Hiba Alif ( foto sopra al centro ) è la nuova assessora alle Politiche giovanili del Comune di Ravenna.
E in queste ore sta subendo una gogna social immonda da parte del solito marciume fascistoide di destra-destra( espressione per noon confondere la destra anche se ormai è una piccolissima minoranza con l'altra semre , sic , sempre più numerosa e per lo più in dopppietto ) per il suo nome, per le sue origini marocchine, per il colore della sua pelle, perché alcuni miserabili non riescono ad accettare nel 2025 che una donna di radici maghrebine possa ricoprire un ruolo politico in un’amministrazione pubblica nell’Italia ai tempi del salvinismo e ora del vannaccismo dilagante.
Solidarietà totale a Hiba Alif, a cui auguriamo un grande lavoro.
Ma è intollerabile ritrovarci ancora una volta a dover difendere qualcuno da questo vomitevole mix di razzismo e sessismo, ovvero gli unici argomenti che sono riusciti a trovare per contestare questa giovane donna a prescindere dalla sua capacità e preparazione capace e preparatissima. A cui il neosindaco Barattoni ha anche assegnato, simbolicamente ma non solo, la delega alla pace.
Nella nuova città e nel nuovo Paese che dobbiamo costruire, abbiamo bisogno di giovani politiche come lei. Grazie a tutti i razzisti e gli odiatori per avercelo ricordato con tanta chiarezza.
Infatti è È incredibile come basti il nome “Hiba” per far esplodere certe vene marce nei soliti personaggi che, nel 2025, hanno ancora paura della diversità come se fosse un mostro sotto il letto.
Il fatto che una donna giovane, di origine marocchina, in questo caso , venga nominata assessora alle Politiche giovanili in una città come Ravenna dovrebbe essere una notizia di progresso, di speranza, di normalità.
E invece no: il solito circo triste del razzismo da tastiera ha deciso che è il momento della loro solita performance fatta di ignoranza, sessismo e xenofobia.
Che spettacolo patetico.
A questi poveretti fa paura Hiba non perché sia “straniera” (spoiler: è italiana), ma perché incarna il futuro che non riusciranno mai a fermare: un’Italia aperta, plurale, consapevole delle sue radici e delle sue trasformazioni.Una Italia in cui non ci si chiede da dove vieni, ma dove vuoi andare. E Hiba sta andando in alto. Brava lei.Il bello è che ogni insulto che le lanciano, ogni attacco becero, ogni meme razzista… rafforza solo la sua legittimità. Perché dimostrano esattamente quanto servano persone come lei nelle istituzioni.A Hiba va tutta la nostra solidarietà, il nostro orgoglio e il nostro applauso.Ai razzisti e ai fascistelli del web… beh, buona sconfitta. State perdendo anche stavolta. E ve lo meritate tutto. Concludo con la belllissima lettera di solidarietà , trovata su
https://www.ravenna24ore.it/notizie/cronaca/ del 18.6.2025 Tra le voci più forti, quella dell’on. Ouidad Bakkali, che in una lunga lettera ricorda l’ondata d’odio subita quattordici anni fa. La lettera
“Sono passati quattordici anni da quando Fabrizio Matteucci mi nominò assessora a Ravenna. Un tempo infinito. E leggere, nelle ore successive alla sua nomina, i commenti beceri e razzisti rivolti a Hiba Alif, assessora alle politiche giovanili, mi ha fatto fare un salto temporale.
Stesse parole, stessa violenza, stessa stupidità.Oggi, con l’esperienza e gli anni, quei commenti di leoni e leonesse da tastiera rimbalzano sulla pelle indurita che mi sono costruita. Ma ricordo bene che allora non fu così. Quei commenti erano vere e proprie aggressioni e microaggressioi come le definisce nelle sue ricerche il Prof. Derald Wing Sue sulle persone razzializzate o parte di gruppi sociali marginalizzati.All’inizio non fu semplice. Alcune parole ti trafiggono, ti feriscono, ti offendono, ti violano nel profondo, nella tua persona. “Ma che sarà mai, fregatene!” mi dicevano. Ma a venticinque anni non ce la facevo. Li leggevo tutti, uno per uno. Non mi ero mai resa conto, prima di diventare un “personaggio pubblico”, che qualcuno potesse giudicarmi e disprezzarmi preventivamente, senza conoscermi, solo sulla base del mio nome, del mio cognome, delle mie origini.Erano spine nella carne, conficcate da gente qualunque, che poi magari incontravo in via Cavour o in piazza del Popolo. Odiatori vigliacchi, che quando li guardavo negli occhi per strada, abbassavano lo sguardo e scappavano.Si potrebbe liquidare tutto questo dicendo che si tratta di persone di poco valore, che usano i social per riversare odio, frustrazione, visioni del mondo ormai superate. Ma no, non basta.Anche perché chi mi diceva di “tornarmene al mio Paese” (e chissà, forse intendevano Casalborsetti, dove vivevo prima di trasferirmi in città?) e riversava insulti razzisti sulle pagine social dei giornali locali, spesso era inconsapevole di commettere veri e propri reati.Sì, cari leoncini e care leoncine: le vostre non sono opinioni, sono reati.Diffamazione (art. 595 c.p.), minaccia (art. 612 c.p.), propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa (art. 604 bis c.p.), e poi la legge 654 del 1975 e la legge Mancino del 1993.Se avessimo una normativa specifica sui crimini d’odio, sarebbe più semplice perseguire e sanzionare, soprattutto per quanto accade online. Ma intanto, le sentenze iniziano a creare giurisprudenza sul tema, e finalmente questi leoni da tastiera iniziano a dover spendere soldi veri per avvocati veri, cause vere e risarcimenti veri.Detto questo, cara Hiba, ti sono vicina. Capisco bene quanto certe parole possano fare male.All’epoca, la mia migliore risposta fu dedicarmi all’incarico che mi era stato affidato: con il lavoro quotidiano, amore, umiltà, passione, voglia di imparare.Riportavo il confronto sempre nel merito delle azioni, delle scelte, del mio lavoro politico. Perché lì, i leoni solitamente scappano miagolando e trovi solo i confronti utili, discussioni anche aspre e quelle critiche costruttive che ti aiutano a migliorare le politiche, cambiare idea quando serve e amministrare la cosa pubblica.E grazie a quel pezzo di comunità ravennate, sana e consapevole, che ha saputo prendere posizione con parole chiare.Non solo a difesa di Hiba Alif, ma anche del principio che razzismo e violenza non possono essere normalizzati, né diventare moneta corrente nelle relazioni sociali.Non possiamo accettare passivamente quello che sta accadendo sotto la spinta di una propaganda globale che mette i penultimi contro gli ultimi, che normalizza deportazioni, “remigrazioni” e discriminazioni sistemiche in nome di un’idea di sicurezza che, invece di proteggerci, rende le nostre società più impaurite, chiuse, diffidenti e violente.Una sicurezza fatta di città militarizzate, di capri espiatori scelti senza alcuna analisi seria dei fenomeni complessi che attraversano la nostra epoca. Perché ancora prima del fenomeno migratorio, quello che ci rende insicuri sono: la povertà, le disuguaglianze profonde, l’incertezza sul futuro dei giovani e dei loro sogni, l’emergenza abitativa, il caro vita e bollette, la fragilità del nostro sistema sanitario, il disagio sociale e culturale, la cura degli anziani, delle persone con disabilità, l’affermazione della supremazia e della regola del più forte e del più ricco nelle relazioni tra Stati, tra categorie e, di conseguenza, tra persone.Buon lavoro a Hiba e a chi, come me e come tanti, crede ancora in una società della convivenza plurale, giusta, laica, antirazzista e antifascista. Una società che abbia la nostra Costituzione come faro per il futuro, con la determinazione di attuarla davvero nei suoi principi fondamentali e in quell’equilibrio magistrale che madri e padri costituenti seppero trovare tra libertà individuali e responsabilità collettive, all’indomani di guerre devastanti e dittature totalitarie.
Che questioni di caprina fa questo articolo. La scritta è leggibile,no? e allora dove sarebbe l'erroere ? Se si vogliono fare i lanacaprinosi, allora anche la U, come viene rappresentata
graficamente (non solo qui ma in tutte le scritture i lapidi , insegne , persino quella dei tribunali , la legge è un uguale per tutti ), è un errore perché sembra una V, ma essuno ha mai scritto un articolo .Evidentemente non sapevano che ... scrivere per alungare il brodo .
da msn.it
[...]
L'errore sulla lapide del Papa
Il Santo Padre aveva chiesto una lapide con l'unica scritta "Franciscvs" nella chiesa di Santa Maria Maggiore. Ma proprio su quella scritta è stato fatto un errore che non è sfuggito ai fedeli. La seguenza delle lettere è disarmonica. A segnalare l'errore è il settimanale L'Espresso. Chi ha inciso Franciscus sulla lapide ha esagerato la distanza tra le lettere "R, A, e N", lasciando troppo spazio tra la terza lettera e le altre.
Non sarebbe stato effettuato il “kerning", l’operazione con la quale si regola lo spazio tra coppie di lettere di una parola, per renderla il più leggibile possibile. Un errore che è già stato esposto a migliaia di fedeli, da giorni in fila per rendere omaggio al Papa.
-----
Alpini partigiani e repubblichini insieme a difesa della Val d’Aosta
Reparti delle Fiamme verdi e delle penne nere il 28 aprile 1945 si schierarono gli uni al fianco degli altri per impedire la conquista militare delle truppe francesi
L’interesse nazionale e l’amor di patria prevalente sulle contrapposizioni, gli odi e i rancori del recente passato e pure del presente. Il 28 aprile 1945 sul fronte occidentale dell’Italia dilaniata dall’occupazione tedesca e dalla guerra civile, i partigiani e i repubblichini, nemici fino al giorno prima, si ritrovavano dalla stessa parte per difendere la Val d’Aosta dal disegno di annessione del generale Charles De Gaulle.§È stato, solo di recente, lo storico valdostano Andrea Désandré a reperire i documenti del Servizio informazioni militari (Sim) e ricostruire nei dettagli la singolare alleanza che vide fianco a fianco un reparto di artiglieria repubblichino e le unità della resistenza per tamponare le infiltrazioni dell’esercito francese a Valgrisenche, Valle di Rhêmes e Pré-Saint-Didier.
Il ruolo del maggiore Adam dei Servizi segreti L’impensabile fu reso possibile dall’accorta e lungimirante opera di mediazione e cucitura su più versanti del maggiore degli alpini Augusto Adam, ufficiale del Sim, che aveva portato altresì, con l’ausilio del vescovo, a convincere i reparti tedeschi e uno di paracadutisti della Folgore a ritirarsi in ordine da Aosta senza abbandonarsi né a scontri né a distruzioni, consentendo la liberazione pacifica della città, uno dei principali obiettivi degli Chasseurs des Alpes francesi del generale Paul-André Doyen. E così il colonnello Armando De Felice comandante del 4˚reggimento Alpini della divisione Littorio e il maggiore Adam raggiunsero un accordo personale: i partigiani valdostani delle Fiamme verdi con regolamentare cappello alpino si schierarono in alta quota e le penne nere dell’esercito repubblichino a valle, tenendo pure lontane le truppe tedesche. Tutti insieme, compatibilmente, per fronteggiare con le armi i francesi e le loro mire sulla provincia.
Il piano segreto di annessione di De Gaulle risaliva al 1943 De Gaulle già nel 1943 aveva elaborato un piano di annessione per vendicare l’aggressione dell’Italia fascista alla Francia del 10 giugno 1940. Il generale aveva tenuto gli Alleati all’oscuro di questo ambizioso progetto incuneato nel più vasto quadro dell’aiuto alleato ai partigiani italiani costretti a sconfinare in territorio francese nel 1944 per sottrarsi ai rastrellamenti nazifascisti. Ma le manovre sulla frontiera del Distaccamento delle Alpi (Armée des Alpes) agli ordini di Doyen non erano sfuggite al Governo Bonomi e il 9 febbraio 1945 il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi aveva presentato un memoriale all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo dell’amministrazione militare alleata in Italia, il quale aveva subito avvisato gli ambasciatori di Gran Bretagna e Stati Uniti, oltre al comandante in capo Maresciallo Harold Alexander. Gli Alleati ordinarono di conseguenza a De Gaulle di non oltrepassare il confine.
I francesi sembrarono obbedire, ma ad aprile, col tracollo del fronte, approfittarono dell’autorizzazione a pattugliare una fascia di territorio italiano che non doveva andare oltre i venti chilometri di profondità, per una serie di infiltrazioni mirate. Pattugliare non significava occupare, ma il Distaccamento delle Alpi il 26 aprile si mosse superando il Piccolo San Bernardo e arrivando a posizionare truppe a Ivrea, Rivoli e Savona.
Gli Chasseurs des Alpes fermati dall’artiglieria della Rsi Fu solo il colpo di coda invernale che, ostacolando trasporti e spostamenti, impedì la discesa in Valle d’Aosta di un esercito numericamente più importante. I francesi, peraltro, non si comportarono affatto da liberatori e cominciarono subito a distribuire le loro carte annonarie. Il 27 superarono la Val di Rhênes ma il 28 gli Chasseurs des Alpes vennero fermati a La Thuile dal tiro degli obici del gruppo Mantova della Monterosa, lungo la linea italiana mista, mentre grazie all’accordo trilaterale di Adam si insediava ad Aosta il prefetto partigiano Alessandro Passerin d’Entrèves che a nome del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia chiamò tutti gli italiani a difendere la città dalle mire francesi: risposero i partigiani e ancora una volta gli alpini della Rsi dei battaglioni Varese e Bergamo della 2ª divisione granatieri Littorio, ed elementi dell’ormai disciolto Esercito nazionale repubblichino.
Gli Alleati impongono la ritirata al di là della frontiera del 1939 Sempre il 28 aprile Alexander chiese da Caserta al comandante supremo Dwight Eisenhower di intervenire su De Gaulle, e il generale Devers di conseguenza impartì a Doyen l’ordine di cessare le operazioni in Val d’Aosta. Quest’ultimo fece finta di non aver ricevuto tale ordine e fino al 7 maggio si comporterà di conseguenza, quando non potrà più fare a meno di obbedire al generale Alphonse Juin, capo di stato maggiore, messo alle strette dagli Alleati i quali per disinnescare la situazione avevano inviato un distaccamento americano che arriverà l’8 maggio per il definitivo cessate il fuoco, rilevando gli italiani nello schieramento al confine e chiudendo la seconda battaglia delle Alpi.
Se la crisi militare era apparentemente raffreddata, non altrettanto poteva dirsi di quella diplomatica, divenuta incandescente. I francesi non erano riusciti né a emulare gli jugoslavi titini sul fronte orientale, portando dalla loro parte le brigate partigiane assai meno politicizzate di quelle Garibaldi, né la popolazione valdostana sottoposta a un’intensa propaganda annessionista. Il diretto e deciso intervento del presidente statunitense Harry Truman, unito all’aperta ostilità di Winston Churchill sulle mire espansioniste di De Gaulle, avrà un peso definitivo nel far ritirare le truppe francesi da Ventimiglia e dalle zone italiane occupate, rientrando nei confini del 1939.
Scongiurato il pericolo di un plebiscito sotto occupazione Ma ancora una volta una “dimenticanza” del generale Doyen lascerà i soldati francesi nei due paesini di Briga e Tenda, che poi il trattato di pace di Parigi assegnerà alla Francia. Doyen aveva avuto precise e dettagliate istruzioni proprio da De Gaulle su quella “dimenticanza”. Nessun plebiscito si era tenuto in Val d’Aosta, da provincia qual era trasformata in Circoscrizione autonoma con decreto luogotenenziale di Umberto di Savoia del 7 settembre 1945, preludio allo statuto speciale. In questa maniera si era disinnescato l’ultimo tentativo francese di ottenere quel territorio per via legale, formula che De Gasperi definì come l’altra faccia della medaglia della politica brutale di Tito sui territori orientali. A est la Jugoslavia aveva potuto contare sull’appoggio comunista, mentre a ovest la Francia si era scontrata con un inedito e imprevisto sentimento nazionale italiano che in quell’emergenza aveva risaldato due anime lacerate dalla guerra civile.
Ombretta Floris, estetista di Desulo malata di tumore al seno, si mostra con i suoi figli che la aiutano nella sua lotta quotidiana contro la malattia…
Ombretta Floris, estetista 39enne di Desulo in provincia di Nuoro, l’avevamo lasciata il 10 marzo sui monti della sua Desulo quando con una macchinetta elettrica si era rasata a zero i capelli che le cadevano a ciocche a causa delle cure contro il tumore al seno contro il quale combatte da gennaio.
“Pelata o no, sono sempre io. La mia essenza non dipende dai miei capelli”, scrive nel suo ultimo post su Fb. Ed ha ragione. La sua bellezza, la sua essenza, vanno oltre quei capelli.
La Floris è madre di due figli ai quali ha raccontato la sua malattia, che rappresentano per lei, come per tutte le madri ed i padri, motivo di gioia e di orgoglio.
E per chi soffre, un sostegno nella malattia. Non è facile per un genitore confessare ad un figlio la propria malattia: sia essa fisica o psichiatrica. È come mostrare un fianco, mostrare una fragilita’ che non ci possiamo permettere e non ci è concessa, sopratutto quando non abbiamo nessuno che ci aiuta a crescerli.
Invece la Floris come tante altre persone malate, condivide con i figli la malattia e le cure. Cerca e trova in loro gli abbracci, i baci, le carezze che fanno bene quanto e più di ogni medicina.
Ombretta si mostra forte, sorridente nei momenti felici, ma si mostra pubblicamente anche nei momenti tristi e complessi. Raccontandosi attraverso i social network per essere un esempio a chi come lei lotta per un cancro o un altra malattia, senza filtri.
In un altro post ci lascia questo messaggio: “Oggi senza filtri: occhi gonfi pieni di speranza, pelle imperfetta senza trucco e metteteci un po’ di sconforto, di stanchezza. Ma sappiate che non è legato assolutamente al tumore. Io sto facendo un lungo viaggio, sto tornando indietro nel tempo e sto cercando di aiutare quella bambina a capire il senso della vita. Vado oltre alla bellezza esteriore essendo un’ imprenditrice del settore, vado oltre la bellezza. L’ho sempre detto: sono Ombretta e non sono perfetta. Sto affrontando la chemio e sto imparando a conoscere me stessa in modi che non avrei mai immaginato. Sarà tutto strano per voi ma io amerò il mio tumore, amerò la terapia per tutto quello che mi sta dando”.
Maria Vittoria Dettoto
----
questa notizia mi ricorda il finale dei (Les Misérables) di Victor Hugo
(francese)
«Il dort. Quoique le sort fût pour lui bien étrange,
Il vivait. Il mourut quand il n'eut plus son ange;
La chose simplement d'elle-même arriva,
Comme la nuit se fait lorsque le jour s'en va.»
(italiano)
«Riposa: benché la sorte fosse per lui ben strana,
pure vivea: ma privo dell'angel suo morì:
La cosa avvenne da sé naturalmente
come si fa la notte quando il giorno dilegua»
Jacopo Storni Era stato un agente immobiliare, quasi laureato in giurisprudenza: gli mancavano soltanto quattro esami. Ma dopo lo sfratto per morosità di cinque anni fa, la sua vita è precipitata. Fino allo scorso 10 aprile, quando il suo corpo senza vita è stato ritrovato su una panchina di piazza Tasso, in Oltrarno a Firenze.Una parabola drammatica, quella di Marco Amaranto, da lavoratore a senzatetto che rifiuta l’accoglienza e persino le cure. Nessun familiare alla tumulazione di lunedì mattina 28 aprile, tanto che gli operai del cimitero hanno proceduto alla cerimonia di sepoltura in solitaria. Soltanto il vento, il rumore della ruspa e quello delle zolle che ricoprono la bara.Sul mucchio di terra c’è una croce in legno: Amaranto Marco, prima il cognome poi il nome, nato il 2 ottobre del 1967 e morto il 9 aprile del 2025. Aveva 57 anni.
------
Caterina Angelucci Arttribune 27\4\2025
Storia della “Dama addormentata con vaso nero”, scomparsa e ritrovata grazie a un famoso film d’animazione
Ottant’anni dopo la scomparsa del capolavoro cubista del pittore ungherese Róbert Berény è stato individuato in una scena di “Stuart Little” da un ricercatore, che stava scrivendo la sua biografia. Ecco com'è andata
Era il 2009 quando un ricercatore della Galleria Nazionale Ungherese, Gergely Barki, stava guardando insieme alla figlia il film d’animazione americano Stuart Little del 1999, che racconta di una famiglia che adotta un topolino. Ma non è stata la trama a catturare l’attenzione di Barki, quanto un singolo frame del film in cui si vede, alle spalle dei protagonisti, un quadro appeso tra due lampade sopra il
camino del soggiorno. Dopo averlo guardato ripetutamente, lo studioso capisce di essere davanti alla Dama addormentata con vaso nero di Róbert Berény (Budapest, 1887 – 1953), capolavoro cubista scomparso dal 1928. E caso vuole, il ricercatore si stava occupando proprio in quel periodo della biografia del pittore ungherese, la cui opera non era stata più rinvenuta dopo una mostra della Munkácsy Guild.
La scoperta di Gergely Barki mentre guardava il film d’animazione “Stuart Little”
“Non potevo credere ai miei occhi quando ho visto il capolavoro a lungo perduto di Berény sulla parete dietro Hugh Laurie. Per poco non mi è caduta Lola – la figlia – dalle ginocchia”, raccontò al tempo Barki. “Un ricercatore non può mai staccare gli occhi dal lavoro, nemmeno quando guarda i film di Natale a casa”. Così, incuriosito dalla scoperta, iniziò a scrivere delle mail a tutte le persone coinvolte nel film, finché due anni dopo, nel 2011, gli rispose una scenografa.
Gergely Barki sulle tracce della “Dama addormentata con vaso nero” di Róbert Berény
“Mi disse che il quadro era appeso alla sua parete e che aveva acquistato il quadro in un negozio di antiquariato di Pasadena, in California, per un prezzo irrisorio, pensando che la sua eleganza fosse perfetta per il salotto di Stuart Little”, riportò Barki. Dopo che il dipinto venne utilizzato come sfondo per l’ambientazione della casa familiare del film hollywoodiano e l’attrezzatura di produzione imballata, la scenografa si portò via la Dama e la appese nel proprio appartamento come decorazione. “Ho avuto l’occasione di farle visita, di vedere il dipinto e di raccontarle tutto sul pittore”, continuò Barki.
La “Dama addormentata con vaso nero” di Róbert Berény
In seguito alla scoperta, la donna vendette il dipinto a un collezionista privato, che a sua volta lo mise all’asta presso la galleria Virag Judit di Budapest il 13 dicembre 2014, dove fu battuto a 230 mila euro, il prezzo più alto mai pagato per un dipinto di Róbert Berény.
---------
La storia del figlio della vicedirettrice della CIA che si arruolò con la Russia
E morì nell'aprile del 2024 combattendo contro l'Ucraina a Bakhmut: si è saputo di lui soltanto adesso
Michael Gloss era il figlio di una vicedirettrice della CIA, l’agenzia di intelligence esterna degli Stati Uniti, e nell’aprile del 2024 morì combattendo nell’est dell’Ucraina per l’esercito russo. Aveva 21 anni e la
sua storia è diventata nota soltanto ora, dopo che venerdì il sito indipendente russo IStories ha pubblicato il suo nome e molti dettagli della sua vicenda. Dopo la pubblicazione dell’articolola famiglia ha confermato tutto.
La storia di Gloss non è tanto diversa da quella di altre migliaia di volontari che si sono arruolati nell’esercito russo nel corso della guerra per soldi, adesione ideologica al regime del presidente Vladimir Putin o per ottenere benefici come la cittadinanza russa. Ma è al tempo stesso eccezionale per l’identità di Gloss: sua madre Juliane Gallina è la vicedirettrice della CIA con delega all’innovazione digitale e una delle funzionarie di intelligence più importanti del paese; suo padre Larry Gloss è un ex militare decorato e lavora anche lui nel campo dell’intelligence.In un’intervista con il Washington Post i genitori di Gloss hanno detto che non avevano idea che il figlio stesse combattendo in Ucraina con i russi fino a che, nel giugno del 2024, non ricevettero la comunicazione che era morto in guerra per una «ingente perdita di sangue» a seguito di un attacco di artiglieria. Michael Gloss militava in un reparto d’assalto russo e combatteva in prima linea sul fronte, in quella che al tempo era la zona più pericolosa di tutte: la cittadina di Bakhmut.
Parlando con il Washington Post, Larry Gloss ha detto che suo figlio Michael aveva sempre avuto problemi di salute mentale, anche se non ha specificato quali. Ha detto inoltre che era stato un bambino e poi un ragazzo insofferente nei confronti dell’autorità: «Era il giovane uomo più anti establishment (…) del mondo». Michael Gloss era un militante ambientalista, femminista e di sinistra. Sui suoi profili social ci sono fotografie in cui partecipa a proteste per l’ambiente e contro l’eliminazione del diritto federale all’aborto negli Stati Uniti. In una foto ha in mano un cartello con scritto: «Non si può vietare l’aborto, si può solo vietare l’aborto sicuro».Alcuni anni fa, ha detto Larry Gloss, Michael smise di prendere i farmaci che gli erano stati prescritti, e cominciò ad avere un comportamento più imprevedibile. Nel gennaio del 2023 abbandonò l’università e partì per l’Europa. Arrivò in Italia, dove lavorò per un periodo in alcune aziende agricole (sul suo profilo Instagram ci sono foto di scritte anarchiche e antifasciste scattate a Bari), e poi si spostò in Turchia per partecipare a un raduno di Rainbow Family, un’organizzazione di controcultura hippy nata negli anni Settanta e ancora attiva. In Turchia prese parte ai soccorsi dopo il gravissimo terremotoche colpì il paese nella primavera del 2023. In quel periodo si era fatto crescere la barba e vestiva con una tunica lunga, e tutti lo chiamavano “Gesù”.
Non è chiaro perché a un certo punto Michael abbia deciso di andare in Russia. Alcuni sostengono che avesse sviluppato forti sentimenti antiamericani e antioccidentali: «Guardava in continuazione video sulla Palestina ed era arrabbiatissimo con l’America. Ha cominciato a pensare di andare in Russia. Voleva entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Ma penso fosse molto influenzato dai video cospirazionisti online», ha detto a IStories una persona che lo conosceva. In effetti nel 2023 Michael cominciò a utilizzare il social media russo VKontakte (simile a Facebook), e a pubblicare molto materiale di propaganda russa, soprattutto contro l’Ucraina.
Soldati ucraini in trincea vicino a Bakhmut, marzo 2024 (AP Photo/Efrem Lukatsky)
Altri conoscenti ritengono che Gloss volesse andare in Russia per farsi finanziare un progetto ambientalista che sperava di mettere in atto, una specie di gigantesco sistema di purificazione dell’acqua. La famiglia ha ammesso di non avere idea di quali fossero le sue intenzioni. «Posso solo dare la colpa ai suoi problemi di salute mentale. Non c’è altra risposta logica», ha detto il padre.
Nell’agosto del 2023 Michael entrò in Russia passando per il confine con la Georgia. Viaggiò un po’ per il paese e poi a settembre, poche settimane prima della scadenza del suo visto turistico, firmò un contratto da soldato volontario con le forze armate russe. Fece due settimane di addestramento in un centro militare fuori Mosca, e poi da lì fu spostato a Ryazan, circa 200 chilometri a sud-est della capitale, dove fu inserito nel 137esimo reggimento aviotrasportato per continuare l’addestramento. IStories ha raccolto decine di video e foto pubblicate sui social da Michael stesso o da suoi compagni militari, molti dei quali erano mercenari nepalesi. All’inizio del 2024, non si sa esattamente quando, Michael fu trasferito in Ucraina. A metà marzo la sua divisione cominciò a marciare verso Bakhmut. Michael fu ucciso il 4 aprile. La famiglia seppe della sua morte a giugno, e il suo corpo fu rimpatriato dalla Russia a dicembre. Per quasi un anno, la famiglia Gloss non ha voluto rivelare le circostanze in cui era morto. Sul suo necrologio la famiglia aveva fatto scrivere: «Con il suo cuore nobile e il suo spirito da guerriero, Michael stava portando avanti il suo eroico cammino quando è stato ucciso tragicamente nell’Est Europa».
Dopo la pubblicazione dell’articolo di IStories, la CIA ha diffuso un breve comunicato in cui ha scritto: «La CIA considera la morte di Michael una questione familiare privata e non una questione di sicurezza nazionale». È un modo per dire che secondo l’agenzia il fatto che Michael si fosse arruolato con la Russia non è legato al lavoro che facevano i suoi genitori, ma una scelta personale del giovane.
Larry Gloss ha detto che lui e sua moglie erano sconvolti quando hanno saputo che Michael aveva combattuto per la Russia: «Prego soltanto che non abbia fatto male a nessuno», ha detto.
Oggi 10 febbraio giorno del ricordo si celebra giustamente le foibe e l'esodo \ sradicamento delle polazioni italiane o miste vista la situazione tipica di confini come quelli dove convivevano tra alti e bassi e si mescolavano \ contaminavano etnie diverse fino all'esplodere \ all'esacerbarsi ne nazionalismi ed arrivare alle brutture delle pulizia etnica . Ma che altro dire su tali eventi che non sia già stato detto o scritto , che non sia solo retorica nazionalista \ patriottarda ? Io nel mio piccolo posso solo ripetere quanto già detto , da quando ho messo su il blog ( prima con splinder poi con blogger ) ed in particolare in quest'ultimo post scritto di qualche fa , quello che da fastidio a coloro che vogliono celebrando tali eventi a senso unico e solo in parte , sminuendo e accusando chi fa il contrario di negazionismo \ giustificazionismo oscurando il resto delle vicende Quindi posso lottare finchè sia ricordato tutto la pulizia etnica e l'italianizzazione forzata e la cancellazione etnica e le brutalità con i nazisti
non solo i crimini del foibe e del regime di Tito .Per e per parafrasare la mia patria di Sabina Guzzanti ( qui il testo integrale ) le vele al vento del mio pensiero al finche' quel vento resisterà' e soffierà ancora ( canzone di Pierangelo Bertoli ) lottare affinché non si speculi con la scusa di trovare una memoria condivisa su tali vicende cosi dolorose e " divisive " e ancora per la politica della guerra fredda \ congiura del silenzio e degli italiani brava gente ( url ) . Ma sopraqttutto non siano ogetto propagandistico e usato cone speculazione politica contro gli avversari ( destra ) e negazionista e giustificazionista con distruzione e deturpamento di monumenti e sacrari con vergognose scritte
Quindi ho già detto tutto quello che dovevo dire . Che altro aggiungere quindi ? se non
oppure visto che zitto non riesco a stare segnalando ( è dell'anno scorso ma l'ho scoperto solo oggi ) un ottimo lavoro letterario e musicale scevro quasi del tutto dalla retorica patriottarda e nazionalista ma carico di nostalgia esodo
di Chiara atzeni qui la sua pagina facebook o con una bellissima testimonianza da sinistra perché l'esodo e lo sradicamento da quelle terre riguarda tutti e non guarda in faccia nessuno
da
Il Fatto Quotidiano
» Adriano Sansa
Foibe, la memoria sia almeno giusta: tutto va ricordato e nulla giustificato
Il Fatto Quotidiano
» Adriano Sansa
Sono nato a Pola; il nonno era medico a Dignano: morì d’infarto in quei giorni tremendi. Fummo costretti dalle minacce e dal terrore di Tito a lasciare la nostra terra. Passammo tempi di angustie. Poi i miei genitori ricominciarono, senza troppi lamenti. Si riunivano con altri esuli ogni anno a cantare il “Va pensiero”. Ma ancora dopo decenni altri profughi meno fortunati vivevano in squallide caserme fra corde tese a separare con qualche coperta le famiglie.
Al principio l’italia non fu sempre generosa. Il Partito comunista subiva l’egemonia sovietica, simpatizzava per Tito; gli esuli furono stoltamente chiamati fascisti, talvolta insultati e molestati. Paradossalmente il fascistume seguace del corresponsabile del loro dramma fece mostra di difenderli. Per molti anni non si parlò onestamente della tragedia istriana e dalmata.
Tuttora, nonostante il Giorno del ricordo, e anzi proprio in questa occasione, certe analisi sono inquinate dall’ideologia. I crimini del fascismo, la persecuzione della popolazione slava richiedono giustamente una memoria e possono spiegare in parte la ferocia dei titini, le foibe, la sostituzione etnica che ne seguì. Ma non le giustificano. Gli eventi pur connessi della storia esigono uno ad uno un giudizio. Gli istriani patirono tremende crudeltà, violenze, sevizie di ogni sorta.
Le ultime parole di mia madre furono “perché devo morir cussi’ lontan?”. Nata a Lussino, cresciuta tra Trieste e Pola, aveva insegnato nella minuscola isola di Unie. Per tanti esuli il Giorno del ricordo arriva tardi: che sia almeno giusto.
Volete sapere cos’è davvero il mondo al contrario ? E bene, succede che un signore dichiaratamente fascista che non ha mai rinnegato il suo passato faccia l’ambasciatore per la Repubblica Italiana.Succede che un giornalista faccia il suo mestiere e informi i cittadini sul fatto che questo signore sia stato coinvolto in un controverso episodio di pestaggio da parte di un gruppo di estrema destra ai danni di militanti di sinistra, nel 1989, risolto con l’assoluzione ma anche un maxi-risarcimento in sede civile alle due vittime.Succede che l’ambasciatore, mai pentito per le sue idee, quereli e chieda ingenti danni al giornalista, reo di aver fatto il suo mestiere e di aver ricordato anche le sue passate “performance” musicali fascio-rock, sollevando ovvie ragioni di incompatibilità di carica, anche attraverso una petizione pubblica. I protagonisti di questa vicenda sono Mario Vattani, nel ruolo del fasciambasciatore, e Lorenzo Tosa, il coraggioso giornalista.Fra qualche giorno, in questo straordinario mondo al contrario che è diventata l’Italia, Tosa andrà a processo, citato in giudizio da Vattani. Un evidente tentativo di imbavagliare il giornalista. In realtà non mi stupisce, considerando che in questo preciso momento storico viene silenziato Scurati nella televisione pubblica e a Serena Bortone vengono comminati provvedimenti disciplinari, così come a Christian Raimo.È un tempo difficile per giornalisti e intellettuali con la schiena dritta. Ma il potere che prova a mettere il bavaglio ai giornalisti con le querele temerarie deve finirla.Sollevo quindi questo caso cercando di alzare un po’ l’attenzione sul lavoro di Tosa e sul tentativo di intimidirlo da parte del fasciambasciatore.