dalla nuova sardegna del 27\5\2013
Le memorie in versi dell’ex detenuto
L’orgolese Antonio Bassu scontò un quarto di secolo per la strage di Monte Maore: a 91 anni ha deciso di scrivere un libro
ORGOSOLO Antonio Bassu? ( foto a sinistra ) Innocente. La vox populi non ha mai avuto dubbi, il paese sapeva e lui
Graziato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone nel 1974, l'ex carcerato affida ora al ritmo dei versi endecasillabi in ottava rima le sue memorie di miele amaro. Ci pensava da oltre trent'anni, ora non ha più dubbi: è giunta l'ora della narrazione poetica.A novantun anni suonati, la libertà per lui è sempre un cavallo veloce che non teme le discese ripide e salva il suo cavaliere intrepido. Lui, su cadderi (il fantino) di tante vàrdias paesane, è stato derubato di un quarto di secolo della sua esistenza: 25 anni meno 25 giorni. «Mi sarei dovuto presentare prima della strage di Monte Maore, ero latitante, accusato di reati minori – ricorda –. Non l'ho fatto perché il mio avvocato, il senatore orgolese Antonio Monni, in quel periodo era in vacanza in Svizzera». Nella sua casa del rione storico di Caspiri, zona di Monte Isoro, Antonio Bassu risponde volentieri alle domande.aveva le prove: 17 testimoni nuoresi in corte d'assise dissero a una voce che il giorno della strage di Monte Maore – tre carabinieri uccisi e un quarto reso cieco da una pallottola, il 13 agosto 1949, in una tragica rapina alla camionetta che trasportava le buste paga degli operai ogliastrini dell'Erlas – il pastore orgolese era con loro sull'Ortobene. Ma i giudici diedero ascolto soltanto al pm Francesco Coco: ergastolo, confermato in appello (con Coco pm anche nel giudizio di secondo grado) e in cassazione.
Quando è nata l'idea di domandare aiuto alle Muse?
«Nel 1982, quando lo Stato mi chiese il pagamento del vitto e dell'alloggio in carcere e un mio compaesano e coetaneo, Antonio Piras noto Pireddu che viveva a Bolotana, mi scrisse un sonetto consolatorio».
Le poesie parlano solo della vicenda giudiziaria?
«No, quando mai? Trattano della mia vita, dall'infanzia alla vecchiaia, con gli episodi più salienti. Del periodo in cui era ancora vivo mio padre: avevo quindici anni quando lui, reduce della grande guerra, morì prematuramente. Ci sono le stagioni vissute da servo pastore, a Nuoro e Orgosolo, e soltanto dopo le stagioni della mia disavventura nei penitenziari di Ventotene e di Porto Azzurro. Ma c'è anche dell'altro».
Cos'altro?
«Il mio paese, le corse dei cavalli, i murales, la decadenza».
Il degrado del villaggio natale?
«Sì, nell'attenuarsi progressivo della solidarietà e della comparsa di un malattia dello spirito. L'egoismo».
Come si vive il passaggio dalla libertà alla cella del carcere?
«Sei davanti a una scelta: reazione o rassegnazione. Se non reagisci sei perduto. Se a Lanusei stavo male, a Cagliari era molto peggio»
Perché peggio?
«In una cella teoricamente destinata a un solo prigioniero eravamo in tre, 24 ore su 24, tranne un'ora d'aria nei cunicoli, non ti dico in quali condizioni. Si doveva parlare a bassa voce, non mi potevo fare nemmancu una cantadedda, neppure una cantatina».
Cosa si prova a ripensarci?
«Non mi sembra vero di essere riuscito a sopportare tante privazioni».
Maltrattamenti?
«In tutta sincerità debbo dire: nessuno mi ha mai messo un dito addosso. Ma anch'io non ho mai mancato di rispetto a nessuno».
Nelle poesie degli ultimi anni due parole tornano più di altre: resurrezione e risorto...
«Sì, tornano. Istintivamente, è più forte di me. Stare in carcere è come essere morti e sepolti. La galera è una tomba. Venticinque anni là dentro hanno distrutto la mia giovinezza».
Di chi la colpa di questo dramma?
«Del sistema barbaro di una giustizia che riteneva delinquenti tutti gli orgolesi: forze dell'ordine e magistratura davano ascolto solo alle spie prezzolate, di mestiere».
Con qualche eccezione?
«Indubbiamente. Riconosco al famoso maresciallo Loddo un'onestà professionale al di sopra di ogni sospetto. Con me è stato corretto anche nella testimonianza davanti alla corte».
Assiste all'intervista Franco Buesca, un giovane pastore di Orgosolo che ha acquisito il merito di essere una sorta di enciclopedia vivente della storia del suo paese.
Le sue parole sono lo specchio esatto del sentire comunitario: «L'ischimus totus, l'ischit sa vidda: tziu Antoni est innossente (lo sa il paese intero: lo “zio” Antonio è innocente)».
Uno dei testi più emozionanti tra le poesie di Antonio Bassu riguarda la liberazione, dopo la grazia firmata dal presidente della Repubblica: 26 ottave, 208 versi. Eccone una parafrasi italiana compatibile.«Era il 28 agosto 1974. Alle otto del mattino mi avviai verso il camerone dove cucivo palloni per tornei di calcio: il mio lavoro, a Porto Azzurro. Ero triste, da innocente condannato alla segregazione perpetua».Poche ore prima Antonio aveva fatto un sogno: «Sul fare dell'alba sentii una voce che mi chiamava e subito dopo vidi una figura candida come neve, simpatica e sorridente. Mi disse due parole: buona libertà. Mi sedetti e iniziai a lavorare. Non era facile, i punti dovevano essere lineari. D'un tratto sentii alcuni che dicevano: è arrivato un foglio di scarcerazione. Si erano fatte le nove e continuai a lavorare».Ed ecco la sorpresa: «Venne da me un guardiano e mi disse di andare con lui dal direttore».Il responsabile del penitenziario attendeva il prigioniero con il capo delle guardie. «Mi salutarono contenti e mi annunciarono la grazia. Non riuscivo a parlare per l'emozione. Feci un cenno di ringraziamento e andai a prepararmi: mi tolsi la divisa interna e indossai un abito da libero cittadino».L'addio alla reclusione è uno dei punti più intensi: «E pro s'ùrtima 'orta torro in cella/ cun sa divisa de su galeoto:/ in presse mi preparo su fagoto,/ mi retiro sa cosa pius bella./ Dae su muru ch'ispico una foto/ chi fit lughente coment'e istella/ sa chi m'at fatu sempre cumpagnia,/ sa figura fit sa 'e mama mia» (Per l'ultima volta rientro nella mia cella e mi preparo in fretta il fagotto. Ritiro la cosa più bella: da una parete stacco una foto luminosa come una stella che mi aveva sempre fatto compagnia: il ritratto di mia madre».Arrivò l'ora di salutare i compagni di pena.«Erano gli uomini con i quali avevo diviso il dolore e l'angoscia in quel luogo oscuro dove non esiste l'allegria: chi sconta una pena è come un cane legato a catena. Mi avviai verso il portone che si spalancava alla libertà. Superato l'uscio, mi voltai e feci il segno della croce con la mano sinistra».Con Bassu c'era un guardiano che lo doveva accompagnare fino al porto, dov'era pronta un'imbarcazione. Il prigioniero iniziava a respirare l'aria inebriante della libertà.Ricorda ancora Antonio Bassu: «La traversata da un porto all'altro durò due ore. Mi sentivo come un risuscitato, dopo 25 anni in una cella buia di appena quattro metri quadrati. In quel tempo il carcere era duro, ancora esistevano i mezzi di tortura: letti di forza e fruste di tutti i tipi permessi dal codice Rocco che alla prigionia aggiungeva isolamento e segregazione».Sbarcato a Piombino, Antonio andò dritto alla stazione. Sul treno trovò posto accanto a un finestrino: «Avevo un desiderio insopprimibile di vedere le bellezze della natura, per dimenticare il passato: mi sembrava di essere entrato in una vita nuova, come un uccello che esce dall'uovo».Poi l'imbarco, l'arrivo in Sardegna, l'incontro con la figlia Mara. Ma la scena più commovente è l'abbraccio con la madre, a Orgosolo.«La ritrovai vecchia e sfinita ma sempre amorosa e sorridente. Mi disse: adesso che sei tornato tu, in casa è ritornata l'allegria. E poi, come in un sussurro: quando morirò andrò via contenta».