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3.2.25

Paola Caridi Ricordare Gaza per raccontarla







Il testo è la trascrizione di una lectio tenuta da Paola Caridi all’Università per Stranieri di Siena il 22 gennaio 2025. Ringraziamo autrice e Ateneo.




Quasi nessun luogo al mondo viene chiamato con lo stesso nome da oltre 3500 anni. Gaza sì, e insieme al nome porta con sé un destino da cui non riesce a liberarsi: quello di terra eternamente contesa, scenario di troppe battaglie. Ricordarne la storia è l’unico modo per darle dignità, e auspicare un cambiamento
Non sono palestinese né voglio sostituirmi a uno sguardo palestinese. Conservo il mio sguardo altro, mediterraneo, che è forse la definizione che più mi assomiglia, e in cui più mi riconosco. E ringrazio il rettore dell’Università per Stranieri di Siena, professor Tomaso Montanari, per avermi fatto una richiesta che mi ha sorpreso e onorato. Tenere questa lezione inaugurale. Una lezione inaugurale che non può non essere dedicata, come chiede Suad Amiry che sarà qui il prossimo ottobre per ricevere la laurea honoris causa, a Gaza. Occorre ricordare Gaza, dice. Io andrei oltre, da mediterranea, italiana, europea. Occorre raccontare Gaza, luogo costretto, blindato, invisibile. E ora distrutto. Occorre, cioè, riempire un vuoto culturale la cui profondità è così chiara, palpabile – oggi – nell’incapacità di vedere, di comprendere cosa è accaduto in questi oltre quindici mesi.
Raccontare Gaza, dunque. Ma raccontarla come? Da quando? Da quando la più inimmaginabile delle guerre è cominciata, il 7 ottobre 2023? Iniziata con l’attacco, terroristico nei risultati, delle brigate Izzedin al Qassam (il braccio militare di Hamas) e delle brigate al Quds (legate al Jihad islamico) poco oltre il confine che aveva ristretto Gaza, nel 1948, in uno spazio inferiore ai 400 chilometri quadrati. E poi proseguita, la guerra su Gaza, con il bombardamento sistematico più imponente dai tempi della seconda guerra mondiale: decine di migliaia di tonnellate di esplosivo gettate dalle forze armate israeliane su quei meno di quattrocento chilometri quadrati per oltre un anno, costantemente. Per quindici mesi, per la precisione. Su una terra in cui erano costretti, sotto embargo, blindati, oltre due milioni di esseri umani. Palestinesi.
Le immagini delle distruzioni ci sono sempre state, sui social, grazie ai giornalisti palestinesi di Gaza. Una gran parte di loro, 205, ha sacrificato anche la vita per documentare ciò che sta avvenendo dentro il luogo più blindato del mondo. Ora, nella tregua più fragile del mondo, i droni – non i droni militari israeliani, ma i droni dei giornalisti palestinesi di Gaza – mostrano l’indescrivibile. La cancellazione di Jabalia, Beit Lahia, Beit Hanoun, dell’intero nord di Gaza, e di Rafah e di Khan Younis, e di quartieri interi di Gaza City, in un elenco infinito di azzeramento urbanistico, naturale, della memoria.
Potrei raccontarli, questi quindici mesi, dalla distanza in cui siamo tutti confinati. Come fossimo ancora durante il covid. Tutti dentro, mentre in un altro confino, dentro Gaza, si realizza quello che per molti – ora un elenco lunghissimo in cui anche io ho deciso di collocarmi – è un genocidio.
Vorrei, invece, dare a Gaza ciò che le è stato negato, da decenni. La sua storia. Una storia lunga, lunghissima. Sorprendentemente per molti, una delle più lunghe del Mediterraneo. Gaza è la città che da almeno 3500 anni porta lo stesso nome. Da sempre. Come gli alberi, le città fondano le loro radici. E quando vengono spostate – anche in questo caso dagli esseri umani – perdono i riferimenti, i punti cardinali, le prospettive. Gaza è sempre stata lì, ed è la stessa permanenza del nome a confermarlo.
La prima iscrizione con il nome di Gaza – dicono gli studiosi dell’Egitto antico – è addirittura di 1500 anni prima dell’era cristiana. Nuovo Regno, diciannovesima dinastia, in un tempio a Karnak, si parla di Gaza in una iscrizione dedicata al più grande faraone, Ramses II. Mai, o quasi, una città ha conservato il suo nome dalla sua creazione, oltre 3500 anni fa, sino a oggi.
Sembra incredibile, ne sono certa. Sembra così poco credibile che un luogo ignoto, dimenticato, invisibile com’era Gaza negli ultimi decenni, fino a 15 mesi fa, abbia così tanta storia, coperta oggi dalle macerie, dal cemento squarciato, frammentato dai bombardamenti.
È così, invece.
Anche allora, Gaza era al centro degli appetiti di chi dominava la regione. Basta aprire una mappa, di quelle antiche e di quelle di oggi, per comprenderne i motivi, almeno quelli cosiddetti politici e strategici. Di lì si doveva passare, sulla costa che per gli egizi era la via di Horus e poi, col tempo, divenne la Via Maris, la via costiera che dal Sinai passava – via Rafah, appunto – per Ashkelon e poi su a nord fino a Tiro. Il Mediterraneo orientale, tutto il Levante cominciava, sulla costa, da Gaza, e arrivava sino a Tiro e poi ancora più a nord. Fateci caso, sono tutti toponimi antichi, rimasti incistati nella terra sino alla storia contemporanea, sino alla cronaca di questi terribili, maledetti quindici mesi.
“Non sono palestinese né voglio sostituirmi a uno sguardo palestinese. Conservo il mio sguardo altro, mediterraneo, che è forse la definizione che più mi assomiglia, e in cui più mi riconosco”.
Dall’Egitto, le truppe agli ordini del sesto faraone della diciottesima dinastia, Tutmosis III, dovevano passare da Gaza per arrivare alla terra di Canaan. E quella terra, quella sabbia, quelle dune che dividevano la città di Gaza dal mar Mediterraneo, hanno visto nel tempo lungo della storia truppe di ogni tipo, eserciti sempre ben equipaggiati, sempre più equipaggiati, armati, sino ad arrivare agli ottomani e ai britannici che si son giocati anche a Gaza le sorti della prima guerra mondiale, in quello che – con definizione così coloniale e anacronistica – continuiamo a definire Medio Oriente. Medio rispetto a cosa? Rispetto all’impero britannico. Rispetto a Londra. A oriente medio di Londra. A oriente estremo rispetto a Londra.
Prima del 1948, e della reclusione di Gaza in una Striscia, in un nastro di 40 km da nord a sud, e di una manciata di km (dai 6 a un massimo di 13) da est a ovest, Gaza era stata dunque la terra delle tante battaglie. Così viene ancora definita. Eppure, nonostante questa sia la realtà, e cioè Gaza terra di passaggio per gli zoccoli delle cavallerie della lunga Storia, c’è qualcosa che manca e che non rende giustizia alla stessa complessità della storia. Rinchiudere – ancora una volta re-cludere – Gaza in un topos come la guerra, il bellicismo, il destino infame di una terra di conquista, dolore, e clangore di armi, non rende cioè giustizia alla Storia vera, quella inclusiva. La storia globale in tutti i sensi, la storia in cui umano e nonumano disegnano la loro relazione sulla terra.
C’è, ora più di ieri, il dovere di dare dignità e complessità al tempo lungo della Storia, e a tutti i suoi protagonisti. Non solo gli umani. Dare spessore e profondità, processo, cambiamento.
Edward Said, mai troppo nominato, mai troppo letto e studiato, lo spiegò in modo illuminante, in una intervista-documentario del 1998, diretta da Sut Jhally, a sua volta studioso di comunicazione, ora professore emerito all’università del Massachusetts – Amherst. Nato esattamente 90 anni fa a Gerusalemme, in perenne esilio tanto da dire che il posto dove si sentiva a casa era in volo su un aereo (il suo bellissimo Reflections on Exile ha Dante Alighieri sulla copertina), grande docente di letterature comparate all’università di Columbia (non è un caso che Columbia stata stata, nel 2024 e lo sarà anche ora, il centro delle manifestazioni contro il genocidio a Gaza), intellettuale tra i più coerenti e profondi, oppositore strenuo degli accordi di Oslo che considerava “la resa dei palestinesi” (e come dargli torto, oggi): questo era Edward Said, oltre a essere il padre della definizione di “orientalismo”, il nostro peccato originale. Ed è giusto ricordare Edward Said come un poliedro, come l’apeirogon, il poliedro a n-facce di cui scrive Colum McCann in uno dei più bei libri usciti sulla questione israeliano-palestinese.
Edward Said, dunque, parlava nella lunga intervista del 1998 di una “immagine senza tempo dell’Oriente”. “Come se – diceva – l’Oriente, a differenza dell’Occidente, non si fosse sviluppato, fosse rimasto sempre uguale”. Un oriente eterno, permanente, insomma, anche nei suoi topos. Come Gaza, appunto, terra di conquista, violenza, dolore, sangue, crudeltà. Ed è proprio questo, per Said, uno dei problemi dell’orientalismo: l’orientalismo “crea un’immagine al di fuori della storia, di qualcosa di tranquillo, immobile ed eterno, che è banalmente contraddetta dai fatti della storia. In un certo senso è una creazione, si potrebbe dire, di un Altro ideale per l’Europa”.
Un Altro, distante da noi, ideale per l’Europa proprio perché è costretto dentro una gabbia dell’immaginario, dentro una costruzione, culturale e politica. Come Gaza è stata costretta, dentro il topos della guerra, della violenza, e dentro una Striscia di 365 chilometri quadrati. Eppure Gaza, nella geografia culturale, economica, sociale dell’intera regione, è sempre stata – nel corso dei millenni – una delle città, dei centri più importanti. Nodali. Il crocevia dei percorsi commerciali, dei cammini, dei passaggi. L’esatto contrario del luogo recluso, blindato di cui è divenuta simbolo dal 1948 a oggi, da quando Gaza è stata rinchiusa nella Striscia. Prima della Striscia, prima del 1948, la regione di Gaza non era solo più grande ed estesa, ma incarnava una vivacità, un’apertura, una rilevanza culturale unica. Era il porto e la terra agricola alle spalle, un po’ com’era Jaffa, il porto da cui, nel 1948, i palestinesi dovettero scappare cacciati dall’embrione dell’esercito israeliano e dirigersi, in molti, proprio verso il porto di Gaza. Porto e terra, commercio e campi. A Gaza, poi, c’era acqua (difficile a crederlo, oggi), e grande produzione agricola, da sempre. C’erano i sicomori, e le palme. E gli ulivi, e le arance.
Gaza è nel meraviglioso tappeto di mosaico che riempie la chiesa bizantina di Santo Stefano, a Umm al Rasas, in Giordania, su un altro asse economico, commerciale, di relazioni nella regione. Terra di passaggi, terra di vie. Gaza è assieme a Gerusalemme e Cesarea, a Nablus e a Sebastia, tra le sette città palestinesi più importanti, assieme ai centri più a oriente, da Philadelphia a Madaba, in una mappa urbana imprescindibile per l’epoca. Gaza, nel mosaico meraviglioso, affascinante di Umm al Rasas, scoperto e curato da padre Michele Piccirillo, è raccontata attraverso i suoi edifici pubblici, ricchi di peso culturale, teologico, artistico. Il teatro, l’agorà. Patria del monachesimo dei primi secoli, di teologi (Procopio, la Scuola di Gaza) che hanno segnato la storia del cristianesimo tout court, e anche di quello orientale, Gaza è il passaggio, la cerniera, il crocevia. Non solo la terra da conquistare, o su cui passare in armi, calpestando la vita con gli zoccoli delle cavallerie.
Persino il cantore dell’anima palestinese, un poeta gigantesco come Mahmoud Darwish, mantiene – se si guarda con occhio superficiale – Gaza all’interno della fortezza, in attesa dell’ennesimo attacco, dell’ennesima guerra. Gaza “città del dolore e del valore”, scrive in uno dei suoi ultimi testi, “In presenza dell’assenza”, contenuto nella Trilogia palestinese pubblicata da Feltrinelli (traduzione di Elisabetta Bartuli). Testo complesso, una vera e propria autoelegia scritta nel 2006, due anni prima di morire. Morto ma mai dimenticato, Darwish racconta sé stesso, racconta di quando finalmente ha visto Gaza, “una fortezza circondata dal mare, dalle palme, dagli invasori, dai sicomori. Una fortezza che non s’arrende mai. Gaza è gloria orgogliosa del proprio nome, ininterrottamente aizzata dal silenzio del mondo davanti al proprio lungo assedio”.
Mahmoud Darwish ricorda il valore del nome, per Gaza, e inserisce, finalmente, dei protagonisti inattesi. O meglio, inattesi per il nostro sguardo, ma perfettamente all’interno della storia palestinese, una storia umana e nonumana assieme. Una storia, in questo senso, paradigmatica per una storia globale. Darwish inserisce le palme, e i sicomori. Le palme, il simbolo di Gaza, disegnate nell’intreccio di fili che compone il ricamo palestinese, tanto definito da essere esso stesso – il ricamo tradizionale, il tatreez – una vera e propria definizione geografica della terra palestinese. E inserisce i sicomori, altro nome antico, antichissimo, sacro perché persino i testi sacri ne riconoscono la presenza, il ruolo, il volume nel mondo.



Più di mille anni fa, per la precisione pochi anni prima dell’anno Mille, c’erano mille sicomori che segnavano, a destra e a sinistra, la strada che poco a nord di Rafah andava sempre verso settentrione, in direzione della città di Gaza. Mille fichi sicomori, enormi, i cui rami lunghi si toccavano. Ed erano talmente ampi, i sicomori, da segnare una strada lunga un paio di miglia.
Più di mille anni fa, come ci ricorda Muhallabi, ovvero Hasan ibn Ahmad al-Muhallabi, storico e viaggiatore, geografo arabo, esisteva una città che si chiamava Gaza. E un altro centro urbano, più piccolo, dal nome a noi, fino a 15 mesi fa, ancora più sconosciuto. Rafah.
I sicomori, che in arabo si chiamano jummaiz, non ci sono più sulla strada antica che da Rafah portava verso Gaza. Da molto tempo, da prima del 7 ottobre, da prima del 1948. I sicomori non ci sono più, e la loro assenza è parte integrante di una storia negata. Una storia in cui il pilastro sul quale costruire la narrazione lungo l’asse del tempo e quello dello spazio è la terra e le sue relazioni, il nonumano di cui l’umano è parte. Nella storia negata, i sicomori descrivono come pochi altri alberi – forse il carrubo, forse l’ulivo, forse, ma a un’altitudine maggiore di quella su cui era, è Gaza, il leccio – la relazione tra la terra e l’umano. Rompono, soprattutto, una narrazione dominante, considerata ormai paradigmatica. Non tanto la narrazione “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, costitutiva del sionismo. Quella narrazione ha avuto una sua egemonia, ma poi si è consumata sulla questione israeliano-palestinese, quando è stato evidente a tutti che i popoli erano due, e sulla stessa terra. E che i due nazionalismi non avrebbero fornito alcuna soluzione in dignità e rispetto ai due popoli, palestinese e israeliano.
Quella narrazione, la narrazione di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” ne sottende invece un’altra, messa sempre da canto. Questa, sì, una storia negata. È la storia della terra, considerata a seconda dei tempi e delle circostanze il palcoscenico dei nazionalismi, la cartina su cui disegnare confini (vere e proprie ferite, coltellate inferte al suolo), la mappa catastale delle proprietà.
Negata, invece, è la storia della terra e delle sue relazioni. È qui, all’interno di questa storia, che gli umani agiscono in maniera diversa, nella relazione – appunto – con il nonumano. La questione israeliano-palestinese diventa, qui, la cartina di tornasole dei comportamenti, tutti incentrati su una differenza fondamentale. Appartenenza o possesso? Relazione o dominio? Dopo un quarto di secolo di vita trascorso a est e a sud del Mediterraneo, per me la differenza è chiara. I palestinesi dicono di appartenere, di essere parte. Gli israeliani declinano il loro rapporto con la terra come un rapporto di possesso, di proprietà. Omettendo cos’era quella terra, in cui a fiorire da secoli e secoli, prima della concettualizzazione e realizzazione del sionismo, erano nespoli e albicocchi, ulivi e sicomori, carrubi e lecci, e viti, mandorli, noci, e poi orzo e grano, e lenticchie e ceci. E gelsi, certo. Gelsi. Terra già fiorita, non deserto da far fiorire. Annullare questa storia lunga, di alberi e radici, significa possedere la terra e trasformarla perché diventi altro.
È qui, a mio parere, che si impantana anche la soluzione politica della questione israeliano-palestinese che considera la terra marginale, mero palcoscenico oppure, come si è visto a Gaza, su Gaza in questi 15 mesi, una lavagna su cui passare un cancellino per poter poi ridisegnare oggetti, case, villette, colonie, città, forse qualche albero come in un rendering.
I sicomori raccontano proprio la differenza tra appartenenza e possesso. I sicomori, per me il simbolo dell’albero-piazza, sono alberi comuni, pubblici, senza proprietari. Sono piazze, luoghi di raduno, di decisioni, di conversazioni. Sono alberi-ristoro, alberi-rifugio, alberi-ombrello contro il caldo, e alberi-dispensa per chi ha fame. I fichi dei sicomori, frutti che riempiono i rami spessi come tronchi durante tutto l’anno, sono frutti per tutti, ma solo se si mangiano sotto l’albero. Non si raccolgono, non si portano a casa, non si vendono al mercato, non diventano prodotti, commodity. Sono alberi per i viandanti, alberi anche per la preghiera, per la supplica, alberi su cui s’appendono pezzi di tela come ex voto o come fioretti. Sono gli alberi sacri accanto ai luoghi sacri costruiti dagli umani, oppure spesso sono gli edifici sacri a essere costruiti accanto a un sicomoro, che spesso – nella geografia palestinese – si trovava all’ingresso di un paese, di un villaggio.
È in parte così per gli ulivi, per i palestinesi: alberi che precedono gli esseri umani e la loro esistenza individuale, alberi che hanno vita nonumana così lunga da definire genealogie, generazioni, epoche storiche, vite di comunità. In questo contesto, gli esseri umani, come sono i palestinesi, nativi e indigeni, sono elementi che appartengono. Non al paesaggio, ma alla terra e al suo farsi e modificarsi. Gli esseri umani ne sono parte, parte del sistema, se si vuole dell’eco-sistema. La differenza tra appartenenza e proprietà è così profondamente politica da segnare la politica, o l’assenza della politica, di questi quasi 80 anni.
Appartenenza o possesso. La differenza la descrive Sarah Ali, scrittrice, studiosa di letteratura inglese, palestinese di Gaza, ora a Cambridge per il suo phd – appunto – in letteratura inglese, mentre la sua famiglia ha vissuto questi maledetti quindici mesi a Gaza. Alcuni anni fa, una decina di anni fa, tra una guerra e l’altra su Gaza, Sarah Ali ha partecipato a un’antologia di giovani scrittrici e scrittori palestinesi di Gaza, riuniti attorno a Refaat Alareer, poeta, studioso, docente universitario. Una figura iconica, per generazioni di studenti e poi studiosi. Refaat Alareer è stato ucciso nel dicembre del 2023 dalle forze armate israeliane, una delle centinaia di vittime tra docenti e studenti, all’interno di uno scolasticidio che ha completamente cancellato tutte le 11 università di Gaza.
Nel suo racconto Sarah Ali parla degli ulivi di suo padre.
“Che un soldato israeliano possa abbattere 189 alberi di ulivo sulla terra che egli sostiene essere parte della ‘Terra donata da Dio’ è una ‘cosa che non riuscirò mai a capire’. Non ha considerato la possibilità che Dio si possa arrabbiare? Non si è reso conto che quello che stava distruggendo era un albero? Se mai venisse inventato un bulldozer palestinese (lo so!) e mi fosse data la possibilità di trovarmi in un frutteto, ad esempio ad Haifa, non sradicherei mai un albero piantato da un israeliano. Nessun palestinese lo farebbe. Per i palestinesi l’albero è sacro, così come la terra che lo ospita”.
È un racconto costante, continuo, quello sull’appartenenza, ma solo se stimolato. “Non abbiamo bisogno di dirlo, di spiegarlo, è così”, mi hanno detto gli studenti del Master in cooperazione internazionale dell’università di Betlemme quando, qualche mese fa, ho incentrato una parte del mio corso sulla storia raccontata dagli alberi, e cioè su una storia globale di cui gli umani sono solo uno degli elementi. Di certo il più distruttivo e dominante. Ma uno solo degli elementi. L’idea di una storia raccontata dagli alberi, dalla terra, dal nonumano, è stata accolta – lì, a Betlemme – come una pratica normale, per nulla straniante. Anzi, come uno strumento per dare finalmente dignità a una storia biografica, familiare, comunitaria, perfino nazionale. Una storia di relazione continua, lungo gli assi del tempo e dello spazio.
Gli studenti dell’università di Betlemme mi hanno confermato che parlare di sicomori, alberi antichi che non suscitano più quasi memoria in ciascuno di noi, mentre è in corso quello che per molti – studiosi di genocidio, giuristi, associazioni di difesa dei diritti umani – è un genocidio, non è sviare l’attenzione dalla sofferenza indicibile verso qualcosa che è considerato appendice alla vita umana. Alla dimensione umana. E’ esattamente il contrario. Cercare di raccontare una storia lunga e inclusiva, globale non solo in senso geografico ma interspecie, è semmai il modo ormai necessario per riumanizzare ciò che è deumanizzato. Inserire l’umano in una dimensione globale, sistemica – come da sempre è – consente persino di riumanizzare quei pezzi della nostra storia e della nostra cronaca in cui disconosciamo l’umanità e la consideriamo una mera pedina sulla scacchiera del potere. La strada che gli umani hanno inserito tra i mille fichi sicomori, tra Rafah e la città portuale e commerciale di Gaza, testimonia di una storia sistemica e globale. Inserisce, per esempio, i palestinesi nel farsi di una terra ben oltre i miseri confini statuiti e imposti nel 1948. Traccia i percorsi, i raccordi tra terra e umani, tra regioni e mare, tra commerci e alberi. Allarga lo sguardo, e così facendo libera gli umani. Libera soprattutto Gaza da quei 365 chilometri quadrati in cui la storia recente ha rinchiuso una terra ampia, terra di passaggi e raccordi, e dà a oltre due milioni di palestinesi rinchiusi in una prigione a cielo aperto, completamente serrata, la dignità a cui hanno diritto.

21.1.25

Gaza, prigionieri “terroristi” e ostaggi “innocenti”: la narrazione che oscura la verità

 

 Bellissimo articolo, questo  di  M Alessandra Filippi per    affaritaliani   , finalmente lontano dalla becera narrazione corrotta dalla propaganda Sionista ed occidentale. Sono rimasto affascinato nel leggerlo, a tratti incredulo. Incredulo che la censura non abbia addomesticato questa voce.



Quando si parla di Palestina, la disinformazione è un’arma potente che perpetua lo status quo. Da decenni, la narrazione del conflitto israelo-palestinese è dominata da una distorsione sistematica della realtà, radicata nel linguaggio e nelle scelte editoriali dei media. L’esempio più recente è avvenuto su Radio3, durante la rassegna stampa di Prima pagina, quando il giornalista incaricato della lettura dei giornali per questa settimana ha presentato la questione dei prigionieri palestinesi attraverso un doppio standard: gli ostaggi israeliani sono "innocenti", mentre i prigionieri palestinesi sono tutti "terroristi".
Prima di ogni cosa, va ricordato che i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane non sono tutti necessariamente terroristi e, in molti casi, sono rinchiusi senza un valido motivo. Inoltre, gli accordi per il cessate il fuoco escludono dal rilascio i prigionieri condannati per gravi reati di terrorismo, sebbene contemplino alcuni condannati al carcere a vita. Presentare questa complessa realtà come una semplice dicotomia tra "buoni" e "cattivi" è fuorviante e mistifica i fatti.
Un ascoltatore ha giustamente osservato che il valore della vita non può essere separato dal contesto in cui si svolge la sofferenza. La repressione israeliana verso il popolo palestinese, che lotta da oltre 76 anni per il riconoscimento dei propri diritti e la fine dell’occupazione, si inserisce in un quadro storico, culturale e sociale complesso. Questa visione binaria, che riduce la realtà a un banale scontro tra buoni e cattivi, è un atto di violenza narrativa.
Il termine "terroristi" non rende giustizia alla condizione di molti prigionieri palestinesi. Migliaia di loro sono detenuti in condizioni che violano i diritti umani, spesso privati della libertà senza accuse formali né processo, attraverso il meccanismo della detenzione amministrativa. Questo sistema non solo condanna senza prove e senza processo, ma rende invisibili agli occhi dell’opinione pubblica internazionale uomini, donne e ragazzi, come parte di una strategia di repressione e disumanizzazione. Inoltre, la detenzione amministrativa è uno strumento di controllo utilizzato per reprimere il dissenso politico e mantenere il potere sulle popolazioni indigene senza rispettare il diritto internazionale.
Mentre, per esempio, la liberazione di Romi GonenEmily Damari e Doron Steinbrecher, tutte in buone condizioni di salute, è stata raccontata con tale dovizia di particolari che adesso quasi conosciamo se preferiscono il caffè dolce o amaro, non altrettanto si può dire delle 69 donne palestinesi e 21 minori, provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, rilasciati nelle prime ore di lunedì 20 gennaio. Le loro storie non hanno ricevuto la stessa attenzione: di loro sappiamo ben poco. Sono numeri, senza nome e senza volto, ai quali non viene riconosciuta dignità di identità.
Fra le donne rilasciate c’è una irriconoscibile Khalida Jarrar, la cui salute è tutt’altro che buona. Parlamentare e dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), è stata arrestata più volte per la sua attività a difesa dei diritti palestinesi. Negli ultimi sei mesi è stata sottoposta a isolamento in una cella di 2 metri per 1,5 e ad altre misure punitive imposte per i prigionieri politici palestinesi dal ministro israeliano per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, come misura ritorsiva dopo l’attacco del 7 ottobre. Arrestata nel dicembre 2023 con l'accusa di "sostegno al terrorismo", è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza processo.
Un'altra è la giornalista di Watan NewsRula Hassanein, arrestata dalle forze israeliane il 19 marzo 2024 – nel corso di un raid notturno durante il quale sono stati effettuati arresti di massa -, con l’accusa di incitamento alla violenza sui social per post che, a quanto si dice, manifestavano la sua frustrazione per la sofferenza dei palestinesi a Gaza. Il video in cui Hassanein, con le lacrime agli occhi, riabbraccia la figlia che era stata costretta a lasciare quando aveva solo 8 mesi, non risulta sia stato diffuso dai media mainstream.
Abdelaziz Atawneh, un ragazzo di 19 anni, arrestato il 21 ottobre 2023, ai giornalisti ha detto: "Ho lasciato l'inferno e ora sono in paradiso. Siamo tutti fuori dall'inferno. Ci violentavano, ci picchiavano, ci lanciavano gas lacrimogeni". Il più giovane fra gli scarcerati, Mahmoud Aliwat, ha 15 anni.
Secondo la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti e la Società dei prigionieri palestinesi, sono 10.400 i palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, escludendo quelli arrestati a Gaza negli ultimi 15 mesi di guerra, di molti dei quali si sono perse le tracce. Tra questi, il caso emblematico è quello del dottor Hussam Abu Safiya, primario di pediatria e direttore del Kamal Adwan Hospital di Beit Lahiya, arrestato dall’esercito israeliano il 27 dicembre 2024 insieme ad altro personale medico e alcuni pazienti, durante l’attacco che ha distrutto l’ultima struttura ospedaliera parzialmente funzionante nel nord della Striscia. La foto che lo ritrae, solo, col camice bianco, mentre avanza su una montagna di macerie verso i carri armati israeliani, ha fatto il giro del mondo.
Da allora, sono state lanciate decine di petizioni per chiederne il rilascio, compresa una di Amnesty International, ma di lui non si sa più nulla. "Arrestandolo arbitrariamente, rifiutando di rivelare dove si trovi e di concedergli l’accesso a un avvocato, le forze israeliane hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale, compreso il reato di sparizione forzata", ha scritto Amnesty Italia in un post su Instagram, cinque giorni fa.
Il problema non è solo il trattamento differenziato fra "prigionieri" e "ostaggi", ma la complicità dei media nel perpetuare una narrativa distorta. Non si tratta di semplici errori, ma di una negligenza grave che alimenta la retorica della "legittima difesa" israeliana, ignorando la violenza sistematica inflitta a milioni di palestinesi sotto occupazione. Le accuse contro molti prigionieri includono il lancio di pietre o la partecipazione a manifestazioni politiche. In che misura queste attività possono essere definite terrorismo?

Il doppio standard non è solo nelle parole, ma permea immagini, retorica e discorsi pubblici. La narrativa israeliana viene adottata acriticamente anche quando distorce concetti fondamentali. Si ripete, per esempio, che "Israele ha il diritto di esistere", e chi lo contesta? Israele esiste dal 14 maggio 1948, è riconosciuto a livello internazionale. Il punto cruciale è un altro: è la Palestina ad avere il diritto di esistere, e il suo popolo ad autodeterminarsi.
L’incapacità di una fetta considerevole dei media, e dei politici, di analizzare il contesto fa sorgere il dubbio si tratti di una strategia mirata a sostenere l’occupazione e delegittimare la lotta palestinese. Ogni narrazione che equipara oppressori e vittime contribuisce al caos e camuffa la verità. Ma la verità, per quanto scomoda, è l’unica strada verso una giustizia reale, un dialogo costruttivo e una pace duratura. Come diceva Nelson Mandela nel 1977, "Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza quella dei Palestinesi".

6.12.24

Moshe Yaalon ex ministro israeliano ha detto che in Israele c'è un genocidio . Ci si inizia a rendere conto dei crimini che si stanno commettendo. Solo in Italia e in Usa qualcuno continua a dire che la parola "genocidio" sarebbe una bestemmia.

Le   risposte d'israele e  dei  suoi  seguaci   coerenti  e  banderuole   alle  critiche  ed  alle   accuse   per la  sua   condotta     dopo  il 7 ottobre    non  ha    , almeno  dovrebbe   avere ,  significato  d'antisemitismo  e  d'odio  verso  israele  in  quanto   un suo  stesso ex ministro della Difesa ha accusato Israele più  precisamente  il  governo  di «pulizia etnica»

leggo    su       https://www.ilpost.it  del  4\12\2024   che   

Moshe Yaalon ha detto che il governo di Benjamin Netanyahu sta «di fatto ripulendo i territori dagli arabi» In varie interviste nel fine settimana l’ex ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon ha accusato il governo di Benjamin Netanyahu di portare avanti una «pulizia etnica» nei confronti della popolazione palestinese.In una prima
intervista sabato Yaalon ha detto che ciò che stanno facendo il governo e l’esercito israeliano è «occupare, annettere e fare pulizia etnica», facendo espressamente riferimento alla zona settentrionale della Striscia. Ha anche sostenuto che Israele stia andando nella direzione di costruzione di insediamenti stabili a Gaza, come vorrebbero gli esponenti più radicali della maggioranza di governo, di estrema destra.
Quando poi l’intervistatore gli ha chiesto di chiarire se ritenesse che Israele fosse «sulla strada di compiere una pulizia etnica», Yaalon ha risposto:

Perché “sulla strada”? Cosa sta succedendo là? Beit Lahia [cittadina palestinese, ndr] non c’è più. Beit Hanoun non c’è più. Ora stanno operando a Jabalia. Stanno di fatto ripulendo il territorio dagli arabi.

Yaalon è stato prima capo dell’esercito, poi ministro della Difesa del governo di Netanyahu nel 2014, in un altro periodo di forte conflitto a Gaza. Le sue relazioni con l’attuale primo ministro si sono però interrotte nel 2016 e da allora è diventato molto critico nei confronti dei suoi governi In un’intervista successiva, domenica, Yaalon ha detto di temere che il governo stia esponendo i soldati israeliani al pericolo di azioni giudiziarie da parte della Corte penale internazionale (ICC), il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità: «Parlo a nome dei comandanti dell’esercito che stanno operando nel nord della Striscia. Mi hanno contattato per esprimermi preoccupazione per quello che sta avvenendo laggiù». Yaalon sostiene che l’esercito non sia responsabile di quanto sta succedendo, ma teme che gli ufficiali, seguendo le indicazioni del governo, «alla fine si ritrovino ad aver commesso crimini di guerra». Dieci giorni fa l’ICC ha emesso un mandato d’arresto contro Netanyahu, e contro l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, licenziato lo scorso mese da Netanyahu. La decisione dell’ICC è stata fortemente criticata da tutti i partiti politici israeliani e in generale le critiche degli esponenti politici al modo di condurre la guerra sono molto rare, cosa che rende quelle di Yaalon ancora più notevoli. Netanyahu e vari esponenti del governo hanno respinto le accuse di Yaalon, sostenendo che «colpiscono Israele e aiutano i suoi nemici».

29.11.24

Diario di bordo n 89 anno II Spett.Liliana Segre ..... ., Ipocrisia culturale e letteraria italiana ., a babbo morto ed altre letture ., lasciare o restare per morire ? ed altro sul 25 novembre

 Iniziamo   questo  numero da  una  mia lettera  scritta    di getto    alla  Signora  Liliana Segre

in sottofondo    

Spett Liana segre 
Concordo  con lei   quando  dice  che  a    volte   soprattutto  se  manomesse  (  vedi il saggio  la  manomissione   delle  parole    di  G.Carofiglio )   le  parole  sono importanti  e  diventano clave , come  giustamente  ha  fatto  notare  nel  su  recente   intervento   ( corriere  della sera    del  29\11\2024  )  sull'abuso
presunto   della  parola  genocidio usata ormai  sempre più  per  descrivere  le atrocità che  Israele  ed  alcuni  suoi abitanti   i  cosidetti coloni  ,ha  compiuto e  sta    compiendo  . Ma   in realtà le  cose  son più complesse  e  come  giustamente    fa notare    in   suo  recente articolo    : <<  colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.  (...)   la cultura antifascista e antitotalitaria [  Sic  ] ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro >>.
Quindi  non usiamo la parola antisemitismo al posto della più corretta antiisraeliana : "L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo." . Si confonde  e  si  fanno tutt'uno   quelle  manifestazioni sono contro la scellerata politica estera di criminali di guerra quali il leader politico di Israele. Gallant etc. come ben chiarito anche dalla Corte Penale Internazionale su cui il vostro Leader osa discutere, così come nei confronti dell' ONU, il cui segretario generale, Antonio Guterres, è stato definito "persona non gradita". Avete scelto di cavalcare un'onda di crimini ingiustificati in nome di cosa? E la Comunità ebraica che posizioni ha preso?   Mi dispiace Sig.ra Segre,  anche  se   ha  la mia  piena  solidarieta   per  i  vergognosi  attacchi  antisemitici      che    ora  più che  mai sta  subendo  , ma si sbaglia perchè :  uno stato un altro popolo ovviamente  senza  generalizzare    che  si  comporta    in   quel  modo    verso un  altro popolo    ,  e   a  dirlo non sono  solo  i non ebrei  ma   sono anche alcuni esponenti  dellla  sua  stessa   religione ,  commette  appunto  un genocidio  . 

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La tragicomica la fuga di scrittori dalla  rassegna    «Più libri, più liberi», in programma a Roma dimostra   di come stia  scadendo    sempre  più la  nostra  cultura  . La pietra dello scandalo è   stata l’invito al filosofo Leonardo Caffo, sotto processo a Milano per maltrattamenti e  lesioni sulla sua ex compagna, in una  giornata  dedicata  a Giulia  cecchetin    e   alle  done  vittime di femminicidio e  violenza    di genere  . Si è si sta  verificando    quello che diceva Nanni  Moretti    anni fa     

Non è  bastato il suo ritiro, né l’appello alla presunzione di innocenza della direttrice  della kermesse Chiara Valerio, << a fermare  una disdetta vissuta >> secondo il giornale IL DUBBIO << dai più fanatici
come un’obbedienza alla purezza.  IL garantismo non c’entra – ha sentenziato uno dei vati del oralconformismo d’élite, Paolo Di Paolo – l’invito a Caffo era  inopportuno . Facendo intendere che
prima di scegliere gli ospiti, la direzione  avrebbe dovuto vagliare denunce, sospetti
e pettegolezzi sul loro privato. Ma  il più «dritto» di tutti è stato l’idolo delle  masse, il fumettista Zero Calcare. Il  quale ha annullato il suo dibattito con  questa motivazione su Instagram: «Mi è  sembrato evidentemente inopportuno  invitare a una fiera dedicata a Giulia  Cecchettin un uomo (confesso che non
sapevo manco chi 🤔 fosse) accusato  di violenza ai danni della sua compagna ». Ma non ha annullato il firmacopie a cui si sottopone  per ore, per la gioia  di pazienti file di fan  acquirenti. >> . Una prova di
quanti zeri e quanta ipocrisa si siano incrostati nelle condotte della cultura  di questo povero Paese ormai sempre allo sbando . 



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Ed   proprio  per    un  caso  che   fra  i  libri       da me  letti in  questo periodo   c'è ......   "A Babbo morto" è un libro di Zerocalcare che racconta la storia di Babbo Natale che muore e viene sostituito da un improbabile Figlio Natale Il libro è a metà tra favola cinica illustrata e fumetto, magistralmente colorato da Alberto Madrigal.
Natale… i regali, il cenone, i parenti… ma ci avete mai pensato alle condizioni di lavoro dei folletti

nella fabbrica di Babbo Natale? Zerocalcare sì, e vi racconta per la prima volta la scabrosa verità dietro al business della consegna dei regali. Bonus! Le anziane rider della Befana scioperano insieme ai minatori sardi (le cui miniere di carbone vengono chiuse perché nelle calze i bambini preferiscono trovare gli orsetti gommosi), per ottenere migliori condizioni di lavoro!Quando finirete di leggerlo vi ripeterete ad alta voce che Babbo Natale non esiste per sentirvi meno tristi !  Quind cari  :  Genitori  ‹‹  se  proprio    dovete fare  figli  ,  almeno dite  loro  la  verità  >>


Gli altri due libri sono due Noir
 Storico quello di Jacopo De Michelis con il suo nuovo thriller La montagna nel lago (Giunti editore) fresco finalista del Premio Scerbanenco, ambientato proprio in quel 1992, è andato invece a scavare nella vita precedente di Junio Valerio Borghese, prima che teorizzasse un colpo di Stato, quando era ancora il capo della X Mas, unità militare autonoma (anche se il Principe aveva aderito alla Repubblica di Salò), che si ritrovò ad avere una sorta di quartier generale, se non altro per la residenza dello stesso
Borghese a San Paolo, sull’isoletta del lago d’Iseo.
Il centro del racconto, però, è a Montisola, poco distante. Muore Emilio Ercoli, un industriale che ce l’ha fatta: subito dopo la seconda guerra mondiale ha costruito in fretta e con successo un impero sulle reti da pesca. Il suo retificio fattura parecchio e riesce a espandersi anche lontano dal lago d’Iseo. Viene accusato dell’omicidio l’ex amico diventato nel frattempo acerrimo nemico Nevio Rota. Così il figlio di Rota, Pietro, dopo una decina d’anni di lontananza (deliberatamente scelta) torna al paesello. È andato a Milano a cercare fortuna infatti, con il sogno di diventare giornalista. Ma alla fine si ritrova a scrivere per un settimanale scandalistico. Non proprio quello che avrebbe voluto. Addio sogni di gloria dentro una Milano in cui resistono i vizi e gli agi, nonostante gli arresti eccellenti, della città da bere (copyright dell’epoca del reflusso).


Ma siamo nel 1992 e piano piano il sistema dei partiti così come l’avevamo conosciuto sta crollando. La Prima Repubblica sta esalando i suoi ultimi respiri.
Il giornalista così si trasforma presto in investigatore e cerca di venire a capo dell’omicidio del rivale del padre, più che altro per cercare di scagionarlo dalle pesanti accuse.
E qui il thriller diventa anche storico, perché ci riporta proprio a quel 1944, quando la guerra stava ormai per concludersi, con la sconfitta ormai segnata di fascisti, repubblichini e degli ultimi irriducibili del regime e non solo. Tra gli irriducibili anche il principe Borghese che aveva fatto di Montisola e San Paolo un feudo personale e che dialogava senza problemi con i gerarchi nazisti, nonostante la diffidenza invece che gli ufficiali del Terzo Reich avevano nei confronti dei fascisti.
In questo libro i fantasmi del passato e i suoi orrori tornano a farsi vivi e soprattutto si agitano su un delitto che per la chiacchierata vittima – non è spoiler: uno che si sapeva muovere saltando da una parte all’altra della barricata, arrivando anche ad approvigionarsi al mercato nero – fotografa in quel 1944 quanto fossero pericolose e molto grigie diverse zone di un Paese lacerato. Anzi, dilaniato.
Un po’ come accade nell’Italia  oggi    dopo il  1989\1992  ,    uno  degli eventi spartiacquee   della  sua  storia   la prima  repubblica  ,   in cui si ritrova a indagare Pietro. I due livelli temporali, 1944 e 1992, squarciano il velo su altrettanti snodi cruciali della storia d’Italia, anche raccontandola (con la forma del romanzo, non necessariamente storico) e passando per il vissuto dei protagonisti.
Tra l’altro, anche qui non è spoiler, alla fine di quel 1992 tutta questa crime story che sarà risolta (andate a scoprire, leggendo questo libro, chi è l’assassino) diventa una trama perfetta da film. E nel 1992 siamo esattamente ai tempi di Twin Peaks, la perfezione di mistero e suspense firmata da David Lynch per la tv. Il produttore cinematografico nel libro di De Michelis – di fronte al dispiegarsi della storia – dice che l’attore che potrebbe interpretare il giovane reporter Pietro Rota potrebbe essere Kyle MacLachlan (il detective DaleCooper protagonista di Twin Peaks). Ma alla fine chi ha ucciso allora Laura Palmer ?

Medico   \  poliziesco  il secondo
di  Silvia  Marreddu   autrice sarda, esordiente, ha presentato al  suo primo romanzo,
L’Attesa, un thriller ambientato tra la Sardegna, precisamente a Olbia, e Bologna. La trama narra Josephine Orrù, una maestra vicina ai quarant’anni, si rivolge al polo sanitario all’avanguardia Fiat Lux di Olbia, dopo il rifiuto di un’ovodonazione da parte della sorella Michelle, affermata data analyst del Tecnopolo di Bologna. Decisa ad andare avanti, Josephine incorre in una complicanza durante un trattamento. Michelle torna in Sardegna per starle vicino, ma percepiscenell’ospedale un’oscura ambiguità e si scontra subito con il dottor Manca che ha in cura Josephine. Michelle ama il mare e ne conosce le insidie; deve addentrarsi in quelle acque per strappare la maschera al Fiat Lux, correndo un rischio che può esserle fatale. In questo avvincente romanzo Olbia appare luminosa e nel suo golfo incombe il Fiat Lux che come il mare, potente e infido, tradirà la promessa di una terra ospitale e accogliente


Una storia ricca di retroscena che rendono la narrazione avvincente e piena di tensioni.Un esordio  discreto  ma  niente  male    , anche se  ancora  un  po'acerbo   Ma  promettente . Sembra   Cosi  vero  e  autobiografico .  



concludo    con  un bellissimo racconto  e   su  una  riflessione   sul 25     novembre2024  appena  passato   perchè tali  giornata  \  settimana  essa non sia   solo una giornata  d'ipocrisia  o  di strumentalizzazione   ideologica   \  politica  






25.11.24

C'é bisogno di fare una differenza tra :ebreisionisti, e enbreinonsionsti questa differenza deve iniziare dagli ebrei stessi.

Non esistono popoli giusti e popoli sbagliati, esistono azioni giuste e azioni sbagliate e quelle sbagliate devono essere
punite ecco  spiegata   in sintesi  la   richiesta    d'arresto   del presiente  d'israele  . Chi mi dice  , come  al solito che  odio gli ebrei     cioè  sono antisemita   è  un ignorante  perchè  ignora  (  cit   il  trio comico   Aldo Giovanni  Giacomo  )  che   vede  gli ebrei  solo come sionisti  quando  esistono  ebrei non sionisti 
cioè Il movimento Satmar e il gruppo Neturei Karta ritengono ingiusta l'occupazione della Palestina sin dalle sue origini. Alla base della loro idea c'è l'interpretazione del Talmud .  qui  E nel   video sotto le  loro posizioni 







10.11.24

La paranoia del credito etico illimitato e del falso peso dei morti di Carlo Bellisai

 Lo Stato di Israele pretende di vantare un credito etico illimitato solo perché popolo nei tempi discriminato, o come popolo attaccato per la sua stessa esistenza, facendo riferimento ai campi di sterminio della Germania di Hitler e poi, impropriamente, alla giornata fatidica del 7 ottobre, come fosse un piccolo, nuovo olocausto.Sembra che in base a questo credito possa compiere bombardamenti e

Gente che scappa da Hamad City, un quartiere a nord ovest di Khan Younis nella parte meridionale della striscia di Gaza, dopo l’ultimo ordine di evacuazione diffuso dale autorità israeliane l’11 Agosto 2024. (Foto di Rizek Abdeijawad/Xinhua)

stragi, affamare e assetare i civili, far esplodere i dispositivi-radio a distanza, uccidendo e mutilando, bloccare gli aiuti umanitari e affamare la popolazione palestinese: crimini contro l’umanità.Se tutti i popoli che sono stati perseguitati per la loro etnia, religione, colore, potessero vantare lo stesso credito etico illimitato nel mondo ci sarebbe un caos assoluto.Ad esempio, se i nativi americani uscissero dalle riserve e si ribellassero, per riprendersi le antiche terre: ci sarebbero inevitabilmente degli scontri e dei morti, anche fra i bianchi, ma nessun credito etico illimitato verrebbe concesso agli indiani, che verrebbero brutalmente repressi. Eppure ne avrebbero a fiumi.Forse che il popolo armeno, perseguitato e massacrato dalle truppe turche, sarebbe autorizzato a rifarsi contro chi gli capita attorno? O i Kurdi, che hanno tanto sofferto, senza trovare mai territorio, diritti e identità, cosa sarebbero autorizzati a fare? O ancora i Tibetani? Cosa non sarebbero autorizzati moralmente a fare, gli ultimi indios dell’Amazzonia, per difendersi dagli incessanti assalti della speculazione del legname e dei pascoli, se non tirare le frecce a chi arriva? Lo fanno, ma lo Stato brasiliano manda i militari a reprimerli.Allora perché solo allo Stato di Israele è concesso questo credito illimitato? Si tratta certo di un’anomalia, ma che ha precise ragioni storico-politiche. Da un lato il senso di colpa della Germania, dell’Italia e delle altre nazioni europee che collaborarono allo sterminio degli ebrei durante il nazi-fascismo; dall’altro l’interesse statunitense ad avere un alleato forte, che vigili i suoi interessi strategici sull’altra sponda del Mediterraneo, al quale si può perdonare quasi tutto; ancora, le radici stesse del sionismo, dell’idea del grande Stato di Israele, affondano nel tessuto economico-finanziario occidentale, che ne è il presupposto.Ovviamente le radici storiche del quasi secolare conflitto arabo-israeliano sono molto complesse e non è mia idea esaminarle in questo scritto, il cui focus investe un’area culturale in senso lato. Naomi Klein, in un articolo pubblicato di recente su “The Guardian” e ripreso in Italia da “Internazionale” del 18-24 ottobre 2024, analizza l’uso della memoria da parte delle autorità israeliane, atto a mantenere aperto il trauma, piuttosto che cercare di elaborarlo. I musei sull’olocausto, sovrapposti a quelli sulle vittime del 7 ottobre 2023, l’uso degli stimoli sensoriali e della realtà virtuale, assolvono a questa funzione.La Klein afferma, assieme a Marianne Hirsch, esperta di rievocazione del dramma alla Columbia University, che “se è vero (come dice la propaganda israeliana) che l’olocausto può tornare in qualsiasi momento e che Israele è l’unico baluardo per evitarlo, allora si costruisce una specie di alibi per qualsiasi cosa Israele intenda fare, un alibi di cui abbiamo visto le orribili implicazioni negli ultimi dodici mesi”.Un altro dato culturale orribilmente interessante in questo secolare conflitto è quello relativo alla conta dei morti e, soprattutto, del diverso peso e valore dei morti stessi. Quando muoiono degli israeliani se ne dà il numero esatto e spesso perfino il nome, quando muoiono dei palestinesi si dà una cifra approssimativa, a mucchio, senza nome.In Libano sono morte centinaia di persone e molte altre sono rimaste mutilate o ferite, a causa delle esplosioni contemporanee dei loro dispositivi “cercapersone”: una strage orribile, con una modalità di tipo terroristico, eppure se n’è parlato per pochi giorni ed è stata archiviata come un’azione del Mossad contro gli Hezbollah. Se in un qualsiasi paese europeo fossero esplosi contemporaneamente anche solo due o tre cellulari, staremmo per settimane a parlare delle vittime, una ad una, a interrogarci come sia stato possibile, di chi sia la responsabilità, chi possa aver pianificato un crimine così vigliacco e sinuoso, a dar la caccia ai presunti cyber-terroristi…  Come se a poco più di duemila chilometri a sud est i morti avessero un altro peso: fossero scontati, senza importanza.A pensarci più a fondo, questa macabra diseguaglianza non è che lo specchio della diseguaglianza, su base etnico-religiosa, fra israeliani e palestinesi durante la vita. I primi con il diritto all’acqua per i campi, alla raccolta delle olive, della frutta; i secondi con l’acqua razionata, sventrati dalle mitraglie durante la raccolta delle olive, perché “si appostavano fra gli alberi”. I primi liberi di circolare, i secondi sottoposti ad incessanti, vessatorie limitazioni alla libertà di movimento. Si potrebbe continuare, perché l’apartheid pervade la vita delle persone in tutti i contesti, discriminandole su base razziale.Questa psicopatica idea del morto buono e del morto cattivo o, peggio ancora, del nostro defunto eroe e gli altri derubricati a “mucchio indistinto di selvaggi”, ci riporta al pensiero colonialista eurocentrico, diventato poi genericamente occidentale, con l’apporto nell’immaginario collettivo del cinema americano, con i suoi indiani urlanti senza volto che cadono a grappoli, davanti alle scariche di fucileria; in seguito soppiantati da altri generi thriller, oggi più intriganti, ma in cui molto spesso riemergono i fantasmi degli apache da sterminare, sotto forma di arabi, di orientali, di extraterrestri, o di eterne spie russe.Non l’immaginazione al potere degli anni Settanta dello scorso secolo, ma il Potere controlla l’immaginazione, negli anni venti del ventunesimo secolo.Così anche un individuo incriminato dalla corte penale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità e tentativo di genocidio, come il presidente Netanyahu, potrebbe diventare un supereroe nella mente appiattita di chi crede di essere sempre assediato da primitivi miscredenti.L’Unione Europea e i suoi singoli stati sono chiamati in causa, sempre che realmente scevri dall’egemonia nordamericana. La cultura europea ha mantenuto, ultimamente con difficoltà, un certo grado di pluralismo culturale, con differenze più o meno rilevanti tra paese e paese, ma riceve sempre più spinte autoritarie e repressive del dissenso, propense ad incentivare gli armamenti ed un’economia di guerra.Diventa importante che la cultura e l’arte s’impegnino seriamente per la pace e per l’equilibrio del pianeta, per evitare che le becere scorie di ideologie fasciste, colonialiste, militariste, patriarcali e violente riprendano sopravvento nel tessuto sociale odierno, che appare spesso anestetizzato e confuso, o al meglio dubbioso e diviso. E’ il momento di creare.Non facciamoci chiudere dalla non-cultura distruttiva della guerra!

 

30.9.24

Cosa è il sionismo e perché essere critici? E poi quali sarebbero le idee di Segre e Crosetto da “odiare”?


A  volter  capita  , ed  è  questo uno dei casi   ,  che    un post  scritto  per    la  mia bacheca  di facebook   


  necessiti  di   un approfondimento .  Infatti  


Antonio Deiana
Cosa è il sionismo e perché essere critici?
E poi quali sarebbero le idee di Segre e Crosetto da “odiare”?
Proviamo  a    rispondere  

Il sionismo è un'ideologia politica il cui fine è l'affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico e il supporto a uno Stato ebraico in quella regione che, dal Tanakh e dalla Bibbia, è definita: "Terra di Israele".[Il sionismo emerse alla fine del XIX secolo nell'Europa centrale e orientale come effetto della Haskalah (illuminismo ebraico) e in reazione all'antisemitismo, inserendosi nel più vasto fenomeno del nazionalismo moderno.IL movimento tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo si sviluppò in varie forme, tra le quali il sionismo socialista, quello religioso, quello revisionista e quello di ispirazione liberale dei Sionisti Generali. Esso favorì a partire dalla fine del XIX secolo flussi migratori verso la Palestina, prima sotto l’impero ottomano e dopo la Prima guerra mondiale affidata all’amministrazione britannica dalla Società delle Nazioni, che rafforzarono la presenza ebraica nella regione e contribuirono a formare un Nuovo Yishuv. Il sostegno al sionismo crebbe in particolare nel secondo dopoguerra, successivamente all'Olocausto, e portò allo scadere del mandato britannico della Palestina, alla Dichiarazione d'indipendenza israeliana e alla nascita dello Stato di Israele nel 1948. I conflitti con il mondo arabo e l'esodo palestinese del 1948 provocarono il rafforzamento dell'antisionismo.


Parlo per me . lo contesto perchè lo reputo una ideologia politico \ religiosa utopistica la cui applicazione ha fallito sul nascere . Se proprio gli ebrei volevano , uno stato avrebbero dovuto farlo : 1) con chi già ci abitava , cioè ebrei non sionisti e estranei alla diaspora , arabi , inglesi . ., 2) in una terra deserta e disabitata emigrando li ., 3) se si voleva fare sulla divisione avvenuta nel 1948 non invadendo o tenendo dopo le guerre territori non suoi perchè secondo te quello che sta facendo israele che non permette neppure l'accesso agli aiuti umanitari non è genocidio ? o rifiutare d cessare l fuoco per poter liberare gli ostaggi ? la penso come lui

3.3.24

Nati e morti a Gaza durante la guerra: la tragica vita dei gemelli di 4 mesi Wissam e Naeem Sono stati uccisi in un raid israeliano su Rafah insieme al padre e undici parenti. Per restare incinta la madre 29enne si era sottoposta per dieci anni a cure per la fecondazione. Erano nati il 13 ottobre


chi mi segue o è fra i miei contatti conosce già il mio pensiero sul conflitto iraeliano-palestinese e storie come quel riportata sotto inieme alla lettura del libro ( un regalo d'amici )  dello storico israeliano ILan pappè    

Titolo originale:
The Biggest Prison on Earth. A History of the Occupied Territories Codice ISBN:9791259672483   Codice ISBN ePub:9791259673275 Data pubblicazione:
06-09-2022



da repubblica 03 MARZO 2024AGGIORNATO ALLE 17:58



I gemellini Wissam e Naeem Abu Anza, un bambino e una bambina, nati solo quattro mesi fa quando la guerra era già iniziata, sono morti la notte scorsa sotto le bombe vicino Rafah insieme a gran parte della loro famiglia.Lo riferisce il quotidiano internazionale arabo Asharq al Awsat

 raccontando il loro funerale testimoniato anche dalle immagini delle principali agenzie fotografiche internazionali presenti con i loro collaboratori nella Striscia che mostrano i due piccoli chiusi in sacchi neri, allineati a quelli di altri dodici parenti, prima di essere sepolti. Sono morti tutti - denuncia il media arabo - sotto un bombardamento israeliano che ha colpito una casa a Est della città, nel Sud della Striscia di Gaza.

"Il mio cuore se n'è andato", ha pianto Rania Abu Anza la mamma dei piccoli che nel raid ha perso anche il marito. La donna, racconta l’agenzia Reuters, si era sottoposta per 10 anni a tre cicli di fecondazione in vitro per rimanere incinta. I piccoli erano nati una settimana dopo l'inizio della guerra a Gaza. "Non abbiamo diritti", ha detto Rania. "Ho perso tutte le persone che mi erano più care. Non voglio vivere qui. Voglio andarmene da questo Paese. Sono stanca di questa guerra".

(afp)

Un attacco israeliano ha colpito sabato la casa della sua famiglia allargata nella città di Rafah, uccidendo i suoi figli, suo marito e altri 11 parenti e lasciandone altri nove dispersi sotto le macerie, secondo i sopravvissuti e i funzionari sanitari locali. Si era svegliata intorno alle 22.00 per allattare Naeim, il bambino, ed è tornata a dormire con lui in un braccio e Wissam, la bambina, nell'altro. Il marito dormiva accanto a loro. L'esplosione è avvenuta un'ora e mezza dopo. La casa è crollata.

"Ho urlato per i miei figli e per mio marito", ha detto Abu Anza, mentre singhiozzava e cullava al petto la coperta di un bambino. "Erano tutti morti. Il padre li ha portati via e mi ha lasciata indietro". Delle 14 persone uccise nella casa di Abu Anza, sei erano bambini e quattro donne, secondo il dottor Marwan al-Hams, direttore dell'ospedale dove sono stati portati i corpi.

Oltre al marito e ai figli, Rania ha perso anche una sorella, un nipote, una cugina incinta e altri parenti. Farouq Abu Anza, un parente, ha detto che nella casa alloggiavano circa 35 persone, alcune delle quali sfollate da altre zone. Ha detto che erano tutti civili, per lo più bambini, e che non c'erano militanti tra loro. Rania e suo marito Wissam, entrambi di 29 anni, hanno passato un decennio a cercare di rimanere incinta. Tre cicli di fecondazione in vitro erano falliti, ma dopo un terzo ciclo ha saputo di essere incinta all'inizio dell'anno scorso. I gemelli sono nati il 13 ottobre

targa speciale degi alfieri della repubblica a una classe del Parini di Torino «Con gli occhi e un puntatore comunichiamo con il nostro compagno disabile»

I media nazionali parlando degli Alfieri della Repubblica si sono dimenticati o hanno fatto passare in secondo piano questa notizia...