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29.4.25

DIARIODI BORDO N 118 ANNO III questioni di lana carina sull'errore della tomba di papa bergoglio ,Alpini partigiani e repubblichini insieme a difesa della Val d’Aosta Reparti delle Fiamme verdi e delle penne nere il 28 aprile 1945 si schierarono gli uni al fianco degli altri per impedire la conquista militare delle truppe francesi , ed altre storie

 Che questioni di caprina fa questo articolo. La scritta è leggibile,no? e allora dove sarebbe l'erroere ? Se si vogliono fare i lanacaprinosi, allora anche la U, come viene rappresentata


graficamente (non solo qui ma in tutte le scritture i lapidi , insegne , persino quella dei tribunali , la legge è un uguale per tutti ), è un errore perché sembra una V, ma essuno ha mai scritto un articolo .Evidentemente non sapevano che ... scrivere per alungare il brodo .


da msn.it

[...]
L'errore sulla lapide del Papa
Il Santo Padre aveva chiesto una lapide con l'unica scritta "Franciscvs" nella chiesa di Santa Maria Maggiore. Ma proprio su quella scritta è stato fatto un errore che non è sfuggito ai fedeli. La seguenza delle lettere è disarmonica. A segnalare l'errore è il settimanale L'Espresso. Chi ha inciso Franciscus sulla lapide ha esagerato la distanza tra le lettere "R, A, e N", lasciando troppo spazio tra la terza lettera e le altre.
Non sarebbe stato effettuato il “kerning", l’operazione con la quale si regola lo spazio tra coppie di lettere di una parola, per renderla il più leggibile possibile. Un errore che è già stato esposto a migliaia di fedeli, da giorni in fila per rendere omaggio al Papa.


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Alpini partigiani e repubblichini insieme a difesa della Val d’Aosta
AGI
Marco Patricelli

L’interesse nazionale e l’amor di patria prevalente sulle contrapposizioni, gli odi e i rancori del recente passato e pure del presente. Il 28 aprile 1945 sul fronte occidentale dell’Italia dilaniata dall’occupazione tedesca e dalla guerra civile, i partigiani e i repubblichini, nemici fino al giorno prima, si ritrovavano dalla stessa parte per difendere la Val d’Aosta dal disegno di annessione del generale Charles De Gaulle.§È stato, solo di recente, lo storico valdostano Andrea Désandré a reperire i documenti del Servizio informazioni militari (Sim) e ricostruire nei dettagli la singolare alleanza che vide fianco a fianco un reparto di artiglieria repubblichino e le unità della resistenza per tamponare le infiltrazioni dell’esercito francese a Valgrisenche, Valle di Rhêmes e Pré-Saint-Didier.
Il ruolo del maggiore Adam dei Servizi segreti
L’impensabile fu reso possibile dall’accorta e lungimirante opera di mediazione e cucitura su più versanti del maggiore degli alpini Augusto Adam, ufficiale del Sim, che aveva portato altresì, con l’ausilio del vescovo, a convincere i reparti tedeschi e uno di paracadutisti della Folgore a ritirarsi in ordine da Aosta senza abbandonarsi né a scontri né a distruzioni, consentendo la liberazione pacifica della città, uno dei principali obiettivi degli Chasseurs des Alpes francesi del generale Paul-André Doyen. E così il colonnello Armando De Felice comandante del 4˚reggimento Alpini della divisione Littorio e il maggiore Adam raggiunsero un accordo personale: i partigiani valdostani delle Fiamme verdi con regolamentare cappello alpino si schierarono in alta quota e le penne nere dell’esercito repubblichino a valle, tenendo pure lontane le truppe tedesche. Tutti insieme, compatibilmente, per fronteggiare con le armi i francesi e le loro mire sulla provincia.
Il piano segreto di annessione di De Gaulle risaliva al 1943
De Gaulle già nel 1943 aveva elaborato un piano di annessione per vendicare l’aggressione dell’Italia fascista alla Francia del 10 giugno 1940. Il generale aveva tenuto gli Alleati all’oscuro di questo ambizioso progetto incuneato nel più vasto quadro dell’aiuto alleato ai partigiani italiani costretti a sconfinare in territorio francese nel 1944 per sottrarsi ai rastrellamenti nazifascisti. Ma le manovre sulla frontiera del Distaccamento delle Alpi (Armée des Alpes) agli ordini di Doyen non erano sfuggite al Governo Bonomi e il 9 febbraio 1945 il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi aveva presentato un memoriale all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo dell’amministrazione militare alleata in Italia, il quale aveva subito avvisato gli ambasciatori di Gran Bretagna e Stati Uniti, oltre al comandante in capo Maresciallo Harold Alexander. Gli Alleati ordinarono di conseguenza a De Gaulle di non oltrepassare il confine.
I francesi sembrarono obbedire, ma ad aprile, col tracollo del fronte, approfittarono dell’autorizzazione a pattugliare una fascia di territorio italiano che non doveva andare oltre i venti chilometri di profondità, per una serie di infiltrazioni mirate. Pattugliare non significava occupare, ma il Distaccamento delle Alpi il 26 aprile si mosse superando il Piccolo San Bernardo e arrivando a posizionare truppe a Ivrea, Rivoli e Savona.
Gli Chasseurs des Alpes fermati dall’artiglieria della Rsi
Fu solo il colpo di coda invernale che, ostacolando trasporti e spostamenti, impedì la discesa in Valle d’Aosta di un esercito numericamente più importante. I francesi, peraltro, non si comportarono affatto da liberatori e cominciarono subito a distribuire le loro carte annonarie. Il 27 superarono la Val di Rhênes ma il 28 gli Chasseurs des Alpes vennero fermati a La Thuile dal tiro degli obici del gruppo Mantova della Monterosa, lungo la linea italiana mista, mentre grazie all’accordo trilaterale di Adam si insediava ad Aosta il prefetto partigiano Alessandro Passerin d’Entrèves che a nome del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia chiamò tutti gli italiani a difendere la città dalle mire francesi: risposero i partigiani e ancora una volta gli alpini della Rsi dei battaglioni Varese e Bergamo della 2ª divisione granatieri Littorio, ed elementi dell’ormai disciolto Esercito nazionale repubblichino.
Gli Alleati impongono la ritirata al di là della frontiera del 1939
Sempre il 28 aprile Alexander chiese da Caserta al comandante supremo Dwight Eisenhower di intervenire su De Gaulle, e il generale Devers di conseguenza impartì a Doyen l’ordine di cessare le operazioni in Val d’Aosta. Quest’ultimo fece finta di non aver ricevuto tale ordine e fino al 7 maggio si comporterà di conseguenza, quando non potrà più fare a meno di obbedire al generale Alphonse Juin, capo di stato maggiore, messo alle strette dagli Alleati i quali per disinnescare la situazione avevano inviato un distaccamento americano che arriverà l’8 maggio per il definitivo cessate il fuoco, rilevando gli italiani nello schieramento al confine e chiudendo la seconda battaglia delle Alpi.
Se la crisi militare era apparentemente raffreddata, non altrettanto poteva dirsi di quella diplomatica, divenuta incandescente. I francesi non erano riusciti né a emulare gli jugoslavi titini sul fronte orientale, portando dalla loro parte le brigate partigiane assai meno politicizzate di quelle Garibaldi, né la popolazione valdostana sottoposta a un’intensa propaganda annessionista. Il diretto e deciso intervento del presidente statunitense Harry Truman, unito all’aperta ostilità di Winston Churchill sulle mire espansioniste di De Gaulle, avrà un peso definitivo nel far ritirare le truppe francesi da Ventimiglia e dalle zone italiane occupate, rientrando nei confini del 1939.
Scongiurato il pericolo di un plebiscito sotto occupazione
Ma ancora una volta una “dimenticanza” del generale Doyen lascerà i soldati francesi nei due paesini di Briga e Tenda, che poi il trattato di pace di Parigi assegnerà alla Francia. Doyen aveva avuto precise e dettagliate istruzioni proprio da De Gaulle su quella “dimenticanza”. Nessun plebiscito si era tenuto in Val d’Aosta, da provincia qual era trasformata in Circoscrizione autonoma con decreto luogotenenziale di Umberto di Savoia del 7 settembre 1945, preludio allo statuto speciale. In questa maniera si era disinnescato l’ultimo tentativo francese di ottenere quel territorio per via legale, formula che De Gasperi definì come l’altra faccia della medaglia della politica brutale di Tito sui territori orientali. A est la Jugoslavia aveva potuto contare sull’appoggio comunista, mentre a ovest la Francia si era scontrata con un inedito e imprevisto sentimento nazionale italiano che in quell’emergenza aveva risaldato due anime lacerate dalla guerra civile.
29\4\2025

Ombretta Floris, estetista di Desulo malata di tumore al seno, si mostra con i suoi figli che la aiutano nella sua lotta quotidiana contro la malattia…







Ombretta Floris, estetista 39enne di Desulo in provincia di Nuoro, l’avevamo lasciata il 10 marzo sui monti della sua Desulo quando con una macchinetta elettrica si era rasata a zero i capelli che le cadevano a ciocche a causa delle cure contro il tumore al seno contro il quale combatte da gennaio.

“Pelata o no, sono sempre io. La mia essenza non dipende dai miei capelli”, scrive nel suo ultimo post su Fb. Ed ha ragione. La sua bellezza, la sua essenza, vanno oltre quei capelli.


La Floris è madre di due figli ai quali ha raccontato la sua malattia, che rappresentano per lei, come per tutte le madri ed i padri, motivo di gioia e di orgoglio.
E per chi soffre, un sostegno nella malattia. Non è facile per un genitore confessare ad un figlio la propria malattia: sia essa fisica o psichiatrica. È come mostrare un fianco, mostrare una fragilita’ che non ci possiamo permettere e non ci è concessa, sopratutto quando non abbiamo nessuno che ci aiuta a crescerli.
Invece la Floris come tante altre persone malate, condivide con i figli la malattia e le cure. Cerca e trova in loro gli abbracci, i baci, le carezze che fanno bene quanto e più di ogni medicina.
Ombretta si mostra forte, sorridente nei momenti felici, ma si mostra pubblicamente anche nei momenti tristi e complessi. Raccontandosi attraverso i social network per essere un esempio a chi come lei lotta per un cancro o un altra malattia, senza filtri.

In un altro post ci lascia questo messaggio: “Oggi senza filtri: occhi gonfi pieni di speranza, pelle imperfetta senza trucco e metteteci un po’ di sconforto, di stanchezza. Ma sappiate che non è legato assolutamente al tumore. Io sto facendo un lungo viaggio, sto tornando indietro nel tempo e sto cercando di aiutare quella bambina a capire il senso della vita. Vado oltre alla bellezza esteriore essendo un’ imprenditrice del settore, vado oltre la bellezza. L’ho sempre detto: sono Ombretta e non sono perfetta. Sto affrontando la chemio e sto imparando a conoscere me stessa in modi che non avrei mai immaginato. Sarà tutto strano per voi ma io amerò il mio tumore, amerò la terapia per tutto quello che mi sta dando”.

                           Maria Vittoria Dettoto

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questa  notizia  mi ricorda il  finale    dei   (Les Misérables)  di Victor Hugo

(francese)
«Il dort. Quoique le sort fût pour lui bien étrange,
Il vivait. Il mourut quand il n'eut plus son ange;
La chose simplement d'elle-même arriva,
Comme la nuit se fait lorsque le jour s'en va.»
(italiano)
«Riposa: benché la sorte fosse per lui ben strana,
pure vivea: ma privo dell'angel suo morì:
La cosa avvenne da sé naturalmente
come si fa la notte quando il giorno dilegua»
Jacopo Storni Era stato un agente immobiliare, quasi laureato in giurisprudenza: gli mancavano soltanto quattro esami. Ma dopo lo sfratto per morosità di cinque anni fa, la sua vita è precipitata. Fino allo scorso 10 aprile, quando il suo corpo senza vita è stato ritrovato su una panchina di piazza Tasso, in Oltrarno a Firenze.Una parabola drammatica, quella di Marco Amaranto, da lavoratore a senzatetto che rifiuta l’accoglienza e persino le cure. Nessun familiare alla tumulazione di lunedì mattina 28 aprile, tanto che gli operai del cimitero hanno proceduto alla cerimonia di sepoltura in solitaria. Soltanto il vento, il rumore della ruspa e quello delle zolle che ricoprono la bara.Sul mucchio di terra c’è una croce in legno: Amaranto Marco, prima il cognome poi il nome, nato il 2 ottobre del 1967 e morto il 9 aprile del 2025. Aveva 57 anni.



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Caterina Angelucci  Arttribune  27\4\2025

Storia della “Dama addormentata con vaso nero”, scomparsa e ritrovata grazie a un famoso film d’animazione
Ottant’anni dopo la scomparsa del capolavoro cubista del pittore ungherese Róbert Berény è stato individuato in una scena di “Stuart Little” da un ricercatore, che stava scrivendo la sua biografia. Ecco com'è andata

Era il 2009 quando un ricercatore della Galleria Nazionale Ungherese, Gergely Barki, stava guardando insieme alla figlia il film d’animazione americano Stuart Little del 1999, che racconta di una famiglia che adotta un topolino. Ma non è stata la trama a catturare l’attenzione di Barki, quanto un singolo frame del film in cui si vede, alle spalle dei protagonisti, un quadro appeso tra due lampade sopra il
camino del soggiorno. Dopo averlo guardato ripetutamente, lo studioso capisce di essere davanti alla Dama addormentata con vaso nero di Róbert Berény (Budapest, 1887 – 1953), capolavoro cubista scomparso dal 1928. E caso vuole, il ricercatore si stava occupando proprio in quel periodo della biografia del pittore ungherese, la cui opera non era stata più rinvenuta dopo una mostra della Munkácsy Guild.
La scoperta di Gergely Barki mentre guardava il film d’animazione “Stuart Little”
“Non potevo credere ai miei occhi quando ho visto il capolavoro a lungo perduto di Berény sulla parete dietro Hugh Laurie. Per poco non mi è caduta Lola – la figlia – dalle ginocchia”, raccontò al tempo Barki. “Un ricercatore non può mai staccare gli occhi dal lavoro, nemmeno quando guarda i film di Natale a casa”. Così, incuriosito dalla scoperta, iniziò a scrivere delle mail a tutte le persone coinvolte nel film, finché due anni dopo, nel 2011, gli rispose una scenografa.
Gergely Barki sulle tracce della “Dama addormentata con vaso nero” di Róbert Berény
“Mi disse che il quadro era appeso alla sua parete e che aveva acquistato il quadro in un negozio di antiquariato di Pasadena, in California, per un prezzo irrisorio, pensando che la sua eleganza fosse perfetta per il salotto di Stuart Little”, riportò Barki. Dopo che il dipinto venne utilizzato come sfondo per l’ambientazione della casa familiare del film hollywoodiano e l’attrezzatura di produzione imballata, la scenografa si portò via la Dama e la appese nel proprio appartamento come decorazione. “Ho avuto l’occasione di farle visita, di vedere il dipinto e di raccontarle tutto sul pittore”, continuò Barki.
La “Dama addormentata con vaso nero” di Róbert Berény
In seguito alla scoperta, la donna vendette il dipinto a un collezionista privato, che a sua volta lo mise all’asta presso la galleria Virag Judit di Budapest il 13 dicembre 2014, dove fu battuto a 230 mila euro, il prezzo più alto mai pagato per un dipinto di Róbert Berény.


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La storia del figlio della vicedirettrice della CIA che si arruolò con la Russia

E morì nell'aprile del 2024 combattendo contro l'Ucraina a Bakhmut: si è saputo di lui soltanto adesso

Michael Gloss era il figlio di una vicedirettrice della CIA, l’agenzia di intelligence esterna degli Stati Uniti, e nell’aprile del 2024 morì combattendo nell’est dell’Ucraina per l’esercito russo. Aveva 21 anni e la

sua storia è diventata nota soltanto ora, dopo che venerdì il sito indipendente russo IStories ha pubblicato il suo nome e molti dettagli della sua vicenda. Dopo la pubblicazione dell’articolo la famiglia ha confermato tutto.
La storia di Gloss non è tanto diversa da quella di altre migliaia di volontari che si sono arruolati nell’esercito russo nel corso della guerra per soldi, adesione ideologica al regime del presidente Vladimir Putin o per ottenere benefici come la cittadinanza russa. Ma è al tempo stesso eccezionale per l’identità di Gloss: sua madre Juliane Gallina è la vicedirettrice della CIA con delega all’innovazione digitale e una delle funzionarie di intelligence più importanti del paese; suo padre Larry Gloss è un ex militare decorato e lavora anche lui nel campo dell’intelligence.In un’intervista con il Washington Post i genitori di Gloss hanno detto che non avevano idea che il figlio stesse combattendo in Ucraina con i russi fino a che, nel giugno del 2024, non ricevettero la comunicazione che era morto in guerra per una «ingente perdita di sangue» a seguito di un attacco di artiglieria. Michael Gloss militava in un reparto d’assalto russo e combatteva in prima linea sul fronte, in quella che al tempo era la zona più pericolosa di tutte: la cittadina di Bakhmut.
Parlando con il Washington Post, Larry Gloss ha detto che suo figlio Michael aveva sempre avuto problemi di salute mentale, anche se non ha specificato quali. Ha detto inoltre che era stato un bambino e poi un ragazzo insofferente nei confronti dell’autorità: «Era il giovane uomo più anti establishment (…) del mondo». Michael Gloss era un militante ambientalista, femminista e di sinistra. Sui suoi profili social ci sono fotografie in cui partecipa a proteste per l’ambiente e contro l’eliminazione del diritto federale all’aborto negli Stati Uniti. In una foto ha in mano un cartello con scritto: «Non si può vietare l’aborto, si può solo vietare l’aborto sicuro».Alcuni anni fa, ha detto Larry Gloss, Michael smise di prendere i farmaci che gli erano stati prescritti, e cominciò ad avere un comportamento più imprevedibile. Nel gennaio del 2023 abbandonò l’università e partì per l’Europa. Arrivò in Italia, dove lavorò per un periodo in alcune aziende agricole (sul suo profilo Instagram ci sono foto di scritte anarchiche e antifasciste scattate a Bari), e poi si spostò in Turchia per partecipare a un raduno di Rainbow Family, un’organizzazione di controcultura hippy nata negli anni Settanta e ancora attiva. In Turchia prese parte ai soccorsi dopo il gravissimo terremoto che colpì il paese nella primavera del 2023. In quel periodo si era fatto crescere la barba e vestiva con una tunica lunga, e tutti lo chiamavano “Gesù”.
Non è chiaro perché a un certo punto Michael abbia deciso di andare in Russia. Alcuni sostengono che avesse sviluppato forti sentimenti antiamericani e antioccidentali: «Guardava in continuazione video sulla Palestina ed era arrabbiatissimo con l’America. Ha cominciato a pensare di andare in Russia. Voleva entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Ma penso fosse molto influenzato dai video cospirazionisti online», ha detto a IStories una persona che lo conosceva. In effetti nel 2023 Michael cominciò a utilizzare il social media russo VKontakte (simile a Facebook), e a pubblicare molto materiale di propaganda russa, soprattutto contro l’Ucraina.

       Soldati ucraini in trincea vicino a Bakhmut, marzo 2024 (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Altri conoscenti ritengono che Gloss volesse andare in Russia per farsi finanziare un progetto ambientalista che sperava di mettere in atto, una specie di gigantesco sistema di purificazione dell’acqua. La famiglia ha ammesso di non avere idea di quali fossero le sue intenzioni. «Posso solo dare la colpa ai suoi problemi di salute mentale. Non c’è altra risposta logica», ha detto il padre.
Nell’agosto del 2023 Michael entrò in Russia passando per il confine con la Georgia. Viaggiò un po’ per il paese e poi a settembre, poche settimane prima della scadenza del suo visto turistico, firmò un contratto da soldato volontario con le forze armate russe. Fece due settimane di addestramento in un centro militare fuori Mosca, e poi da lì fu spostato a Ryazan, circa 200 chilometri a sud-est della capitale, dove fu inserito nel 137esimo reggimento aviotrasportato per continuare l’addestramento. IStories ha raccolto decine di video e foto pubblicate sui social da Michael stesso o da suoi compagni militari, molti dei quali erano mercenari nepalesi.
All’inizio del 2024, non si sa esattamente quando, Michael fu trasferito in Ucraina. A metà marzo la sua divisione cominciò a marciare verso Bakhmut. Michael fu ucciso il 4 aprile. La famiglia seppe della sua morte a giugno, e il suo corpo fu rimpatriato dalla Russia a dicembre. Per quasi un anno, la famiglia Gloss non ha voluto rivelare le circostanze in cui era morto. Sul suo necrologio la famiglia aveva fatto scrivere: «Con il suo cuore nobile e il suo spirito da guerriero, Michael stava portando avanti il suo eroico cammino quando è stato ucciso tragicamente nell’Est Europa».
Dopo la pubblicazione dell’articolo di IStories, la CIA ha diffuso un breve comunicato in cui ha scritto: «La CIA considera la morte di Michael una questione familiare privata e non una questione di sicurezza nazionale». È un modo per dire che secondo l’agenzia il fatto che Michael si fosse arruolato con la Russia non è legato al lavoro che facevano i suoi genitori, ma una scelta personale del giovane.
Larry Gloss ha detto che lui e sua moglie erano sconvolti quando hanno saputo che Michael aveva combattuto per la Russia: «Prego soltanto che non abbia fatto male a nessuno», ha detto.


12.4.25

La memoria delle Resistenze per uscire dall'ombra del presente

  da HuffPost Italy

La storia non è un mausoleo di memorie spente da omaggiare con gesti rituali. Non è il riparo dei reduci, ma una sorgente viva: un repertorio di ispirazione e di possibilità. Ed è ancora più vero se pensiamo alla memoria delle Resistenze europee contro il nazifascismo.
Si è provato a disinnescarla la forza generativa di quella storia, eppure continua a premere sul presente, chiamandoci al cospetto di scelte che non sono mai state né ovvie né scontate
La stagione delle Resistenze che hanno attraversato l’Europa nel cuore del Novecento è un crocevia ancora percorso dalle vicende di uomini e donne che, spesso con discrezione e nella consapevolezza che anche il più piccolo gesto potesse fare la differenza, hanno scelto di non essere complici o spettatori. Studenti, impiegate, operai, contadini, madri, insegnanti, preti, infermiere, come Lelia Minghini, giovane infermiera dell’ospedale Niguarda, che raccontiamo nel podcast Microstorie della Resistenza.
Persone comuni che – in sella a una bicicletta, nel chiuso di una copisteria, tra i corridoi di un ospedale – hanno lottato per la loro e la nostra libertà.
Quelle lotte non furono semplicemente la reazione a un’occupazione o a una dittatura. Furono esperienze concrete di riappropriazione collettiva del destino comune, tentativi di riscrivere il patto tra cittadino e Stato, tra libertà e giustizia.
Ha scritto, molti anni fa, lo storico Lucien Febvre come sia “proprio nelle epoche di crisi e di transizione che fioriscono gli indovini e i progetti”. La Resistenza è soprattutto questo: lo sguardo puntato sul «domani», malgrado un profondo smarrimento. Ce lo dicono le parole scritte di getto da Giaime Pintor nei giorni stessi del ritorno a casa dei militari italiani che, all’indomani dell’8 settembre 1943, cercano ragioni e parole in grado di aprire i cuori e dare nuove prospettive a chi si sente naufrago nell’Italia della dittatura, ma non rinuncia a pensare e fare insieme. È la stessa condotta a cui sollecita un giovane Eugenio Curiel già alla fine degli anni ’30 e che nei mesi duri della lotta nell’inverno ’44-’45 diventa azione. Un inverno di cui Curiel non vedrà la fine, ma che è carico della consapevolezza che la liberazione è solo l’inizio di un percorso. E quel percorso sarà possibile se si vivono le scelte come bivio, come misura del prezzo da pagare, delle responsabilità da assumere senza illusioni, come scrive Leo Valiani nel 1944, ma con una grande voglia di progetto.
In Italia, in Francia, nei Balcani, nei Paesi Bassi e altrove, uomini e donne di ogni estrazione hanno rischiato la vita per affermare che nessun potere ha diritto di spogliarci della dignità, della parola, della solidarietà. Quelle scelte hanno gettato le basi delle democrazie europee, delle Costituzioni, del principio secondo cui i diritti non sono concessioni ma conquiste.
Oggi che i linguaggi dell’odio, del revisionismo e della nostalgia autoritaria tornano a farsi largo, ricordare le Resistenze non è esercizio celebrativo ma necessità civile. Le minacce alla libertà si insinuano nella diseguaglianza strutturale, nella precarietà elevata a norma, nel discredito sistematico della partecipazione, nei contrappesi democratici via via delegittimati.
Per questo, la memoria delle Resistenze è oggi una risorsa per uscire dall'ombra del presente. L’antifascismo non è un capitolo da archiviare, ma un alfabeto che oggi ci aiuta a comporre nuove parole. È la grammatica del nostro stare insieme, il collante che tiene insieme le differenze senza annullarle, che ci insegna a discutere senza annientare, a dissentire senza disumanizzare. È un impegno che si rinnova ogni volta che scegliamo il dialogo invece del dominio, la cura invece del profitto, la memoria invece della rimozione. L’antifascismo non è solo la radice della nostra democrazia: è il respiro che tiene uniti cittadini e cittadine per un futuro di libertà e di diritti, da immaginare e conquistare giorno per giorno.

3.5.18

quando l'ideologia rovina tutto Il “caso Magni”: da Valibona alla maglia rosa La “scelta sbagliata” del campione di ciclismo, ripudiato nell'Italia divisa.




da
http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2018/05/01 

Il “caso Magni”: da Valibona alla maglia rosa

La “scelta sbagliata” del campione di ciclismo, ripudiato nell'Italia divisa. Ora il volume di Walter Bernardi fa chiarezza sulla sua figura e sulla battaglia del 1944 tra fascisti e partigiani sui monti intorno a Prato. A 70 anni dalla prima vittoria del ciclista vaianese al Giro












Una celebre immagine, esempio della proverbiale tempra di Magni: nonostante la clavicola fratturata, prosegue la corsa e si regge al manubrio tenendo in bocca un pezzo di gomma


PRATO. Il rosa della maglia di leader del Giro d’Italia, sogno di ogni ciclista, il nero delle camicie dei fascisti, il rosso delle bandiere comuniste e dei fazzoletti dei partigiani. Si potrebbe raccontare anche attraverso i colori la storia di Fiorenzo Magni, il “terzo uomo” degli anni d’oro del ciclismo italiano, l’unico in grado di inserirsi nel dominio dei campionissimi Coppi e Bartali ritagliandosi una sua dimensione di campione, con la vittoria in tre Giri d’Italia e in tre Giri delle Fiandre. Ma il cuore del libro di Walter Bernardi, “Il 'caso’ Fiorenzo Magni: l’uomo e il campione nell’Italia divisa” che uscirà giovedì 3 maggio, non è il ciclismo. La vicenda umana di Magni e anche la sua carriera sportiva ruotano inevitabilmente intorno alla battaglia di Valibona che vide un gruppo di partigiani assediato da un oltre un centinaio di fascisti e carabinieri. Con Magni nelle file dei repubblichini. I “fatti di Valibona” sono uno dei miti della Resistenza pratese. La presenza di Magni “dalla parte sbagliata” non gli è mai stata perdonata, e ne ha deciso l'oblio della sua gente, la rimozione dal pantheon delle glorie “pratesi”.
I “fatti di Valibona”. Il 3 gennaio del 1944 una spedizione fascista raggiunse quella località sperduta sui monti della Calvana per sgominare una brigata partigiana che minacciava i collegamenti tra Prato e Bologna. L'intervento fu pianificato dalla Gnr (la Guardia nazionale della Repubblica di Salò) di Prato e dai carabinieri di Prato e Calenzano, con la partecipazione del battaglione Muti di Firenze, un corpo speciale delle milizie repubblichine. Alla fine oltre 120 tra camicie nere e carabinieri si avviarono verso Valibona, poche case in cui risiedevano tre famiglie, valico che metteva in comunicazione la Valbisenzio con la Valmarina. Lì, si sapeva, si era stabilita la brigata guidata da Lanciotto Ballerini, un giovane capo partigiano di Campi vicino alle posizioni di Giustizia a Libertà. In quella brigata di 19 persone si erano ritrovati elementi di diversa provenienza. C'erano perfino due russi, un inglese e due jugoslavi. Quando alle prime luci dell'alba i fascisti arrivarono a Valibona trovarono i partigiani chiusi in un fienile e intorno a quell'edificio si scatenò il fuoco. Fu una battaglia vera e propria, si sparò dalle 6 alle 10 del mattino e alla fine i partigiani asserragliati nel fienile dovettero arrendersi. Il bilancio fu di sei fascisti e tre partigiani uccisi, tra questi ultimi anche Lanciotto Ballerini e il russo Vladimir. A quelli fatti prigionieri non furono risparmiate sevizie e violenze.


                        Il    fienile di Valibona dove trovavano i partigiani assediati dai fascisti


Il processo. Finita la guerra, il processo si celebrò a Firenze nel 1948 in Corte d'assise d'appello. Alla sbarra i fascisti che avevano partecipato alla spedizione. Nel corso degli anni la presenza di Magni, allora 24enne, alla battaglia fu a lungo controversa e neppure il processo sciolse tutti i dubbi. Bernardi attinge per la prima volta anche agli atti del processo di Valibona ritrovati nell'archivio di Stato di Perugia da John Foot, storico inglese che ha dedicato i suoi studi all'Italia e allo sport (calcio e ciclismo) e che firma anche la prefazione al libro. Tra gli imputati c’era anche Magni, mentre sfilavano i testimoni, in un’aula che ribolliva di passione. Vengono chiamati a testimoniare anche altri ciclisti tra cui Bartali e il montemurlese Bini che non si presenteranno
Si presenta invece Alfredo Martini, futuro ct della nazionale, ciclista promettente e comunista, che difende Magni. Al processo si intrecciano le testimonianze di chi dice di averlo visto a Valibona, di chi l'ha sentito dileggiare i morti, fino a chi lo accusa niente meno di essere stato proprio lui a uccidere Lanciotto. E quelle di chi invece racconta di una sua partecipazione tiepida al fascismo, delle buone azioni a favore di antifascisti vaianesi e di un prigioniero inglese nascosto in una fattoria della zona. E insomma, c'era o no Magni quella mattina a Valibona? Si sa che i fascisti di Vaiano avevano voluto che una loro rappresentanza fosse nel contingente. Ragioni di prestigio, la Vaiano fascista doveva appuntarsi quella “medaglia” al petto. E alla fine sarà lo stesso Magni a risolvere il mistero. In un'intervista poco prima di morire, ammise di essere stato a Valibona, ma di non aver sparato un colpo. E forse è la versione più vicina al vero.

I fascicoli del processo di Valibona trovati nell'Archivio di Stato di Peruigia

 Alla fine Magni sarà assolto per insufficienza di prove per quanto riguarda Valibona e condannato per “collaborazionismo”, condanna annullata però dall'amnistia firmata da Togliatti. Così Magni esce formalmente “pulito” e può tornare al ciclismo. Sta per partire il Giro d'Italia. Ma gli animi degli italiani sono troppo esacerbati, troppe ferite sono ancora aperte e nemmeno lo sport dimentica. Magni vince a sorpresa quel contestato Giro battendo il favorito Coppi, idolo delle folle. Quando arriva a Milano in maglia rosa il giro d'onore in pista si trasforma in un giro del disonore, i tifosi lo insultano e lanciano ortaggi. Gli contestano alcune scorrettezze in gara nella tappa decisiva e poi non si tollera che un “fascista” trionfi al Giro.Fascista per convenienza. Bernardi dedica molta attenzione al contesto locale in cui maturano le scelte del ciclista vaianese. Magni nasce in una famiglia tutt'altro che fascista. Il padre è socialista, gran parte dei suoi parenti sono di sinistra. Emerge così a poco a poco la figura di un ventenne tutto preso dalla sua passione per il ciclismo e che, alla morte del padre, per opportunismo e per convenienza più che per adesione ideale, accoglie la protezione dei ras fascisti della zona, i Bardazzi, famiglia di imprenditori tessili, Bardazzi imprenditori, che gli danno un lavoro e gli forniscono i mezzi e per continuare a correre.L’altra vita a Monza. Ai primi di giugno del 1944, mentre Roma viene liberata e si avvia la resa dei conti tra fascisti e partigiani, Magni fugge a Monza e lì attende la fine della guerra per tornare alle corse. Per lui si apre un’altra storia. Il Cnl dell'Alta Italia testimonierà e metterà per scritto che Magni svolse attività a favore della Resistenza. Da allora diventerà “un pratese di Monza”, resterà a vivere lì fino alla sua morte nel 2012.




Un'altra immagine di Fiorenzo Magni in gara

copertina dellibro in questione 

Il telegramma del sindaco. A testimoniare il clima di quegli anni, Bernardi racconta la storia del secondo sindaco di Prato del dopoguerra, Alfredo Menichetti, imprenditore tessile e comunista. La vittoria di Magni al Giro avrà effetti anche su di lui. Diventato sindaco quasi per caso, quando il Pci si trova a sostituire il sindaco del Cnl Dino Saccenti, eletto in Parlamento, Menichetti verrà sempre visto dai compagni con un po' di sospetto per la sua anomalia, lui un industriale. In tanti lo attendono al varco e aspettano una sua scivolata. E quando il sindaco invierà a Magni un telegramma di felicitazioni per la sua vittoria al Giro, 
la vittoria di un pratese che inorgoglisce la città, il partito gli si rivolta contro: è inaccettabile che un sindaco comunista faccia i complimenti a un fascista, per quanto campione nello sport allora più popolare. Le polemiche e gli attacchi personali porteranno alle dimissioni di Menichetti e alla sua emarginazione dalla vita politica cittadina. Tra i sindaci successivi solo Lohengrin Landini accoglierà l'ex campione in Comune. Poi solo silenzio e imbarazzo. Il Comune di Vaiano gli negherà perfino l'intitolazione di un tratto di pista ciclabile.
ante voci e tante storie. Ma nel libro di Bernardi non ci sono solo le vicende di Magni e di Valibona. A partire dalla figura del ciclista si dipana un vero e proprio affresco di quegli anni in Italia, a Prato e nella Valbisenzio, con tante voci e storie che si intrecciano e restituiscono la vita di quei giorni. Come i racconti delle donne di Vaiano e della Briglia, di Giovanna “la sovietica”, di Luana che, bambina, non capiva le persecuzioni alle sue amiche ebree, o come la storia d'amore tra James Cameron, soldato scozzese, e la figlia del mezzadro che l'ospitava a Montemurlo. E poi le storie dei tanti ciclisti toscani, in quell'Italia che usciva dalla dittatura e dalla guerra, nella quale il ciclismo, lo sport più popolare e trascinante, riproduceva tutte le passioni (e le tensioni) ideali e ideologiche


come suggerisce lo storico Walter Bernardi ( foto al lato ) bisogna gudicarlo senza preconcetti e pregiudizi ,ma soprattutot senza Damnatio memoriae . infatti 

da http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2018/05/01/



PRATO. «Lo so che mi accuseranno di voler riabilitare Magni. Ma io non intendo né assolverlo, né condannarlo. Si tratta solo di spiegare i fatti e le ragioni delle scelte di un uomo. Mi piacerebbe che i lettori si formassero un'idea sulla base dei documenti e del racconto dei fatti e ognuno giudicasse poi senza preconcetti»


 Walter Bernardi è un docente di filosofia e storico della scienza, ma il ciclismo è la sua grande passione.La storia di Magni e l'intreccio con le vicende della guerra e del dopoguerra nel Pratese lo hanno appassionato a tal punto da passare sei anni a spulciare archivi e giornali e a intervistare i testimoni ancora in vita di quei fatti. «Non ha più senso oggi dividersi per raccontare ai nuovi cittadini pratesi la guerra civile di ieri - spiega - Le scelte sbagliate restano sbagliate, è indubbio che chi scelse libertà, giustizia e uguaglianza fece la scelta giusta. Ma mantenendo fermi i principi e i valori, si possono perdonare gli errori»E’ il paradosso della figura di Fiorenzo Magni: a Prato è il diavolo, a Monza è un eroe. «Un po’ colpa anche sua - ammette Bernardi - per aver voluto escludere un pezzo della sua vita e ricominciare altrove daccapo. Eppure l’adesione al fascismo di Magni risulta piuttosto tiepida, frutto più delle convenienze di un ventenne che voleva soprattutto correre in bicicletta. Niente a che vedere con l'estremismo di un Ardengo Soffici (cui pure sono state intitolate strade) o con le responsabilità di uno come Giorgio Albertazzi». Bernardi ammette di essere stato catturato dalla vicenda della battaglia di Valibona. Sarà quella il tema del suo prossimo libro.

22.4.17

Giorgio Fernandez: "Attraversai a piedi l'Italia del '44, tra le barbarie naziste" ed altre storie di chi ha lottato per creare la nostra costituzione



vedi anche




In un periodo  di  rigurgiti di offese  e   del solito refrain  negazionista   di marca  fascista  e neofascista   come quela  di  casa  pound   



CasaPound, pronta la parata nazifascista del 25 aprile: dossier dell'Anpi Milano in questura. "Ora basta"

Da anni il raduno nel Campo 10 del cimitero Maggiore per omaggiare i caduti di Salò nel giorno della Liberazione. Un anno fa erano scattate del denunce per apologia del fascismo, appello al sindaco Sala

di PAOLO BERIZZI  repoubblica  del 07 aprile 2017



Il 25 aprile 2017 potrebbe segnare uno spartiacque nella memoria futura di Milano, città medaglia d'oro della Resistenza. Dopo quattro anni, la scia di cortei e parate nazisfasciste organizzate provocatoriamente proprio nella giornata della Liberazione dai gruppi di estrema destra Lealtà e Azione e CasaPound al Campo 10 del cimitero Maggiore, potrebbero subire uno stop. Lo chiedono, al prefetto e al questore, l'Anpi milanese e una serie di associazioni antifasciste: "Basta con questi vergognosi oltraggi alla storia. È ora di vietare il corteo e mettere fine alle provocazioni". Un esposto, con tanto di dossier fotografico, è stato presentato in questura e prefettura dal presidente dell'Anpi provinciale, Roberto Cenati. "Ogni mattina del 25 Aprile, dal 2013, assistiamo alla provocazione di Lealtà e Azione che organizza una parata nazifascista al campo 10 del Musocco".


Per sottolineare lo "sfregio" è stato ricordato quello che successe l'anno scorso: "In 300 marciarono in formazione militare, con tanto di saluti romani, e furono denunciati dalla Digos per apologia di fascismo". Un appuntamento diventato ormai rituale, per l'estrema destra milanese e lombarda, quello al Campo 10. I cortei dei naziskin coi saluti romani, il tricolore, le aquile della Rsi. Le parate per ricordare i caduti repubblichini e i drappi di Salò issati illegalmente sulle tombe. A nulla sono servite le denunce di questi anni: per questo, in occasione della prossima giornata della Liberazione, il fronte antifascista oltre a chiedere formalmente a questore e prefetto di vietare il corteo dei "neri", ha organizzato una mobilitazione proprio al cimitero Maggiore. "Invitiamo i milanesi a portare un fiore ai partigiani sepolti al campo della Gloria", dice Antonella Barranca, Anpi, Municipio 8. All'iniziativa hanno già aderito, oltre all'Anpi, Cgil, Aned (l'Associazione ex deportati campi nazisti), Arci, Memoria antifascista, Rete della conoscenza Milano, Csoa Lambretta, Zam e Cs Cantiere.

25 aprile a Milano, i garofani dei partigiani contro i saluti fascisti


Un appello è stato rivolto anche al sindaco Giuseppe Sala: Roberto Cenati gli chiede di intervenire "spendendo parole di indignazione contro queste manifestazioni chiaramente provocatorie e di stampo nazifascista". Non soltanto quella del 25 Aprile. "Il 23 marzo - racconta Cenati - c'è stata una manifestazione di reduci di Salò al Monumentale per celebrare l'anniversario della nascita dei fasci, accompagnata da un silenzio assoluto".
Se è vero che da parte delle istituzioni in questi anni non c'è stata proprio una risposta convinta, è anche vero che era stato il sindaco Sala, il primo novembre scorso, a prender ricordare i caduti repubblichini: "L'amministrazione ritiene opportuna una riflessione che porti, a partire dall'anno prossimo, ad un aggiornamento dell'elenco di questi luoghi" scelti per le onorificenze alla memoria. Se e come il pensiero del sindaco orienterà questura e prefettura anche sul 25 aprile dei neofascisti, lo vedremo nei prossimi giorni. Lealtà e Azione, intanto, ha confermato il corteo.

Aggiungi didascalia
in cui  si    mette   ( magari sono quegli stessi ipocriti  che  chiedono rispetto per  i loro  orti o  chiedono  una memoria condivisa   ) nel ricordo  i  morti per la dittatura    con quelli    morti   per  la  libertà .
Ben   vengano   iniziaticve come 'La Battaglia', (  copertina   a sinistra  ) ed è un fumetto inedito che racconta le gesta di Giordano Sangalli, partigiano di Tor Pignattara, ucciso a 17 anni dai nazisti sul Monte Tancia. Il fumetto è stato realizzato - in occasione delle celebrazioni dei 90 anni di Tor Pignattara - da Nikolay Pavlyuchkov, un ragazzo di origine russa del quartiere, che ha partecipato al workshop Nuvole Resistenti curato dal fumettista Alessio Spataro per la Scuola Popolare di Tor Pignattara. Il workshop ha consentito a 5 ragazzi di poter apprendere i segreti e le tecniche del racconto a fumetto e conoscere la storia dei partigiani del proprio territorio. Nikolay è stato selezionato fra i partecipanti e con l’aiuto di Alessio Spataro per la parte artistico narrativa e con la consulenza scientifica della storica Stefania Ficacci ha realizzato un breve racconto sugli eventi a cavallo della cosiddetta Pasqua di sangue del 1944.
'Vite partigiane': domani su Robinson uno speciale sul 25 aprile
Cosi  come      quella  di repubblica  (   trovate  sopra     l'url dello speciale  con tutte le testimonianze  in continuo aggiornamentio )    che  n vista del 25 aprile  ( quest'anno  è  particolare  perchè sono  70  anni    che   è stata scritta la nostra  costituzione    ) Repubblica ha pensato di raccogliere i racconti di chi è stato protagonista della guerra di Liberazione. In città o in montagna, come combattente o come staffetta. Perché la memoria passa anche dalle storie di questi eroi normali

Io nel post  d'oggi    riporto  proprio dallo speciale di repubblica    tre  testimonianze    che sencondo me   è la sintesi  (  anche  se  ciascuno ha  una storia  diversa     di  come  ha vissuto quell'eperienza  e di come  ci   è arrivato  ,  le sofferenze    fisiche  e psicologiche   quando     , vedere  tutti a casa  film del 1960 diretto 
da Luigi Comencini, sceneggiato dal regista stesso insieme a Marcello Fondato e alla coppia Age & Scarpelli  o  - ne  ho riportato   la storia  tempo di fa  -   di  La storia di Uber Pulga, un 'Partigiano in camicia nera'
  dopo       gli eventi del  24\25 luglio e  del  8 settembre  ha dovuto  rimettersi  indiscussione  e  si  è trovato  " sbandato   "  ed  ha    saputo    e  dovuto  usare  


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La facoltà di non sentire
La possibilità di non guardare
Il buon senso la logica i fatti le opinioni
Le raccomandazioni
Occorre essere attenti per essere padroni
Di se stessi occorre essere attenti
La mia piccola patria dietro la Linea Gotica
Sa scegliersi la parte
Occorre essere attenti per essere padroni
Di se stessi occorre essere attenti
Occorre essere attenti occorre essere attenti
e scegliersi la parte dietro la Linea Gotica
Comandante Diavolo Monaco Obbediente
Giovane Staffetta Ribelle Combattente
La mia piccola patria dietro la Linea Gotica
Sa scegliersi la parte... 
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Linea  Gotica -   Csi   tratta  dall'omonimo  album del 1996 

  Ed  adesso  i racconti del  post    d'oggi   ho scelto  fra le tante  di repubblica  tre , che  secondo  me  , sono   fras le più significative  e che descrivono    e  sintetizzano meglio  quel periodo   storico  che  ancora  divide  .

la prima

E'  il racconto \  testimonianza   un antifascista palermitano che - finito nell'entroterra ligure per le vicessitudini della guerra - decide di tornare a piedi nell'isola. E oggi racconta quel viaggio nei territori occupati dai nazisti e attraverso la linea gotica.
"Il fascismo fu una follia, da ragazzo fui picchiato e malmenato, subii per anni la dittatura". Era Roma il 25 luglio, ma non poté tornare subito in Sicilia occupata dai nazisti   Così si rifugiò in Liguria da una nonna, ma nel 1944 finì nel mirino dei fascisti perché aveva raccontato in una lettera di un eccidio di partigiani. Riuscì a scappare prima di essere interrogato e si incamminò: "Non avevo da mangiare né vestiti, le ferrovie erano bloccate, dovetti camminare". L'incontro con le pattuglie naziste, l'arrivo delle truppe di liberazione e la vista "delle coste siciliane

La  seconda 

Nina Bardelle, 90 anni, ricorda la resistenza a Genova. "Mi trovai nelle sap grazie a un incontro sul tram. Alcuni medici ci insegnarono come curare i partigiani". Conclude: "La storia italiana non dovrebbe mai dimenticare la resistenza"  Infatti




Nina Bardelle, la partigiana Fioretto: "La mia Resistenza curando i feriti e sabotando i tedeschi"
Il racconto di una sappista genovese. Operaia in Ansaldo, figlia di un antifascista, del 25 aprile ricorda le bandiere. "Di tutti i colori"

"Il 25 aprile le bandiere erano di tutti i colori, perché la libertà l'abbiamo voluta tutti" ricorda Nina Bardelle, novant'anni fieri, nella sua casa di Rivarolo, sulle alture della Valpolcevera a Genova.


La sappista Fioretto: "Mio papà rovinato dai fascisti, fui partigiana dentro la fabbrica"

Lei, a 17 anni, con il nome di Fioretto ha iniziato la sua attività nelle Sap, le Squadre di Azione Partigiana: prima imparando a curare i feriti, poi, nella grande fabbrica dove lavorava, l'Ansaldo, ad aiutare gli operai che nascondevano le armi sottratte ai tedeschi, magari. Fino ad osare veri e propri sabotaggi, come far cadere l'acqua sporca della mensa sui proiettili costruiti per l'esercito tedesco, e rischiando anche la vita.
Ma anche accompagnando qualche giovane componente delle bande ribelli ad allontanarsi dal luogo di un'azione, garantendogli la fuga e magari un letto dove dormire, a casa dove il padre, da sempre antifascista e perseguitato, non faceva domande. "Io volevo in qualche maniera ricompensarlo per quello che aveva sofferto lui", racconta Nina. Che ora porta la sua storia tra i bambini, nelle scuole.




 Ultima

La resistenza a Bologna raccontata da chi ha combattuto e difeso i compagni. Il ricordo commosso di Irma Bandiera da parte del 'Biondino', che la riconobbe dopo le torture e l'uccisione da parte dei tedeschi. E le operazioni contro i tedeschi in quei 20 mesi fino all'arrivo degli alleati
Gastone Malaguti, partigiano a Porta Lame: "Una guerra, ma noi non abbiamo torturato nessuno"Classe 1926, oggi Gastone Malaguti ha 91 anni. Ma ne aveva 28 nel 1943, quando iniziò a combattere con la settima brigata Gap Garibaldi. Un ricordo lucido di quei mesi, tanti nomi che si affastellano e una consapevolezza a cui aggrapparsi: "Ucciso sì, ma noi non abbiamo mai torturato nessuno"Malaguti c'era. Classe 1926, oggi ha 91 anni. Ma ne aveva 18 quell'anno. Settima brigata Gap Garibaldi. Nomi di battaglia ne ha cambiati molti: prima Gaston ("ma non funzionava molto, troppo simile al mio vero nome", dice divertito), poi Gas, per arrivare a Biondino quando un partigiano che usava quel nome morì, fino a Efistione, riferimento al braccio destro di Alessandro Magno per il suo ruolo da gappista. Efistione, un nome che gli è rimasto dentro e ancora oggi lo usa per il suo indirizzo e-mai




Gastone Malaguti, partigiano a Porta Lame: "Una guerra, ma noi non abbiamo torturato nessuno"
Gastone Malaguti in una foto dei giorni della Liberazione 























Ride spesso e racconta. Volti e nomi che non ci sono più, a volte da più di 70 anni. Una vita ricca dopo la resistenza, nel sindacato, in giro per l'Italia e non solo.
Si rabbuia solo due volte, nel corso della nostra conversazione. La prima quando pensa alle vittime, anche sull'altro fronte. "Certo che di persone ne abbiamo uccise, ma eravamo in guerra". Ma quello che più si vede che l'ha segnato è la sorte delle donne, le staffette partigiane, che finivano nelle mani dei nazifascisti. "Le torturavano, poverine. Non posso
raccontare come le riducevano, quello che facevano. Non posso. Noi abbiamo ucciso, certo ma non abbiamo mai torturato nessuno, mai". Ecco, questa è la cosa a cui tiene di più. "Non abbiamo mai torturato nessuno". E quello sguardo che fino a poco prima guardava ai ricordi di 70 anni prima si rivolge all'Italia di oggi. Ai casi di cronaca, alla legge ferma in parlamento. "È assurdo che ancora oggi non abbiamo in Italia una legge sulla tortura"

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...