Visualizzazione post con etichetta 25 aprile. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 25 aprile. Mostra tutti i post

12.4.23

"Cara Maria, sto bene": nel 1943 scrisse alla moglie dal campo di prigionia, la lettera arriva a casa 80 anni dopo

Una  storia questa    interessante   perché  anche  a  distanza  d'anno    fa capire il valore del messaggio scritto per lettera, ci dice che la carta ha ancora un valore inestimabile. Una comunicazione di ottant’anni fa è giunta oggi fino a noi” 


repubblica  12 APRILE 2023


"Cara Maria, sto bene": nel 1943 scrisse alla moglie dal campo di prigionia, la lettera arriva a casa 80 anni dopo                         
                                         di Raffaella Capriglia

A Mottola la figlia del soldato Pasquale e di Maria ha ricevuto commossa il messaggio. Il padre poi tornò a casa incolume, ma di quella lettera, con gli auguri di Natale e i baci per la compagna lontana, si erano smarrite le tracce finché un uomo a Firenze non l'ha trovata e spedita in Comune. Il sindaco: "C'è un filo che lega e riannoda tutto"
Nel novembre del 1943 scrisse a sua moglie da un campo di prigionia nei pressi di Berlino, ma la lettera non giunse mai a destinazione. Quella stessa missiva, di cui si erano perse le tracce, è stata recapitata nei giorni scorsi, dopo 80 anni. La storia arriva da Mottola, nel Tarantino, ed è il sindaco della cittadina, Giampiero Barulli, a raccontarla con un post su Facebook, allegando l'immagine della lettera.






"È il 1943. C'è la guerra - afferma il primo cittadino - e tutti i ragazzi sono al fronte a combattere. Tra di loro c'è Pasquale, soldato mottolese. È in un campo di prigionia nei pressi di Berlino e scrive una lettera a sua moglie Maria, rassicurandola sulle sue condizioni di salute. La lettera, però, non arriva a destinazione". Pasquale, invece, "torna incolume dalla guerra e vive serenamente con la moglie crescendo tre figli". "Passano 80 anni - aggiunge Barulli - e incredibilmente qualche giorno fa quella lettera arriva in Comune. Spedita da un signore di Firenze e subito consegnata alla figlia di Pasquale, che legge con grande commozione le dolci parole del padre. Altri tempi, altre vite". "Ma un filo, quello del destino - commenta il primo cittadino - che lega e riannoda tutto, persone, storie e ricordi".
La lettera fu spedita da uno dei campi di prigionia tedeschi Kriegsgefangenenlager (Kgfl). "Cara Maria, la mia salute è buona, perciò - si legge nella missiva postata dal sindaco - non devi essere in pensiero per me. Spero di poter avere presto tue notizie che spero siano buone. Con l'occasione ti invio gli auguri per il Natale. Baci affettuosi". Il timbro porta la data del 21 novembre 1943.
Il sindaco ha consegnato la lettera a casa della primogenita di Pasquale, Giuseppina Aloisio. La nipote Sonia Baiocco, figlia di Giuseppina, racconta il momento. “È stata una grande emozione, per me, per la mamma e per i miei familiari - dichiara Sonia, 44 anni -. Ritrovarsi in mano questa lettera è stata una sorpresa, sembra strano che sia giunta dopo tanti anni. Cercherò di contattare questo signore di Firenze e di portare i nostri ringraziamenti”. Pasquale Aloisio era “partito per la guerra quando era appena sposato e la nonna dovrebbe essere stata in attesa della sua prima figlia. mia madre”. Il ragazzo di Mottola, divenuto soldato e poi finito in un campo di prigionia tedesco, dovette quindi allontanarsi dalla famiglia.
“Tornò quando mia mamma aveva tre anni, aveva una lunga barba, che rasò poco dopo”, racconta la nipote. Intanto, “che io ricordi – spiega Sonia –, il nonno non era in grado di scrivere di suo pugno, quindi, evidentemente, qualcuno a lui vicino ha scritto la missiva, riportando i suoi pensieri. La mia mamma è stata felice di ritrovare un messaggio del suo papà dopo ben ottant’anni. Era emozionatissima…a distanza di tutti questi anni non si aspettava una cosa del genere. Il nonno rassicurava sulla sua salute, ma è commovente che si preoccupasse anche della salute dei suoi familiari e augurava, per tempo, buon Natale. Sarebbe stato bello che anche la nonna l’avesse potuta leggere, ma per lei l’abbiamo letta noi nipoti e i figli”. Pasquale Aloisio, tornato a Mottola, ha condotto una vita serena. Ha avuto tre figli, è stato nonno di 5 nipoti. È stato “bracciante agricolo, coltivava le sue campagne di cui si prendeva cura”. È morto 26 anni fa, a 75 anni. Sonia lo ricorda bene. Era un uomo “serio, ma anche molto ironico. Pur essendo apparentemente un po’ burbero con i figli, con noi nipoti era giocoso e scherzoso. Mi ha trasmesso il valore della vita, del sacrificio, l’essere semplici. Per esempio, da piccola guardavo la tv con i nonni.
C’era l’ora del telegiornale e ‘L’Almanacco’ e giocavo con una palla di stoffa, fatta dalla nonna da una manica della camicia del nonno”. Sonia custodisce dei ricordi particolari di quegli anni di prigionia del nonno, raccontati da Pasquale quando lei era bambina. “Raccontava che i tedeschi, quando gli ordinavano di fare qualcosa, si rivolgevano in modo imperativo - spiega Sonia - e che lui si sarebbe dovuto sbrigare per assolvere al compito richiesto. Dicevano: “Raus!” (tradotto “fuori!”, “via!”, oppure “andiamo”, ndr)”. Anni di difficoltà e sofferenza alleviati dal ricordo e dall’amore per i familiari, ma Pasquale “non entrava molto nei particolari. Molto probabilmente, i tedeschi lo avevano preso a simpatia, forse perché era ironico ma anche molto serio. Perciò, è riuscito a cavarsela nel campo di prigionia, mi diceva di essere molto fortunato per questo, perché altrimenti anche lui, come altri, sarebbe stato destinato ad essere fucilato”. Inoltre, “mi cantava la canzone che cantava con i commilitoni, dal titolo ‘Cara biondina’”. La famiglia di Pasquale Aloisio scriverà al signore fiorentino che ha ritrovato la lettera. “Lo contatteremo al suo indirizzo postale, per ringraziarlo e scoprire qualcosa in più sulla storia di questo biglietto - conclude la nipote -. Lo faremo per via epistolare, perché questo episodio fa capire il valore del messaggio scritto per lettera, ci dice che la carta ha ancora un valore inestimabile. Una comunicazione di ottant’anni fa è giunta oggi fino a noi”

19.2.22

le foto di Whilelm Brasse ed altre storie del 900

 il ricordo di tali eventi  no  è   solo  il 27 gennaio 


Un giorno di febbraio del 1941, un giovane prigioniero polacco di nome Whilelm Brasse fu incaricato dai nazisti di fotografare, uno dopo l’altro, tutti i prigionieri di Auschwitz, di fronte e di profilo.
Quando, quasi due anni dopo, fu il suo turno, prima che la foto fosse scattata, Czesława Kwoka “si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro” - come ricorda lo stesso Brasse - che le aveva procurato la kapò a bastonate in faccia.
In quel momento Czesława aveva 14 anni, era appena arrivata al campo, non parlava e non capiva una
parola. Poche settimane dopo, il 18 febbraio 1943, le ammazzarono la madre, Katarzyna. Il 12 marzo fu assassinata con un’iniezione di fenolo nel cuore.

Poco prima che l’Armata rossa fece irruzione ad Auschwitz, i nazisti ordinarono a Brasse di distruggere tutte le foto insieme ai negativi, ma lui riuscì coraggiosamente a salvarne qualcuna. Tra queste, c’era quella di Czesława, che diventerà una delle fotografie più iconiche di sempre di quell’orrore, e nel 2018 fu colorata per aumentarne la vividezza.
Questo scatto è di una dignità, nello strazio, da mettere i brividi.

-----

La chiamavano affettuosamente “la biondina della Val Taleggio”. Ma lei, Piera Vitali detta Pierina, era prima di tutto una partigiana, una combattente, una donna libera.

E lo è stata sempre, fino all’ultimo istante.
È stata arrestata dai fascisti a 21 anni, mentre combatteva per la liberazione.
È stata interrogata, ma lei non ha fatto i nomi dei compagni.
È stata messa al muro davanti a un plotone armato. Ma lei non ha fatto i nomi.
È stata pestata a sangue, torturata, ma lei non ha fatto i nomi.

Hanno tentato di comprarla i nazisti. Ma anche in quel caso lei non ha fatto i nomi.
Infine l’hanno caricata su un pullman diretto ai campi di concentramento. E lei ha sfondato il finestrino e si è lanciata in corsa, tornando a fare la staffetta partigiana fino alla libertà.
Aveva 21 anni, poco più che una ragazzina.
Due anni fa esatti, Pierina se n’è andata a 96 anni. Lei, una di quelle che la patria l’ha difesa davvero, non a parole o a slogan, ma con un coraggio e una forza (e a un’età) che oggi fatichiamo anche solo a immaginare.

Ciao Pierina, ovunque tu sia. 

21.11.21

Chi ha paura dei partigiani? visto che la storica Chiara Colombini presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese.


Chi ha paura dei partigiani?
Una storica presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese. Ed è successo perché c’è un’aria malsana. Quella di quando si rompono gli argini e anche il peggio, improvvisamente, si può dire

di Mario Calabresi





Prima immagine: una ricercatrice che ha dedicato la sua vita alla storia delle formazioni partigiane presenta un libro in cui affronta i luoghi comuni più diffusi sulla Resistenza. È stata invitata dalla sezione locale dell’ANPI. Fuori, uno schieramento di polizia e carabinieri garantisce che la serata si svolga con tranquillità. Una comunità neonazista attiva nella zona ha attaccato tre striscioni di contestazione. Azzate, provincia di Varese, 12 novembre 2021.
Seconda immagine: due giorni prima a Torino muore una donna che per tutta la vita si è dedicata a far funzionare l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza "Giorgio Agosti". Si chiamava Dada Vicari e ha coltivato la memoria di quelli che si sono battuti e sono caduti per la libertà, come suo padre Michele, ferroviere, partigiano, fucilato il 18 aprile 1945, il giorno dello sciopero generale di Torino, ad appena una settimana dalla liberazione dal nazifascismo.



Il panorama delle Langhe, raccontato da Beppe Fenoglio nel suo romanzo “Il Partigiano Johnny”


A legare le due immagini, i fantasmi che tornano mentre un pezzo prezioso di memoria ci lascia, è Chiara Colombini, 48 anni, autrice del libro Anche i partigiani però.... . È lei che ha avuto bisogno della scorta di polizia e carabinieri per presentare il suo volume, che è proprio dedicato a Michele e Dada Vicari. «Anch’io lavoro all’Agosti, dove sono raccolte tutte le carte delle formazioni partigiane del Piemonte, e Dada mi aveva adottato, era una persona di grande umanità e teneva sotto la sua ala tutti i giovani che passavano dall’Istituto».
Chiara è stata in provincia di Varese per un piccolo giro di presentazioni; le avevano detto che ci sarebbero potuti essere problemi, ricordando la dura contestazione che due anni prima un nutrito gruppo di neofascisti fece contro lo scrittore Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone, un altro libro sul dilagare di luoghi comuni e chiacchiericcio che in tempi di disinteresse, ignoranza e ritorni di fiamma vengono presentati come verità storiche.
«Mi avevano avvisato, ma voglio sottolineare che è stata una tre giorni deliziosa, con sale piene e belle discussioni, ma lascia perplessi che per presentare un libro ci voglia la polizia e questo mi sembra un segnale non proprio rasserenante. Non per me, anzi lo striscione che mi riguarda non l’ho considerato insultante e nemmeno minaccioso. Ma lo sai cosa c’era scritto, usando una rima banale? “Chiara Colombini, mangia bambini”. Mi viene da ridere. La mia preoccupazione è invece legata alla situazione più generale, al fatto che un gruppo neonazista riesca a condizionare le attività culturali di una zona e richieda la mobilitazione delle forze dell’ordine settantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».


Chiara Colombini in una illustrazione di Marta Signori


Quando ho letto la notizia, in un trafiletto nei giornali locali e in una comunicazione dell’Istituto Ferruccio Parri, del cui comitato scientifico Chiara fa parte, avevo appena finito di trascrivere la mia conversazione con Javier Cercas (qui trovate il podcast) e mi risuonava in testa la sua frase contro “la dittatura del presente”, quel modo di vivere immersi in ciò che accade nell’istante, dimenticando ciò che è successo soltanto una settimana prima: «Il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianza non è passato, ma fa parte del presente, se ce ne dimentichiamo viviamo un tempo mutilato».
Ho cercato Chiara Colombini perché mi sembrava che la sua vicenda e quello che mi aveva detto Cercas si parlassero, volevo capire il suo lavoro e grazie a quale scintilla fosse nata la passione per la Resistenza: «È accaduto leggendo Fenoglio. Io sono nata ad Alba e quei luoghi delle Langhe mi sono familiari, ma i suoi libri mi hanno lasciato soprattutto la voglia di conoscere i protagonisti oltre il romanzo e così ho incontrato la figura di Nuto Revelli che mi ha spalancato un mondo. Mi ha fatto capire la complessità e le difficoltà di una scelta come quella partigiana nell’estate del 1943. Revelli era un militare di carriera, un ufficiale degli Alpini ed era andato volontario in Russia. Non era stato antifascista nel ventennio, ma era tornato con ferite umane profondissime e con una voglia di ribellione fortissima. Diventò un capo partigiano leggendario, ma con grande onestà intellettuale ha sempre ricordato la difficoltà di quella scelta. Io studiavo filosofia ma leggere i suoi ricordi mi ha fatto nascere la domanda fondamentale: io che cosa avrei fatto?».
E così la vita di Chiara ha preso la sua direzione che l’ha spinta oggi a confrontarsi con i luoghi comuni che si sono fatti sempre più spazio negli ultimi venticinque anni, ha scelto di fare un libro divulgativo, con un titolo provocatorio, non per storici, ma per tutti.





«Oggi il discorso contrario alla Resistenza è radicatissimo, ha trovato la sua capacità di saltare il fosso della memoria neofascista e di diventare di più ampia diffusione all’inizio degli Anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica. In questa nuova fase si è fatta strada l’idea che l’antifascismo e la Resistenza non potessero più essere il punto di legittimazione della Repubblica e oggi viviamo immersi in un clima che dà pessimi segnali. Se sia fascismo o no, quello che torna non lo so, ma quello che colgo è un clima che non mi piace. Non nasce dalla denigrazione della Resistenza ma è qualcosa di più complesso, è come se si fossero rotti gli argini e così, ora, è possibile fare affermazioni e dire cose che non si sarebbero mai immaginate. Penso ai discorsi razzisti prima di tutto».
Così Chiara è ripartita da lontano e nel suo libro in ogni capitolo affronta una delle accuse mosse ai partigiani, una delle semplificazioni utili a sporcare e denigrare: “Erano tutti rossi”, “Inutili e vigliacchi”, “La violenza è colpa loro”, “Rubagalline”, “Assassini”.
«Nel confrontarmi con i luoghi comuni non cercavo delle giustificazioni e nemmeno di santificare i partigiani, ma volevo raccontare una storia fatta da esseri umani, che ovviamente non erano perfetti e avevano insieme contraddizioni, slanci meravigliosi e limiti. Quello che io amo ricordare è che ci sono state persone che nel momento più nero della disperazione di una guerra di occupazione, dopo vent’anni di dittatura, abbiano trovato un motivo per reagire e il coraggio di salire in montagna».


Una lapide commemorativa nel territorio di Mango (CN). Tre dei contadini qui ricordati, catturati in un rastrellamento dalle truppe nazifasciste e poi fucilati, avevano solo 16 anni


Leggendo il libro di Chiara Colombini e parlando con lei ci si rende conto che tutto il revisionismo, le accuse e i famosi luoghi comuni partono da un dato falsato: si dimentica che c’erano i nazisti, si dimenticano le atrocità della guerra. «Questo è l’elemento fondamentale dei giudizi liquidatori: l’azzeramento del contesto storico e il tentativo di giudicare il passato con il metro dell’oggi. Se non si capisce quale era la situazione, allora la scelta armata è inconcepibile».
Per ripartire davvero dall’inizio, come fa quando incontra i ragazzi delle scuole, è necessario rispondere alla domanda su chi fossero i partigiani: «Erano persone molto diverse tra loro, per provenienza sociale, politica, geografica e con idee spesso opposte sul presente e sul futuro, ma che in un momento di grandissima precarietà e incertezza, in un momento in cui la sopraffazione era legge, hanno reagito. Certo sono stati una piccola minoranza i partigiani in armi, ma più grande era l’area che li sosteneva. Una larga parte era rappresentata dai più giovani, c’erano anche trentenni e quarantenni con una formazione politica alle spalle, già antifascisti o che lo erano diventati nel corso della guerra ma soprattutto tanti ragazzi, nati e cresciuti sotto il fascismo e senza un’idea politica ben precisa. Uno degli aspetti che mi affascina di più è questa natura composita così ricca. E non erano tutti comunisti. Certo la risposta al luogo comune non deve portare a sminuire il ruolo delle Brigate Garibaldi, che erano la metà dei combattenti, ma è scorretto stabilire un rapporto organico tra formazioni partigiane e partiti politici».


Dalla Cascina Langa la vista spazia su tutta la pianura cuneese e sul Monviso


Ogni storia ha un luogo di elezione, un punto in cui le cose sembrano avere un senso più nitido e vero, per Chiara quel luogo è la Cascina Langa narrata da Fenoglio nel Partigiano Johnny, si trova a 700 metri d’altezza tra i paesi di Benevello e Trezzo Tinella, da qui si apre un panorama mozzafiato su tutta la pianura e sulla corona delle Alpi. Per il partigiano Johnny quella cascina solitaria era un rifugio, il luogo degli amici e della cagna lupa.
Anch’io, quando un giorno ci sono arrivato, portato da Angelo Gaja che voleva farmi capire l’essenza dell’Alta Langa, mi sono innamorato di quel luogo e ho riletto lo scrittore che imparai ad amare all’università per quella sua lingua asciutta ed essenziale che definisce alla perfezione ogni cosa.


  stavolta    oin sottofondo  non  c'è una  canzone    ma  un intero  album

Appunti Partigiani” - Modena City Ramblers.

25.4.21

Sicilia. La radio le proibisce di parlare di 25 aprile. Speaker oriana civile lascia il programma

 da   https://www.tp24.it/ del  25\4\2021 Sta spopolando in queste ore il video di Oriana Civile, speaker e conduttrice radiofonica siciliana, che ha abbandonato il suo programma perchè non le hanno concesso di parlare del 25 Aprile. "Se non posso parlarne allora sono nel posto sbagliato". La sua trasmissione, che va

in onda due ore al giorno dal lunedì al venerdì su una radio locale di Capo d’Orlando, Radio Italia Anni ’60.                                                       
 In un video pubblicato su Facebook annuncia che quella di ieri era la sua ultima puntata  “Spazio Civile”, questo il nome del programma, in cui ha denunciato la censura sulla festa della Liberazione. “Era un argomento che avrebbe troppo politicizzato la trasmissione. Mi hanno detto che potevo farne un accenno ma non più di 15 minuti perché troppo politicizzato”. Una limitazione inaccettabile, e ingiusta, che ha portato la giovane speaker a chiudere il microfono. 


 dal il IFQ  stessa data 

 Se non posso parlare di 25 aprile allora sono nel posto sbagliato e sono soprattutto la persona sbagliata per questo posto”. Oriana Civile, speaker e conduttrice radiofonica,è sicura, la sua trasmissione, che va in onda due ore al giorno dal lunedì al venerdì su una radio locale di Capo d’Orlando, Radio Italia Anni ’60, non andrà avanti perché non ha potuto parlare del 25 aprile.



 “Due ore in cui parlo un po’ di tutto. Ogni giorno scelgo un argomento e lo sviluppo. Parlo soprattutto di musica tradizionale siciliana, di cui sono esperta. Ma ho parlato di legge Zan, oppure di Francesco Lo Sardo, mio concittadino primo comunista alla Camera”, spiega lei al Fattoquotidiano.it, dopo avere pubblicato su Facebook un video della sua ultima puntata di “Spazio Civile”, questo il nome del programma, in cui annuncia la fine della trasmissione e denuncia la censura sulla festa della Liberazione. “Era un argomento che avrebbe troppo politicizzato la trasmissione. Mi hanno detto che potevo farne un accenno ma non più di 15 minuti perché troppo politicizzato”, racconta. Ma Civile non ha accettato: “È inaccettabile che non possa parlare della Liberazione. E la mia non è una battaglia contro la Radio ma contro il sistema di informazione tutto, che con leggerezza liquida il 25 aprile come argomento di sinistra”. Per questo ha detto basta: “Sì, lascio la radio. Non posso accettare di non parlare di 25 aprile. Proprio impossibile”.

25.4.20

storia di resistenza ieri ed oggi

iniziamo  da  questi  4  giocatori   della nazionale  italiana   oro  olimpico  del 1936 che  rifiutarono  , gesto  rivoluzionario e  da isolamento  sociale    sotto il fascismo e poi passarono alla resistenza  storia presa  da il venerdi  di repubblica  e    riportata  dal libro 

CUORI PARTIGIANI – Edoardo Molinelli

La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana

Cosa hanno in comune Giacomino Losi da Soncino, detto “core de Roma”, secondo solo a Totti e a De Rossi per presenze con la maglia giallorossa, e Raf Vallone, definito “l’unico volto marxista del cinema italiano” per la sua carriera cinematografica eppure anche capace, da calciatore, di alzare la Coppa Italia vinta dal Torino nel 1936?
Cosa rende simili l’attaccante Carlo Castellani, bandiera dell’Empoli, e il mediano Bruno Neri di Faenza, nel giro della nazionale dopo aver militato nella Fiorentina e nel Torino?
Tutti questi atleti, non c’è dubbio, presero a calci un pallone nemmeno lontanamente paragonabile alla sfera non più di cuoio con cui al giorno d’oggi si gioca negli stadi di tutto il mondo. Ma oltre a questo, tutti loro, mentre sull’Italia fischiava il vento e infuriava la bufera dell’occupazione nazifascista, compirono la stessa scelta fatta allora da migliaia di ragazzi nel paese: lasciarsi tutto alle spalle per imbracciare il fucile e combattere contro tedeschi e fascisti. Inizia in questo modo la storia mai raccontata dei Campioni della Resistenza: calciatori-partigiani come Armando Frigo, capace di segnare una doppietta con un braccio mezzo ingessato in un memorabile Vicenza-Verona 2 a 0 e poi fucilato dai tedeschi dopo aver eroicamente difeso il passaggio montano di Crkvice, in Jugoslavia; o come la bandiera lariana Michele Moretti, comunista e membro del gruppo partigiano che il 28 aprile del 1945 giustiziò Benito Mussolini in nome del popolo italiano.
Le gesta dei calciatori partigiani, raccontate con sapiente partecipazione da Edoardo Molinelli, attingendo al cuore del più popolare tra gli sport, danno un contributo speciale alla stessa comprensione della Resistenza come fenomeno di massa. E, finalmente, iscrivono la vita vera dei grandissimi ma spesso misconosciuti protagonisti di questo libro a una sola, grandissima squadra: quella che si riconosce nei colori della giustizia sociale e della libertà.
EDOARDO MOLINELLI - Pratese, classe 1981, scrive di calcio e politica su Minuto78. Fondatore e curatore del primo blog italiano dedicato all’Athletic Club di Bilbao, ha pubblicato per Hellnation Libri – Red Star Press il volume Euzkadi. La nazionale della libertà (2016).
Hellnation Libri
Pagine: 246
Formato: 13x20 brossurato con bandelle
Isbn: 9788867182206







la seconda è questa raccontata anche in una canzone scritta da Ligabue per i Modena City Ramblers  che  per  una   strana    coincidenza   sta passando  ora  fra le  canzoni  di youtube  che  sta ascoltando  e di cui  riporto  insieme  all'articolo il  video

Resistenza e memoria. Germano Nicolini, il Diavolo dal cuore buono

Centenario, è il partigiano di Correggio cantato da Ligabue: lo chiamarono così quando lo videro seminare i tedeschi che lo inseguivano. Divenne il suo nome di battaglia. L’intervista di Gad Lerner oggi nello speciale 25 Aprile sul sito di Repubblica




Lo chiamano "dièvel", diavolo, non per mirabolanti strategie militari o per l'astuzia nascosta nella coda del demonio, ma perché la mattina del 31 dicembre del 1944 lo videro fuggire tra i boschi di Correggio con la rapidità d'un furetto. Dietro la sua bicicletta che volava a zig zag, i soldati tedeschi lanciati all'inseguimento. "Ma l'è prôpi un dièvel!", è proprio un diavolo, dissero due contadine nascoste in cascina. E da allora Germano Nicolini è rimasto il "Comandante Diavolo", a dispetto della fibra morale e del suo destino di eroe buono.
Non perse il leggendario epiteto neppure quando fu sbattuto in galera nel 1947 con l'accusa platealmente infondata di aver assassinato il parroco della sua città, proprio lui che conosceva il significato profondo dell'esser partigiani, portare la vita non la morte, la solidarietà non la prevaricazione. E ora centenario, la passione ancora integra e il gesto irrequieto non addomesticato dal tempo, continua a testimoniare la sua incredibile vicenda, già celebrata da una canzone scritta da Ligabue per i Modena City Ramblers.



"Mi considerano un pezzo della storia italiana. Può darsi. Quel che è sicuro che ho passato dieci anni in galera da innocente. Ma non ho smesso per un secondo di essere l'unica cosa che sono: un antifascista, un democratico, un partigiano resistente che doveva resistere".
Quella di Germano Nicolini è una delle quattrocento testimonianze raccolte da Laura Gnocchi e Gad Lerner nel meritorio lavoro dedicato ai ragazzi che nel 1943 furono chiamati a una scelta estrema (Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, prefazione di Carla Nespolo, Feltrinelli; la clip dedicata al comandante Diavolo sarà trasmessa oggi pomeriggio su Repubblica Tv).
Una memoria che nella sua eccezionalità racconta molto di noi, di un'Italia che fin dal dopoguerra ebbe un rapporto inquieto con i resistenti: talvolta incompresi, tenuti ai margini o, come in questo caso, perseguitati da una giustizia ingiusta. E colpisce il filo esistenziale che tesse il racconto di Nicolini, la scelta del partigianato nata dalla vicinanza con gli ultimi, e rinnovata nel tempo dal patto morale stretto allora con i suoi compagni. È grazie a loro se ha resistito a testa alta "quando si è cercato di infangare una pagina luminosa della nostra storia". Ed è sempre grazie a loro che non si stanca di raccontare, "soprattutto oggi che si riaffaccia il cupo richiamo dell'autoritarismo".
Come il nome, anche la sua storia è carica di rovesciamenti romanzeschi, perché tutto ci si può aspettare ma non che il Comandante Diavolo, capo del terzo battaglione della 77esima Brigata Sap "Fratelli Manfredi", abbia subìto per quasi cinquant'anni lo stigma dell'assassino. Perché Germano era uno che detestava la violenza, "e se in molti credono che la Resistenza sia stata un fatto solo militare sbagliano, perché noi abbiamo preso le armi per difendere la popolazione". Credeva nelle leggi, Germano, "quelle del diritto e della sacralità della vita". E quando a guerra finita cominciò a respirare una brutta aria nelle sue zone, in Emilia, in quello che si sarebbe chiamato "il triangolo della morte", si adoperò per contenere in alcuni dei suoi compagni le tentazioni di giustizia sommaria. "Se si comincia a dire "ci facciamo giustizia da noi", la violenza prende il posto dell'ingiustizia. E la democrazia è più importante della rappresaglia".
Subito dopo la Liberazione fu nominato dagli americani reggente di Correggio. E fu in quei giorni che riuscì a compiere un piccolo miracolo, mai più ripetuto nel lunghissimo dopoguerra: una "mensa del reduce e del partigiano" dove potevano mangiare tutti allo stesso tavolo, resistenti ed ex fascisti repubblichini, a condizione che questi non avessero mai sparato o commesso reati.
Riuscì ad allestirla in poco tempo, facendosi dare i soldi dalle famiglie benestanti che avevano finanziato l'esercito di Mussolini. Cominciò così "il pranzo della conciliazione", che non era parificazione o confusione o smarrimento del senso storico, ma un modo per dimostrare "che era possibile non comportarsi come loro, spargendo odio e terrore". Sempre negli stessi giorni, durante un'ispezione nel carcere di Correggio, riuscì a sventare un assalto partigiano, salvando la vita a sei detenuti ex repubblichini. Alcuni di loro avrebbero testimoniato a suo favore nel processo per il delitto di don Pessina. Ed eccoci al fattaccio, che è storia conosciuta. Con la colpevole complicità della chiesa cattolica e del Pci, nel 1947 Germano Nicolini, ormai divenuto sindaco comunista di Correggio, viene processato e condannato per l'assassinio di don Umberto Pessina, il parroco di San Martino ucciso l'anno prima dai proiettili di tre ex partigiani. Tutti sapevano - o avrebbero presto saputo - che Germano non c'entrava niente. Lo sapeva il vescovo di Reggio Emilia, che però non l'amava perché cattolico passato con i rossi. Lo sapeva il Partito, che però non l'amava per lo spirito libero e gli propose di espatriare in Cecoslovacchia, insieme ad altri partigiani invischiati nelle violenze. Ma lui fu fermo nel rifiuto: alla fuga preferiva il carcere, soprattutto per dimostrare la sua innocenza. Dei 22 anni di pena, Germano ne trascorse in cella dieci, ma solo per via dell'indulto. Per ottenere l'assoluzione piena dovette aspettare il 1994. Dopo 47 anni, il comandante Diavolo ha potuto riavere indietro le sue mostrine militari. E le scuse dello Stato italiano.
Ora la sua lunga e complicata resistenza può raccontarla ai più giovani. E a loro ripete le parole con cui l'aveva salutato il suo amico Giacomo, ucciso dalle Brigate Nere: "Non dite che siete scoraggiati, che non ne volete più sapere. Pensate che tutto è successo perché non avete voluto più saperne"

  

ma  veniamo all'oggi 



mentre  mi apprestavo   a concludere   il post  d'oggi  apprendo    da  questo video





 quest'altra storia 

  da  http://www.gliocchidi.it/persone/ida_e_augusta


Ida e Augusta


Fotografia di Augusta Ludescher, anni Trenta
Ida Roser: Germania 1885  Gombio, 1956

Fotografia di Ida Roser, anni Quaranta
Augusta Ludescher: Germania 1881 - Gombio 1950)
La targa che ricorda Ida Roser e Augusta... - Spartiti - Jukka ...Siamo Ida e Augusta, le due tedesche di Gombio. Non crediamo di meritarci tutta questa attenzione. Abbiamo fatto solo quello che tutti dovrebbero fare: ricordare che non siamo bestie. Sia che si tratti di una vita umana, di un fiore o di una frittata.E a me, che sono Augusta, che sono passata da Berlino a Gombio per amore di Narciso Piazzi, non mi è parso di fare nulla di eccezionale, quando quel tedesco mi è entrato in casa. Stavano rastrellando e ci avrebbero ucciso tutti. Però una frittata è una frittata e non si entra in casa della gente senza chiedere permesso e si inizia a mangiare il cibo altrui. Allora l’ho detto ben chiaro “Lazzarone, è così che ti hanno insegnato l’educazione”. L’ho detto in tedesco, la mia lingua, e a lui non sembrava vero. Sentire la voce di sua madre, della sua maestra, della sua sorella. Di sasso.Trovare in quella povera casa in quel piccolo paese una donna che parlava la sua lingua. E lui ha chiamato il comandante. E il comandante si è messo a parlare con me e poi ha chiamato anche Ida. Due donne tedesche in quell’angolo di mondo. Abbiamo parlato e parlato e alla fine se ne sono andati. Non hanno ammazzato nessuno. Abbiamo salvato il paese.Ma lo sapete anche voi che, in fondo, non si è trattato della frittata. A volte basta la voce di una donna per fare ricordare che nessuno è nato carnefice. Che nelle vite di ognuno di noi c’è stato un sorriso o una gentilezza. Un momento in cui ci siamo pensati migliori di quello che siamo diventati. Un momento per una speranza o per una frittata. Noi non siamo eroine. Siamo solo le due tedesche di Gombio. Sorridete, quando ci guardate negli occhi. E lavatevi le mani prima di andare a pranzo.







25.4.17

nonostante sia antisionista e pro palestina io sto con la brigata ebraica

nonostante io sia contro ( ma anche se con titubanza lo riconosco perchè prmai esiste ed è storia ) per come si è arrivati 




Un film indipendente di Ronen Berelovich è la storia storia del sionismo e dell'applicazione pratica di questa ideologia nella creazione dello stato di Israele
La pulizia etnica,il colonialismo e l'apartheid usati verso la popolazione palestinese


. io sto E NON SONO DEL PD , con la brigata ebraica . poerchè un conto è essere antisionisti un altro ed è questo che è vergognoso essere antisemita

4.3.15

Enrico Angelini combattè sui monti intorno a Foligno insieme alla V Brigata Garibaldi dio 90 anni cancella Svastica sul muro del rifugio della Resistenza

Svastica sul Rifugio della Resistenza
E il partigiano 90enne va a cancellarla

 «Un’offesa insensata, chi l’ha fatto ignora la nostra storia»

di Federica Seneghini


Enrico Angelini, 90 anni, mentre cancella la svastica dal muro di cascina Raticosa (foto da Twitter/@spicgil)
.)
Angelini, 90 anni, mentre cancella la svastica dal muro di cascina Raticosa (foto da Twitter/@spicgil)
Su quelle montagne, nella notte tra il 2 e il 3 febbraio 1944, 24 giovani partigiani furono catturati dai nazisti. Alcuni di loro furono spediti a Mauthausen, altri a Flossenbürg. Dove morirono. Una storia che in pochi ricordano, che molti non conoscono. Enrico Angelini invece sì. Perché era lì. Aveva 19 anni e su quei monti tra Foligno e Trevi, in Umbria, tra il 1944 e il 1945 combattè i nazifascisti insieme ai compagni della V Brigata Garibaldi. Per questo quando martedì il vecchio partigiano, oggi 90enne, ha saputo che qualcuno si era portato via la targa ricordo messa fuori da cascina Raticosa, uno dei luoghi simbolo della Resistenza della zona, imbrattandone poi i muri con una svastica, è voluto andare di persona a cancellarla. Quando è arrivato lì davanti ha pianto. Poi, sverniciatore in una mano e raschietto nell’altra, ha ripulito tutto.
«Riaffermare il valore della memoria storica»

La targa portata via dai vandali (Ansa)
                                           La targa portata via dai vandali (Ansa)
«Spero solo che a oltraggiare questo luogo sia stato qualche giovane esaltato, che magari ignora la nostra storia, e che faccia in tempo a ravvedersi», ha detto Angelini al quotidiano Foligno Oggi. «Chiunque sia stato ha tentato di cancellare la storia recente della nostra città. Io, invece, ho voluto semplicemente cancellare un’offesa insensata, per riaffermare il valore della memoria storica, nella speranza che la targa commemorativa sia presto rimessa al suo posto». Nel frattempo, per ricordare il sacrificio dei tanti partigiani morti su quelle montagne per restituire al nostro Paese la libertà, rimarrà una rosa rossa. Il fiore lasciato del partigiano Enrico.

19.5.14

«Insegniamo ai giovani la passione per la libertà»

.
Molti mi diranno   guarda  che il  25  aprile   era  il mese  scorso  , ma  io ne  infischio  e le riporto lo stesso , perchè   non perda il ricordo degli eventi  .Ma  soprattutto  perchè  : 1)  la  guerra  di liberazione  \    la resistenza ne bene  e   nel  male  è l'ossatura del nostro paese    ed  è collegata  al  2  giugno  ovvero alla nascita  della  repubblica  ., 2)  perchè non si ripeta mai  più ,  la  vicenda  narrata  nel film l'onda  dimostra  come sia possibile  , un altra  dittatura  .  
 ti potrebbe intreressare  
http://it.wikipedia.org/wiki/Lidia_Menapace


da la   nuova  sardegna   online  del 19\5\2014


di Anna Sanna

All’Università di Sassari la presentazione del libro “Io partigiana”. «Inclusione e pacifismo le linee guida per costruire la democrazia del futuro».


Lidia Menapace
SASSARI. Staffetta partigiana, classe 1924, nome di battaglia “Bruna”. Impegnata nell’associazionismo cattolico e fondatrice del Manifesto. E poi senatrice della Repubblica, pacifista e femminista militante. Lidia Menapace arriva a Sassari per presentare il suo ultimo libro “Io, partigiana. La mia Resistenza”. L’appuntamento è domani alle 17.30 nell’Aula magna dell’Università di Sassari: l’incontro è organizzato dall’Anpi (l’Associazione nazionale partigiani d'Italia), Comitato provinciale di Sassari. In “Io, partigiana”, Lidia Menapace racconta la sua Resistenza, i tanti episodi di eroismo personale e collettivo. Il suo impegno continua ancora oggi nel Comitato nazionale dell’Anpi e nelle lotte che ogni giorno porta avanti, perché «nuove forme di assolutismo e di oppressione sono possibili, per cui è sempre attuale una nuova Resistenza».

C’è stato un momento determinante in cui ha capito che doveva fare qualcosa contro il fascismo e il nazismo ?
«Il fatto che mio padre, che era stato richiamato in servizio nell'estate del 1943, sia stato deportato come Imi (internati militari italiani n.d.r.) nei campi di concentramento in Germania, mi impose moralmente di fare qualcosa di pratico e non solo di pensare e parlare contro il nazifascismo. Considero il rifiuto di aderire alla Repubblica sociale italiana da parte di circa 800mila militari italiani deportati in Germania, forse la maggiore espressione della Resistenza da parte del popolo italiano. Essi resistettero pur essendo sottoposti a continue richieste di aderire alla Repubblica di Salò, per poter tornare a casa: rifiutarono, con gravissimi rischi, se si pensa che circa 80mila di loro morirono in prigionia».

un gruppo di partigiani nella  Val d'Odossola


Il suo libro è rivolto alle ragazze e ai ragazzi. Le testimonianze della Resistenza come possono aiutarli a orientarsi nel mondo di oggi?
«Conoscere è la prima e più importante premessa del capire e avere elementi per decidere. Se le generazioni che seguirono quella resistenziale nulla sapessero di quegli anni, non potrebbero nemmeno accorgersi se nuovi pericoli di autoritarismo e involuzione del livello di libertà politica dovessero affacciarsi nel nostro paese enel mondo. Sull'ignoranza non si costruisce nulla di degno».

Il contributo delle donne alla lotta di liberazione è stato fondamentale.
«La presenza delle donne fu effettivamente essenziale, ma avvenne in forma di emancipazione. Il movimento di emancipazione fu bloccato dal fascismo e l'Italia rimase indietro rispetto ad altri paesi europei, così si dovette ricominciare: il cammino fu lungo e aspro e non è terminato. Comunque l'esperienza resistenziale fu una grande scuola di emancipazione, avvenuta in circostanze dure e difficili».

Nel libro l’immagine della Resistenza è ben poco militare. Lei per scelta non trasportava armi, e gli atti eroici che racconta sono quelli della gente comune.
«Pensare di narrare la Resistenza come l'ultima guerra del Risorgimento è sbagliato, credere di poter narrare la "memoria condivisa" di un evento che non fu condiviso è addirittura un falso storico e una strumentalizzazione. Se si interrogano coloro che fecero la Resistenza si avranno narrazioni di pericoli, sacrifici, fame, freddo, torture, stragi, non di campi di battaglia separati dalle città e dalle campagne: la guerra arrivò dentro casa, e costrinse tutte e tutti a fare i conti con ciò che avveniva e con la propria responsabilità. Su tutte queste esperienze si formò una coscienza collettiva che si diffondeva clandestinamente e continuamente».

Il suo impegno non si è fermato a quegli anni e continua ancora. Cosa significa costruire la libertà e la democrazia oggi ?
«La democrazia è sempre in costruzione, dato che l'orizzonte dei diritti e delle libertà si espande e rinnova. In primo luogo credo sia necessario usare un linguaggio inclusivo, dato che il linguaggio è lo strumento più significativo dell'appartenenza alla specie umana: bisogna sempre dire donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini. Inoltre, se si vuole respingere la nota affermazione di von Clausewitz, secondo la quale "la guerra è la politica continuata con altri mezzi", bisogna mettere tra politica e guerra uno stop assoluto, dire che ripudiamo la guerra perché vogliamo un mondo nel quale le relazioni tra persone vengano regolate dal diritto, non dalla guerra. Inoltre, poiché il modo capitalistico di produrre nuoce al pianeta, bisogna costruire una alternativa di sistema fondata su relazioni ricche, belle, nonviolente. I tre problemi fondamentali sono dunque l’enorme diseguaglianza tra i generi nel mondo, il pericolo di guerra e la salvaguardia della natura».

Cosa pensa delle recenti proposte di riforma del Senato e della legge elettorale? Secondo lei sono in linea con gli intenti delle madri e dei padri Costituenti ?
«Sono contraria alla proposta di controriforma del Senato, che accresce l'area di chi esercita un potere senza essere eletto/a. Se l'assetto costituzionale appare farraginoso perché ripetitivo, si può modificare la distribuzione delle competenze tra Camera e Senato, o ridurre il numero e i compensi degli elett/e. Sia la questione del Senato sia la legge elettorale, che offre premi a chi non raggiunge nemmeno lontanamente la maggioranza dei voti, sono opposti allo spirito con il quale lavorarono i padri e le poche madri costituenti. Se comunque un articolo deve essere modificato o meglio cancellato, è l'articolo 7 che costituzionalizza il Concordato e conserva privilegi inammissibili per la chiesa cattolica. Sono molti i paesi cattolici che non hanno concordato e i paesi democratici di solito non lo hanno, dato che la libertà religiosa è ormai considerata una delle fondamentali».

25 Aprile, Alfredo, Angelo e Mariano: le storie dei finanzieri che liberarono l'Italia

La Guardia di Finanza ha deciso di festeggiare il 25 aprile con le testimonianze dei familiari di ufficiali e sottoufficiali che collaborarono alla liberazione dell'Italia. Tra le storie raccontate, quella del brigadiere Mariano Buratti, che formò una cellula di partigiani nella Capitale; o il tenente Angelo Gracci, tra i primi a entrare a Firenze il giorno della sua liberazione; e, ancora, il generale Pasquale Debidda, che murò una bandiera tricolore nei sotterranei della scuola Allievi della Guardia di Finanza di Roma per sottrarla alla furia nazista


Prodotto dal Comando Generale della Guardia di Finanza. Direzione editoriale Vito Augelli. Scritto e diretto da Piergiuseppe Cananzi


emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...