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14.11.25

CRONACA NERA E PROCESSI IN TV: L’ENNESIMA “AUTHORITY” INUTILE ECCO DOVE TAGLIARE ALTRO CHE SUI SERVIZI ESSENZIALI

 


Una serialità malata si sta impossessando, come un demone, della televisione italiana. Da tempo ne occupa sempre più i programmi, sia quelli dell’informazione sia quelli dell’intrattenimento, non risponde a regole deontologiche giornalistiche, né a valutazioni morali, si fa beffe delle raccomandazioni di qualsivoglia autorità siano esse culturali, religiose o politiche, è ligia soltanto alla regola commerciale dell’audience. Questa serialità malata distorce la percezione della realtà, inquina il dibattito pubblico: trasforma il video in un moderno patibolo che taglia le sue teste davanti agli spettatori-tricoteuses. O se volete in un tribunale quotidiano con il “gentile pubblico” nel ruolo di giudice.

Questa malattia si chiama cronaca nera, genere che un tempo fu filone pregiato del giornalismo nazionale forgiando fior di professionisti, poi divenne anche discussa materia televisiva, comunque con orari e spazi definiti nel palinsesto, ma che oggi imperversa come una pandemia, senza soluzione di continuità, mattina, pomeriggio e sera, sugli schermi della tv italiana. Abbiamo in passato già notato come da almeno due decenni i telegiornali italiani siano di gran lunga i primi in Europa per le notizie di nera, un fatto che negli ultimi tempi sta assumendo (vedi il Tg1) proporzioni davvero preoccupanti, soprattutto se si pensa alla caduta verticale del numero reale dei crimini commessi nel Paese. Ciò si affianca naturalmente alla nota e ricorrente tematizzazione sul genere dei contenitori pomeridiani. Ma in questi mesi l’omicidio della povera Chiara Poggi, meglio noto come “caso Garlasco”, tornato a galla per via di nuove indagini, senza dubbio rinnova, per le modalità con cui è raccontato, la sensazione di una grave degenerazione.

Eppure l’istituzione che vigila sulla comunicazione aveva a suo tempo individuato il pericolo ed emanato precise indicazioni, indicazioni che però nessuno ha rispettato (e, aggiungiamo, nessuno si adopera per far rispettare). Nel 2008 infatti l’agcom, con delibera n. 13, aveva avvertito sui rischi della creazione di “un foro ‘mediatico’ alternativo alla sede naturale”. Con una specie di “rappresentazione para-processuale, che giunge a volte perfino all’esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio”, l’autorità sosteneva che la televisione rischiava “seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia” e, perdipiù, che “effetti coloriti o teoremi giudiziari alternativi o rappresentazioni suggestive” prevalessero “sull’obiettiva informazione”. Insomma già allora l’agcom metteva in guardia dal rischio che la tv amplificasse “a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie”, stimolando una “attenzione distorta, insistente e talora parossistica” verso “taluni pur gravi fatti delittuosi”, una scelta “ispirata più dall’amore per l’audience che dall’amore per la verità”. Per questi motivi, continuava l’agcom, “va evitata un’esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva delle vicende di giustizia”. L’ente, dunque, invitava la cronaca giudiziaria a “sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell’informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l’altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime”, o peggio porti a forme di “divizzazione dei soggetti del processo”. La delibera si concludeva con l’invito alle tv a redigere al più presto un codice di regolamentazione in materia. Codice di autoregolamentazione che, ça va sans dire, a oggi naturalmente non esiste (o se esiste, peggio, viene ignorato). Sarebbe auspicabile allora che l’autorità alzasse la voce per mettere argine a questa deriva e che la Vigilanza, per le sue competenze, facesse altrettanto.

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