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2.12.25

ANIME IN APNEA di lavinia Marchetti


[Illustrazione dal saggio di Jules Verne "Edgard Poë et ses œuvres (Edgar Poe and his Works, 1862) disegnato da Frederic Lix or Yan' Dargent]






























Da bambina amavo i vortici, i gorghi, i mulinelli. Mi piaceva anche crearli nei fiumiciattoli, in montagna, disponendo i sassi in un certo modo, oppure interponendo le dita all'acqua creando piccole dighe. Ero attratta dal fatto che ruotando su se stessa l'acqua creasse un vuoto e nel vuoto ci fosse solo aria. Togliendo una materia liquida potevo, come Dio, far vivere qualcosa di etereo, leggero, e soprattutto invisibile. Era come dare un'anima al ruscello senza togliergli qualcosa, anzi, mi sembrava che quel vuoto fosse un valore aggiunto. Nell'odine dell'assenza si creava una presenza per
sottrazione. E così, anche da adulta sono sempre stata attratta da ciò che è vuoto, ma spesso, vuoto, perché, appunto, traboccante. Come l'anima, indipendentemente dal fatto che esista o meno. Il vortice è qualcosa di pericoloso, lo troviamo frequentemente in letteratura (specie quella ottocentesca dove si parla di viaggi per mare), se ci finiamo dentro può diventare una trappola letale. Ed è quello che mi attrae del vortice, al pari dell'abisso che è, in cuor suo, ancora più indeterminato. Non ne sono attratta su un piano metonimico, men che mai metaforico, ma come specchio del fatto, apodittico, che il movimento di per sé ha una fine e la sua apocatastasi, il suo punto cieco, "camera oscura" da cui dipingiamo l'esistente. Spesso lo sentiamo dentro di noi questo movimento rotatorio, quella vertigine che non proviene dalla vista, ma dalle emozioni intense che gorgheggiano, e noi vi galleggiamo sperando di non finire in fondo, sperando di risalire. E' in un preciso momento che possiamo capire, dentro al vortice, se annegheremo o se la nostra forza pari e contraria riuscirà a farci riemergere. Creare vortici può aiutarci a capire, nello scorrere della nostra vita, in quale punto ci collochiamo. L'esercizio di per sé non ha nessun valore euristico, ma aiuta a comprendere i sommersi ed i salvati. Sì, ho capito Levi ricordando me, bambina, che giocavo a fare Dio. C'è chi sta in centro, fuori dall'acqua, all'asciutto, facendo finta che il gorgo non esista, per noi salvi il vuoto è l'incoscienza, al massimo la colpa, che è comunque un privilegio. Poi ci sono quelli che annaspano, ma ancora hanno la testa fuori, e infine ci sono i sommersi, quelli che dal centro neanche vediamo più. Un gioco di prospettive, di vuoti e pieni, di pieni vuoti e di vuoti stracolmi. Il gorgo ha una fenomenologia che offre vari punti di sguardo, da lì tendo a vedere vedermi guardare. Da lì, con Levi, «Il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare», lì, dal centro, all'asciutto.



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