storia di resistenza ieri ed oggi

iniziamo  da  questi  4  giocatori   della nazionale  italiana   oro  olimpico  del 1936 che  rifiutarono  , gesto  rivoluzionario e  da isolamento  sociale    sotto il fascismo e poi passarono alla resistenza  storia presa  da il venerdi  di repubblica  e    riportata  dal libro 

CUORI PARTIGIANI – Edoardo Molinelli

La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana

Cosa hanno in comune Giacomino Losi da Soncino, detto “core de Roma”, secondo solo a Totti e a De Rossi per presenze con la maglia giallorossa, e Raf Vallone, definito “l’unico volto marxista del cinema italiano” per la sua carriera cinematografica eppure anche capace, da calciatore, di alzare la Coppa Italia vinta dal Torino nel 1936?
Cosa rende simili l’attaccante Carlo Castellani, bandiera dell’Empoli, e il mediano Bruno Neri di Faenza, nel giro della nazionale dopo aver militato nella Fiorentina e nel Torino?
Tutti questi atleti, non c’è dubbio, presero a calci un pallone nemmeno lontanamente paragonabile alla sfera non più di cuoio con cui al giorno d’oggi si gioca negli stadi di tutto il mondo. Ma oltre a questo, tutti loro, mentre sull’Italia fischiava il vento e infuriava la bufera dell’occupazione nazifascista, compirono la stessa scelta fatta allora da migliaia di ragazzi nel paese: lasciarsi tutto alle spalle per imbracciare il fucile e combattere contro tedeschi e fascisti. Inizia in questo modo la storia mai raccontata dei Campioni della Resistenza: calciatori-partigiani come Armando Frigo, capace di segnare una doppietta con un braccio mezzo ingessato in un memorabile Vicenza-Verona 2 a 0 e poi fucilato dai tedeschi dopo aver eroicamente difeso il passaggio montano di Crkvice, in Jugoslavia; o come la bandiera lariana Michele Moretti, comunista e membro del gruppo partigiano che il 28 aprile del 1945 giustiziò Benito Mussolini in nome del popolo italiano.
Le gesta dei calciatori partigiani, raccontate con sapiente partecipazione da Edoardo Molinelli, attingendo al cuore del più popolare tra gli sport, danno un contributo speciale alla stessa comprensione della Resistenza come fenomeno di massa. E, finalmente, iscrivono la vita vera dei grandissimi ma spesso misconosciuti protagonisti di questo libro a una sola, grandissima squadra: quella che si riconosce nei colori della giustizia sociale e della libertà.
EDOARDO MOLINELLI - Pratese, classe 1981, scrive di calcio e politica su Minuto78. Fondatore e curatore del primo blog italiano dedicato all’Athletic Club di Bilbao, ha pubblicato per Hellnation Libri – Red Star Press il volume Euzkadi. La nazionale della libertà (2016).
Hellnation Libri
Pagine: 246
Formato: 13x20 brossurato con bandelle
Isbn: 9788867182206







la seconda è questa raccontata anche in una canzone scritta da Ligabue per i Modena City Ramblers  che  per  una   strana    coincidenza   sta passando  ora  fra le  canzoni  di youtube  che  sta ascoltando  e di cui  riporto  insieme  all'articolo il  video

Resistenza e memoria. Germano Nicolini, il Diavolo dal cuore buono

Centenario, è il partigiano di Correggio cantato da Ligabue: lo chiamarono così quando lo videro seminare i tedeschi che lo inseguivano. Divenne il suo nome di battaglia. L’intervista di Gad Lerner oggi nello speciale 25 Aprile sul sito di Repubblica




Lo chiamano "dièvel", diavolo, non per mirabolanti strategie militari o per l'astuzia nascosta nella coda del demonio, ma perché la mattina del 31 dicembre del 1944 lo videro fuggire tra i boschi di Correggio con la rapidità d'un furetto. Dietro la sua bicicletta che volava a zig zag, i soldati tedeschi lanciati all'inseguimento. "Ma l'è prôpi un dièvel!", è proprio un diavolo, dissero due contadine nascoste in cascina. E da allora Germano Nicolini è rimasto il "Comandante Diavolo", a dispetto della fibra morale e del suo destino di eroe buono.
Non perse il leggendario epiteto neppure quando fu sbattuto in galera nel 1947 con l'accusa platealmente infondata di aver assassinato il parroco della sua città, proprio lui che conosceva il significato profondo dell'esser partigiani, portare la vita non la morte, la solidarietà non la prevaricazione. E ora centenario, la passione ancora integra e il gesto irrequieto non addomesticato dal tempo, continua a testimoniare la sua incredibile vicenda, già celebrata da una canzone scritta da Ligabue per i Modena City Ramblers.



"Mi considerano un pezzo della storia italiana. Può darsi. Quel che è sicuro che ho passato dieci anni in galera da innocente. Ma non ho smesso per un secondo di essere l'unica cosa che sono: un antifascista, un democratico, un partigiano resistente che doveva resistere".
Quella di Germano Nicolini è una delle quattrocento testimonianze raccolte da Laura Gnocchi e Gad Lerner nel meritorio lavoro dedicato ai ragazzi che nel 1943 furono chiamati a una scelta estrema (Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, prefazione di Carla Nespolo, Feltrinelli; la clip dedicata al comandante Diavolo sarà trasmessa oggi pomeriggio su Repubblica Tv).
Una memoria che nella sua eccezionalità racconta molto di noi, di un'Italia che fin dal dopoguerra ebbe un rapporto inquieto con i resistenti: talvolta incompresi, tenuti ai margini o, come in questo caso, perseguitati da una giustizia ingiusta. E colpisce il filo esistenziale che tesse il racconto di Nicolini, la scelta del partigianato nata dalla vicinanza con gli ultimi, e rinnovata nel tempo dal patto morale stretto allora con i suoi compagni. È grazie a loro se ha resistito a testa alta "quando si è cercato di infangare una pagina luminosa della nostra storia". Ed è sempre grazie a loro che non si stanca di raccontare, "soprattutto oggi che si riaffaccia il cupo richiamo dell'autoritarismo".
Come il nome, anche la sua storia è carica di rovesciamenti romanzeschi, perché tutto ci si può aspettare ma non che il Comandante Diavolo, capo del terzo battaglione della 77esima Brigata Sap "Fratelli Manfredi", abbia subìto per quasi cinquant'anni lo stigma dell'assassino. Perché Germano era uno che detestava la violenza, "e se in molti credono che la Resistenza sia stata un fatto solo militare sbagliano, perché noi abbiamo preso le armi per difendere la popolazione". Credeva nelle leggi, Germano, "quelle del diritto e della sacralità della vita". E quando a guerra finita cominciò a respirare una brutta aria nelle sue zone, in Emilia, in quello che si sarebbe chiamato "il triangolo della morte", si adoperò per contenere in alcuni dei suoi compagni le tentazioni di giustizia sommaria. "Se si comincia a dire "ci facciamo giustizia da noi", la violenza prende il posto dell'ingiustizia. E la democrazia è più importante della rappresaglia".
Subito dopo la Liberazione fu nominato dagli americani reggente di Correggio. E fu in quei giorni che riuscì a compiere un piccolo miracolo, mai più ripetuto nel lunghissimo dopoguerra: una "mensa del reduce e del partigiano" dove potevano mangiare tutti allo stesso tavolo, resistenti ed ex fascisti repubblichini, a condizione che questi non avessero mai sparato o commesso reati.
Riuscì ad allestirla in poco tempo, facendosi dare i soldi dalle famiglie benestanti che avevano finanziato l'esercito di Mussolini. Cominciò così "il pranzo della conciliazione", che non era parificazione o confusione o smarrimento del senso storico, ma un modo per dimostrare "che era possibile non comportarsi come loro, spargendo odio e terrore". Sempre negli stessi giorni, durante un'ispezione nel carcere di Correggio, riuscì a sventare un assalto partigiano, salvando la vita a sei detenuti ex repubblichini. Alcuni di loro avrebbero testimoniato a suo favore nel processo per il delitto di don Pessina. Ed eccoci al fattaccio, che è storia conosciuta. Con la colpevole complicità della chiesa cattolica e del Pci, nel 1947 Germano Nicolini, ormai divenuto sindaco comunista di Correggio, viene processato e condannato per l'assassinio di don Umberto Pessina, il parroco di San Martino ucciso l'anno prima dai proiettili di tre ex partigiani. Tutti sapevano - o avrebbero presto saputo - che Germano non c'entrava niente. Lo sapeva il vescovo di Reggio Emilia, che però non l'amava perché cattolico passato con i rossi. Lo sapeva il Partito, che però non l'amava per lo spirito libero e gli propose di espatriare in Cecoslovacchia, insieme ad altri partigiani invischiati nelle violenze. Ma lui fu fermo nel rifiuto: alla fuga preferiva il carcere, soprattutto per dimostrare la sua innocenza. Dei 22 anni di pena, Germano ne trascorse in cella dieci, ma solo per via dell'indulto. Per ottenere l'assoluzione piena dovette aspettare il 1994. Dopo 47 anni, il comandante Diavolo ha potuto riavere indietro le sue mostrine militari. E le scuse dello Stato italiano.
Ora la sua lunga e complicata resistenza può raccontarla ai più giovani. E a loro ripete le parole con cui l'aveva salutato il suo amico Giacomo, ucciso dalle Brigate Nere: "Non dite che siete scoraggiati, che non ne volete più sapere. Pensate che tutto è successo perché non avete voluto più saperne"

  

ma  veniamo all'oggi 



mentre  mi apprestavo   a concludere   il post  d'oggi  apprendo    da  questo video





 quest'altra storia 

  da  http://www.gliocchidi.it/persone/ida_e_augusta


Ida e Augusta


Fotografia di Augusta Ludescher, anni Trenta
Ida Roser: Germania 1885  Gombio, 1956

Fotografia di Ida Roser, anni Quaranta
Augusta Ludescher: Germania 1881 - Gombio 1950)
La targa che ricorda Ida Roser e Augusta... - Spartiti - Jukka ...Siamo Ida e Augusta, le due tedesche di Gombio. Non crediamo di meritarci tutta questa attenzione. Abbiamo fatto solo quello che tutti dovrebbero fare: ricordare che non siamo bestie. Sia che si tratti di una vita umana, di un fiore o di una frittata.E a me, che sono Augusta, che sono passata da Berlino a Gombio per amore di Narciso Piazzi, non mi è parso di fare nulla di eccezionale, quando quel tedesco mi è entrato in casa. Stavano rastrellando e ci avrebbero ucciso tutti. Però una frittata è una frittata e non si entra in casa della gente senza chiedere permesso e si inizia a mangiare il cibo altrui. Allora l’ho detto ben chiaro “Lazzarone, è così che ti hanno insegnato l’educazione”. L’ho detto in tedesco, la mia lingua, e a lui non sembrava vero. Sentire la voce di sua madre, della sua maestra, della sua sorella. Di sasso.Trovare in quella povera casa in quel piccolo paese una donna che parlava la sua lingua. E lui ha chiamato il comandante. E il comandante si è messo a parlare con me e poi ha chiamato anche Ida. Due donne tedesche in quell’angolo di mondo. Abbiamo parlato e parlato e alla fine se ne sono andati. Non hanno ammazzato nessuno. Abbiamo salvato il paese.Ma lo sapete anche voi che, in fondo, non si è trattato della frittata. A volte basta la voce di una donna per fare ricordare che nessuno è nato carnefice. Che nelle vite di ognuno di noi c’è stato un sorriso o una gentilezza. Un momento in cui ci siamo pensati migliori di quello che siamo diventati. Un momento per una speranza o per una frittata. Noi non siamo eroine. Siamo solo le due tedesche di Gombio. Sorridete, quando ci guardate negli occhi. E lavatevi le mani prima di andare a pranzo.







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