queste donne una nuova vita: «Se i mariti riuscissero a trovarle le ammazzerebbero, perché andandosene hanno rotto la famiglia e scelto di stare dalla parte della legge e dello Stato. Hanno bisogno di una nuova identità per salvarsi la vita e per ricominciare a vivere, per lavorare e per far studiare i figli».

Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia assassinata dall’ex marito e boss della ’ndrangheta il 24 novembre 2009. (Creative Commons CC BY-SA 4.0 Internazionale – Wikimafia.it)

L’esempio più tragico di cosa accade alle donne che hanno il coraggio di abbandonare le famiglie criminali è la storia di Lea Garofalo, che, nel 2009, venne attirata in una trappola dal marito a Milano, rapita nei pressi dell’Arco della Pace e strangolata. Aveva solo 35 anni e il suo corpo venne bruciato in un campo vicino a Monza per non poterlo mai riconoscere. Cinque anni dopo, grazie a una collanina e a un pentito, i suoi resti vennero recuperati. Partecipai al funerale e portai sulle spalle la sua bara, era leggerissima, conteneva pochi resti di quella donna coraggiosa. Ha lasciato una figlia, Denise, di cui sarebbe molto orgogliosa.

Anche Claudia, che ha solo trent’anni, ha avuto il coraggio di voltare pagina, conosce i rischi che corre e vuole vedere i suoi figli diventare grandi. La sua scelta l’ha fatta dopo anni di umiliazioni, botte e terrore una domenica pomeriggio dello scorso autunno: «Stavo guardando la televisione, era accesa su “Domenica In”, quel giorno pensavo di farla finita, non vedevo futuro e nessuna speranza, poi sul video è passato in sovrimpressione il numero verde dei centri antiviolenza, il 15 22, e la scritta: “Anche se c’è l’emergenza Covid le case rifugio sono sempre aperte”. Mi è sembrato un segno, una risposta, l’occasione da non perdere. Da giorni guardavo mio figlio, che aveva cominciato a camminare e a parlare, e vedevo un bambino bellissimo che non aveva conosciuto ancora la violenza, che non sapeva nulla di quello che aveva inquinato e rovinato la vita di suo padre e la mia: ho scelto di scappare perché non voglio che diventasse anche lui un delinquente».

Il mio ultimo libro “Una volta sola”, edito da Mondadori

La storia di Claudia l’ho raccontata nel mio ultimo libro, partendo da quella mattina in cui si è ripresa la libertà che aveva perso sedici anni prima, quando ne aveva solo quattordici ed era solo una ragazzina che aveva scelto l’amore sbagliato. Quando era entrata nel tunnel di vivere con un camorrista che entra ed esce dal carcere, che le ha dettato ogni giorno le regole dell’esistenza: le cose che poteva fare, le cose che poteva dire, come doveva vestirsi, cosa poteva leggere e cosa guardare alla televisione.

Quando è arrivata la prima lettera ai suoi genitori, Claudia ha ricominciato a sentirsi braccata e ad avere paura. Ha pensato che una promessa l’aveva mantenuta davvero: quella di farla vivere nel terrore. «Ho come la sensazione che la mia, adesso, sia una corsa contro il tempo per non essere risucchiata dal passato, da quel mondo da cui sono riuscita a liberarmi. Vorrei poter fare un lavoro onesto, uno qualunque, per mantenermi, per ricostruire la mia dignità. Intanto vorrei diplomarmi perché avevo lasciato l’alberghiero dopo due anni e ora ho solo la terza media. Poi vorrei studiare psicologia, sogno di iscrivermi all’università insieme a mia figlia quando lei avrà finito le superiori. Sarà un percorso lungo, la costruzione di una nuova vita, ma di questo non ho paura. Però ho bisogno di una nuova identità, di un nuovo nome, di qualcosa che segni un prima e un dopo e mi permetta davvero di ricominciare».

3.7.22

la dura vita degli italiani senza cittadinanza «Ho preso 100 alla Maturità ma non ho la cittadinanza»

  da  Avvenire  
Paolo Ferrario - Ieri 19:36

Quando è arrivata dal Pakistan, nove anni fa, non capiva una parola d’italiano. Oggi cita Dante a memoria, questa settimana si è diplomata con 100/100 al Liceo scientifico delle scienze applicate paritario “Malpighi” di Bologna e ora vuole iscriversi a Matematica. Per capire di che cosa parliamo quando parliamo di Ius scholae, sarebbe utile ascoltare storie come questa di Ayesha Amin, 19 anni, che in Italia ha fatto la quinta elementare, tutte le medie e le superiori, ma la cittadinanza non ce l’ha ancora. Un’assenza che pesa sulla vita di questa giovane donna, che non immagina nemmeno il proprio futuro lontano dal nostro Paese.


© Fornito da Avvenire«Ho preso 100 alla Maturità ma non ho la cittadinanza»


«Ho scoperto la mia identità come persona – scrive Ayesha in un tema – e le esperienze che hanno segnato la mia vita hanno avuto luogo in Italia, quindi in contatto con le persone italiane. Di conseguenza, riesco a raccontare solo in italiano le esperienze che ho più a cuore, mentre sento una grandissima incapacità di raccontare di me nella mia lingua madre, perché sento di non avere il vocabolario adatto».Di famiglia molto povera, Ayesha arriva in Italia a 10 anni, con la madre e i due fratelli maggiori, per ricongiungersi al padre che, con lo zio, da qualche tempo gestiva un ristorante a Bologna. La malattia prima e la morte dell’uomo poi, lasciano la famiglia senza una fonte di reddito e con il rischio concreto di essere rimpatriata. «Eravamo talmente poveri che vivevamo da alcuni parenti in case diverse, dove c’era posto», ricorda la giovane.
La svolta nella sua vita accade all’open day del Malpighi. «Ho visto questa scuola bellissima e mi sono informata per iscrivermi», ricorda Ayesha. Non sapeva che, in Italia, la libertà di scegliere una scuola paritaria è subordinata alla possibilità di permettersi la retta. Soldi che, ovviamente, la famiglia non aveva. Ma la passione con cui aveva espresso questo suo desiderio alla rettrice Elena Ugolini, è riuscita a superare anche questo ostacolo: una borsa di studio della Fondazione Campari arriva a coprire tutte le spese, non soltanto della retta, ma anche dei libri e del trasporto da casa a scuola. Una donazione sulla fiducia che la ragazza ha ripagato alla grande, attraverso un percorso scolastico che la propria docente di riferimento, Federica Mazzoni, non esita a definire «più che eccellente». Frutto di tanta fatica ma, soprattutto, fondato sulla convinzione che la giovane Ayesha si è messa in testa fin dai primi tempi in Italia: «Se volevo stare qua, se volevo studiare, dovevo imparare l’italiano». Lingua che in casa nessuno conosceva, a parte il padre e di cui ora, sempre a detta della prof, ha una padronanza migliore di tanti compagni nati in Italia.
«A scuola – racconta Ayesha – ho trovato dei maestri veri che mi hanno fatto appassionare allo studio. In quegli anni ho letto di tutto, da Dante a Primo Levi e ho imparato ad amare la lingua italiana, che ormai sento mia: è una parte essenziale della mia vita». «Negli anni del liceo – scrive ancora nel tema la studentessa – ho coltivato tante amicizie e ho scoperto che la lingua mette in relazione con le persone e permette di scoprire una parte di sé stessi».Ma conoscere i nostri grandi autori non le è bastato per vedersi riconoscere quella cittadinanza che la farebbe sentire italiana a tutti gli effetti, come lei del resto già si sente ed è percepita dai suoi amici. Con i quali, però, non ha potuto condividere l’ultima esperienza liceale: il viaggio di istruzione in Germania. Al momento di partire, ha scoperto che sulla sua carta d’identità c’è scritto «Non valida per l’espatrio». Per lei è stato un colpo al cuore. Un tradimento da parte del Paese in cui vive e nel quale si è più che integrata, risultando tra i migliori studenti della propria scuola. Ma, evidentemente, nemmeno un 100 alla Maturità è sufficiente per ottenere una cittadinanza che Ayesha e tanti come lei, aspettano ormai da troppo tempo.

Posso capire non si vuole 
Ius soli (in lingua latina «diritto del suolo») è un'espressione giuridica che indica l'acquisizione della cittadinanza di un dato Paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori.[1][2][3][4] Si contrappone allo ius sanguinis (o «diritto del sangue»), che indica invece la trasmissione alla prole della cittadinanza del genitore, sulla base pertanto della discendenza e non del luogo di nascita.[1][3][4]Quasi tutti i paesi del continente americano applicano lo ius soli in modo automatico e senza condizioni. Tra questi gli Stati Uniti, il Canada e quasi tutta l'America latina.[5] Alcuni paesi europei (Francia, Germania, Irlanda e Regno Unito) concedono altresì la cittadinanza ius soli, sebbene con alcune condizioni.  segue Ius soli - Wikipedia

perchè non sai se quelle persone hano intenzione di rimanere fisse qui per poi andarsene altrove oppure ritornare nella loro terra d'origine come fece un parente di mia madre che ando in argentina per ptersi pagare la casa e poi raggiunta la cifra rientrò in paese   e non parti più   fino alla morte  . 
Ma lo Ius  scholae ( qui magiori informazioni mi sembra   sia   un buon compromesso  ifatti anche la Polverini  ( centro  destra  )    e la  chiesa  




si sono dette d'accordo

6.12.21

Lei è Samia.

GLI INVISIBILI  (   https://storiedeglialtri.it/serie/immigrati/ 
Erano fieri della loro vita, della loro famiglia, dell’educazione ricevuta e della posizione nella società. Hanno perso tutto, sono diventati rifugiati ,  quando   riescono  ad  arrivare  vivi.  


Lei è Samia. Nasce a Mogadiscio, in Somalia, nel 1991. È la più piccola di 6 fratelli. Il padre è fruttivendolo. Il suo paese è in guerra. Samia è una bambina gracile, ma ha due gambe agili. Corre, si allena. Sogna. Ha 10 anni. Partecipa a una gara tra ragazzi più grandi. Il papà le regala una fascia di spugna. Vai, corri, figlia mia. Senza paura. Samia corre, e arriva prima. È il 2008. Samia si sente pronta,
si iscrive ai campionati africani di atletica leggera. Fa i 100 metri, arriva ultima, ma viene convocata per
le olimpiadi di Pechino. Potrà rappresentare il suo paese. È un grande onore. Mancano sei mesi alle gare, Samia dovrà lavorare sodo, sputare sangue. Sa che non ha molte possibilità, ma ci prova. Si allena tutti i giorni, da sola. Corre senza velo. Ma è pericoloso. Esce di casa, la fermano ai posti di blocco. La minacciano. Se non la smetti, ti scanniamo. Samia non si ferma, si allena di notte, di nascosto. È il 19 agosto. Olimpiadi di Pechino. Samia è ai blocchi di partenza dei 200 metri. Guarda le altre. Sono allenate, muscolose, indossano tute sgargianti. Lei è magrissima, porta una maglietta bianca e dei fuseaux neri sotto il ginocchio. Sulla testa, la fascia che le aveva regalato il suo papà. Le scarpe gliele hanno date le atlete del Sudan. Samia è un fascio di nervi. Aspetta il segnale, via! Fa uno sforzo enorme, tira più che può, le altre le sfrecciano a fianco, tagliano il traguardo, lei sta ancora facendo la curva. È ultima. Il pubblico la applaude. Samia piange. È felice. Torna a Mogadiscio. Nessuno ha seguito la sua gara. Non importa, si rifarà alle olimpiadi di Londra. Mancano 4 anni. Deve solo trovare un allenatore. Può farcela. Intanto riceve nuove minacce. Deve nascondersi, lì non può più stare. Si mette in viaggio. Nairobi, Etiopia, Sudan, Libia. È il 2012. Samia ha 21 anni. Si imbarca su un gommone. La sorella è a Londra, la aspetta. Il suo gommone va in avaria. Affonda. Samia si getta in mare. Allunga una mano fuori dall’acqua. Non la afferra nessuno. Samia Yusuf Omar annega a largo di Lampedusa.

15.11.21

Johnny, clochard italiano in riva alla Darsena di Milano: «Vivo grazie all’aiuto di rider e venditori di rose



dopo   quella  raccontata     qui   su  queste  pagine ecco  Ancora   un altra storia  ai margini 

 corriere della sera 10 novembre 2021 | 07:46


Johnny, clochard italiano in riva alla Darsena di Milano: «Vivo grazie all’aiuto di rider e venditori di rose» La gara di solidarietà dei lettori
Johnny, 31 anni, senzatetto dopo la morte dei genitori, ha perso il lavoro interinale e non riesce a pagare l’affitto: «Conciato così non mi prendono neanche per fare il lavapiatti». Vive accanto al distributore di sigarette in piazza XXIV Maggio per chiedere le monetine del resto: «Mi negano anche i centesimi». E per una doccia dai frati c’è la lista d’attesa di un mese


                             di Andrea Galli






Vita e sopravvivenza di Johnny, italiano 31enne, senza più famiglia, casa e lavoro, stanziale dalle 20 all’alba davanti al distributore di sigarette in corso di Porta Ticinese, prima della Darsena, di fronte al McDonald’s.
Questa la sua storia, questa la sua Milano.



«A volte le cose vanno veloci. Con me, sono andate velocissime. Figlio unico, papà morto di infarto a 57 anni, mamma morta di tumore nel giugno 2020. Avevano una piccola impresa nel tessile: crisi del settore, chiusura, debiti che si sono mangiati i risparmi, casa in affitto che è rimasta una casa in affitto. Non mi piaceva studiare ma non mi sono adagiato a fare il bamboccione: sono stato muratore, ho fatto lunga esperienza nei calzaturifici, ho fatto facchinaggio, traslochi, e via elencando. Nella fase finale della malattia di mia madre sono restato a spasso: c’era la pandemia ma già cominciavano a non rinnovare i contratti prima. Con le agenzie interinali funziona così, hai il periodo di prova, il primo step, il secondo, il terzo, fin quando ti tocca il tempo indeterminato e ti salutano. Avanti il prossimo sfigato, nuovo giro dell’oca. L’affitto costava 600 euro più le spese; l’ultimo mio stipendio era di 800 euro. Ho tirato e tirato, ma alla lunga mi hanno mandato via. Parenti? Qualcuno, in lontane zone d’Italia, ma per orgoglio, per dignità, preferisco non chiedere aiuto. Non voglio farmi vedere conciato così e infatti ok la foto, ma tengo giù il cappuccio... Abitavo nell’hinterland, ma se devo stare per strada tanto vale farlo qui sui Navigli. I locali, i soldi. Ho scelto di fermarmi vicino al distributore, chiedo le monete di resto. Chi abita qui, dopo un po’ sbuffa: «Se mollo un euro di elemosina ogni giorno, fumare mi costa un capitale». Ma non generalizziamo: il titolare del ristorante pugliese mi regala da mangiare. Il signore del negozio di scarpe è cortese. Questi di fianco, invece, piuttosto il cibo che avanza lo buttano nel cesso. I ristoranti asiatici lasciamo perdere, nemmeno una sigaretta danno... Per fortuna ho l’amico del Bangladesh. Vende cappelli di Inter e Milan, le statuette del Duomo, quelle cose lì. Il mattino prende una brioche per me. Cascasse il pianeta. I venditori di rose, se avanzano dei centesimi li allungano. Quelli del McDonald’s mi fanno andare in bagno. Mi pulisco al lavandino. Del resto ho la doccia il 27».
In che senso? «Nel senso che, tanti siamo e tante sono le procedure per il Covid, che la lista d’attesa alle docce pubbliche è infinita. Ho addosso le stesse mutande da una settimana. Le scarpe non le tolgo da un mese. Tra le scarpe sformate e i piedi conciati dal freddo, il rischio è che se le levo poi non mi entrano
più. E comunque te le rubano. Motivo per cui nei dormitori non ci vado. Ti portano via tutto, pure gli occhi se non stai attento. Gente che delira, chi schiatta, quello che ti salta addosso… Chiaro, dormo all’aperto, ma lo faccio dalle sette in avanti, quando fa meno freddo. Di notte, meglio stare in piedi».
Tre rider sostano, chiacchierano, ridono tra loro. «Con ’sti cristiani sono in debito. Quando hanno un ordine che torna indietro, perché magari la pizza del fighetto di turno non era bollente e quello non la vuole più, la dividono tra di noi. Dico “noi”: siamo una marea. Hai visto in Darsena? Una marea invisibile. A me non mi vedi dormire. Mi imbosco. Più che altro imbosco la roba: l’altra volta stavo sul tram e mi hanno fregato le salviette umidificate, quelle dei bambini. Sono essenziali, riesci a lavarti un minimo. Anche se adesso arriviamo al vero problema».
Quale? «Ti giuro amico, i locali della zona li ho girati tutti. Per come sono messo, pulirei anche i cessi con le mani. Ma puzzo come una carogna, si capisce che non c’ho una casa, passo per uno non affidabile, e manco a fare il lavapiatti riesco… Mi basterebbe davvero poco, con venti euro ci campo pure quattro, cinque giorni. Però non è il punto. Il punto è che servirebbe un mestiere un attimo stabile, così da avere uno stipendio per un posto letto. Sincerità per sincerità, ho delle denunce per delle risse, robe di strada, di disperazione, ma non ho mai fatto male a nessuno. Non nascondo che quando mi risveglio, circondato dal casino, dalle occasioni — e certo, amico, le occasioni — mi dico, Dio santo, Dio santissimo, ora punto quella passante, le rubo qualsiasi cosa... Invece no, mi calmo, cammino... Ci sono servizi per i poveri ma certi servizi devi prenotarli al telefono e non ce l’ho un cellulare... Ci aiutiamo, tra di noi. Lì in Darsena un altro ragazzo di strada mi ha regalato la cintura. Mi cascavano i pantaloni. Li avevo chiesti in parrocchia, ero disperato, mi avevano dato quelli che avevano. Larghissimi. Pochi giorni fa mi scappava, stavo in una zona di ressa, non c’erano angoli, in un locale non mi facevano entrare manco pregando, non avevo gli spicci per un caffè… Vicino ai palazzi, se gli abitanti mi vedevano chiamavano la polizia… Insomma, mi sono pisciato addosso. Io quella doccia del 27 la sogno più del pane. Pulito, magari qualcuno mi concederà una possibilità. Fidati: me la saprei giocare con chiunque».

10.11.21

La campionessa dei droni: "Non cammino, so volare"., Tra le baracche romane la scuola degli ultimi., il fu mattia pascal esiste vive a follonica

Tre volte campionessa italiana di drone racing, un Guinnes world record, la nomina ad Alfiere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella e tanta passione per il volo. Che per lei è la cosa più vicina alla libertà. Luisa Rizzo è una pilota salentina di droni, ha 18 anni e con un radiocomando e i droni realizzati da papà Michele gira l'Italia e il mondo. 

Grazie a lui ha scoperto un mondo che doveva essere uno strumento per conservare la forza nelle mani e combattere la sma che la accompagna ed è diventato una professione, tra gare di velocità contro i normodotati e riprese cinematografiche. I due Rizzo sono diventati un simbolo nel circuito, con un rapporto che va oltre quello tra padre e figlia: sono una squadra, tra aiuti reciproci e condivisione. Una metafora della vita

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Una passeggiata tra i resti degli acquedotti dell'antica Roma per raccontare la storia di  L'associazione culturale Ottavo Colle promuove queste attività per far conoscere ai romani e non "uno dei figli migliori di Roma", che nel 1968, arrivato nella parrocchia di Pontecorvo, affacciandosi dalla finestra della sua chiesa, vide per la prima volta le file e file di baracche della capitale.

 E proprio in una baracca di nove metri quadri, appartenuta a una prostituta, civico 725, aprì la scuola per i ragazzi dell'Acquedotto Felice, considerati bambini di serie B e quindi lasciati indietro dalla pubblica istruzione. Si cominciava alle tre di pomeriggio con la lettura dei giornali, poi c'era il momento di disegnare quello di cui si era discusso in classe, su fogli riciclati e con pastelli a cera. E proprio tramite il disegno Don Roberto, prete di borgata, riuscì a far entrare il mondo nelle baracche, trattando gli argomenti più disparati, da Malcom X a Ghandi e Che Guevara, racconta Marzia Consalvi della Biblioteca Raffaello di Roma, dove è conservato il fondo Don Sardelli, che lui stesso donò a questo istituto pochi anni prima di morire, proprio per la vicinanza all'Acquedotto Felice

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Per 25 anni l’hanno creduto morto, invece abitava con la moglie a pochi chilometri di distanza.

E un giorno all’improvviso si è presentato agli amici di un tempo


8.11.21

una nave di nome Milk la Marina Usa risarcisce l'attivista Lgbt Milk ., I mille avvocati di strada che restituiscono dignità ai senza dimora (e agli ultimi)., Usa, fa dall'auto il segnale di richiesta d'aiuto imparato su TikTok; un automobilista dà l'allarme e fa fermare il rapitore

 


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I mille avvocati di strada che restituiscono dignità ai senza dimora (e agli ultimi)

Sono lo studio legale più grande d'Italia, tutti "soci" volontari, con il fatturato più povero: zero euro. Assistono persone precipitare nella povertà dopo licenziamenti, sfratti, divorzi, costrette oggi a vivere sui marcipiedi, nei dormitori, in auto. Per tutti la sfida più grande: ottenere un indirizzo di residenza per non essere più invisibili.



Sono lo studio legale più grande d'Italia (mille "soci" tra civilisti e penalisti) e anche il più povero: fatturato euro zero. Del resto i loro clienti, nella scala sociale, sono gli ultimi degli ultimi, così privi di tutto da non avere nemmeno un indirizzo: sono clochard, senza tetto, senza fissa dimora. Si chiamano "avvocati di strada", sono riuniti in un'associazione fondata nel 2001 da Antonio Mumolo, avvocato giuslavorista che nelle fredde notti di Bologna, da volontario portava cibo e coperte a chi viveva sui marciapiedi o sotto rifugi di cartone. "E molti di loro, conoscendo il mio mestiere, mi facevano domande legali, raccontandomi di pensioni perdute, di eredità negate, di figli mai più incontrati per mancanza di un indirizzo di residenza, di fallimenti economici per crediti inesigibili, di assistenza sanitaria negata. Capii che quel mondo di invisibili finiva per strada non soltanto per tossicodipendenza, alcolismo o per problemi psichiatrici, ma soprattutto per diritti negati".

Insieme a un solo altro collega, Mumolo fonda la onlus "Avvocato di strada", oggi presente in 56 città, con mille legali che offrono assistenza (gratuita) ai senza dimora, trentottomila persone seguite dal 2001 ad oggi, tremila pratiche aperte ogni anno, centinaia di cause vinte, ma soprattutto centinaia di ex drop-out tornati a vivere dal mondo di sotto al mondo di sopra. Con il motto non "esistono cause perse", "Avvocato di strada" ha dedicato ai sessantamila clochard italiani addirittura un festival nell'ottobre scorso, per raccontare questo estremo segmento di povertà.

La storia di Fra

Spiega Antonio Mumolo: "Il senzatetto che dorme sui cartoni è solo la forma più evidente di questa emarginazione, figlia delle ripetute crisi economiche che hanno devastato l'Italia. A differenza di vent'anni fa quando i senza dimora erano persone con storie di alcol o malattie mentali, oggi sono cittadini, all'ottanta per cento italiani, che da un giorno all'altro perdono il bene fondamentale: la casa. Ci vuole poco: un licenziamento, le rate di mutuo non pagate, lo sfratto, una pensione troppo misera, un divorzio e ci si ritrova a dormire in auto, nei dormitori pubblici, negli edifici occupati, in fila alla mensa, alle docce, alle distribuzioni di vestiti usati. Bussando da una porta all'altra alla ricerca di lavoro".

La storia di Francesca, da commessa in un supermercato ad una vita senza più figlie né una casa

Come accade a F. che chiameremo Francesca, nelle tante storie che "Avvocato di strada", pubblica sul suo bilancio sociale ogni anno. Francesca è italiana, ha 40 anni, è mamma di due bimbe di 6 e 8 anni. Emblema e paradigma di come si possa passare da una situazione dignitosa alla povertà in un tempo brevissimo, fulmineo. Un capitombolo nel baratro. "F. era commessa in un supermercato, conviveva con il suo compagno e padre delle bambine, finché i due non decidono di separarsi e l'uomo, abbandonata la casa, smette di prendersi carico delle spese. F. non ce la fa, il suo stipendio è troppo basso per pagare un affitto e gestire, da sola, due figlie. Arriva lo sfratto e le bimbe vengono affidate ai nonni paterni. Costretta a dormire in macchina, Francesca si rivolge ad "Avvocato di strada" perché è inverno, i soldi stanno finendo e pagare la benzina per arrivare al lavoro diventa impossibile". F. si ammala di broncopolmonite, viene aggredita nella notte, la macchina si guasta irreparabilmente. Sul lavoro le assenze diventano troppe e Francesca viene licenziata.

"Dopo aver messo in contatto Francesca con i servizi sociali della città - ricorda Agostina, avvocata di strada di Milano - siamo riusciti a farle ottenere la residenza fittizia, grazie alla quale ha potuto cercare un nuovo lavoro e un alloggio". Piano piano Francesca riemerge dal buio e ricostruisce un rapporto con le figlie. Con il sogno, oggi, di riaverle con sé. Per chi nella vita ha sempre avuto un indirizzo e un nome sul citofono, la parola residenza evoca soltanto un fastidio burocratico da espletare quando, magari, si cambia casa o città. Invece no: la residenza è  un diritto fondamentale che determina lo spartiacque tra l'esistenza e la non esistenza. Tra l'essere cittadini o clandestini.  Essere invisibili oggi è non poter fornire un indirizzo, dunque ottenere una carta d'identità, quindi un lavoro e l'assistenza sanitaria. Gli avvocati di strada ricostruiscono i fili spezzati di queste vite, cuciono una tela che riannoda affetti, patrimoni, dignità. Portano in tribunale comuni e datori di lavoro, enti previdenziali e familiari disonesti.  "I comuni - dice Mumolo - spesso violano l'obbligo di assegnare per legge ai senza dimora una di quelle vie fittizie inventate proprio per dare una residenza a chi non ce l'ha". Come via Modesta Valenti a Roma, clochard che morì di stenti, o via della Speranza, o via dei Senzatetto in altre città. Si sentono rinascita e resistenza nelle storie degli avvocati di strada. C'è M, italiano, che viveva in un dormitorio dopo una dolorosa separazione. Grazie all'assistenza legale riesce a definire il divorzio, trova alloggio in co-housing. "La cosa più bella - è stata sentirmi di nuovo chiamare papà".

La storia di Stella, da clandestina a una vita alla luce del sole

C'è S. la chiameremo Stella, ucraina, mamma di un bellissimo bambino con cui viveva, però, quasi nascosta. "Nel periodo in cui è venuta al nostro sportello viveva in una situazione totalmente precaria fuori Genova. Non aveva documenti, non riusciva ad ottenere un permesso di soggiorno ed era costretta a vivere nella clandestinità, nella paura, senza assistenza sanitaria, senza potersi rivolgere ai servizi sociali, né poter iscrivere suo figlio a scuola" Stella era invisibile. Gli avvocati strada rintracciano in Grecia il padre del bambino, ottengono i suoi documenti, regolarizzano la posizione di Stella. "Oggi a lei ed al suo piccolo è stata restituita la dignità e il riconoscimento che per troppo tempo erano stati loro ingiustamente sottratti". E Stella e il suo bambino non hanno più paura di camminare alla luce del sole.

La storia di Giuseppe, non aveva più una residenza ora l'ha ottenuta

C'è G, lo chiameremo Giuseppe, napoletano. "Arrivò ad Avvocato di strada dopo girato tutti servizi della città senza essere riuscito a far rispettare un suo diritto essenziale, quello alla residenza anagrafica. G.  che un tempo aveva una casa e un lavoro, aveva camminato tanto, tra uffici freddi e pieni di inutile burocrazia, trovando tutte le porte chiuse. Quando arrivò da noi era veramente esausto e sfiduciato. Aveva perso la speranza e la sua voglia di credere in una società giusta e civile. In breve tempo, grazie al preziosissimo aiuto di una nostra volontaria, G. ottiene la residenza nella via fittizia. Oggi ha nuovamente diritto di voto, accesso alle cure mediche. È tornato a godere di tutti quei diritti fondamentali di cui gode un cittadino italiano residente sul territorio".

Antonio Mumolo cita una frase "cult" del libro di  John Grisham "L'avvocato di strada": "Prima di tutto sono un essere umano. Poi un avvocato. E' possibile essere entrambe le cose".

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L'adolescente, del North Carolina, si trovava in macchina con il suo rapitore, un uomo di 61 anni. Dal finestrino ha lanciato questo particolare  "grido" di aiuto. Un automobilista ha capito e ha chiamato le forze dell'ordine. La polizia è riuscita a fermare la macchina e ha arrestato l'uomo che ora è accusato di rapimento e di possesso di materiale pedopornografico.La ragazza era stata dichiarata scomparsa dai suoi genitori martedì scorso secondo l'ufficio dello sceriffo della contea di Laurel nel Kentucky. Il salvataggio è accaduto giovedì, nel Kentucky. "L'automobilsta si trovava dietro il veicolo e ha notato una passeggera che faceva gesti con le mani, noti sulla piattaforma social 'Tik Tok' per denunciare la violenza domestica, 'ho bisogno di aiuto'", si legge nella dichiarazione dell'ufficio dello sceriffo.La persona che ha chiamato il 911 è rimasta dietro il veicolo del rapitore per 11 chilometri, trasmettendo informazioni alla polizia. Il sospetto ha portato l'adolescente dal North Carolina all'Ohio, dove ha dei parenti, ha detto la polizia. Ha poi lasciato l'Ohio quando i parenti del rapitore hanno scoperto che la ragazza era minorenne.

24.8.21

Giorgio, morto ad Asti per l'esplosione di un frigo: il "gigante buono" che danzava come nessun altro. La leggenda del pianista sul lago di Como: il Festival 'galleggiante' di Alessandro Martire ed altre storie



Giorgio, morto ad Asti per l'esplosione di un frigo: il "gigante buono" che danzava come nessun altro 
                                                di Marco Patucchi
Tibaldi, 56 anni, era tecnico manutentore di impianti refrigeranti. Lascia la moglie e tre ragazzi a Santena

Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di oltre due lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

"Caro Giorgio, tutte le mattine al semaforo ci incontravamo. Io andavo verso Torino, tu a prendere la macchina: la tua sigaretta in bocca - scrive Giordano nei social - a malapena un saluto, tutti e due addormentati. Mi mancherà da matti vederti sul lato opposto della strada, farci un piccolo gesto giusto per salutarci". Esistono attimi di vita ordinaria ai quali non abbiamo dato peso, sommersi nell'oblio del giorno dopo giorno. Poi, improvvisamente, spuntano fuori come un minuscolo tesoro che vorremmo sempre tenere con noi. Ma non si può più. Giorgio Tibaldi, 56 anni, moglie (Alessandra) e tre ragazzi (Gabriele, Stefano, Davide), è morto sul lavoro ad Asti: era un tecnico di una ditta di manutenzione frigoriferi, stava riparando l'impianto in un negozio di surgelati quando è stato investito dalla fiammata di un'esplosione. Il lavoro che è tutto e niente nella nostra vita: se un marziano scendesse sulla terra o desse un'occhiata ai social, penserebbe che Giorgio era prima di tutto un ballerino.

Giorgio, il 'gigante buono' di Santena, una manciata di chilometri da Asti e da Torino: un operaio, un marito, un padre con la passione per le danze. Sempre insieme alla sua Alessandra. "Hanno seguito le lezioni di fandango, di valzer e di sbrando che proprio Giorgio già ballava benissimo - scrive Sara nei social - . Se sentiamo qualche tuono, può darsi sia lui che balla lassù dando calcioni con le sue lunghissime gambe. Sono venuto anche ai corsi di irlandese e ci ha lasciati sbigottiti per la rapidità di apprendimento e la precisione nei passi. Ma soprattutto la simpatia, ragazzi, la simpatia...". E Sara: "Ciao Giorgio, ballerino infaticabile, agilissimo, simpatico, divertente. La vita è ingiusta e crudele con i migliori". Ciao Giorgio, operaio danzatore.

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"Non distruggetelo, lo portiamo nella nostra chiesa", così Madonna di Campiglio ha salvato un organo a canne tedesco

 Gianfranco Piccoli
L'organo nelle chiesa di Saarbrucken, prima di essere smontato

  
Acquistato a un decimo del suo prezzo, lo strumento di una chiesa in via di demolizione a Saarbrücke è stato smontato pezzo pezzo. E verrà rimontato nella parrocchia di Santa Maria a Madonna di Campiglio. Grazie all'impegno di un avvocato di Crema. "Musica celestiale per le Dolomiti"

Come un enorme Lego da mille pezzi, alto cinque metri e largo quattro, smontato e rimontato dopo un viaggio di 750 chilometri su un rimorchio da 18 metri. È la storia dell'organo della chiesa cattolica di San Tommaso Moro a Saarbrücken, capoluogo del Saarland, regione a sudovest della Germania: lo strumento rischiava di essere demolito insieme all'edificio di culto, ritroverà una nuova vita nella chiesa di Santa Maria a Madonna di Campiglio, in Trentino, dove nei prossimi giorni verrà rimontato pezzo per pezzo dalle sapienti mani di un organaro di Montichiari. Una storia a lieto fine grazie alla "folle" idea di un avvocato quarantenne di Crema, Marcello Palmieri.

La vicenda dell'organo di Saarbrücken non è così rara, almeno in Germania, dove il vento della secolarizzazione soffia forte, svuota le chiese e (a volte) le butta giù. Un processo che nella terra di Goethe corre più veloce che altrove. Non a caso nelle 27 diocesi tedesche negli ultimi 20 anni sono stati centinaia gli edifici di culto demoliti per mancanza di fedeli. L'uso delle ruspe, certo non di fronte ad edifici dal riconosciuto valore artistico, è l'extrema ratio, quando anche le spese per il mantenimento diventano insostenibili o non è possibile destinare gli immobili ad altro uso una volta sconsacrati. Un fenomeno che ha, tra le conseguenze, il destino incerto degli organi che per decenni hanno accompagnato la liturgia in quelle chiese un tempo gremite di fedeli.


Risultato? L'abbandono degli edifici sacri ha alimentato un ricco mercato dell'usato: organi del valore di centinaia di migliaia di euro finiscono in vendita per una manciata di soldi. L'alternativa è finire a pezzi sotto i colpi di una benna per poi essere smaltiti (a caro prezzo) in discarica.

È il destino cui sarebbe andato incontro l'organo della chiesa cattolica di San Tommaso Moro di Saarbrücken, uno strumento da 700 canne realizzato nel 1981, un decennio dopo la consacrazione della chiesa. E qui la storia dell'organo - un Oehms da 13 registri e 2 tastiere a trasmissione meccanica - si intreccia con l'intuizione di Marcello Palmieri. Campigliano d'adozione, organista appassionato con una predilezione per i brani liturgici, Palmieri durante le vacanze estive accompagna la messa nella grande chiesa di SantaMaria, costruita ad inizio anni Settanta per rispondere alle esigenze del turismo nella località della Val Rendena. Un organo "vero" non c'è, gli organisti si alternano su uno strumento digitale. L'avvocato di Crema, grazie ad un amico, scopre così il fiorente mercato dell'usato in Germania e mette gli occhi sull'organo di Saarbrücken, in vendita su un sito specializzato a poco più di 20mila euro, un decimo del valore reale. Palmieri coinvolge le autorità ecclesiastiche locali, ottenendo un formale via libera, e trova anche i finanziatori, di Campiglio, eredi di un patrimonio importante che lo stesso avvocato si è trovato a gestire in qualità di legale di fiducia.

Detto e fatto. All'alba del 2 agosto, il carico eccezionale è arrivato nel cuore di Madonna di Campiglio: quattro volontari hanno scaricato l'organo, ora custodito in un deposito della Funivie. Nei prossimi giorni Giuseppe Tisi, organaro di Montichiari, comincerà ad assemblare i mille pezzi (un lavoro che durerà circa un mese) e l'organo di Saarbrücken tornerà a far sentire la sua voce possente ai piedi delle Dolomiti di Brenta.

Miura, il toro veneto da un milione di euro con cinquemila eredi

Miura al pascolo a Vallevecchia 

Primo in classifica nella razza Frisona, ha richieste da tutto il mondo. Con il suo Dna genera vacche che producono latte di primissima qualità



Il toro Miura ha 5mila figlie in 5 continenti, ma non ha mai conosciuto una femmina. Si chiama come la Lamborghini ammirata dal suo allevatore, ma se l’auto negli anni ’70 costava 8 milioni di lire, lui oggi che ci sono gli euro arriva a valerne un milione. Ferruccio Lamborghini scelse per il bolide il nome di una famigerata razza di tori da corrida di Siviglia. Miura è il contrario. Con i suoi 11 quintali di muscoli lavati e coccolati quotidianamente, trascorre il tempo ruminando foraggio biologico sull’isola di Vallevecchia, oasi naturalistica della Laguna veneta. «Da noi non mancano gli esemplari pericolosi, ma lui è mansueto come un agnellino» racconta Francesco Cobalchini, direttore di Intermizoo, l’azienda per la genetica animale fondata dalla Regione Veneto nel 1974.«Oggi per le vacche da latte il 90-95% delle gravidanze avviene con inseminazione artificiale». E Miura con il suo Dna garantisce alle figlie mammelle sane, capezzoli adatti alle mungitrici, latte ricco di grassi e proteine. Per questo, suscitando l’orgoglio del governatore del Veneto Luca Zaia, a 6 anni ha conquistato il primo posto nel catalogo dell’Associazione Nazionale Allevatori di Razza Frisona e Jersey Italiana. Non arriverà a farsi pagare 15mila euro a puledro, come il cavallo da corsa Varenne, ma è pur sempre un bel risultato.Sarebbe un toro da monta, quindi, il campione Miura, «ma per raccogliere il suo seme lo stimoliamo con tori castrati e usiamo una vagina artificiale» racconta Cobalchini. L’operazione si ripete 3 giorni a settimana. «Produce circa 500 dosi ogni volta», vendute in 55 paesi. «I ricavi della sua vita arrivano tranquillamente al milione di euro». Ogni provetta, spedita in azoto a — 196°, costa 15-17 euro. Oppure 37 euro se “sessata”: sottoposta a una selezione degli spermatozoi che porta al 90% le chance di concepire una femmina. Perché è alla virilità che Miura deve il primato, ma sono le femmine a contare veramente nell’industria del latte.Oggi solo a Roma, diventata una città zoo, si poteva filmare un video con un toro e una mucca che si accoppiano nel traffico, come avvenuto di recente. Che la riproduzione nel mondo bovino sia cambiata lo raccontava già il film “Il toro” di Carlo Mazzacurati, in cui il campione di sperma, chiamato Corinto, era rubato dall’uomo che l’accudiva, appena licenziato.

«È dagli anni ‘70 — conferma Cobalchini — quando è stato introdotto il congelamento del seme, che l’inseminazione artificiale è così diffusa». All’inizio serviva a evitare infezioni. Ora con gli esami del Dna rende possibile la selezione. «Negli animali cerchiamo di recuperare le caratteristiche del passato. Se negli anni ‘80 e ‘90 si spingeva per aumentare la produzione, oggi lavoriamo sui nutrienti del latte». A Miura e alle sue figlie si chiede di restituirci il sapore del latte di una volta. Un compito in effetti da un milione di euro.








 

Un pianoforte suona in mezzo al lago di Como, all’ora del tramonto, e sullo sfondo c’è l’incantevole villa Balbianello. E’ la performance di Alessandro Martire, famoso per le sue esibizioni con il pianoforte in mezzo alla natura o in contesti spettacolari e insoliti, per lanciare il LEJ Festival – Floating Moving Concert 2021, il festival che unisce musica e natura e che è nato da un’idea del pianista e compositore comasco. Dal 27 agosto al 5 settembre l’evento torna in presenza dopo l’edizione in streaming dell’anno scorso, con l’obbiettivo di portare giovani artisti e compositori provenienti da tutto il mondo a esibirsi sul territorio comasco: dalla Valle Intelvi, a Cernobbio, a Oltrona di San Mamette, da San Fermo della Battaglia ad Argegno, per citarne alcune. Assieme a Martire si esibiranno anche Ana Zimmer, Naiad, Summit, Harp Night, Jamira, Frapporsi, Frontera e altri ospiti. Cuore della manifestazione sarà il Floating moving concert, la performance sul lago di Como che si terrà il 31 agosto dalle 18 a Cernobbio: un concerto su piattaforma galleggiante trainata da un motoscafo, che porterà la musica creando una passeggiata musicale godibile da tutto il lungolago. Alessandro Martire eseguirà brani tratti da “Share the world”, suo ultimo album (Carosello Records). Per partecipare all’evento è obbligatoria la prenotazione gratuita tramite Eventbrite: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-alessandro-martire-floating-moving-concert2021-164009357403. Il Floating moving concert verrà poi trasmesso in esclusiva su TikTok Live a settembre.






A Milano Spazio Caroli12, in sala e in cucina vince l’inclusivitàdi Alessandra Iannello

Paolo Ferrario nella fattoria della Fondazione Pino Cova da lui presieduta 
Così un quartiere abbandonato diventa il teatro di integrazione sociale e lavoro per giovani con disagi. Paolo Ferrario, presidente della Fondazione Pino Cova: "Accogliamo gli emarginati e diamo loro un futuro fra fornelli, fattoria didattica, bar e 
Paolo Ferrario, presidente della Fondazione Pino Cova: "Accogliamo gli emarginati e diamo loro un futuro fra fornelli, fattoria didattica, bar e bistrot"


Via Caroli 12 Milano. Per i “ragazzi” cresciuti nella zona delimitata dal triangolo via Padova-Crescenzago, via ponte Nuovo, via del ricordo, questo era l’indirizzo dell’oratorio. Di un luogo dove le brutture di un quartiere della periferia milanese, noto per le ondate migratorie (prima meridionali e poi straniere), rimanevano fuori dai cancelli di ferro. Un luogo che, alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, chiude e rimane alla mercé dell’incuria. I cancelli vengono mangiati dalla ruggine, le piante infestano il cortile mentre l’edificio invecchia male e senza manutenzione. Tutto questo degrado sembra non avere fine finché un uomo, visionario ma con i piedi ben saldi a terra, se ne innamora. «Un paio di anni fa – racconta Paolo Ferrario, presidente della Fondazione Pino Cova – stavo cercando un’area per creare un luogo dove persone con disabilità o con condizione di emarginazione sociale, soprattutto giovani, potessero percorrere un cammino nel mondo del lavoro. Ho visitato tante realtà, ma mi sono innamorato di questo luogo». Con la preziosa collaborazione della Curia milanese, alla Fondazione non resta che iniziare la ristrutturazione degli oltre 1500 metri quadri fra aree coperte, cortili e giardini. Dopo diversi stop dovuti alla pandemia, nel giugno del 2020 si inaugura lo spazio multifunzionale Caroli12. «Con questo progetto – continua Ferrario – abbiamo voluto restituire qualcosa al territorio che ha visto crescere l’azienda grazie alla quale la Fondazione è nata. Nel 2000, infatti, dopo una vita spesa fra sindacato e associazionismo, Giuseppe Cova, detto Pino, ha fondato e-work, un’agenzia per il lavoro con una particolare attenzione all’etica. Nel 2020 abbiamo creato la Fondazione dedicata a Pino, che è purtroppo mancato nel 2013».

Spazio Caroli12 

Il primo progetto della Fondazione è lo Spazio Caroli12 (che ospita anche la sede della Fondazione) che, a oggi, ha dato una possibilità lavorativa, nella sala e nella cucina del Cafè & Bistrot, a una oltre una decina di persone con disagio. «Abbiamo accordi con molte scuole alberghiere in Lombardia – spiega Ferrario - che hanno progetti specifici per i ragazzi che necessitano di percorsi di inclusione sociale o mirati di accompagnamento. Una su tutte, come esempio, la scuola alberghiera In-Presa di Carate Brianza che ha una linea dedicata a ragazzi che in una cucina o in una sala o in un albergo “normale”, fanno fatica a inserirsi e a trovare un cammino di alternanza scuola-lavoro o stage. Con loro individuiamo le persone più adatte per operare a contatto col pubblico per abituarli, in un ambiente protetto, al lavoro del loro futuro. Facciamo anche formazione e tirocini formativi per gli adulti con disagi psichici».

Oltre che in cucina e in sala, gli “stagisti”, trovano lavoro anche da Tana Caroli, una fattoria didattica composta da un orto e da recinti che ospitano animali da fattoria provenienti da situazioni di maltrattamenti o dai macelli. «Nell’orto – precisa Paolo - vengono coltivati gli ortaggi che impieghiamo in cucina. Inoltre, abbiamo strutturato dei percorsi per i bambini. Così, insieme con Marta, la responsabile di Tana Caroli, i più piccoli possono approcciarsi agli animali entrando nei recinti e dando loro da mangiare». All’insegna dell’inclusività è anche il parco giochi strutturato con giochi non più alti di un metro e senza barriere architettoniche per permettere a tutti i bambini di giocare insieme.

Tana Caroli è la fattoria dedicata agli animali nell'ambito del progetto della Fondazione Pino Cova 
Bimbi giocano con gli animali a Tana Caroli 

 

Lo Spazio Caroli12 è aperto dalla colazione della mattina, appuntamento per gli anziani della zona, fino al dopocena, una volta la settimana c’è anche la musica dal vivo, passando per pranzo, merenda e cena. La cucina è semplice e il menù, stagionale, è composto da una ventina di pietanze preparate al momento. Le materie prime sono di produzione locale, oltre che dall’orto si trovano salumi, formaggi e carni lombarde. La sera si apre il ristorante e la proposta si fa più raffinata con piatti a base di pesce, molluschi e crostacei. In menù c’è anche una buona scelta di piatti vegetariani e vegani. Ad accompagnare vini bianchi, rossi e bollicine italiane e champagne francesi oltre che birre artigianali e cocktail. Per gli amanti degli spirits c’è una drink list dedicata ai gin con oltre 25 proposte e una agli amari con una ventina di referenze da tutto il mondo.

Nei progetti futuri della Fondazione, l’ampliamento dello Spazio Caroli12, l’apertura di una caffetteria sempre nel quartiere (a poche centinaia di metri da Spazio Caroli) e l’inaugurazione di un albergo a Buscate (in provincia di Milano). «Stiamo trattando con il Comune di Milano – conclude Ferrario – la riqualificazione di un'area adiacente a Spazio Caroli in stato di abbandono per iniziare ulteriori progetti di inserimento sociale e lavorativo. Sarà un’attività legata al florovivaismo, alla coltivazione in piena terra e in serra con punto vendita gestito da ragazzi down. La vicina fisica è fondamentale non solo per la residenza, presso Spazio Caroli ci sono delle camere dove alloggiano gli stagisti fuori sede, ma anche per psicologi e tutor che devono seguire i ragazzi. Infine, a Buscate, accanto ad Arluno (città natale di Pino Cova) stiamo ristrutturando una vecchia corte contadina dove apriremo un hotel 4 stelle con ristorazione, il tutto circondato da parco di oltre 16mila metri quadrati. Qui, i ragazzi potranno fare esperienza oltre che in cucina e in sala, anche nelle diverse mansioni dell’albergo».



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...