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16.9.25

Battocletti vita forte da https://www.dols.it/ di daniela tuscano




C’è stato un momento in cui ho pensato potesse addirittura mangiarsi Beatrice Chebet, come ha fatto con le altre due avversarie Tsegay e Ngetich. Ma se per ora la campionessa keniana rimane imprendibile, sono sicura che in quei pochi istanti in cui la nostra Nadia Battocletti, «StraordiNadia» com’è ormai nota, è giunta quasi a sfiorarla, il brivido l’ha sentito. Chebet ha allungato il passo e chi s’è visto s’è visto ma Nadia l’ha costretta a farlo, non le ha concesso una vittoria «tranquilla».





Nadia è un riscatto. Sarebbe stata splendida pure da quarta con quella falcata precisa, asciutta ma armoniosa, tenace con grazia, da vera trentina. Invece, negli ultimi duecento metri, è balzata, anzi, sbalzata fuori come un bronzo del Cellini e ugualmente bizzarra, impietosa nella sua imprevedibilità, tutta nervi e ossa e muscoli, cuore & cervello. Ma anche consolazione, perché il suo scatto è una parabola della vita. Fino all’ultimo hai la possibilità di cambiare risultato.
Di scontato non c’è nulla, ogni minuto ha un senso. Lei, che è forte, lo è sempre stata, sorprende poiché sa essere fragile. La sua corsa ha qualcosa di sacrale nell’irrompere di un’energia finitima, che non è mai sprazzo o improvvisazione, ma frutto di lavoro silenzioso, invisibile al mondo, eppure continuo. Grazie, Nadia, non solo per l’immensa performance ma per questa parabola sulla vita che hai scritto con le tue gambe, il tuo corpo, la tua testa in un pomeriggio di fine estate, sul nastro arancione di Tokyo.




21.7.25

Gli uomini acetteranno un ruolo femminile ? Appello agli uomini per imparare l’uso del telaio. Poche le artigiane rimaste


Da
La Nuova Sardegna
Nuoro 19.7.2025

La tradizione   I tappeti di Sarule rischiano di scomparire, l’arte tessile cerca nuove mani: anche 
Appello agli uomini per imparare l’uso del telaio. Poche le artigiane rimaste
                                                di  Luca Urgu
     

Sarule C’era un tempo - ormai lontano - in cui bastava percorrere le strade di Sarule per sentire il suono del pettine in legno sul telaio. Raccontano che in paese ce ne fosse praticamente uno in ogni casa. Di una tipologia particolare, quello verticale. Una rarità nell’area del Mediterraneo. Ebbene, quello era rumore sordo e ripetitivo che accompagnava il lavoro - quasi a dettarne il ritmo - delle tessitrici. Una sorta di colonna sonora, una musica scesa oggi notevolmente di decibel. Eppure l’arte del tappeto della burra sarulese resiste grazie alle artigiani che si contano sulle dita di una mano. Animate dalla grande passione per un’arte antica che ha i suoi colori, trame che rimandano alla tradizione. Un mondo affascinante dove negli ultimi anni i designer guardano con sempre maggiore interesse e allo stesso
tempo l’universo dell’arte. Ora a lavorarci per creare la burra, il famoso e pregiato tappeto di Sarule interamente realizzato con la lana di pecora, sono rimaste in poche.
Carmela Brandinu, 56 anni, è una di loro. La donna racconta la sua infatuazione per la tessitura, un amore mai sopito malgrado negli anni, le vicende e le fortune legate a quest’arte siano state alterne. «Si, io ho iniziato da piccola, ho imparato da ragazzina, Poi ho continuato un corso all'Isola, ho lavorato nella cooperativa che esisteva in paese e al centro pilota. Quando questa esperienza si è conclusa ho continuato in privato», racconta l’artigiana che ha anche indossato l’abito di insegnante nei corsi realizzati in paese dalle amministrazioni comunali. «La passione per fare il tappeto è sempre viva, perché è un'arte che una volta che si impara non si dimentica e ci si augura sempre di tramandare alle nuove generazioni». Le ultime amministrazioni comunali hanno realizzato dei corsi seguiti da una dozzina di persone.


Altri contributi stanno arrivando dal Gal Barbagia Mandrolisai. «Siamo pochissime a saper lavorare la burra. Io e la mia amica siamo tra le più giovani. Sarebbe un peccato disperdere questo patrimonio di conoscenze», dice Carmela che insieme al figlio Fabio, ha costituito una cooperativa “Il telaio”. E apre al mondo maschile che storicamente sia a Sarule che anche negli altri centri storici della tessitura, non ha mai partecipato come forza lavoro. Insomma una sorta di parità di genere da telaio che abbatta nuove barriere. «Certo che si. Può essere anche un lavoro fatto da un ragazzo, l'importante è che abbia la passione di lavorare al telaio, di stare sempre seduto, di imparare tutti i meccanismi del tessere. Ben vengano gli uomini sono bene accetti», rimarca Carmela Brandinu.
Per il sindaco di Sarule Maurizio Sirca l’apertura verso l’universo maschile dall’artigiana è intrigante. «Sicuramente scardina un po' la visione del lavoro di genere è un'apertura interessante da guardare di buon occhio. Segno di una società che cambia e dove i ruoli diventano sempre più intercambiabili e complementari anche nel mondo delle professioni», dice il primo cittadino. «L’obiettivo è comune e per raggiungere il risultato serve un fronte compatto e trasversale. Ben venga la collaborazione tra uomini e donne. La speranza da sarulese è che questo appello venga raccolto con curiosità ed entusiasmo. In effetti sono i requisiti che servono per preservare e far vivere sempre con maggiore forza un’attività secolare evitando che scompaia e che possa generare reddito. A questo punto possiamo dire grazie alle donne ma a questo punto speriamo in un futuro di poter di rivolgere lo stesso rimngraziamento agli uomini che hanno creduto e investito in questa nobile e straordinaria arte», ha concluso Maurizio Sirca.


per chi volesse aprofonire
https://sardinias.it/guida/tappeti-sardi

27.6.25

Trend Fashion Tatreez, il ricamo tradizionale che custodisce la storia della Palestina: quando la resistenza passa da ago e filo. Dalle sue radici ai collezionismo

Ieri  ad  Aggius   come annunciato nel post precedente ho partecipato  a Frequenze per G4z4    e  ho visto   questi due film : 
The Embroiderers \Le ricamatrici di Maeve Brennan  e Gaza Fights For Freedom" di Abby Martin .  Mi ha colpito molto il primo film / corto metraggio di cui trovate  sotto  due video con i sottotitoli   in inglese  e   con  sottotitoli   in italiano .
 Prima  di lasciarvi ai video e  agli articoli    che ho trovato in rete per approfondire le mie curiosita sull'argomento vorrei  dire  alcune   cose  .
 Non sapevo  o  quanto meno non  immaginavo  che    anche   ago e  filo     fossero un potente strumento di resistenza culturale insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante  stia  come  sembra  testimoniare  il secondo articolo  diventando moda  . Ma   nonostante  tutto   esso  è  «  [....] Rinomato per la sua complessità, il tatreez è l’arte di ricamare a mano motivi a punto croce con fili dai colori vivaci sugli abiti. Molto diffuso nella società palestinese, esprime un patrimonio di conoscenze e abilità che si caratterizzano come una «pratica sociale e intergenerazionale», spiega l’Unesco, che il 15 dicembre scorso ha incluso l’arte del ricamo palestinese nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Con tale riconoscimento l’Unesco cerca di dare maggiore visibilità e di tutelare i vari elementi del patrimonio culturale del genere umano che possono essere minacciati.
Simbolo dei legami familiari
Tradizionalmente le donne palestinesi si riuniscono nelle case dell’una o dell’altra per ricamare e cucire insieme, spesso accompagnate dalle figlie. Questa abilità manuale (ma non solo), che simboleggia i legami familiari, si trasmette essenzialmente di generazione in generazione. Oggigiorno le donne possono anche incontrarsi nei centri sociali, dove hanno anche modo di commercializzare i loro lavori. [...]   da : Il ricamo palestinese è patrimonio dell’Umanità   di Terrasanta.net ».  

Ma  ora  bado alle  ciancie  a  voi   i video   e  gi articoli   in questione   buona   visione   e lettura 



 Per chi non mastica bene l'inglese ecco la versione con sottotitoli in italiano



insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante   stia  come  sembra  testimonia  il secondo articolo  diventando moda  .


Di Maha Abu Shusheh THIS WEEK IN PALESTINE 

All’inizio, il ricamo sugli indumenti veniva utilizzato per adornare gli abiti dell’élite dominante e delle figure religiose di alto rango e incorporava metalli come l’oro e l’argento nella seta e in altri tessuti per imprimere e abbellire gli indumenti. Con il tempo, il ricamo si è diffuso nei villaggi grazie alle religiose che hanno formato ragazze economicamente svantaggiate nel ricamo per creare abiti per figure religiose. Successivamente, le ragazze trasferirono queste pratiche nei loro villaggi. Questa transizione ha permesso più libertà alla forma d’arte di fiorire, diventando in seguito una pratica popolare che era distinguibile in base alla cultura, alla comprensione della natura e alle credenze di ogni villaggio. Il ricamo è diventato una pratica continua e sostenibile che collega gli abitanti del villaggio con l’eredità, le pratiche, le storie trovate sui simboli e motivi dell’epoca. Le donne palestinesi dei villaggi e delle comunità beduine hanno portato avanti questa tradizione, sviluppandola ulteriormente e permettendole di evolversi nel corso degli anni, utilizzando tessuti di seta, lino e cotone per creare i loro capi. Queste donne erano generalmente note per indossare una vasta gamma di indumenti, da abiti pesantemente ricamati (indossati ai matrimoni e in occasioni speciali) agli abiti di tutti i giorni leggermente ricamati. Tutti sono stati decorati con una miriade di tecniche di ricamo, in particolare il punto croce e il rivestimento di Betlemme.      Questi punti si sono uniti in uno spettro di colori vivace e ampio che sono stati combinati con tecniche altamente qualificate per creare capolavori colorati in diversi tagli, riflettendo la bellezza e la modestia del villaggio e delle sue donne.

La parte posteriore di un abito di Al-Ramleh che condivide elementi con gli abiti dei villaggi di Yibna, Bashit e Al-Basheer, spopolati nel 1948.               I primi campioni di abiti palestinesi ricamati risalgono al diciannovesimo secolo. Prima di allora, abbiamo solo una descrizione di questi pezzi basata sulle osservazioni dei viaggiatori. Solo pochi orientalisti e viaggiatori avevano descritto l’abbigliamento palestinese in relazione al loro interesse religioso per la Terra Santa, dove il loro disprezzo e disdegno per la popolazione locale era evidente attraverso la loro descrizione della popolazione locale “primitiva”.
Gli indumenti ricamati palestinesi sono conservati nelle collezioni di John Whiting, la Church Missionary Society (CMS), Rolla Foley, Dar Al-Tifl Al-Arabi, Widad Kawar, il Museo di Israele e il Museo della cultura beduina.

Missionari, orientalisti e viaggiatori acquistavano ricami per interessi religiosi oltre che economici. Per alcuni la priorità era collezionare ricami, per altri vendere gli articoli in Europa e negli Stati Uniti per sponsorizzare i loro progetti in Palestina. Questi pezzi ricamati sono entrati a far parte delle collezioni di individui o chiese e alla fine sono finiti nelle collezioni dei musei etnografici nel ventesimo secolo, formando la base delle collezioni museali di abiti tradizionali palestinesi.

The John Whiting Collection: in qualità di manager del negozio American Colony nella Città Vecchia di Gerusalemme, John Whiting parlava correntemente l’arabo e conosceva bene le tradizioni locali. Era anche molto appassionato di acquistare abiti tradizionali palestinesi dai vari villaggi che ha visitato. La sua collezione comprendeva alcuni pezzi che risalgono al 1840 Quando John Whiting morì negli Stati Uniti nel 1951, la sua collezione fu inizialmente passata a sua moglie e in seguito finì al Museum of International Folk Art di Santa Fe. La sua collezione di 26 pezzi è diventata il fulcro della collezione del museo di abiti tradizionali palestinesi, che è stata successivamente integrata dal sostegno di Widad Kawar che è stato in grado di colmare le lacune nella Collezione Whiting.

Il pannello posteriore di un abito di Ni’lin, un villaggio a ovest di Ramallah.

Collezione della Church Missionary Society (CMS): Sheila Weir ha collaborato con il British Museum nella selezione di una collezione di abiti tradizionali palestinesi dalla Collezione CMS che era stata portata dalla Palestina. Tra il 1967 e il 1968, Weir ha condotto un’indagine attraverso la Palestina storica per documentare la Collezione CMS, per apprendere il vocabolario del ricamo e i nomi di elementi, motivi e punti e per identificare le caratteristiche distintive dei pezzi in base al loro luogo di origine .ra il 1969 e il 1970, Sheila Weir ha ampliato la sua indagine per includere la Giordania e i campi profughi palestinesi e ha acquisito un gran numero di pezzi che le donne nei campi profughi avevano conservato dopo la Nakba e la Naksa . Weir ha anche acquisito telai da Al-Majdal da aggiungere alla collezione etnografica in espansione del British Museum. A ciò è seguita l’istituzione del Museum of Mankind a Londra che ha avviato le sue attività con una mostra sulla tessitura in Palestina e sugli abiti tradizionali palestinesi.

La manica di un abito di Ramallah che è eccezionale perché è stata ricamata con un rivestimento in stile Betlemme.

The Rolla Foley Collection: Rolla Foley è stato un insegnante di musica americano che dal 1938 al 1946 ha lavorato presso la Friends School di Ramallah, dove è stato responsabile del programma musicale in Palestina, Libano, Giordania orientale e Siria. Ha pubblicato diversi libri sulla musica in inglese, francese, arabo e armeno e ha fondato un festival di musica folcloristica che comprendeva il suo interesse per la produzione culturale e artistica locale, in particolare il ricamo. Durante il suo soggiorno in Palestina, Foley collezionò ricami palestinesi, dipinti e ceramiche prima di tornare negli Stati Uniti nel 1946.
Foley tornò in Palestina nel 1952 per completare la sua ricerca di dottorato sulla musica folcloristica palestinese, dove si trovò di fronte al fatto che i suoi amici di Yafa erano diventati rifugiati a Ramallah dopo la Nakba.. Avevano perso le loro case e la maggior parte dei loro beni. Foley ha riconosciuto che a causa degli sfollamenti forzati, il ricamo palestinese era minacciato di cancellazione, quindi ha avviato una collezione diversificata che includeva abiti, giacche e cuscini ricamati. All’inizio degli anni ’60 fondò anche un piccolo museo a Oakland, Illinois, ma a causa della sua prematura scomparsa nel 1970 il museo fu chiuso. La sua collezione passò ad Hanan e Farah Munayer, con una descrizione dettagliata di ogni pezzo, inclusa la storia del pezzo stesso, la data di acquisizione, il nome del proprietario e il villaggio da cui aveva avuto origine. Questa accurata documentazione ha permesso di tramandare questo patrimonio alle generazioni future e ha fornito preziose informazioni sui pezzi della collezione.
All’inizio degli anni ’30, i collezionisti palestinesi iniziarono a creare le proprie collezioni di ricami nel tentativo di preservare questo patrimonio e garantirne la continuità per le generazioni future. È importante menzionare qui due raccolte principali.
Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi: Hind Al-Husseini iniziò a collezionare abiti palestinesi come parte della Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi negli anni ’30, per poi ampliare la collezione dopo la Nakba del 1948 . La sua risposta è derivata dalla sua convinzione nell’importanza di salvaguardare il patrimonio palestinese dall’essere spazzato via di fronte all’occupazione. Questo è stato in aggiunta al suo lavoro filantropico, dove ha fornito alloggi ai bambini rifugiati nella sua fondazione, Dar Al-Tifl Al-Arabi. Dopo la Naksa del 1967 , la Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi si espanse ulteriormente per includere la collezione di ricami del Museo di arte popolare palestinese.

La manica del vestito di Al-Ramleh.

La collezione Widad Kawar: qualche tempo dopo, Widad Kawar ha iniziato un viaggio che ora l’ha portata ad acquisire migliaia di pezzi dalla Palestina, dalla Giordania e da altre parti del mondo arabo. Ha iniziato la sua collezione con un abito affascinante del villaggio di Aboud e oggi possiede una collezione che ha viaggiato per il mondo portando il messaggio della Palestina. Widad Kawar ha anche fondato il Tiraz Center ad Amman, in Giordania, per mostrare la sua collezione speciale di abiti palestinesi in un ambiente interattivo ed educativo. Ha anche contribuito notevolmente alla produzione di libri e materiali di valore inestimabile per documentare e preservare questo patrimonio. La sua collezione e i suoi sforzi hanno ispirato e incoraggiato la creazione di diverse collezioni individuali e organizzative.Altre collezioni di ricami palestinesi sono detenute da istituzioni palestinesi, tra cui la Birzeit University e il Museo Palestinese, e da individui palestinesi che cercano di preservare e documentare l’eredità e la storia palestinese.
Ci sono anche collezioni di abiti e gioielli ricamati palestinesi, tra molti altri oggetti palestinesi, che si trovano oggi nei musei e nelle collezioni private israeliane. Nel 1948 Israele cancellò dalla mappa più di 400 villaggi palestinesi e trasferì le loro popolazioni nei paesi vicini. I collezionisti israeliani hanno successivamente accumulato un gran numero di costumi e strumenti tradizionali palestinesi nel tentativo di trovare un collegamento tra questi oggetti e la presunta storia israeliana nella regione.

Il retro di un abito di Hebron con elementi tipici anche degli abiti di Al-Faluja, Iraq al-Manshiyya e Beit Jibrin, villaggi spopolati nel 1948.

Parallelamente agli sforzi in corso dello stato israeliano per cancellare la Palestina e i palestinesi dalla mappa e dalla memoria, i musei israeliani hanno paradossalmente raccolto abiti e strumenti tradizionali palestinesi in modo implacabile nel corso degli anni. I seguenti sono alcuni esempi.
The Israel Museum: il museo è stato fondato nel 1965, quando il ricercatore e curatore antropologico Ziva Amir era responsabile della raccolta in massa di abiti tradizionali palestinesi. Amir ha approfittato dell’estrema vulnerabilità dei palestinesi dell’epoca e ha sfruttato questa situazione per acquisire ricami palestinesi dai rifugiati palestinesi impoveriti. Amir ha pubblicato diversi libri e articoli sull’argomento, concentrandosi sulla traccia dell’Antico Testamento attraverso questi pezzi raccolti, senza menzionare nemmeno la Palestina oi palestinesi.

Pannello laterale di un abito Ramallah bianco di rumi (lino) dei primi del Novecento.

Il Museo della cultura beduina: la collezione del museo risale alla sua istituzione nel mandato britannico della Palestina nel 1938. Documenta la vita dei beduini ad Al-Naqab e comprende una vasta gamma di pezzi che includono vestiti, strumenti, tende, tappeti e tessuti intrecciati
Questa storia e la realtà odierna sottolineano l’importanza di sviluppare ed espandere le collezioni di ricami di proprietà palestinese. Oltre a salvaguardare una forma d’arte tradizionale palestinese che è stata violentemente interrotta a causa della Nakba e dell’occupazione in corso, queste collezioni possono anche preservare una parte essenziale del nostro patrimonio immateriale. Le storie che raccontano non comprendono solo gli indumenti stessi, ma anche il modo di vivere che sono stati progettati ad arte per accogliere. Di fronte alla brutale macchina dell’occupazione, preservare e celebrare la nostra identità culturale è fondamentale per garantire la continuità della nostra cultura per le generazioni a venire.Visualizza PDF

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Il tatreez è più di una semplice decorazione. È un modo di raccontare storie, preservare il patrimonio culturale ed esprimere la nostra identità». Mi spiega Yasmeen Mjalli fondatrice e direttrice creativa di Nöl Collective, brand di abbigliamento basato a Ramallah, in Cisgiordania. «Ogni punto ha un significato, ogni motivo racconta la storia familiare, l’identità regionale o eventi significativi nella vita di chi lo indossa».

Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.

Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.

Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.


Abeer Dajani, fondatrice di Taqa Clothing aggiunge: «La parola tatreez (تطريز) significa "abbellimento" in arabo. Ma oltre a essere una decorazione, è sempre stato un modo per le donne palestinesi di esprimere la propria identità, le esperienze e il patrimonio regionale attraverso motivi e disegni. Storicamente, è stato un linguaggio a sé: alcuni punti e colori potevano raccontare da dove veniva la donna che il indossava, il suo stato civile e persino la sua storia personale».
Praticata da oltre 3.000 anni, questa forma di ricamo tradizionale viene trasmessa di generazione in generazione, da madre a figlia, in Palestina così come nelle comunità di emigranti palestinesi in tutto il mondo. Sebbene la sua origine risalga alle zone rurali, oggi la tradizione di cucire e indossare abiti ricamati è diffusa sia nei villaggi che nelle città, e i diversi motivi rappresentano le diverse regioni della Palestina storica.


Il thobe abito tradizionale palestinese ricamato con trateez nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing....

Il thobe, abito tradizionale palestinese ricamato con trateez, nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.


«Molti motivi tradizionali del tatreez rappresentano elementi della terra - fiori, alberi, animali -simboli del paesaggio unico della Palestina – mi spiega ancora Mjalli di Nöl Collective - Alcuni motivi rappresentano piante specifiche come i rami di ulivo, i fiori selvatici o i melograni, che hanno un significato culturale significativo, mentre altri raffigurano elementi della vita palestinese legati alla terra, come la kefiah o la famosa Cupola della Roccia. Questi motivi non sono semplicemente belli, sono una forma di resistenza, un modo per mantenere viva la memoria di una terra e della sua biodiversità di fronte alla diaspora, all'occupazione e alla distruzione»
Dichiarato nel 2021 dall’UNESCO patrimonio culturale immateriale e intellettuale dell’umanità, il tatreez è simbolo di resistenza culturale. Mantenere viva quest’arte significa preservare una parte fondamentale dell’identità e della cultura palestinese, in un momento in cui le radici culturali rischiano di essere cancellate. «Il tatreez offre un modo per archiviare e conservare ciò che sta per essere cancellato - continua Mjalli - Preserva le storie della terra, storie che non possono essere distrutte da bulldozer o da confini. Tessendo questi motivi nei nostri design, stiamo attivamente proteggendo la memoria di un paesaggio che potrebbe presto essere dimenticato dal mondo, ma che vivrà sempre nei nostri fili».



Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen MjalliNol Collective.

Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nol Collective.

 
gerinea
Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen MjalliNöl Collective.

Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective


l thobe, ampio abito tradizionale indossato dalle donne palestinesi, è il capo di abbigliamento più comunemente ricamato. Ma sono diversi i designer che integrano il tatreez in creazioni dal design contemporaneo, producendo abbigliamento e accessori in grado di parlare anche al resto del mondo. Questo è particolarmente evidente nel lavoro di Yasmeen Mjalli che mixa le tradizioni della sua terra di origine con una visione contemporanea e internazionale della moda.
Nata negli Stati Uniti da genitori palestinesi emigrati, la giovane designer è tornata in Cisgiordania dopo la laurea in North Carolina e nel 2017 ha fondato Nöl Collective a Ramallah. Mjalli integra nel suo lavoro tecniche indigene, come la tintura dei tessuti con coloranti naturali derivati da piante locali, radici e insetti, l’utilizzo di metodi tradizionali di tessitura come il majdalawi, e il coinvolgimento di una rete di artigiani locali per ricamare a mano gli abiti, creando una combinazione unica di silhouette e tagli contemporanei e decori tradizionali palestinesi.


Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer DajaniTaqa Clothing.

Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.



Lo stesso fa Abeer Dajani con Taqa Clothing, seppure lontana dalla sua terra, tra Sidney, in Australia, e Riyad, in Arabia Saudita. Dopo aver studiato modellistica per abbigliamento femminile all'Istituto di Moda Burgo di Amman, in Giordania, con l'obiettivo principale di avviare una linea di moda ispirata al patrimonio palestinese, nel 2017 Dajani ha fondato Taqa, che lei stessa definisce un'esplorazione dell'arte indossabile, pezzi che raccontano storie, cultura e identità, rimanendo moderni e versatili.
«La moda è uno strumento potente di rappresentazione. Pensate alla kefiah, è diventato un simbolo globale di resistenza, identità e solidarietà. Allo stesso modo, il tatreez non è solo ricamo, è storia indossabile. Ogni punto porta con sé una narrazione, una connessione con il passato e un senso di appartenenza. Indossando questi pezzi, le persone si connettono a una storia più grande di loro. Vedo tutto ciò come parte di un cambiamento più ampio: le persone stanno rivendicando le arti indigene, valorizzando l'artigianato rispetto alla produzione di massa e trovando modi per esprimere la loro identità attraverso la moda».
La storia di queste e delle tante altre designer, tessitrici, ricamatrici palestinesi, che fanno della moda un mezzo di preservazione della storia, si colloca in un movimento globale che sta coinvolgendo il mondo della moda: non solo l'artigianalità (e la sostenibilità) di ciò che indossiamo comincia ad acquisire importanza, ma anche le mani che lo creano hanno rilevanza, così come la storia che si cela dietro a ogni capo e accessorio. Soltanto così la moda diventa energia creativa, forza propulsiva che sospinge verso il futuro. Nonostante le guerre, nonostante tutto.
«La creatività è una forma di resistenza, un modo di affrontare e persino di guarire - sono le parole di Yasmeen Mjalli - è una risposta al dolore, un modo per reclamare bellezza e dignità in uno spazio dove sono costantemente minacciate. Per me, essere creativa in questo contesto significa onorare il passato e il presente, ma anche immaginare un futuro, un futuro in cui i palestinesi possano vedere le possibilità di una vita più luminosa e libera. È una miscela di cuore spezzato e speranza, e il lavoro porta con sé quel peso emotivo. È un promemoria che anche nei momenti più bui, c'è ancora spazio per la creazione, per l'espressione e per reclamare la nostra narrazione».

23.4.25

che importanza ha se una giornalista è truccata o meno . giudichiamola come i maschi per l'eventuale la serietà, la professionalità il caso degli attacchi a Valentina Bisti, Tg1 e Cesare Buonimici Tg5 ree di essere andate in onda senza trucco

Dopo il caso di giovanna Botteri criticata perchè non si tinge i capelli e compare con i capelli bianchi ecco i caso di due giuornaliste Valentina Bisti, Tg1 e Cesare Buonimici Tg5 attaccate e derise pechè andate in onda senza trucco .
Ora mi chiedo  🤔🙄😕🧐🤫 che importanza ha se una dona si trucca o meno ? A me piacciono le onne a l naturale senza trucco non rifatte senza lifting  . Infatti   non sapevo     che dire   che  una  donna sta  meglio   senza  trucco fosse  un offesa    \  insulto.  Come  una   se  una  donna   non truccata    non sia  bella  ed  affascinante  
 Però  allo stesso tempo mi chiedo  perchè piuttosto che valutare la serietà, la professionalità di queste due grandi giornaliste, si è guardato al loro lato estetico. Ma davvero ancora nel 2025 dobbiamo ancora valutare questo e non quanto una giornalista trasmette grazie alle proprie competenze o incompetenze dipende dai punti di vista . E poi , lo stesso discorso vale per noi uomini , bisogna sempre scegliere con la propria testa e mai farsi condizionare dagli altri. Molte volte pensiamo di dover cambiare per piacere agli standard che la società ci impone ma il bello è proprio questo, ognuno di noi è unico, autentico, originale! ndipendentemente     con i trucchi  o meno  .   Non dobbiamo cercare in tutti i modi di rientrare nei canoni di ciò che vogliono gli altri. Noi siamo noi, ed è questo che ci renderà sempre e semplicemente NOI... . 




quindi    cosa importa  se   uan donna  si trucca   a  meno  .  Io  le  preferisco  al naturale   , se  poi   truccarsi   o  rifarsi   la fa  sentire  meglio   più sicura   contenta  lei  .


Ma soprattutto non si deve cambiare per piacere a qualcuno, chi ci tiene veramente a noi ci ama per come siamo.



12.3.25

la parità sarà veramente tale quando smetteremo di stupirci se una donna compie le stesse azioni orribili che siamo abituati ad associare a un maschio: rivolgere un insulto sessista a una ragazzina

Leggoche  nella giornata dell'8 Marzo a Motta di Livenza: durante una partita del campionato regionale veneto,  la madre di un giocatore di basket ha inveito contro l’arbitra, esortandola a darsi alla prostituzione . La società  sportiva    del posto aveva da poco lanciato un'iniziativa per rispettare gli
arbitri. Condanna di squadra e Federazione. L’arbitra, una diciottenne di nome Alice Fornasier, è scoppiata a piangere, interrompendo il gioco per una ventina di minuti. Persone più evolute di me hanno provato a spiegarmi che la parità sarà veramente tale quando smetteremo di stupirci se una donna compie le stesse azioni orribili che siamo abituati ad associare a un maschio: rivolgere un insulto sessista a una ragazzina che potrebbe essere tua figlia, per esempio. Però non posso negare di avere coltivato l’illusione che le donne fossero portatrici di un modello diverso, meno aggressivo e violento. E che la loro progressiva affermazione sociale, seppur ancora largamente incompleta (siamo lontani dal rovesciamento dei ruoli suggerito dal video di Checco Zalone  o  lo trovate  anche   qua  sotto   ) 


avrebbe imposto uno stile nuovo nella politica, negli affari e persino nel tifo. Invece sempre più spesso ci tocca leggere di ragazzine a capo di una gang, e di madri assatanate contro qualsiasi autorità, dall’insegnante all’arbitro, si interponga tra il successo e i loro figli. Donne che, nel linguaggio e nei gesti, sembrano ispirarsi al più becero degli schemi maschili. Mi ostino a pensare che di modello ne esista un altro, basato sull’accoglienza e sul rifiuto della competitività ossessiva. Un modello femminile, si può dire? La vera rivoluzione consisterebbe nell’aderirvi tutti, anche i maschi.

7.9.24

quando è femminicidio e quando violenza di genere . risposta al post<< Rebecca, medaglia crocifissa >> di Daniela Tuscano per Dols

L'ottimo articolo : << Rebecca, medaglia crocifissa >> dell'utente Daniela Tuscano per   Dols magazione \ dols.it mi ha portato a chiedermi quando è femminicidio e quando è violenza di genere ? Non avevo tempo , sono impegnatofra lavoro e come classe di nascita per il comitato per una delle due feste cittadine di settembre dell'anno prossimo ho cerca con copilot ( la IA di Bing.it ) La differenza tra femminicidio e violenza di genere . Ecco la risposta 

è importante da comprendere:
Femminicidio: Si riferisce all’uccisione intenzionale di una donna a causa del suo genere. Esso è la forma più estrema di violenza di genere e spesso avviene in contesti di relazioni affettive, sessuali o familiari. Le motivazioni dietro il femminicidio includono dinamiche di dominio e possesso, dove l’omicida non tollera l’autonomia o l’indipendenza della vittima.
In sintesi, mentre il femminicidio non è un reato autonomo, le leggi italiane riconoscono la gravità della violenza di genere e prevedono misure specifiche per affrontarla.


Ora  su Sharon   Verdeni   io   ci vedo  di  più    ( ovviamentre  senza  sminuire    e  giustificare perchè     sempre  crimine  abbietto   e  turpe    si tratta   )   come  violenza  di genere  .
Ma  soprattutto   (  ovviamente  senza giustificazione  e sminuirlo ) il delitto  è   come evidenziato   da  quello fin qui  emerso   ,  dovuto  al  disagio   psichico  del carnefice  . Infatti   secondo quanto  riporta  l'ultimo  n  del settimanale  Giallo  



<< [.... ] da quello che sta emergendo dalle indagini è il profilo di un uomo che potrebbe aver già fa!o del male ad altre persone e che poteva uccidere ancora. È molto più di una suggestione: le parole della sorella sono una drammatica conferma a questa ipotesi. E allora cominciamo proprio dalla sorella Awa, studentessa di Ingegneria gestionale. La ragazza, in lacrime, ha rivelato come lei e la mamma Kadiatou Diallo, 53 anni, avesero fatto di tutto per fermare Moussa. Avevano presentato tre denunce ai carabinieri, inutilmente. In un verbale datato novembre 2023 si legge: «lo e mia madre ci siamo interessate al !ne di condurlo in una stru"ura di recupero, che ha sempre ri!utato. I controlli ci sono stati, ma solo per una questione di agibilità della casa, dopo l’incendio che c’è stato a luglio di un anno fa. Per mio fratello, invece, nessuno si è mosso. Abbiamo fatto di tutto per liberarlo dalla dipendenza, per a$darlo a chi potesse aiutarlo, ma lui ha sempre ri!utato. A noi, dopo aver verbalizzato le denunce, hanno dato i volantini dei centri antiviolenza. Per un eventuale ricovero di mio fratello, invece, ci hanno risposto che doveva essere lui a presentarsi in modo volontario». La ragazza è distru"a. Così come la sua mamma, già provata nel fisico da un ictus.
AVEVA DATO IN ESCANDESCENZE
Le denunce delle due donne risalgono a luglio e novembre del 2023 e a maggio del 2024. La prima dopo l’incendio appiccato in casa. La seconda per un episodio di violenza domestica: Moussa aveva dato in escandescenze rompendo un televisore, ribaltando la scrivania della sorella e mettendo a soqquadro la casa. Era stato chiamato il 118, ma lui si era barricato in camera e la cosa era !nita lì. Nel verbale dell’ultima denuncia, in!ne, spunta il coltello. Awa è tornata indietro con la memoria per ricordare questo terribile episodio: «Mi ha raggiunta alle spalle mentre stavo ascoltando la musica in sala e mi ha minacciato con la lama. Io non mi ero accorta di niente, ma mia mamma, che dopo l’ictus non riesce più a parlare, cercava di farmi capire che ero in pericolo. Allora io mi sono girata e Moussa si è fermato. Se ne è andato, ridendo». L’avvocato Stefano Comi, che assiste le due donne, ha aggiunto: «Moussa andava fermato, era fuori controllo. Picchiava e minacciava. Il sindaco e gli assistenti sociali lo sapevano, almeno un accertamento sanitario andava fa"o». Una vicina, allarmata dall’indole violenta di Moussa, era andata dal sindaco e in un’altra occasione aveva chiamato le forze dell’ordine. Ma niente di concreto era stato fa"o. Moussa non era nemmeno in cura. Com’è possibile che i servizi sociali non siano intervenuti ? >>

quindi   chiedo  a  lei  come  a  tutte le  femministe  di Dols   perchè  per  voi  è tutto   femminicidio   e patriacarto  anche quando  non  lo è ?

  

18.6.24

Le sei wonder women di Tonara: «Gol di tacco? Meglio di testa»Le mamme che hanno preso il timone della storica Polisportiva locale. «Un impegno da affrontare con serietà, una dichiarazione d’amore per il calcio» e Danimarca, la Nazionale di calcio maschile rifiuta l’aumento di stipendio e garantisce la parità salariale per quella femminile



  da  la  la nuova sardegna del  16\6\2024 
Le sei wonder women di Tonara: «Gol di tacco? Meglio di testa»
                         di Alessandro Mele


Le mamme che hanno preso il timone della storica Polisportiva locale. 



Tonara Tra quelle montagne ora sono più famose del torrone e il merito se lo sono conquistate, è il caso di dirlo, sul campo. L’esempio calza a pennello perché quello che hanno ottenuto per il loro paese non è cosa da poco: hanno salvato la Polisportiva Tonara. Sei donne, sei storie diverse da raccontare sono diventate sei calci di rigore imparabili. Gol che si moltiplicano se si calcola quanti bambini, quanti giovani, potranno continuare a sventolare maglie e bandiere rossonere. Quante famiglie potranno continuare a contare su un grande supporto sociale, quello di far crescere i propri figli sul manto erboso del proprio paese.
Perché il calcio a Tonara è scuola di vita, è una storia di rispetto reciproco, è storia d’amore per la maglia e per quel senso di appartenenza profondo che da sempre contraddistingue la purezza del dna montagnino. E così, tra le mille cose da organizzare per il settore giovanile e la prima squadra, le nove wonder women hanno il tempo e lo spirito di raccontare chi sono e da dove arriva tutta questa forza fatta di cuori di mamme ingabbiati in un animo da super tifose, quasi da ultras d’altri tempi.
A partire dalla presidentissima Maria Sau, 52 anni e mamma di Greta e Nina. Lavora in Comune nel settore finanziario. «Più che una passione, la sfida del Tonara è un mettersi alla prova – commenta –. Sono una donna del fare e quindi ho risposto “presente” all’esigenza di guidare la polisportiva. Vengo da una famiglia di 4 donne, mio padre ci ha trasmesso l’amore per il calcio e ce lo ha sempre raccontato. È vero, faccio un lavoro impegnativo, ma questo non è da meno. Vivo il calcio come un vero e proprio lavoro, per il Tonara non dormo la notte perché è la mia più grande passione. Inizio a essere stanca, ma mi sento un trattore, anche se non sono ancora andata al mare».
Poi c’è Cristina Sau, anche lei ha 52 anni ed è mamma di due piccole donne, Marika e Camilla. Per lei la passione per il calcio è nata in età più matura: «Ho fatto la fiorista per 13 anni – racconta col sorriso –, da 11 invece mi occupo di una ragazzina portatrice di disabilità. Una delle mie figlie, gioca a calcio da quando ha sei anni, in Serie C; ed è stata lei a trasmettermi questa grande passione. Ormai da 14 anni, la seguo da un campo di calcio all’altro. Sono sempre stata una spettatrice del Tonara, adesso la mia famiglia ha sposato questa sfida bella e totalizzante per tutti. Siamo veramente contenti e fiduciosi».
È la volta di Eleonora Porru, imprenditrice 40enne, è titolare di un torronificio. Ha due gemelli di 7 anni, Simon e Giommaria. «Fino a d oggi ho seguito il calcio solo da lontano – ammette – scegliendo di dedicare la maggior parte del mio tempo al lavoro. Non mi pento di aver scelto di occuparmi del Tonara, perché per me adesso è un modo per lasciare a casa i problemi della vita. D’altronde non c’è tonarese che non tifi questa squadra e io sono qui con l’obiettivo di rendere la polisportiva famosa almeno tanto quanto il nostro prodotto di nicchia che piace a tutti, ossia il torrone».
Noemi Deligia, 31 anni, nata a Belvì, è agente della polizia locale. La nuova stella di Tonara la porta in grembo, è al nono mese di gravidanza. «Sono una ex giocatrice, questo a sottolineare la mia passione per questo sport. Certo – prosegue –, la gravidanza mi ha un po’ allontanato dal campo, ma grazie all’entusiasmo di mio marito sto conciliando tutti gli impegni con serenità. Tifo il Cagliari e sono amante del calcio da sempre, anche in nome di questo desidero trasmettere a mia figlia questa stessa passione».
Tra chi guida la polisportiva c’è chi si deve occupare di tenere i conti e di occuparsi dell’anima degli atleti. È il caso di Maria Stefania Columbu, 57 anni di Ollolai ma residente a Tonara. È una funzionaria regionale nei centri per l’impiego. «Mi occupo di orientamento per i giovani disoccupati – dice – e questo abbiamo fatto anche con i giovani atleti del Tonara in termini di gestione del gruppo. Le donne forse riescono meglio a gestire le dinamiche dello spogliatoio e degli spalti. Ho due figli maschi che parlano solo di calcio e ora sto comprendendo la loro passione. Non so neanche cosa sia il fuorigioco, ma voglio occuparmi del lato umano delle cose».
Tra le sei, anche Rosalba Asoni, 57 anni e impiegata Inps: «Mio figlio gioca in prima squadra e anche io mi dilettavo con piacere. Questo progetto per me è una missione, una vocazione. Utilizzo il tempo che ho per il campo e per i nostri atleti».
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Danimarca, la Nazionale di calcio maschile rifiuta l’aumento di stipendio e garantisce la parità salariale per quella femminile



Con un gesto simbolico, ma anche tremendamente concreto, i giocatori della Nazionale danese che stanno disputando l’Europeo in Germania hanno rifiutato un aumento di retribuzione da parte della Federazione per garantire la parità salariale con la Nazionale femminile. In pratica, a partire da dopo Euro 2024, rinunceranno al 15% dei compensi destinati alla squadra maschile, grazie a cui saranno aumentati del 50% quelli delle calciatrici donne. Hanno fatto, cioè, da soli quello che né la Federazione né il mercato chiedeva loro. E sarà pure un piccolo gesto, ma di questi tempi, e visto da queste latitudini, non scontato, esemplare, da sottolineare e ammirare.
IL bel gesto da parte della Nazionale di calcio maschile della Danimarca che rifiuta l’aumento di stipendio e così garantisce la parità salariale per quella femminile: un compenso equo annunciato dallo stesso sindacato Fifpro. Non è passato inosservato il rifiuto da parte della
Nazionale di calcio della Danimarca  sull’aumento di stipendio che, così, garantirà la parità del salario per la squadra femminile: un consenso che è partito da veterani ma che è stato accolto di buon grado da tutta la rosa
La Nazionale maschile, dunque, percepirà la stessa retribuzione di base di quella femminile: assicurando così la parità di guadagno e maggiori diritti anche alle calciatrici. Un gesto che segna la recente storia della Nazionale calcistica e che sottolinea un valore etico e uno spessore umano non comune.
A confermare quanto accaduto lo stesso sindacato Fifpro che ha dichiarato come la Nazionale maschile al termine di Euro 2024 avvierà un contratto quadriennale senza alcun cambiamento nello stipendio e una riduzione della propria copertura assicurativa:
“In Danimarca la Nazionale femminile ha firmato un accordo con la federazione che le garantirà un compenso equo con la squadra maschile. Il contratto quadriennale, in vigore al termine degli Europei, prevede che i calciatori della Danimarca accettino una riduzione della propria copertura assicurativa: non solo, hanno rifiutato un aumento salariale per poter ridistribuire equamente le risorse anche alla squadra femminile”.


Una riduzione che, in sostanza, prevede un taglio del 15% sulla copertura assicurativa per la squadra maschile e che permetterà al contempo di aumentare la copertura assicurativa di quella femminile del 50% in più rispetto al contratto precedente.
A giovare di questo gesto, però, non ci sarà soltanto la Nazionale calcistica femminile ma anche quella dell’Under 21 maschile che potrà usufruire di una copertura assicurativa del 40% in più rispetto al precedente accordo.
Michael Sahl Hansen, direttore del sindacato danese Spillerforeningen, ha poi chiarito quanto sia importante questo passo ai fini della contribuzione per migliorare le condizioni generali della Nazionale femminile: “È un passo straordinario per contribuire a migliorare le condizioni delle nazionali femminili. Quindi, invece di cercare condizioni migliori per se stesse, i giocatori hanno pensato di sostenere la squadra femminile. Quando abbiamo presentato il piano al team, composto da Andreas Christensen, Thomas Delaney, Christian Eriksen, Pierre-Emile Højbjerg, Simon Kjær e Kasper Schmeichel, erano molto soddisfatti”.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...