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14.7.25

IL FALSO NAZIONALISMO \ SOVRANISMO E ASSERVIMENTO AGLI USA. OSANNO TRUMP MA DIMENTICANO JANNIK SINNER È IL PRIMO ITALIANO CHE VINCE A WIMBLEDON !

È il primo italiano, uomo o donna, a riuscirci in 135 anni di Storia. Il primo di una serie di record che ancora fatichiamo a immaginare.In una sola partita ha rotto la maledizione Alcaraz, dopo cinque sconfitte consecutive.


Ha vinto il suo primo Slam fuori dal cemento.Se lo merita, per tutto quello che ha dovuto subire. Per i tre match point di Parigi. Per tutto quello che ha dovuto ingoiare. Il tutto in una stagione assurda in cui ha giocato (ingiustamente) tre mesi in meno sbagliando realmente solo una partita. In una sola partita ha rotto la maledizione Alcaraz, dopo cinque sconfitte consecutive.Ha vinto il suo primo Slam fuori dal cemento.Se lo merita, per tutto quello che ha dovuto subire. Per i tre match point di Parigi.

Per tutto quello che ha dovuto ingoiare. Il tutto in una stagione assurdaOrgoglio e gratitudine per questo campione immenso - IMMENSO - che è solo all’inizio della sua parabola sportiva e umana.alla faccia di tutti gli improvvisati e i mestatori d’odio.La vergogna di questo paese non c’è nessun politico italiano a supportarlo a Wimbledon per Alcaraz si sono mossi i reali di Spagna !! - Quindi non lo biasimo più di tanto se non è andato a San remo o al Quirinale . .... mi fermo qui non voglio farmi chiudere anche iul blog , mi è bastato il primo account facebook redbepppeulisse1 . È vergognoso che la Rai ( le sue RAI 1 2 3 Rai sport non abbiano dato questa partita in chiaro. Non tutti possiamo permetterci Sky. Sono FURIOSO!!😡🤬 MA 🤔 forse porta bene essere senza sostenitori ufficiali 🤞🏻🍀😁 vediamola così 💪🏻 Erano tutti in ginocchio da Trump a ..... compiacerlo !!! .

Infatti Ieri  Donald Trump, da gangster qual è, ha rovesciato indiscriminatamente il 30% di dazi sull’Europa.E sì, l’Italia dell’”amica” Meloni non fa eccezione.Per mesi la Presidente del Consiglio ha magnificato tutte le visite bilaterali con gli Usa come grandi successi diplomatici, rivendicato l’amicizia con Trump, invitato tutti a trattare, ad assecondarlo su ogni richiesta (a cominciare dal 5% si spese militari Nato), a lisciargli il pelo in ogni modo degno e meno degno.Ecco i risultati della trattativa.Una bastonata commerciale senza precedenti.Di fronte a cui Meloni oggi ha ancora il coraggio di rispondere invitando tutti a “evitare ritorsioni”.La verità è che i Meloni, i Salvini, le Le Pen, gli Orban, i sovranisti europei, non sono altro che gli utili camerieri di Trump per scardinare l’Europa dall’interno.E il piano sta perfettamente riuscendo.Eccola la “patriota” in alta definizione.
Si è solo dimenticata di specificare di quale patria se  quella Italiana  o  a quella  Americana  ,
 visto    che   due  settimane     tutti e quattro, nessuno escluso, in tiro, davanti alla bandiera, per celebrare il “Giorno dell’Indipendenza”, Salvini addirittura con la cravatta rossa trumpiana per omaggiare il suo capo.Eccoli, i “cheerleader


Se celebrassero il 25 aprile, giorno della Liberazione italiana, con un centesimo dell’entusiasmo con cui celebrano l’Indipendenza americana, sarebbe un Paese almeno decente





17.5.25

La strada giovane quella che conduce a casa, nel romanzo d'esordio di Antonio Albanese

Siti consultati  

un tema noto e stranoto  anche agli analfabeti funzionale a gli politici ( i nuovi indifferenti )  quello raccontato da Antonio Albanese ne la strada giovane suo primo romanzo . Esso è Raccontato in maniera sagace ed ironica. Un'opera intensa ed emotivamente coinvolgente , un e profondo Romanzo breve e scorrevole, ispirato a una storia di famiglia dell’autore .  La strada giovane risulta un’opera pulita e bella, commovente, per cui è facile immaginare anche un impiego scolastico, o un pubblico di lettori coetanei del protagonista, con cui inevitabilmente finiranno per empatizzareed  immedesimarsi  .
Infatti è difficile - come  fa  notare quest articolo  recensione : << La strada giovane quella che conduce a casa,nel romanzo d'esordio di Antonio Albanese >> del    sito CriticaLetteraria - raccontare  senza spoillerare   svelare troppo la trama del romanzo di esordio di Antonio Albanese 
Si può dire, però, che la strada è giovane, come giovane è  un’Italia che deve rinascere dalle ceneri della guerra, un’Italia ferita, disillusa, travolta dai detriti, assordata dai bombardamenti e dilaniata da una lotta fratricida .
Contrapposta alla complessità scaturita dalla violenza, la semplicità è un valore agognato, che Nino ( il prtagonista in questione )  associa inevitabilmente al profumo e alla consistenza del pane, prodotto nel forno di famiglia e miraggio fin dalla prima pagina. E' semplice e pulita è anche la narrazione, che vuole essere una carezza in mezzo alle asperità che descrive, perché racconta non solo della guerra e dell’impronta che lascia sul territorio, e sulle genti che lo abitano, ma di un ritorno a casa.
<< L’uomo stava facendo una cosa semplice, così semplice che ci voleva solo un po’ di latte, un po’ di caglio, un po’ di tempo. Così semplice che avrebbero dovuto poterla avere tutti, anche lui, al posto della fame, della guerra, della morte. […] Era normale avere tutto questo e non era giusto non averlo. (p. 80) >>
Il viaggio di Nino segna le tappe di un romanzo di formazione, fatto di disillusioni e bruschi risvegli, ma anche continuamente sorretto da una speranza che si nutre di ricordi – baleni improvvisi che emergono da un passato lontano e allungano la propria luce a rischiarare un presente oscuro. Lungo il viaggio, il ragazzo cambia aspetto, ma anche modo di pensare, e inizia ad avvertire e a dar voce a emozioni più strutturate, meno elementari: l’incredulità, l’ingiustizia, il senso di smarrimento, o di tradimento. Inizia a comprendere, per esperienza diretta, i meccanismi complicati di quella politica di cui non gli è mai importato molto, perché ne vive gli effetti sulla propria pelle. In ogni circostanza, però, cerca di non perdersi, né fisicamente, né spiritualmente: di non permettere che, nonostante i necessari compromessi, la guerra lo renda «troppo difettoso», di mantenere da qualche parte, anche se nascosto, il suo «sorriso di ragazzo».Esso   è   ispirato a una storia di famiglia dell’autore, come dichiara  l'autore  a  questa  presentazione


La strada giovane risulta un’opera pulita e bella, commovente, per cui è facile immaginare anche un impiego scolastico, o un pubblico di lettori coetanei del protagonista, con cui inevitabilmente finiranno per empatizzare.L’autore mescola con efficacia la tensione del viaggio con la dolcezza struggente della memoria, evocando scene della giovinezza di Nino: la festa del Santo a Ferragosto, il profumo dei biscotti del padre, la Targa Florio, i babbaluci in umido, e i baci di Maria Assunta. Queste immagini diventano ancore emotive, che danno al protagonista forza per continuare. Anche un gesto semplice come mangiare un pezzo di pane riacquista valore simbolico, un ritorno alla vita e alla dignità. Il titolo, La strada giovane, ha un doppio significato: è la via percorsa da un ragazzo che diventa uomo tra le ferite della guerra, ma è anche la strada percorsa dalla memoria, che cerca di rimanere giovane attraverso il ricordo. Albanese dimostra un sorprendente talento narrativo, unendo la durezza del dramma con una delicatezza umana che conquista. Eco  un   altro  esatratto    significativo  che  è  la sintesi   del  romazo  :

“Addentandolo, Nino non riuscì più a trattenere il pianto, perché quello, per quanto secco, era pane vero, il primo che mangiava da settimane, da mesi, da prima di finire internato. Non sapeva ancora di casa, quel pane, ma almeno non sapeva di cenere.”

Si dice spesso che della Seconda Guerra Mondiale si è raccontato ormai tutto, ma credo che un avvenimento così totale e ancora recente possa essere a tutt’oggi fecondo di storie. D’altra parte abbiamo ancora tantissimi testimoni oculari e ottimi custodi di aneddoti. Il senso de La strada giovane è presto detta: c’è il ragazzo Nino che diventa uomo, passo dopo passo, dal freddo del capodanno austriaco al caldo dell’estate del Mezzogiorno, passando per amici perduti, fughe dalla morte più o meno accidentale, sconforto e la vera fame. Già, la fame: è una delle forze primitive che ci muovono – ancora oggi – e Antonio Albanese la descrive in modo molto brutale e realistico. Il viaggio di Nino è così disperato che riesce a scrollarsi di dosso ogni aspettativa per trovare la giusta propulsione per superare tedeschi, partigiani, americani e qualsiasi ostacolo incontri. Si riesce a empatizzare  ed  aidentificarsi  \  immedesimarsi col protagonista e questo è fondamentale.  Come la Recensione  di NAUFRAGAR.IT Sono due i dettagli che mi hanno convinto di meno. Il primo è l’estrema brevità della storia (letta in meno di un’ora e mezza, nottetempo, svegliato dai postumi delle libagioni pasquali), condensando passaggi che forse avrebbero meritato qualche pagina in più. Certo, la sintesi è sempre preferibile alla grafomania, ma a volte avrei voluto rallentare un po’. Secondo e più importante: manca del tutto un momento di vera leggerezza, di gioia, una risata e questa è una grossa assenza. Affinché una storia sia completa deve a mio avviso abbracciare luci e ombre, voragini abissali e nuvole bianche quasi trasparenti. I colori sono più intensi quando lo sfondo è nero anziché bianco. Probabile che Antonio Albanese, in quanto formidabile comico, abbia voluto forzatamente rimanere in un’atmosfera cupa, ma è solo una mia ipotesi per carità. Detto questo,la  lettura   è stata una piacevole sorpresa  un modo originale   e sagace   nel trattare   ipersfruttato  e  che  ancora  non  è  stato consegnat al  passato   e  su   a cui  ancora   cisi continua  a  dividere  e   scontrare  nonostante  siano passati  quasi  100 anni 

25.4.25

oggi 25 aprile smontiamo le balle tipo : anche i parti.giani però .... e simili

Leggi anche  
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canzone  suggerita  e  in sottofondo




Lo  so che       c'è il lutto per  la morte  del  pontefice    e  dovrei come ho  detto   nel post  precedente  ma   bnon ce la  faccio   ,  soprattutto      uando  continuo a  rcevere  detterminate  email   . Infatti anche   quest'anno   come  tutti  gli anni  quando arriva la Festa della Liberazione   ricevo via  email  e  c’è sempre qualcuno che dice “Il 25 aprile è divisivo”. Se vi capita di sentirlo, potete tranquillamente rispondergli “Il 25 aprile è divisivo solo se sei fascista”.Ma  soprattutto    ricevo email     che  possono esser  sintetizzate in  " anche i  patigiani  però .... "
In questo pezzo analizzerò le più grandi bugie messe in circolazione con lo scopo di “sfatare il mito della Resistenza”, in altre parole per minarne la Memoria e  usarla strumentalmente   a  scopo propaganistico  , alimentando  ulteriormente le   fake news  e   le  errate  convinzioni che  ancora   sono presenti   nell'opinione  ( o almeno una  parte   d'essa  )  che  : igora  o hja  una  conoscenza  parziale  o nessuna   , ha  preso per  buone  e  fa fatiche  ad  accettare  che sono errate  .    Vi riassumerò le più
ricorrenti e lo farò grazie a fonti storiche, fra le quali in particolare  (   coincidenza  \  casualità  con l''incipit  delle email  che  ricevo )  “Anche i partigiani però…” di Chiara Colombini  (  COPERTINA    A  SINISTRA  )     , che   viconsiglio   caldamente  ,che con il suo libro ha suggerito molti dei temi.
Fino a qualche anno fa queste menzogne erano sussurrate, magari al bar dopo il quarto spritz  oqualche birretta o  qualche storico   nostalgico    ,  o personaggio  di parte  .   Oggi invece chi le dice è legittimato   dalla  rete     che moltiplica   la  vulgata  comune  con la  collaborazione degli antifascisti  immaginari (cit   libro di Padellaro )    che chiedono nonostante    sia  come  parlare al muro   a questo governo   di destra  d  proclamarsi \  dichiararsi antifascista     invece di   concentrarsi   sui problemi reali  .

“I partigiani erano quattro gatti”

Dire che la Resistenza è stata un fenomeno minoritario è vero, perchè per paura opportunismo molti preferirono asttendere il volgersi degli eventi ( i cosidetti attendisti ) e voltagabbana ) . Infatti basta vedere le flle oceaniche compresa quella di qualche giorno prima all'ultimo discorso di Mussolini dell'aprile del 1945 oppure al giuramento di fedeltà al fascismo - imposto ai professori universitari nel 1931 dalla regia di Giovanni Gentile - furono per Mussolini assai lusinghieri. Seppure sotto ricatto, su oltre milleduecento accademici, soltanto dodici opposero un rifiuto.  Allo  stesso tempo   dire che erano “quattro gatti” è falso.   Nella prima parte dell’aprile 1945 si stimano 130.000 persone partigiane, su una popolazione di 45 milioni di persone. Secondo il più famoso storico del fascismo, Renzo De Felice, considerando non solo i combattenti ma la loro cerchia, si arriva a una cifra di “3 milioni e mezzo – 4 milioni” di persone. Una minoranza, ma come è scritto in Storia della Resistenza di Laterza, “ma    con  un’esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze diverse, strati sempre più ampi della popolazione”. Infatti    ci  furono   due  esempi   di  partecipazione  particolari   :   una  brigata  totalmente  multietnica  la  Banda Mario e dei partigiani  "neri "che dalla Mostra d’Oltremare andarono a combattere in un battaglione internazionale nelle Marche     (  qui  per  ulteriori    con un  ottima nota  bibliografica   per approfondire  )  ., Una   brigata  di. sole  donne   “brigata Alice Noli”, in omaggio a una giovane staffetta di Campomorone, nell’entroterra di Genova, seviziata e uccisa dalle milizie nere per aver dato sepoltura ad alcuni tra i 147 partigiani morti nell’eccidio della Benedicta, nell’aprile dello stesso anno. 
Le formazioni Garibaldi, che facevano capo al Partito comunista\  socialisti ,   costituivano a livello nazionale il 50% dei combattenti. Il 20% era dato dalle formazioni “Giustizia e Libertà”, collegate al Partito d’azione, mentre il restante 30% comprendeva le Autonome, le cattoliche che si richiamavano alla Democrazia Cristiana, e le Matteotti organizzate dal Partito socialista.In altre parole: ogni colore politico partecipò alla Resistenza.  compresi   i  militari  vedi  post  precedenti

“Inutili, non sapevano combattere”
Nella prima parte della Resistenza i partigiani erano certamente disorganizzati, ma come sarebbe potuto essere diversamente ? Erano persone volontarie, spesso senza preparazione    specifica  .  Salvo   qualche  militare   . Pensate invece che Albert Kisselring, il comandante hitleriano, li chiamava una “peste”. Segno che i partigiani impararono a dare molto più di qualche fastidio. Anche gli Alleati conoscevano il loro apporto, e sempre più li rifornirono di aiuti.Ricordo anche che ben 125 città insorsero grazie ai partigiani e si liberarono da sole, prima ancora dell’arrivo degli Alleati: Genova, Milano, Torino, Firenze…  Emblematico  fu il  caso di Genova medaglia  d'oro  ,  unica  città   europea  in  cui i tedeschi  firmarono la resa     non   con gli alleati ma   con  un commando   partigiano  

“Se i partigiani avessero aspettato la Liberazione, che comunque sarebbe arrivata grazie agli Alleati, si sarebbero risparmiate tante stragi di innocenti”
Cioè le stragi non sarebbero più colpa dei nazisti e dei fascisti che le hanno compiute, ma dei partigiani che li hanno sfidati per liberare l’Italia dalla loro violenza ? Esiste disponibile online “l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia”, un lavoro incredibile di ricostruzione. 5862 eccidi compiuti in venti mesi, nei quali vengono uccise 24.384 persone. Questo dimostra una violenza costante, con oltre 9 episodi e 40 uccisi al giorno, spesso indipendenti da precedenti azioni partigiane.

“Se i partigiani si fossero consegnati, come richiesto, l’eccidio delle Fosse Ardeatine non si sarebbe mai verificato”  
C’è questa bugia che carica sui gappisti (  partigiani  che  combattevano  in città )  romani la responsabilità dell’eccidio di 335 prigionieri. Tra l'altro dovevano essere 330, cioè 10 per ogni soldato ucciso, ma i nazisti sbagliarono i conti. E'  vero    che     chi   decise l'attebntato  lo fece   andando  contro  le  decisioni    "  attendiste  "    del  Cln   e  d'essi  furono aspramente  criticata  . Ma     dire  : << Se i partigiani si fossero consegnati, come richiesto, l’eccidio delle Fosse Ardeatine non si sarebbe mai verificato”  è  una  balla  .  
Secondo quest’accusa i partigiani si sarebbero sottratti alla possibilità di consegnarsi al nemico ed evitare così la strage. Un argomento falso smontato da tutte le ricerche storiche, sulla base di una serie di dichiarazioni, comprese quelle degli stessi tedeschi autori dell’eccidio che affermano di aver tenuto segreto l’eccidio fino a dopo l’esecuzione per paura di una reazione da parte dei partigiani o della popolazione della capitale. Mai sono stati affissi cartelli e manifesti per invitare i partigiani a consegnarsi ed evitare così la rappresaglia.

“I partigiani erano terroristi” ed  assasini  

Come scrive Chiara Colombini nel suo libro, viene ignorata una differenza così enorme che è imbarazzante anche sottolinearla. Nel 43-45 si combattono le autorità naziste e fasciste per raggiungere una democrazia, negli anni ‘70 i\80   terroristi (loro per davvero) colpiscono i rappresentanti di uno Stato democratico  compresi  anche   esponenti  dell'opposizione E' vero  , come tu.tti  i  movimenti di lotta  ,  ci furono   frizioni   profonde  ,  quella  che la Colombini chiama    concordia  discorde  ,   dovute da  iverse posizioni ideologiche    e  ciulturali    dei parti.ti  che  costituirono   la resistenza  e   dal diverso modo  di concepire   l'impostazione    ella  lotta militare     (  vedere  il caso    dell'attentato  a via  rasella  che  dettermino la  strage   delle Ardeatine )  . Poi  ci sono notevoli  differenze   tra   i nazifascisti  e  i partigiani   .  I  PRIMI    commisero   rappresaglie   ,  eccidi  ,  fucilazioni  di massa   e  i enitenti alla  leva  (  almeno chje  non  accettassero di passare alla  Rsi  ),  torture  ,  deportazioni di ebrei  ed  oppositori politici  nei lager   . I SECONDI    cercarono  di evitare  , anche  se  non mancarono  casi come porzus   e  altre  uccisioni  di esponenti  di  altrebande ,  o  processi sommari  . Ma  non vanno messi sullo  stesso piano  perchè un conto e  uccidere   in scontro  aperto   o  in attentato  ed  alcuni  casi   quando la  guerriglia  era   praticata in pianura  e  nelle  città   a   sangue  freddo ( cosa  eticamente    dolorosa   per  le  conseguenze  psicologiche     che  comporta nel  lungo periodo )   .

“Rubagalline”

Il rapporto fra partigiani e comunità contadine varia da zona a zona, ed è diverso nell’arco dei venti mesi di Resistenza. Era  regolamentato o   deve fosse  possibile  con pagamento  odei.  paghero   cioè ricevute   conl  timbro  del  cln  . si può dire questo: in Emilia-Romagna, la più importante regione per tradizione di lotte, il 32,3% di coloro che si vedono riconosciuta la qualifica di partigiani, sono proprio contadini. Addirittura una partecipazione più consistente di quella degli operai.
Roberto Vivarelli ricorda il reparto delle Brigate Nere in cui militava, impiegato in funzione antipartigiana. Loro i partigiani li cercavano per ucciderli, e ercorrendo le campagne insieme ai suoi camerati, racconta che a volte toglievano le mostrine dalle divise cercando così di camuffarsi da partigiani, convinti che i contadini li avrebbero trattati meglio.Il quadro generale è chiaro: la popolazione delle campagne, in modo diverso, ha sostenuto le formazioni partigiane. Senza la partecipazione attiva delle campagne, semplicemente non ci sarebbe potuta essere la Resistenza.E poi  ,   cecarono   di punire   ruberie   e  di  fare     processi i  più  equi possibile  , ovviamente  nei limiti  che una  situazione di guerra  come  quella     quella   

“Anche i partigiani, però, ammazzavano”


Con questa frase si tenta di mettere sullo stesso piano partigiani che hanno combattuto per la libertà e la democrazia, e militi di Salò che hanno combattuto per la dittatura. L’idea a cui vorrebbe giungere il revisionismo storico è questa: “Tutti colpevoli uguale nessun colpevole”.
Ma non soltanto c’è stata una parte giusta e una sbagliata della Storia, ma non sono stati i partigiani a creare la violenza, loro l’hanno usata come risposta a una violenza tanto più grande e con lo scopo di far terminare tutte le violenze, tra l’altro riuscendoci .  È proprio alla violenza che la dittatura aveva scelto per insediarsi e per mantenere il suo potere, che i partigiani si ribellarono.

“Le vendette, mamma mia, le vendette dopo la fine della Guerra”

Qui non si tratta di sostenere che quella della Resistenza è sempre stata una violenza “a fin di bene”, ma di collocarla in un contesto con cause e motivazioni, perché le persone hanno un passato, spesso di oppressione nel quale sono state costrette per vent’anni; non c’è un interruttore fra prima e dopo. Ed   ovvio  e  scontato  che    alla   fine  o quando  una  doittatura  cade   coloro     che ne  hanno  subito :  le  angherie , i  soppusi , le prepotenze , ecc     reagiscano     e  si vndichino  . Facciamo un passo avanti: fonti di polizia e mediche stimano in 10.000 le persone uccise tra la Liberazione e l’autunno del 1946.
La violenza chiamiamola così post bellica non è comunque quasi mai casuale. È sempre più marcata nei luoghi dove l’occupazione nazifascista è stata più dura, e perciò dove l’oppressione è stata maggiore e più vicina nel tempo. Ad esempio il 10 maggio ‘45 vengono fucilati 25 militi fascisti, gli stessi però che il 19 aprile, quando già la loro sconfitta era chiara, rastrellarono, torturarono e uccisero 17 partigiani.
Neanche i luoghi sono quasi mai casuali. La scelta di piazzale Loreto, con l’esposizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e degli altri gerarchi fascisti, è il luogo dove i militi lasciarono esposti i corpi di 15 antifascisti fucilati. C’è sempre una storia nelle Storie, e se decontestualizzi menti.

“L’esposizione per i piedi dei cadaveri di Mussolini e della moglie si poteva evitare”

Quell’esposizione è stata macabra, ma non si poteva evitare.
Dobbiamo considerare una questione che si chiama “folla”. A piazzale Loreto la folla è accalcata da ore per vedere il corpo del dittatore morto: sputano, danno calci. La folla preme, qualcuno spara. La scelta di appendere i cadaveri per i piedi al distributore di benzina può apparire macabra, e lo è, ma è una scelta obbligata da parte dei partigiani perché la folla di quei cadaveri non ne faccia scempio definitivamente.

“La storia la scrivono i vincitori”

Vero . Ma  In questo caso l’hanno scritta moltissimo anche gli sconfitti. Le carriere iniziate nel ventennio fascista sono proseguite senza grandi scossoni. L’apparato dello Stato è andato avanti. Il provvedimento conosciuto come l’amnistia di Togliatti, al di là delle intenzioni, portò alla scarcerazione di 10.000 fascisti su 12.000. E pochi anni dopo ne resteranno in carcere solo 252. 
Dal 1946, poi, migliaia di partigiani finirono sotto processo civile e penale per azioni compiute durante la Liberazione. Ad esempio l’uccisione di una spia venne giudicata come omicidio premeditato, o l’arresto di collaborazionisti come sequestro di persona, lo spiega bene Michela Ponzani. Quello che viene chiamato il “processo alla Resistenza” entrò poi nel vivo nel 1948, lo stesso anno in cui uscì in libreria “Ho difeso la patria” del maresciallo Graziani, capo delle forze armate della RSI, libro che diventò un bestseller.Altro che “la storia la scrivono i vincitori”.  La storia l’hanno fatta i partigiani, ma le loro voci sono state troppe volte silenziate.
Nell’ottobre del 1946 Piero Calamandrei scrisse a proposito delle facce note del fascismo: "Il pericolo non è lì, non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo".
Piero Calamandrei aveva paura invece di quelli che chiamava “benpensanti”. Sempre nel 1946 scrisse: “Questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, che cambia discorso infastidita quando sente parlare di antifascismo”. Vi ricorda qualcuno?

12.4.23

"Cara Maria, sto bene": nel 1943 scrisse alla moglie dal campo di prigionia, la lettera arriva a casa 80 anni dopo

Una  storia questa    interessante   perché  anche  a  distanza  d'anno    fa capire il valore del messaggio scritto per lettera, ci dice che la carta ha ancora un valore inestimabile. Una comunicazione di ottant’anni fa è giunta oggi fino a noi” 


repubblica  12 APRILE 2023


"Cara Maria, sto bene": nel 1943 scrisse alla moglie dal campo di prigionia, la lettera arriva a casa 80 anni dopo                         
                                         di Raffaella Capriglia

A Mottola la figlia del soldato Pasquale e di Maria ha ricevuto commossa il messaggio. Il padre poi tornò a casa incolume, ma di quella lettera, con gli auguri di Natale e i baci per la compagna lontana, si erano smarrite le tracce finché un uomo a Firenze non l'ha trovata e spedita in Comune. Il sindaco: "C'è un filo che lega e riannoda tutto"
Nel novembre del 1943 scrisse a sua moglie da un campo di prigionia nei pressi di Berlino, ma la lettera non giunse mai a destinazione. Quella stessa missiva, di cui si erano perse le tracce, è stata recapitata nei giorni scorsi, dopo 80 anni. La storia arriva da Mottola, nel Tarantino, ed è il sindaco della cittadina, Giampiero Barulli, a raccontarla con un post su Facebook, allegando l'immagine della lettera.






"È il 1943. C'è la guerra - afferma il primo cittadino - e tutti i ragazzi sono al fronte a combattere. Tra di loro c'è Pasquale, soldato mottolese. È in un campo di prigionia nei pressi di Berlino e scrive una lettera a sua moglie Maria, rassicurandola sulle sue condizioni di salute. La lettera, però, non arriva a destinazione". Pasquale, invece, "torna incolume dalla guerra e vive serenamente con la moglie crescendo tre figli". "Passano 80 anni - aggiunge Barulli - e incredibilmente qualche giorno fa quella lettera arriva in Comune. Spedita da un signore di Firenze e subito consegnata alla figlia di Pasquale, che legge con grande commozione le dolci parole del padre. Altri tempi, altre vite". "Ma un filo, quello del destino - commenta il primo cittadino - che lega e riannoda tutto, persone, storie e ricordi".
La lettera fu spedita da uno dei campi di prigionia tedeschi Kriegsgefangenenlager (Kgfl). "Cara Maria, la mia salute è buona, perciò - si legge nella missiva postata dal sindaco - non devi essere in pensiero per me. Spero di poter avere presto tue notizie che spero siano buone. Con l'occasione ti invio gli auguri per il Natale. Baci affettuosi". Il timbro porta la data del 21 novembre 1943.
Il sindaco ha consegnato la lettera a casa della primogenita di Pasquale, Giuseppina Aloisio. La nipote Sonia Baiocco, figlia di Giuseppina, racconta il momento. “È stata una grande emozione, per me, per la mamma e per i miei familiari - dichiara Sonia, 44 anni -. Ritrovarsi in mano questa lettera è stata una sorpresa, sembra strano che sia giunta dopo tanti anni. Cercherò di contattare questo signore di Firenze e di portare i nostri ringraziamenti”. Pasquale Aloisio era “partito per la guerra quando era appena sposato e la nonna dovrebbe essere stata in attesa della sua prima figlia. mia madre”. Il ragazzo di Mottola, divenuto soldato e poi finito in un campo di prigionia tedesco, dovette quindi allontanarsi dalla famiglia.
“Tornò quando mia mamma aveva tre anni, aveva una lunga barba, che rasò poco dopo”, racconta la nipote. Intanto, “che io ricordi – spiega Sonia –, il nonno non era in grado di scrivere di suo pugno, quindi, evidentemente, qualcuno a lui vicino ha scritto la missiva, riportando i suoi pensieri. La mia mamma è stata felice di ritrovare un messaggio del suo papà dopo ben ottant’anni. Era emozionatissima…a distanza di tutti questi anni non si aspettava una cosa del genere. Il nonno rassicurava sulla sua salute, ma è commovente che si preoccupasse anche della salute dei suoi familiari e augurava, per tempo, buon Natale. Sarebbe stato bello che anche la nonna l’avesse potuta leggere, ma per lei l’abbiamo letta noi nipoti e i figli”. Pasquale Aloisio, tornato a Mottola, ha condotto una vita serena. Ha avuto tre figli, è stato nonno di 5 nipoti. È stato “bracciante agricolo, coltivava le sue campagne di cui si prendeva cura”. È morto 26 anni fa, a 75 anni. Sonia lo ricorda bene. Era un uomo “serio, ma anche molto ironico. Pur essendo apparentemente un po’ burbero con i figli, con noi nipoti era giocoso e scherzoso. Mi ha trasmesso il valore della vita, del sacrificio, l’essere semplici. Per esempio, da piccola guardavo la tv con i nonni.
C’era l’ora del telegiornale e ‘L’Almanacco’ e giocavo con una palla di stoffa, fatta dalla nonna da una manica della camicia del nonno”. Sonia custodisce dei ricordi particolari di quegli anni di prigionia del nonno, raccontati da Pasquale quando lei era bambina. “Raccontava che i tedeschi, quando gli ordinavano di fare qualcosa, si rivolgevano in modo imperativo - spiega Sonia - e che lui si sarebbe dovuto sbrigare per assolvere al compito richiesto. Dicevano: “Raus!” (tradotto “fuori!”, “via!”, oppure “andiamo”, ndr)”. Anni di difficoltà e sofferenza alleviati dal ricordo e dall’amore per i familiari, ma Pasquale “non entrava molto nei particolari. Molto probabilmente, i tedeschi lo avevano preso a simpatia, forse perché era ironico ma anche molto serio. Perciò, è riuscito a cavarsela nel campo di prigionia, mi diceva di essere molto fortunato per questo, perché altrimenti anche lui, come altri, sarebbe stato destinato ad essere fucilato”. Inoltre, “mi cantava la canzone che cantava con i commilitoni, dal titolo ‘Cara biondina’”. La famiglia di Pasquale Aloisio scriverà al signore fiorentino che ha ritrovato la lettera. “Lo contatteremo al suo indirizzo postale, per ringraziarlo e scoprire qualcosa in più sulla storia di questo biglietto - conclude la nipote -. Lo faremo per via epistolare, perché questo episodio fa capire il valore del messaggio scritto per lettera, ci dice che la carta ha ancora un valore inestimabile. Una comunicazione di ottant’anni fa è giunta oggi fino a noi”

19.2.22

le foto di Whilelm Brasse ed altre storie del 900

 il ricordo di tali eventi  no  è   solo  il 27 gennaio 


Un giorno di febbraio del 1941, un giovane prigioniero polacco di nome Whilelm Brasse fu incaricato dai nazisti di fotografare, uno dopo l’altro, tutti i prigionieri di Auschwitz, di fronte e di profilo.
Quando, quasi due anni dopo, fu il suo turno, prima che la foto fosse scattata, Czesława Kwoka “si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro” - come ricorda lo stesso Brasse - che le aveva procurato la kapò a bastonate in faccia.
In quel momento Czesława aveva 14 anni, era appena arrivata al campo, non parlava e non capiva una
parola. Poche settimane dopo, il 18 febbraio 1943, le ammazzarono la madre, Katarzyna. Il 12 marzo fu assassinata con un’iniezione di fenolo nel cuore.

Poco prima che l’Armata rossa fece irruzione ad Auschwitz, i nazisti ordinarono a Brasse di distruggere tutte le foto insieme ai negativi, ma lui riuscì coraggiosamente a salvarne qualcuna. Tra queste, c’era quella di Czesława, che diventerà una delle fotografie più iconiche di sempre di quell’orrore, e nel 2018 fu colorata per aumentarne la vividezza.
Questo scatto è di una dignità, nello strazio, da mettere i brividi.

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La chiamavano affettuosamente “la biondina della Val Taleggio”. Ma lei, Piera Vitali detta Pierina, era prima di tutto una partigiana, una combattente, una donna libera.

E lo è stata sempre, fino all’ultimo istante.
È stata arrestata dai fascisti a 21 anni, mentre combatteva per la liberazione.
È stata interrogata, ma lei non ha fatto i nomi dei compagni.
È stata messa al muro davanti a un plotone armato. Ma lei non ha fatto i nomi.
È stata pestata a sangue, torturata, ma lei non ha fatto i nomi.

Hanno tentato di comprarla i nazisti. Ma anche in quel caso lei non ha fatto i nomi.
Infine l’hanno caricata su un pullman diretto ai campi di concentramento. E lei ha sfondato il finestrino e si è lanciata in corsa, tornando a fare la staffetta partigiana fino alla libertà.
Aveva 21 anni, poco più che una ragazzina.
Due anni fa esatti, Pierina se n’è andata a 96 anni. Lei, una di quelle che la patria l’ha difesa davvero, non a parole o a slogan, ma con un coraggio e una forza (e a un’età) che oggi fatichiamo anche solo a immaginare.

Ciao Pierina, ovunque tu sia. 

21.11.21

Chi ha paura dei partigiani? visto che la storica Chiara Colombini presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese.


Chi ha paura dei partigiani?
Una storica presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese. Ed è successo perché c’è un’aria malsana. Quella di quando si rompono gli argini e anche il peggio, improvvisamente, si può dire

di Mario Calabresi





Prima immagine: una ricercatrice che ha dedicato la sua vita alla storia delle formazioni partigiane presenta un libro in cui affronta i luoghi comuni più diffusi sulla Resistenza. È stata invitata dalla sezione locale dell’ANPI. Fuori, uno schieramento di polizia e carabinieri garantisce che la serata si svolga con tranquillità. Una comunità neonazista attiva nella zona ha attaccato tre striscioni di contestazione. Azzate, provincia di Varese, 12 novembre 2021.
Seconda immagine: due giorni prima a Torino muore una donna che per tutta la vita si è dedicata a far funzionare l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza "Giorgio Agosti". Si chiamava Dada Vicari e ha coltivato la memoria di quelli che si sono battuti e sono caduti per la libertà, come suo padre Michele, ferroviere, partigiano, fucilato il 18 aprile 1945, il giorno dello sciopero generale di Torino, ad appena una settimana dalla liberazione dal nazifascismo.



Il panorama delle Langhe, raccontato da Beppe Fenoglio nel suo romanzo “Il Partigiano Johnny”


A legare le due immagini, i fantasmi che tornano mentre un pezzo prezioso di memoria ci lascia, è Chiara Colombini, 48 anni, autrice del libro Anche i partigiani però.... . È lei che ha avuto bisogno della scorta di polizia e carabinieri per presentare il suo volume, che è proprio dedicato a Michele e Dada Vicari. «Anch’io lavoro all’Agosti, dove sono raccolte tutte le carte delle formazioni partigiane del Piemonte, e Dada mi aveva adottato, era una persona di grande umanità e teneva sotto la sua ala tutti i giovani che passavano dall’Istituto».
Chiara è stata in provincia di Varese per un piccolo giro di presentazioni; le avevano detto che ci sarebbero potuti essere problemi, ricordando la dura contestazione che due anni prima un nutrito gruppo di neofascisti fece contro lo scrittore Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone, un altro libro sul dilagare di luoghi comuni e chiacchiericcio che in tempi di disinteresse, ignoranza e ritorni di fiamma vengono presentati come verità storiche.
«Mi avevano avvisato, ma voglio sottolineare che è stata una tre giorni deliziosa, con sale piene e belle discussioni, ma lascia perplessi che per presentare un libro ci voglia la polizia e questo mi sembra un segnale non proprio rasserenante. Non per me, anzi lo striscione che mi riguarda non l’ho considerato insultante e nemmeno minaccioso. Ma lo sai cosa c’era scritto, usando una rima banale? “Chiara Colombini, mangia bambini”. Mi viene da ridere. La mia preoccupazione è invece legata alla situazione più generale, al fatto che un gruppo neonazista riesca a condizionare le attività culturali di una zona e richieda la mobilitazione delle forze dell’ordine settantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».


Chiara Colombini in una illustrazione di Marta Signori


Quando ho letto la notizia, in un trafiletto nei giornali locali e in una comunicazione dell’Istituto Ferruccio Parri, del cui comitato scientifico Chiara fa parte, avevo appena finito di trascrivere la mia conversazione con Javier Cercas (qui trovate il podcast) e mi risuonava in testa la sua frase contro “la dittatura del presente”, quel modo di vivere immersi in ciò che accade nell’istante, dimenticando ciò che è successo soltanto una settimana prima: «Il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianza non è passato, ma fa parte del presente, se ce ne dimentichiamo viviamo un tempo mutilato».
Ho cercato Chiara Colombini perché mi sembrava che la sua vicenda e quello che mi aveva detto Cercas si parlassero, volevo capire il suo lavoro e grazie a quale scintilla fosse nata la passione per la Resistenza: «È accaduto leggendo Fenoglio. Io sono nata ad Alba e quei luoghi delle Langhe mi sono familiari, ma i suoi libri mi hanno lasciato soprattutto la voglia di conoscere i protagonisti oltre il romanzo e così ho incontrato la figura di Nuto Revelli che mi ha spalancato un mondo. Mi ha fatto capire la complessità e le difficoltà di una scelta come quella partigiana nell’estate del 1943. Revelli era un militare di carriera, un ufficiale degli Alpini ed era andato volontario in Russia. Non era stato antifascista nel ventennio, ma era tornato con ferite umane profondissime e con una voglia di ribellione fortissima. Diventò un capo partigiano leggendario, ma con grande onestà intellettuale ha sempre ricordato la difficoltà di quella scelta. Io studiavo filosofia ma leggere i suoi ricordi mi ha fatto nascere la domanda fondamentale: io che cosa avrei fatto?».
E così la vita di Chiara ha preso la sua direzione che l’ha spinta oggi a confrontarsi con i luoghi comuni che si sono fatti sempre più spazio negli ultimi venticinque anni, ha scelto di fare un libro divulgativo, con un titolo provocatorio, non per storici, ma per tutti.





«Oggi il discorso contrario alla Resistenza è radicatissimo, ha trovato la sua capacità di saltare il fosso della memoria neofascista e di diventare di più ampia diffusione all’inizio degli Anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica. In questa nuova fase si è fatta strada l’idea che l’antifascismo e la Resistenza non potessero più essere il punto di legittimazione della Repubblica e oggi viviamo immersi in un clima che dà pessimi segnali. Se sia fascismo o no, quello che torna non lo so, ma quello che colgo è un clima che non mi piace. Non nasce dalla denigrazione della Resistenza ma è qualcosa di più complesso, è come se si fossero rotti gli argini e così, ora, è possibile fare affermazioni e dire cose che non si sarebbero mai immaginate. Penso ai discorsi razzisti prima di tutto».
Così Chiara è ripartita da lontano e nel suo libro in ogni capitolo affronta una delle accuse mosse ai partigiani, una delle semplificazioni utili a sporcare e denigrare: “Erano tutti rossi”, “Inutili e vigliacchi”, “La violenza è colpa loro”, “Rubagalline”, “Assassini”.
«Nel confrontarmi con i luoghi comuni non cercavo delle giustificazioni e nemmeno di santificare i partigiani, ma volevo raccontare una storia fatta da esseri umani, che ovviamente non erano perfetti e avevano insieme contraddizioni, slanci meravigliosi e limiti. Quello che io amo ricordare è che ci sono state persone che nel momento più nero della disperazione di una guerra di occupazione, dopo vent’anni di dittatura, abbiano trovato un motivo per reagire e il coraggio di salire in montagna».


Una lapide commemorativa nel territorio di Mango (CN). Tre dei contadini qui ricordati, catturati in un rastrellamento dalle truppe nazifasciste e poi fucilati, avevano solo 16 anni


Leggendo il libro di Chiara Colombini e parlando con lei ci si rende conto che tutto il revisionismo, le accuse e i famosi luoghi comuni partono da un dato falsato: si dimentica che c’erano i nazisti, si dimenticano le atrocità della guerra. «Questo è l’elemento fondamentale dei giudizi liquidatori: l’azzeramento del contesto storico e il tentativo di giudicare il passato con il metro dell’oggi. Se non si capisce quale era la situazione, allora la scelta armata è inconcepibile».
Per ripartire davvero dall’inizio, come fa quando incontra i ragazzi delle scuole, è necessario rispondere alla domanda su chi fossero i partigiani: «Erano persone molto diverse tra loro, per provenienza sociale, politica, geografica e con idee spesso opposte sul presente e sul futuro, ma che in un momento di grandissima precarietà e incertezza, in un momento in cui la sopraffazione era legge, hanno reagito. Certo sono stati una piccola minoranza i partigiani in armi, ma più grande era l’area che li sosteneva. Una larga parte era rappresentata dai più giovani, c’erano anche trentenni e quarantenni con una formazione politica alle spalle, già antifascisti o che lo erano diventati nel corso della guerra ma soprattutto tanti ragazzi, nati e cresciuti sotto il fascismo e senza un’idea politica ben precisa. Uno degli aspetti che mi affascina di più è questa natura composita così ricca. E non erano tutti comunisti. Certo la risposta al luogo comune non deve portare a sminuire il ruolo delle Brigate Garibaldi, che erano la metà dei combattenti, ma è scorretto stabilire un rapporto organico tra formazioni partigiane e partiti politici».


Dalla Cascina Langa la vista spazia su tutta la pianura cuneese e sul Monviso


Ogni storia ha un luogo di elezione, un punto in cui le cose sembrano avere un senso più nitido e vero, per Chiara quel luogo è la Cascina Langa narrata da Fenoglio nel Partigiano Johnny, si trova a 700 metri d’altezza tra i paesi di Benevello e Trezzo Tinella, da qui si apre un panorama mozzafiato su tutta la pianura e sulla corona delle Alpi. Per il partigiano Johnny quella cascina solitaria era un rifugio, il luogo degli amici e della cagna lupa.
Anch’io, quando un giorno ci sono arrivato, portato da Angelo Gaja che voleva farmi capire l’essenza dell’Alta Langa, mi sono innamorato di quel luogo e ho riletto lo scrittore che imparai ad amare all’università per quella sua lingua asciutta ed essenziale che definisce alla perfezione ogni cosa.


  stavolta    oin sottofondo  non  c'è una  canzone    ma  un intero  album

Appunti Partigiani” - Modena City Ramblers.

25.4.21

Sicilia. La radio le proibisce di parlare di 25 aprile. Speaker oriana civile lascia il programma

 da   https://www.tp24.it/ del  25\4\2021 Sta spopolando in queste ore il video di Oriana Civile, speaker e conduttrice radiofonica siciliana, che ha abbandonato il suo programma perchè non le hanno concesso di parlare del 25 Aprile. "Se non posso parlarne allora sono nel posto sbagliato". La sua trasmissione, che va

in onda due ore al giorno dal lunedì al venerdì su una radio locale di Capo d’Orlando, Radio Italia Anni ’60.                                                       
 In un video pubblicato su Facebook annuncia che quella di ieri era la sua ultima puntata  “Spazio Civile”, questo il nome del programma, in cui ha denunciato la censura sulla festa della Liberazione. “Era un argomento che avrebbe troppo politicizzato la trasmissione. Mi hanno detto che potevo farne un accenno ma non più di 15 minuti perché troppo politicizzato”. Una limitazione inaccettabile, e ingiusta, che ha portato la giovane speaker a chiudere il microfono. 


 dal il IFQ  stessa data 

 Se non posso parlare di 25 aprile allora sono nel posto sbagliato e sono soprattutto la persona sbagliata per questo posto”. Oriana Civile, speaker e conduttrice radiofonica,è sicura, la sua trasmissione, che va in onda due ore al giorno dal lunedì al venerdì su una radio locale di Capo d’Orlando, Radio Italia Anni ’60, non andrà avanti perché non ha potuto parlare del 25 aprile.



 “Due ore in cui parlo un po’ di tutto. Ogni giorno scelgo un argomento e lo sviluppo. Parlo soprattutto di musica tradizionale siciliana, di cui sono esperta. Ma ho parlato di legge Zan, oppure di Francesco Lo Sardo, mio concittadino primo comunista alla Camera”, spiega lei al Fattoquotidiano.it, dopo avere pubblicato su Facebook un video della sua ultima puntata di “Spazio Civile”, questo il nome del programma, in cui annuncia la fine della trasmissione e denuncia la censura sulla festa della Liberazione. “Era un argomento che avrebbe troppo politicizzato la trasmissione. Mi hanno detto che potevo farne un accenno ma non più di 15 minuti perché troppo politicizzato”, racconta. Ma Civile non ha accettato: “È inaccettabile che non possa parlare della Liberazione. E la mia non è una battaglia contro la Radio ma contro il sistema di informazione tutto, che con leggerezza liquida il 25 aprile come argomento di sinistra”. Per questo ha detto basta: “Sì, lascio la radio. Non posso accettare di non parlare di 25 aprile. Proprio impossibile”.

25.4.20

storia di resistenza ieri ed oggi

iniziamo  da  questi  4  giocatori   della nazionale  italiana   oro  olimpico  del 1936 che  rifiutarono  , gesto  rivoluzionario e  da isolamento  sociale    sotto il fascismo e poi passarono alla resistenza  storia presa  da il venerdi  di repubblica  e    riportata  dal libro 

CUORI PARTIGIANI – Edoardo Molinelli

La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana

Cosa hanno in comune Giacomino Losi da Soncino, detto “core de Roma”, secondo solo a Totti e a De Rossi per presenze con la maglia giallorossa, e Raf Vallone, definito “l’unico volto marxista del cinema italiano” per la sua carriera cinematografica eppure anche capace, da calciatore, di alzare la Coppa Italia vinta dal Torino nel 1936?
Cosa rende simili l’attaccante Carlo Castellani, bandiera dell’Empoli, e il mediano Bruno Neri di Faenza, nel giro della nazionale dopo aver militato nella Fiorentina e nel Torino?
Tutti questi atleti, non c’è dubbio, presero a calci un pallone nemmeno lontanamente paragonabile alla sfera non più di cuoio con cui al giorno d’oggi si gioca negli stadi di tutto il mondo. Ma oltre a questo, tutti loro, mentre sull’Italia fischiava il vento e infuriava la bufera dell’occupazione nazifascista, compirono la stessa scelta fatta allora da migliaia di ragazzi nel paese: lasciarsi tutto alle spalle per imbracciare il fucile e combattere contro tedeschi e fascisti. Inizia in questo modo la storia mai raccontata dei Campioni della Resistenza: calciatori-partigiani come Armando Frigo, capace di segnare una doppietta con un braccio mezzo ingessato in un memorabile Vicenza-Verona 2 a 0 e poi fucilato dai tedeschi dopo aver eroicamente difeso il passaggio montano di Crkvice, in Jugoslavia; o come la bandiera lariana Michele Moretti, comunista e membro del gruppo partigiano che il 28 aprile del 1945 giustiziò Benito Mussolini in nome del popolo italiano.
Le gesta dei calciatori partigiani, raccontate con sapiente partecipazione da Edoardo Molinelli, attingendo al cuore del più popolare tra gli sport, danno un contributo speciale alla stessa comprensione della Resistenza come fenomeno di massa. E, finalmente, iscrivono la vita vera dei grandissimi ma spesso misconosciuti protagonisti di questo libro a una sola, grandissima squadra: quella che si riconosce nei colori della giustizia sociale e della libertà.
EDOARDO MOLINELLI - Pratese, classe 1981, scrive di calcio e politica su Minuto78. Fondatore e curatore del primo blog italiano dedicato all’Athletic Club di Bilbao, ha pubblicato per Hellnation Libri – Red Star Press il volume Euzkadi. La nazionale della libertà (2016).
Hellnation Libri
Pagine: 246
Formato: 13x20 brossurato con bandelle
Isbn: 9788867182206







la seconda è questa raccontata anche in una canzone scritta da Ligabue per i Modena City Ramblers  che  per  una   strana    coincidenza   sta passando  ora  fra le  canzoni  di youtube  che  sta ascoltando  e di cui  riporto  insieme  all'articolo il  video

Resistenza e memoria. Germano Nicolini, il Diavolo dal cuore buono

Centenario, è il partigiano di Correggio cantato da Ligabue: lo chiamarono così quando lo videro seminare i tedeschi che lo inseguivano. Divenne il suo nome di battaglia. L’intervista di Gad Lerner oggi nello speciale 25 Aprile sul sito di Repubblica




Lo chiamano "dièvel", diavolo, non per mirabolanti strategie militari o per l'astuzia nascosta nella coda del demonio, ma perché la mattina del 31 dicembre del 1944 lo videro fuggire tra i boschi di Correggio con la rapidità d'un furetto. Dietro la sua bicicletta che volava a zig zag, i soldati tedeschi lanciati all'inseguimento. "Ma l'è prôpi un dièvel!", è proprio un diavolo, dissero due contadine nascoste in cascina. E da allora Germano Nicolini è rimasto il "Comandante Diavolo", a dispetto della fibra morale e del suo destino di eroe buono.
Non perse il leggendario epiteto neppure quando fu sbattuto in galera nel 1947 con l'accusa platealmente infondata di aver assassinato il parroco della sua città, proprio lui che conosceva il significato profondo dell'esser partigiani, portare la vita non la morte, la solidarietà non la prevaricazione. E ora centenario, la passione ancora integra e il gesto irrequieto non addomesticato dal tempo, continua a testimoniare la sua incredibile vicenda, già celebrata da una canzone scritta da Ligabue per i Modena City Ramblers.



"Mi considerano un pezzo della storia italiana. Può darsi. Quel che è sicuro che ho passato dieci anni in galera da innocente. Ma non ho smesso per un secondo di essere l'unica cosa che sono: un antifascista, un democratico, un partigiano resistente che doveva resistere".
Quella di Germano Nicolini è una delle quattrocento testimonianze raccolte da Laura Gnocchi e Gad Lerner nel meritorio lavoro dedicato ai ragazzi che nel 1943 furono chiamati a una scelta estrema (Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, prefazione di Carla Nespolo, Feltrinelli; la clip dedicata al comandante Diavolo sarà trasmessa oggi pomeriggio su Repubblica Tv).
Una memoria che nella sua eccezionalità racconta molto di noi, di un'Italia che fin dal dopoguerra ebbe un rapporto inquieto con i resistenti: talvolta incompresi, tenuti ai margini o, come in questo caso, perseguitati da una giustizia ingiusta. E colpisce il filo esistenziale che tesse il racconto di Nicolini, la scelta del partigianato nata dalla vicinanza con gli ultimi, e rinnovata nel tempo dal patto morale stretto allora con i suoi compagni. È grazie a loro se ha resistito a testa alta "quando si è cercato di infangare una pagina luminosa della nostra storia". Ed è sempre grazie a loro che non si stanca di raccontare, "soprattutto oggi che si riaffaccia il cupo richiamo dell'autoritarismo".
Come il nome, anche la sua storia è carica di rovesciamenti romanzeschi, perché tutto ci si può aspettare ma non che il Comandante Diavolo, capo del terzo battaglione della 77esima Brigata Sap "Fratelli Manfredi", abbia subìto per quasi cinquant'anni lo stigma dell'assassino. Perché Germano era uno che detestava la violenza, "e se in molti credono che la Resistenza sia stata un fatto solo militare sbagliano, perché noi abbiamo preso le armi per difendere la popolazione". Credeva nelle leggi, Germano, "quelle del diritto e della sacralità della vita". E quando a guerra finita cominciò a respirare una brutta aria nelle sue zone, in Emilia, in quello che si sarebbe chiamato "il triangolo della morte", si adoperò per contenere in alcuni dei suoi compagni le tentazioni di giustizia sommaria. "Se si comincia a dire "ci facciamo giustizia da noi", la violenza prende il posto dell'ingiustizia. E la democrazia è più importante della rappresaglia".
Subito dopo la Liberazione fu nominato dagli americani reggente di Correggio. E fu in quei giorni che riuscì a compiere un piccolo miracolo, mai più ripetuto nel lunghissimo dopoguerra: una "mensa del reduce e del partigiano" dove potevano mangiare tutti allo stesso tavolo, resistenti ed ex fascisti repubblichini, a condizione che questi non avessero mai sparato o commesso reati.
Riuscì ad allestirla in poco tempo, facendosi dare i soldi dalle famiglie benestanti che avevano finanziato l'esercito di Mussolini. Cominciò così "il pranzo della conciliazione", che non era parificazione o confusione o smarrimento del senso storico, ma un modo per dimostrare "che era possibile non comportarsi come loro, spargendo odio e terrore". Sempre negli stessi giorni, durante un'ispezione nel carcere di Correggio, riuscì a sventare un assalto partigiano, salvando la vita a sei detenuti ex repubblichini. Alcuni di loro avrebbero testimoniato a suo favore nel processo per il delitto di don Pessina. Ed eccoci al fattaccio, che è storia conosciuta. Con la colpevole complicità della chiesa cattolica e del Pci, nel 1947 Germano Nicolini, ormai divenuto sindaco comunista di Correggio, viene processato e condannato per l'assassinio di don Umberto Pessina, il parroco di San Martino ucciso l'anno prima dai proiettili di tre ex partigiani. Tutti sapevano - o avrebbero presto saputo - che Germano non c'entrava niente. Lo sapeva il vescovo di Reggio Emilia, che però non l'amava perché cattolico passato con i rossi. Lo sapeva il Partito, che però non l'amava per lo spirito libero e gli propose di espatriare in Cecoslovacchia, insieme ad altri partigiani invischiati nelle violenze. Ma lui fu fermo nel rifiuto: alla fuga preferiva il carcere, soprattutto per dimostrare la sua innocenza. Dei 22 anni di pena, Germano ne trascorse in cella dieci, ma solo per via dell'indulto. Per ottenere l'assoluzione piena dovette aspettare il 1994. Dopo 47 anni, il comandante Diavolo ha potuto riavere indietro le sue mostrine militari. E le scuse dello Stato italiano.
Ora la sua lunga e complicata resistenza può raccontarla ai più giovani. E a loro ripete le parole con cui l'aveva salutato il suo amico Giacomo, ucciso dalle Brigate Nere: "Non dite che siete scoraggiati, che non ne volete più sapere. Pensate che tutto è successo perché non avete voluto più saperne"

  

ma  veniamo all'oggi 



mentre  mi apprestavo   a concludere   il post  d'oggi  apprendo    da  questo video





 quest'altra storia 

  da  http://www.gliocchidi.it/persone/ida_e_augusta


Ida e Augusta


Fotografia di Augusta Ludescher, anni Trenta
Ida Roser: Germania 1885  Gombio, 1956

Fotografia di Ida Roser, anni Quaranta
Augusta Ludescher: Germania 1881 - Gombio 1950)
La targa che ricorda Ida Roser e Augusta... - Spartiti - Jukka ...Siamo Ida e Augusta, le due tedesche di Gombio. Non crediamo di meritarci tutta questa attenzione. Abbiamo fatto solo quello che tutti dovrebbero fare: ricordare che non siamo bestie. Sia che si tratti di una vita umana, di un fiore o di una frittata.E a me, che sono Augusta, che sono passata da Berlino a Gombio per amore di Narciso Piazzi, non mi è parso di fare nulla di eccezionale, quando quel tedesco mi è entrato in casa. Stavano rastrellando e ci avrebbero ucciso tutti. Però una frittata è una frittata e non si entra in casa della gente senza chiedere permesso e si inizia a mangiare il cibo altrui. Allora l’ho detto ben chiaro “Lazzarone, è così che ti hanno insegnato l’educazione”. L’ho detto in tedesco, la mia lingua, e a lui non sembrava vero. Sentire la voce di sua madre, della sua maestra, della sua sorella. Di sasso.Trovare in quella povera casa in quel piccolo paese una donna che parlava la sua lingua. E lui ha chiamato il comandante. E il comandante si è messo a parlare con me e poi ha chiamato anche Ida. Due donne tedesche in quell’angolo di mondo. Abbiamo parlato e parlato e alla fine se ne sono andati. Non hanno ammazzato nessuno. Abbiamo salvato il paese.Ma lo sapete anche voi che, in fondo, non si è trattato della frittata. A volte basta la voce di una donna per fare ricordare che nessuno è nato carnefice. Che nelle vite di ognuno di noi c’è stato un sorriso o una gentilezza. Un momento in cui ci siamo pensati migliori di quello che siamo diventati. Un momento per una speranza o per una frittata. Noi non siamo eroine. Siamo solo le due tedesche di Gombio. Sorridete, quando ci guardate negli occhi. E lavatevi le mani prima di andare a pranzo.







Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...