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27.11.24

In piazza Duomo a Firenze la bottega dei colori che resiste al mangificio., Il negozio di vinili che dice no al Black Friday: «Clienti da tutta la Toscana, il nostro segreto è la roba popolare»

 Corriere della Sera
In piazza Duomo la bottega dei colori che resiste al mangificio


In questi anni hanno visto la città intorno cambiare, gli artigiani chiudere, le botteghe trasformarsi in locali e store internazionali, ma loro sono rimasti fedeli a se stessi: la bottega di Belle Arti Zecchi. Dopo qualche mese di trasferimento in un magazzino a pochi metri di distanza, per consentire i lavori di restauro dell’antico palazzo, di proprietà dell’Opera del Duomo, la bottega è tornata nei locali storici di via dello Studio 19 rosso. 
Oggi come un tempo qui si possono trovare colori, pigmenti, strumenti usati da pittori, artisti, decoratori, artigiani. «Sopravviviamo perché abbiamo prodotti particolari, molto di nicchia, e un marchio nostro che spediamo in tutto il mondo», spiega Sandro Zecchi, che insieme al fratello Massimo porta avanti l’attività di famiglia. «Abbiamo creato un punto di incontro tra tecniche antiche, medievali e rinascimentali e quelle dei nostri giorni».
Nell’edifico aveva sede nel Trecento lo Studio Fiorentino, la prima università di Firenze. 
Era già presente fin da tempi antichi una bottega dei colori, centro di riferimento per artisti e professionisti, dai pittori famosi agli artigiani fiorentini fino ai giovani studenti dell’Accademia di Belle Arti. La presenza di un negozio di colori chiamato «Colorificio Toscano» in questa via risale alla seconda metà dell’800.
Nel 1920 il fiorentino Ugo Ercoli rilevò la bottega d’arte trasformandola in un punto vendita di colori. Adolfo Zecchi, padre degli attuali proprietari, entrò a lavorare nella mesticheria durante la Seconda Guerra Mondiale e dopo pochi anni rilevò l’attività. Negli anni 70 i figli Sandro e Massimo incrementarono la rivendita di colori e materiali per le Belle Arti recuperando le antiche tecniche pittoriche ed artigianali della tradizione fiorentina, guidati dal trattato trecentesco di Cennino Cennini «Il Libro d’Arte». 
Nel corso degli anni Zecchi ha fornito materiali all’Opera House di Sidney, al Paul Getty Museum di Los Angeles, per accademie in Giappone, Stati Uniti, Brasile, Cipro, Israele, per la cappella Brancacci, per la basilica di Assisi ed il Duomo di Firenze. Qui si possono ancora trovare la tempera all’uovo «Cennini» o il preziosissimo Blu Oltremarino di Lapislazzuli, ma anche colori a olio, gli acrilici e le tempere, tele a metraggio e tavolette a gesso, gomme e resine naturali, materiali per doratura, carte a mano e pergamene, cere solide e paste adesive. 
«Da bambini dopo la scuola venivamo qui a curiosare,
 siamo cresciuti in bottega», racconta Sandro. Ricorda la Firenze di allora e vede quella di oggi. «È stata stravolta. Prima nel centro storico c’erano magazzini e grossisti, era un centro distributivo. E c’erano tanti artigiani, che erano la spina dorsale della città. Ora gli artigiani non ci sono più, e i giovani non hanno interesse a continuare i mestieri, che pure potrebbero rendere». Sandro e Massimo per fortuna hanno i due figli a cui poter lasciare l’attività. «Sono in bottega con noi. Poi ci sono i dipendenti: siamo una buona squadra». 

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  non ricordo  la fonte



Il negozio di vinili che dice no al Black Friday: «Clienti da tutta la Toscana, il nostro segreto è la roba popolare»



CECINA. «Nel mio negozio non si fa il Black Friday, sono fuori da queste dinamiche». È contro tendenza Alessio Cruschelli, titolare di Slow Record Shop di Cecina, negozio che vende i vinili e tutto ciò che è collegato a questi oggetti, tornati in voga da una decina d’anni.

Cruschelli, da Slow Record Shop non si trovano le offerte targate Black Friday. Come mai?

«Ho un’area in negozio dedicata al materiale sottocosto, che ha un costo minore rispetto agli altri pezzi per varie ragioni. A livello commerciale capisco il senso del Black Friday, ma lo vedo utile soprattutto online».

Voi vendete anche online i vostri prodotti?

«Abbiamo il sito e i profili Instagram e Facebook, ci si deve muovere con più canali. Ma per noi l’online è solo una parte del negozio, ma non è decisiva».

Gli affari vanno meglio nel negozio fisico quindi.

«Chi entra non trova solo il vinile, ma tutto ciò che riguarda il mondo di questi dischi: giradischi, amplificatori, casse. Il negozio va bene. Abbiamo aperto nel 2013, fino a sette anni fa eravamo in 38 metri quadri, ora siamo in uno spazio che di metri quadri ne ha 235, con un grande open space».

Perché scegliere di venire in negozio e non comprare online?

«In negozio ti puoi interfacciare con una persona, e se hai qualche problema la persona è pronta a risolvertelo. Con i grossi competitor online, questo è impossibile. Chi viene da me e ha un problema con il giradischi, io sono in grado di trovare una soluzione. Però nei negozi fisici c’è un gap al rialzo nei confronti del web, ci sono dei passaggi in più del materiale che si vende. Quindi chi viene qui deve essere disposto a spendere di più che sui siti»

I vostri clienti sono solo cecinesi?

«Con il nuovo negozio vengono da tutta la provincia di Livorno, e anzi, da tutta la Toscana. Non dico da tutta Italia, ma quasi».

Vi siete fatti pubblicità online?

«Online abbiamo sempre fatto poca pubblicità. Si è sempre contato sulla bontà del passaparola. Per me i dischi sono un’opera d’arte, ne ho una visione un po’ naif. E invece in questo mondo (nel mercato, ndr) devi essere uno squalo. Infatti io metto il prezzo dietro la copertina, e in una piccola etichetta, per non sciupare la bellezza del disco. Ma un po’ mi sono dovuto adeguare, ora tengo anche Claudio Villa».

Vendete tutti i tipi di vinili...

«Vendo sia la stampa originale, del periodo di uscita del vinile, che le altre versioni. I grandi classici servono a catalizzare l’attenzione: i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin. Ma vanno tanto anche i più contemporanei: Nirvana, Pearl Jam, Artic Monkeys».

E tra gli italiani?

«Va il cantautorato: Dalla, Battisti, De André, De Gregori, Paolo Conte. La musica super contemporanea invece va meno. Per arrivare fin qui, sono partito da roba popolare e prezzi accessibili».

15.7.24

Nuova intimidazione alla sua azienda. Ma Patrizia Rodi Morabito resiste: non lascio la Calabria



la calabria non solo società sparente , emigrazione ed omertà come ( ne ho parlato precedentemente in un post ) nel caso di SAN LUCA, ASPROMONTE Terra di ’ndrangheta Il Comune calabro dove nessuno si è candidato è di nuovo commissariato Tra abbandono e omertà, qui il tempo torna indietro E il futuro non arriva mai, ma che di resistenza e di lotta come il caso Patrizia Rodi Morabito  (  foto a sinistra   tratta   dalla stessa  fonte  dellì'articolo ) , proprietaria di uun azienda agricola e imprenditrice di Rosarno, vicepresidente della Camera di Commercio di Reggio Calabria, che subisce minaccie ed attentati .
 Ma non si arrende .
E' notizia di questi giorni di


da www.avvenire.it

Secondo incendio in appena due settimane all’azienda agricola di Patrizia Rodi Morabito, imprenditrice di Rosarno, vicepresidente della Camera di Commercio di Reggio Calabria, dirigente di Coldiretti e membro del Servizio per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi. È la quarta intimidazione in soli quattro mesi all’azienda di famiglia “Tenuta Badia-Rodi” che coltiva soprattutto ulivi, agrumi e kiwi in biologico.lo scorso 5 marzo le sono state tagliate e incendiate alcune piante secolari di ulivo. Il 16 marzo ignoti hanno abbandonato rifiuti di ogni genere davanti al cancello dell’azienda, mentre altri rifiuti sono stati lasciati all’interno del terreno. E nella stessa tenuta hanno divelto una sbarra di accesso. Uno sfregio commesso il giorno dopo la visita del prefetto di Reggio Calabria, Clara Vaccaro, e del presidente della Camera di commercio, Antonio Tramontana, un gesto di solidarietà e attenzione nei confronti dell’imprenditrice. Quindici giorni fa proprio dai rifiuti è partito l’incendio che ha danneggiato l’impianto irriguo e quattro ettari coltivati a kiwi. Ieri altre fiamme, questa volta partite non dalla strada ma all’interno dell’azienda, in un luogo simbolico, dove nel 2000 erano stati incendiati dei capannoni i cui scheletri anneriti sono ancora lì perché, dice l’imprenditrice, «si veda bene cosa fanno». Proprio da lì le fiamme hanno poi raggiunto l’uliveto, facilitate dall’erba alta che non viene tagliata perché si tratta di coltura biologica con norme molto severe. Poco prima delle 10 si è così alzato un denso fumo nero, ben visibile da lontano. Per fortuna sono arrivati rapidamente sia i carabinieri sia i Vigili del fuoco, limitando i danni .
Ma il messaggio è ben chiaro, come sottolinea anche il vescovo, monsignor Giuseppe Alberti, che ha chiamato l’imprenditrice. «Evidentemente vogliono che lei se ne vada, che abbandoni – ha dichiarato il presule –. Vogliono impossessarsi della sua azienda per i propri interessi. Per questo dobbiamo tutti sostenerla, esserle vicino, contribuire al suo impegno. Non è sola e non sarà sola». Profondamente credente, Patrizia Rodi Morabito ha accettato l’invito del vescovo a contribuire alla crescita della Diocesi, come membro del Servizio per la pastorale sociale e del lavoro. Così ha partecipato alla recente Settimana sociale dei cattolici, svoltasi a Trieste, portando la sua esperienza di imprenditrice calabrese. «Ho incontrato una Chiesa in cammino, attiva, piena di iniziative. Sono tornata sentendo la responsabilità di mettermi in gioco», riflette. E per questo, torna a ripetere, «io da qui non me ne vado, questa è la mia terra e qui devo restare. Per difendere il Creato e per dare lavoro vero e giusto ai giovani che purtroppo se ne devono andare». Ma anche, come già ha fatto, facendo della sua azienda un “laboratorio” sulla salvaguardia del Creato, la legalità, la giustizia sociale.
Il suo è un richiamo anche ad altri, al “noi”. «Il cuore della democrazia lo ritroveremo insieme laddove si è persa la via, lo cercheremo nei luoghi dove è in affanno, dove è stato coperto da detriti sociali, non più rimanendo un passo indietro agli eroi solitari, ma in una comunità che nel quotidiano, in un difficile passaggio dall’io al noi, riscopra i gesti semplici di ognuno, restituendo ad ogni momento, ad ogni persona, la sua dignità, la sua forza, riconosciute e sostenute dalle parole che esprimono i principi della nostra Costituzione». C’è molta attenzione degli inquirenti alla sua vicenda. Anche perché i terreni dell’azienda agricola sono in una posizione strategica che domina lo svincolo autostradale per Rosarno, a pochi chilometri sia dalla cittadina sia dal porto di Gioia Tauro. Un’area sicuramente interessante per gli affari della ‘ndrangheta.

3.6.24

DIARIO DELLA SETTIMANA N 54 ANNO II .il due giugno spiegato ad un bambino di prima elementare ., Una manager perde il lavoro ( licenziata ) dopo uno stupro di gruppo ., Salva la cugina 15enne dal matrimonio combinato viene picchiato dagli zii genitori della ragazza., I Metallica suonano a Milano e in scaletta compare "Acida" dei Prozac., PALESTINA, L’EQUAZIONE FALSA COL TERRORISMO E LA DECIMA VANNACCI, morti candati alle europee



#Salvini e Borghi attaccano #Mattarella che parla di "sovranità Europea ". #Tajani è solidale. #Conte e #Schlein contro la lega .#Meloni tace : ecco cpme spiegate ad un bambono di 5\6 anni la festa del 2 giugno

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stop violenza sulle donna, intimo reggiseno buttato sul pavimento© Fornito da News Mondo

Una manager perde il lavoro dopo uno stupro di gruppo: offerti 5mila euro e licenziamento per giustificato motivo.

Dopo aver subito una terribile violenza di gruppo, una manager torinese di 32 anni è stata licenziata dalla sua azienda.
Come riportato da Leggo.it, sembrerebbe che l’azienda abbia offerto circa 5mila euro per cessare il contratto di lavoro con la dipendente.

violenza su una donna© Fornito da News Mondo

Una manager viene violentata e perde il lavoro: il lungo calvarioLa sera del 16 marzo 2023, una donna torinese di 32 anni è stata vittima di uno stupro di gruppo a Milano, mentre si trovava ai Navigli con tre persone che considerava amici.
Dopo una serata trascorsa a bere alcol, la manager è stata aggredita dai tre uomini, che sono stati successivamente identificati e arrestati. Da quel momento, per la donna è iniziato un percorso di visite mediche, ricoveri, e sedute psicologiche e psichiatriche.
Dopo sei mesi di convalescenza, la manager ha tentato di tornare al lavoro, pur non sentendosi ancora pronta. “La mia vita quella notte è cambiata, però ce la farò, mi serve solo un po’ di tempo, ne sono sicura“, aveva confidato all’azienda. Tuttavia, l’11 marzo scorso, l’azienda della donna le ha inviato una lettera di licenziamento per “giustificato motivo“.


Il licenziamento della 32enne: la difesa dell’azienda
La comunicazione, come riportato da La Stampa, recitava: “In un’ottica di maggior efficienza abbiamo deciso di riorganizzare le nostre attività, sopprimendo la posizione da lei attualmente ricoperta” Continua, la lettera: “La informiamo che, dopo attenta verifica, abbiamo constatato l’impossibilità di adibirla ad altre mansioni“. Secondo l’avvocato della vittima, l’azienda non voleva attendere il recupero completo della donna, né rischiare di perdere credibilità a causa di alcuni video della violenza finiti su delle chatL’avvocato ha inoltre aggiunto: “Quello che l’ha davvero distrutta è stato il modo in cui è stata silurata: le sono stati offerti cinquemila euro per chiudere il rapporto di lavoro “o firmi adesso o mai più’“.
L’azienda, da parte sua, ha respinto le accuse, affermando che la decisione è stata presa esclusivamente per motivi di riorganizzazione interna.


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 proprio mentre leggo che è stata arrestata in Pakistan Nazia Shaheen la madre di Saman Abbas: trovata in un villaggio ai confini con il Kashmir qui un ritratto che riepiloga la vicenda


 leggo   mi pare  su repubblica.it    questa news che oltre a denunciare i fanatici religiosi ed identitari sfatta un luogo comune che tutti gli immigrati sono cosi . Luogo comune \ stereotipo inculcatoci per 30 anni da questa estra sia parlamentare che extraparlamentare ma che ancora nonostante sia sempre più minoritaria ha lasciato ancora le sue scorie e ha permesso che sia al governo e che anche chi non è di destra ne subisce l'influenza Salva la cugina 15enne dal matrimonio combinato, picchiato al supermercato dai genitori della ragazza . Gli zii hanno organizzato il pestaggio e lo hanno filmato per fare sapere a tutti di averla fatta pagare al nipote. Quel video li ha incastrati. Indagine dei carabinieri nel Bolognese, 40enne finisce ai domiciliari anzichè in carcere come dovrebbe

 BOLOGNA - Ha aggredito e picchiato il nipote, colpevole secondo lo zio di avere mandato a monte il matrimonio combinato che lui e la moglie avevano deciso per la figlia, una ragazzina di 15 anni. Il cugino ha avvisato i servizi sociali, che l'hanno tolta alla famiglia e affidata a una comunità per minori. E' la vicenda avvenuta in un paese del Bolognese e scoperta dai carabinieri, che hanno arrestato un 40enne, finito ai domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico per i reati di atti persecutori e lesioni personali. L'aggressione da cui è partita l'indagine è avvenuta lo scorso 24 aprile in un supermercato di Zola Predosa, dove si trovavano il nipote 20enne dell'indagato insieme alla fidanzata. Lo zio e la moglie li hanno raggiunti e, davanti a cassieri e altri clienti, hanno cominciato a picchiarli, facendoli finire al pronto soccorso con traumi cranici, contusioni varie e 8 giorni di prognosi. Lo stesso 40enne aveva filmato la scena con il telefonino e pubblicato su un social network il video del pestaggio. Un gesto fatto dall'uomo forse a scopo dimostrativo, per fare sapere a tutti di averla fatta pagare al nipote. Quel video gli si è però ritorto contro, quando gli investigatori hanno cominciato a indagare sull'aggressione, scoprendone il retroscena: si era trattato di una rappresaglia nei confronti del nipote e della fidanzata, ritenuti responsabili di essersi intromessi nel matrimonio combinato tra la figlia 15enne e un coetaneo, facendolo saltare. Era stata probabilmente la stessa ragazzina a confidare al cugino di non volersi sposare con il giovane scelto dalla famiglia. Lo stesso cugino ha deciso di aiutarla e ha raccontato tutto ai servizi sociali, che sono intervenuti togliendo la minore alla famiglia. Il padre della ragazza ora è ai domiciliari e lei al sicuro in una comunità. Una vicenda che ricorda quella, tragica, di Saman Abbas uccisa a Novellara per essersi opposta a nozze combinate.


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I Metallica suonano a Milano e in scaletta compare "Acida" dei Prozac I Metallica suonano a Milano all'Ippodromo La Maura e dedicano un tributo ad una canzone italiana. Durante il concerto, unica data italiana del tour, il gruppo di heavy metal ha interrotto la scaletta per suonare "Acida" dei Prozac+.c

 Un fuoriprogramma che ha stupito anche il pubblico della band. E' stato Rob Trujillo a spiegare ai fan di aver pensato di suonare un brano italiano: «Se conoscete le parole, cantatela» ha detto prima di iniziare a suonare.


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a proposito di scrupoli di coscienza, pur non essendo persona informata dei fatti, un interrogativo su tutt’altro argomento, vorrei (con ogni scrupolo, si intende) proporlo, pensando alla vicenda palermitana dell’ingegnere Angelo Onorato: ma davvero a Palermo in campagna elettorale un delitto di mafia deve diventare un suicidio? Se sbaglio chiederò scusa, ma l’idea di tacere i miei dubbi lasciando soli i familiari a non credere alla tesi del suicidio mi inquieta. E tanto.
pensavano in tanti   che, con la morte di B., sarebbe cessato anche il berlusconismo, trascinato nella tomba insieme alle sue spoglie, ma invece si sono sbagliati ancora una volta. Infatti, B. si appresta ora a risorgere anche sulle prossime schede elettorali per le imminenti elezioni europee. Non contenti di aver confermato sul simbolo di Forza Italia il suo nome, ora si invitano gli elettori addirittura ad esprimere, come prima preferenza, il suo nominativo. Non un candidato, ma una mummia.

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PALESTINA, L’EQUAZIONE FALSA COL TERRORISMO E LA DECIMA VANNACCI

Negli ultimi anni in Italia, complice il dibattito sui due conflitti che stanno funestando il mondo, si è rafforzata una pratica tanto longeva quanto insopportabile: l'automatismo a stravolgere qualsiasi gesto che prenda una posizione, vestendolo d'ignominia anche quando non ce ne sarebbe motivo o dipingendolo come un'implicita incitazione alla violenza o come un benestare indiretto al cattivo di turno. La confusione di merito già riscontrata nel dibattito sulla guerra in Ucraina, si sta ripetendo in maniera uguale e diversa sul tema del conflitto israelo-palestinese. L'argomentazione indistinta e violentissima per cui chi dichiara la propria contrarietà all'operato d'israele e manifesta la propria solidarietà alla Palestina viene etichettato come antisemita e apologeta del terrorismo é quantomai viziata e pelosa; eppure il timore di sentirsi riversare contro un'accusa tanto grave inibisce molti dal manifestare apertamente il proprio pensiero. Ha dunque mostrato coraggio Matteo Lepore, sapendo a cosa sarebbe andato incontro, quando ha deciso di esporre la bandiera palestinese da una finestra di Palazzo d'accursio. Il sindaco di Bologna, a cui è immediatamente piovuto addosso quel protocollo di critiche preconfezionate di cui sopra, non solo non ha retrocesso dalla sua azione, ma ha saputo replicare mettendo l'accento proprio sulla pratica della critica infamante usata per ridurre i cittadini al silenzio: “Voglio respingere qui e smentire l'interpretazione che esporre la bandiera del popolo palestinese rappresenti oggi un sostegno ai terroristi e un gesto antisemita. È veramente una cosa falsa che va rigettata e respinta... Evitiamo di accusare l'amministrazione comunale e la città di Bologna di essere al fianco dei terroristi solo perché abbiamo un'opinione e vogliamo aprire uno squarcio nel silenzio che ci si chiede di rispettare: chiederci di stare in silenzio significa chiederci di accettare un massacro”. Non lasciarsi intimorire dal fango delle accuse strumentali, ma smontarle e restituirle al mittente, è un buon modo di fare politica. Oggi ce n'è particolarmente bisogno.ANTISEMITA A CHI?
Se avesse voluto raccontare il vero senso della campagna elettorale che sta portando avanti, Matteo Salvini avrebbe dovuto parafrasare lo slogan scelto dalla Lega “Più Italia, meno Europa” e declinarlo soggettivamente: meno Capitano, più Generale. Negli ultimi giorni pre voto lo scritturato Vannacci sta dando il meglio di sé: tra un invito a votare mettendo una Decima sul simbolo della Lega e una citazione de “Il gladiatore” (il solito “Al mio via scatenate l'inferno”), l' 'intruso' sta sbigottendo l'intero ceto politico del Carroccio, che assiste alla sua performance imbarazzato e cerca di evitare commenti per scongiurare la tragedia pre voto. Mentre questo accade il segretario se ne sta un passo indietro, parla di pace, promette condonucci edilizi e guarda orgoglioso la sua creatura scalmanarsi. L'obiettivo? Essere gladiatori senza perdere del tutto la faccia.
MENO CAPITANO, PIÙ GENERALE : Se avesse voluto raccontare il vero senso della campagna elettorale che sta portando avanti, Matteo Salvini avrebbe dovuto parafrasare lo slogan scelto dalla Lega “Più Italia, meno Europa” e declinarlo soggettivamente: meno Capitano, più Generale. Negli ultimi giorni pre voto lo scritturato Vannacci sta dando il meglio di sé: tra un invito a votare mettendo una Decima sul simbolo della Lega e una citazione de “Il gladiatore” (il solito “Al mio via scatenate l'inferno”), l' 'intruso' sta sbigottendo l'intero ceto politico del Carroccio, che assiste alla sua performance imbarazzato e cerca di evitare commenti per scongiurare la tragedia pre voto. Mentre questo accade il segretario se ne sta un passo indietro, parla di pace, promette condonucci edilizi e guarda orgoglioso la sua creatura scalmanarsi. L'obiettivo? Essere gladiatori senza perdere del tutto la faccia.Voto: Vedremo cosa ne dicono le urne

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pensavano in tanti   che, con la morte di B., sarebbe cessato anche il berlusconismo, trascinato nella tomba insieme alle sue spoglie, ma invece si sono sbagliati ancora una volta. Infatti, B. si appresta ora a risorgere anche sulle prossime schede elettorali per le imminenti elezioni europee. Non contenti di aver confermato sul simbolo di Forza Italia il suo nome, ora si invitano gli elettori addirittura ad esprimere, come prima preferenza, il suo nominativo. Non un candidato, ma una mummia.

PALESTINA, L’EQUAZIONE FALSA COL TERRORISMO E LA DECIMA VANNACCI

Negli ultimi anni in Italia, complice il dibattito sui due conflitti che stanno funestando il mondo, si è rafforzata una pratica tanto longeva quanto insopportabile: l'automatismo a stravolgere qualsiasi gesto che prenda una posizione, vestendolo d'ignominia anche quando non ce ne sarebbe motivo o dipingendolo come un'implicita incitazione alla violenza o come un benestare indiretto al cattivo di turno. La confusione di merito già riscontrata nel dibattito sulla guerra in Ucraina, si sta ripetendo in maniera uguale e diversa sul tema del conflitto israelo-palestinese. L'argomentazione indistinta e violentissima per cui chi dichiara la propria contrarietà all'operato d'israele e manifesta la propria solidarietà alla Palestina viene etichettato come antisemita e apologeta del terrorismo é quantomai viziata e pelosa; eppure il timore di sentirsi riversare contro un'accusa tanto grave inibisce molti dal manifestare apertamente il proprio pensiero. Ha dunque mostrato coraggio Matteo Lepore, sapendo a cosa sarebbe andato incontro, quando ha deciso di esporre la bandiera palestinese da una finestra di Palazzo d'accursio. Il sindaco di Bologna, a cui è immediatamente piovuto addosso quel protocollo di critiche preconfezionate di cui sopra, non solo non ha retrocesso dalla sua azione, ma ha saputo replicare mettendo l'accento proprio sulla pratica della critica infamante usata per ridurre i cittadini al silenzio: “Voglio respingere qui e smentire l'interpretazione che esporre la bandiera del popolo palestinese rappresenti oggi un sostegno ai terroristi e un gesto antisemita. È veramente una cosa falsa che va rigettata e respinta... Evitiamo di accusare l'amministrazione comunale e la città di Bologna di essere al fianco dei terroristi solo perché abbiamo un'opinione e vogliamo aprire uno squarcio nel silenzio che ci si chiede di rispettare: chiederci di stare in silenzio significa chiederci di accettare un massacro”. Non lasciarsi intimorire dal fango delle accuse strumentali, ma smontarle e restituirle al mittente, è un buon modo di fare politica. Oggi ce n'è particolarmente bisogno.ANTISEMITA A CHI?
Se avesse voluto raccontare il vero senso della campagna elettorale che sta portando avanti, Matteo Salvini avrebbe dovuto parafrasare lo slogan scelto dalla Lega “Più Italia, meno Europa” e declinarlo soggettivamente: meno Capitano, più Generale. Negli ultimi giorni pre voto lo scritturato Vannacci sta dando il meglio di sé: tra un invito a votare mettendo una Decima sul simbolo della Lega e una citazione de “Il gladiatore” (il solito “Al mio via scatenate l'inferno”), l' 'intruso' sta sbigottendo l'intero ceto politico del Carroccio, che assiste alla sua performance imbarazzato e cerca di evitare commenti per scongiurare la tragedia pre voto. Mentre questo accade il segretario se ne sta un passo indietro, parla di pace, promette condonucci edilizi e guarda orgoglioso la sua creatura scalmanarsi. L'obiettivo? Essere gladiatori senza perdere del tutto la faccia.
MENO CAPITANO, PIÙ GENERALE : Se avesse voluto raccontare il vero senso della campagna elettorale che sta portando avanti, Matteo Salvini avrebbe dovuto parafrasare lo slogan scelto dalla Lega “Più Italia, meno Europa” e declinarlo soggettivamente: meno Capitano, più Generale. Negli ultimi giorni pre voto lo scritturato Vannacci sta dando il meglio di sé: tra un invito a votare mettendo una Decima sul simbolo della Lega e una citazione de “Il gladiatore” (il solito “Al mio via scatenate l'inferno”), l' 'intruso' sta sbigottendo l'intero ceto politico del Carroccio, che assiste alla sua performance imbarazzato e cerca di evitare commenti per scongiurare la tragedia pre voto. Mentre questo accade il segretario se ne sta un passo indietro, parla di pace, promette condonucci edilizi e guarda orgoglioso la sua creatura scalmanarsi. L'obiettivo? Essere gladiatori senza perdere del tutto la faccia.Voto: Vedremo cosa ne dicono le urne

8.5.24

Presentazione tempiese di Patrick Chamoiseau

Presentazione  interessante  quella di Patrick Chamoiseau tenuta stasera 8 maggio al liceo dettori  di

di  tempio  pausania  dove  a differenza  di quella tenuta la mattina con le scuole è mancato il dibattito ed interazione tra il pubblico ed l'autore.
 E questo è  stata ,visto il calibro dell'autore considerato uno dei più grandi scrittori viventi, è stato vincitore nel 1992 del premio Goncourt per il romanzo 𝘛𝘦𝘹𝘢𝘤𝘰, pubblicato in Italia da Einaudi nella traduzione firmata da Sergio Atzeni , è stata un 'occasione mancata . Infatti Chamoiseau è un illustre portavoce di una visione del mondo basata sull’apertura e sul rispetto delle culture, così come sulla tutela dell’immaginario e dell’identità peculiare di ciascun popolo contro la minaccia sempre più incombente dell’omologazione veicolata dalla globalizzazione incontrollata. . Fulvio Accogli di bookolica ( uno degli organizzatori dell'evento ) , uno degli organizzatori avrebbe dovuto leggere prima i capitolo del libri in modo da far capire a gli " analfabeti di letteratura " di cosa si stava parlando . Infatti più di metà del publico se n'è andato a metà del dibattitoe sono rimasti in sala solo lì'assessora alla cultura , gli amici ed i parenti delle presentatrici e curatrici ed pochi coraggiosi sottoscritto compreso . Un vero peccato perché  per gli argomenti trattati le premesse per un ottimo dibattito  c'erano tutte  . Infatti una presentazione meno   salottiera  sarebbe stata piu efficace per  far giungere  al pubblico il messaggio profondo espresso dall'autore . troppo monopolizzata dallo scrittore sardo alberto capitta(il  secondo  da  destra  nella  foto  sotto al centro  )    che interagiva con l'autore  con spunti di notevole interesse.quindi mi chiedo polemicamente che si portano a fare  artsti  importanti se poi non li si fa intereagire con il pubblico ? Infati ragionando poi a freddo e chiaccherando a fine presentazione  con Sara Puggioni (  la  prima    a destra  una delle organizzatrici dell'evento  ) 


 ) 

 e dalla discussione sagace con un mio amico  che ha  commento  le mie  impressioni  sull'incontro rilasciate  su  facebook  

*****Giusè, non tutto il male viene per nuocere... vedila così, non avendo la possibilità di fare interventi magari ti sei evitato l'ennesima querela... 
😜





hai ragione  *****. Ma essendo un dibattito letterario e non ideologico /politico gli avrei fatto domande di tipo letterario tipo lei si sente più seme o radice . Ma credo che l'avrei evitata visto che rispondendo ad una domanda /dubbio del suo interlocutore (  alberto  capitta  )   brilantemente    tradotta ,  da quel poco  che  capisco   di lingue straniere ,    in francese    prima  e poi in italiano    da  parte di Valentina   Balatta  è come se avesse risposto alla mia  domanda  

23.4.24

25 aprile in piena deriva neofascista . La Storia manomessa tra menzogne e omissioni. Così la nuova destra cancella l’antifascismo

Partigiani e  Prtigiane   a Milano 
 




   repubblica    di Paolo Berizzi


La memoria ha i suoi tempi. Entrambe le cose — memoria e tempo — , si possono manipolare, manomettere, trasformare. A maggior ragione dopo una “sconfitta”. La Grande Sconfitta, da qualcuno mai digerita, del 25 aprile 1945. In questo processo revanscista di rewriting, anche la storia, insieme alla memoria, diventa materia plasmabile. Non occorre essere campioni di revisionismo: basta muoversi dentro il cavallo di Troia della democrazia, coperti dal mantello dei diritti che essa garantisce, ed ecco che la verità storica è piegabile alla propaganda.

Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?

In un anno e mezzo di governo-Meloni la destra e il partito di maggioranza relativa hanno portato a compimento il più duro attacco politico e “ideologico” mai mosso, dal Dopoguerra ad oggi, ai fianchi della Memoria; la memoria di chi ha dato la vita per liberare l’Italia dal nazifascismo e restituirci l’aria tolta dal regime di Mussolini. L’operazione condotta dal melonismo bifronte — postura neoconservatrice e insieme mantenimento della matrice identitaria di una comunità politica che da settantotto anni si tramanda il simbolo della fiamma che arde dalla tomba di Mussolini e che, ad eccezione di Forza Nuova, è stato utilizzato da tutti i partiti neofascisti e post fascisti — appare come un combinato di revisione storica e di omissione sul ventennio fascista. Così come sul neofascismo degli anni ’70. Le note ambiguità, ogni volta rilanciate come successo l’ultimo 25 aprile che ha confermato l’indisponibilità a dirsi antifascisti; gli affondi mirati, l’esaltazione dei “nostri morti” — formula cara anche ai gruppi di ultradestra; modifiche e atti legislativi, toponomastica; il tutto all’insegna della surreale equiparazione tra fascisti e comunisti italiani, i repubblichini al servizio dei nazisti e i partigiani, e dunque boia e vittime, Salò e Resistenza. Obiettivo: slavare la Memoria, spiantare l’antifascismo. Ovvero sradicare la radice della nostra democrazia e della Costituzione.Un “cambio di narrazione” previsto. Finanche annunciato dalla premier Meloni quando ancora non era a palazzo Chigi e già prometteva. «Sogno una nazione nella quale le persone che hanno dovuto abbassare la testa per tanti anni, facendo magari finta che la pensavano in maniera diversa, sennò sarebbero stati tutti cacciati, possano dire come la pensano e non perdere il posto di lavoro per questo». E ancora, sempre Meloni: «Noi non tradiremo». Già. Sfrecciando su un terreno già arato dall’afascismo di altri — prima Berlusconi, quindi il più estremista Salvini — , il gruppo dirigente post-fascista del partito locomotiva della destra ha messo la marcia a tutta dritta. Lo stesso hanno fatto, a cascata, le organizzazioni giovanili. Per avere conferma di questa azione erosiva della memoria non c’era bisogno di attendere l’ultimo dribbling di Giorgia Meloni che ha furbescamente sbrigato la pratica 25 aprile senza dispiacere ai suoi. Né occorreva registrare la scomposta polemica contro gli “antifa” uscita dal cilindro nero di Lollobrigida, quello del monumento al maresciallo Graziani e del mito della “sostituzione” diffuso tra suprematisti e neonazi. Scontate anche le sgrammaticature equiparazioniste su «anticomunismo» e «dittatura comunista in Italia» (quale?, quando?) di Sangiuliano seguito a ruota dal collega leghista Valditara («fascista è oggi una certa estrema sinistra»). Ci ha pensato Mattarella a richiamare — chissà con quale esito — i revisionisti al «dovere dell’antifascismo».E però va detto era già tutto scritto. Se questa destra affamata di rivalsa nel 2024 emette un francobollo dedicato a Giovanni Gentile che il ministro Urso accosta a Matteotti in forza di «una memoria collettiva da ricomporre», non è solo perché fingono di non ricordare che il filosofo e ministro della Pubblica istruzione del governo fascista — oltre a ideare il Manifesto degli intellettuali fascisti — , giurò fedeltà al regime, aderì alla Rsi e fu ammiratore di Hitler. Lo fanno perché c’è un filo nero da seguire. Una linea. È la direzione indicata anche ai baby-meloniani. Eccolo dunque, Giovanni Gentile. La foto su una parete nel video con cui il responsabile del circolo di Gioventù Nazionale di Mazara del Vallo mostra pochi giorni fa la nuova sede. Il “filosofo idealista” è una delle figurine di arredo. In buona compagnia. C’è Evola, c’è il picchiatore missino Grilz e un altro santino più impegnativo, Ernst Junger in divisa nazista della Wehrmacht. I famosi “cambi di narrazione”.La melodia del «non restaurare, non rinnegare», ché poi qua e là un po’ di restaurazione, se si pensa a cos’erano il Msi e Colle Oppio, la si vede. Il punto è che, a colpi di contro-racconto, la memoria repubblicana antifascista l’hanno messa nel mirino. Prima e dopo il giuramento al Quirinale del 22 ottobre 2022. Esempi. Il 9 marzo 2022 il Comune di Orbetello intitola l’ex idroscalo all’aviatore e gerarca Italo Balbo, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Cinque giorni dopo si scopre che a Balbo è intitolato l’Airbus blu dell’Aeronautica che fa volare le alte cariche dello Stato nato dall’antifascismo. Clamore. Il nome di Balbo viene rimosso e sulle chat di FdI montano le proteste. “Chi vola vale!” scrivono citandolo. Miti da onorare. Grosseto, Massa Carrara, Pescara, Gioia del Colle, Teramo, Sant’Anastasia. Sono solo alcuni dei Comuni che, con la destra al governo, hanno sentito l’urgenza di avere almeno una strada o una piazza o una rotonda dedicata a Giorgio Almirante. Il segretario di redazione della Difesa della razza, fucilatore di partigiani e collaborazionista dei nazisti.Laddove ci si mettono di traverso quei rompiscatole degli antifascisti la destra usa l’escamotage subdolo e peloso delle soluzioni “pacificatrici”. A Grosseto alla fine delle polemiche è saltata fuori via della Pacificazione: una strada a Almirante e una a Berlinguer. Con il melonismo le commissioni toponomastiche hanno un gran daffare. Perché si sa, la storia la (ri)disegnano anche le targhe sull’asfalto. A Lucca ci sono voluti mesi, e una vergogna nazionale, prima che la giunta ostaggio di una destra estrema rinunciasse alla pregiudiziale contro l’intitolazione di una strada a Sandro Pertini. L’altro giorno, festa della Liberazione, quegli stessi assessori neri sono usciti dai radar per 24 ore. La titolare FdI all’Istruzione Simona Testaferrata non ha partecipato a iniziative e come lei anche i consiglieri comunali del partito. Se le «radici non gelano» — cit. Isabella Rauti in ricordo del Msi fondato da fascisti e repubblichini — quelle della Repubblica chissene importa. «Il 25 aprile festeggio San Marco». A dare nuova linfa all’anti-antifascismo fu, nel 2021, con un cartello, una certa Rachele Mussolini. Idem Tommaso Foti, oggi capogruppo dei “patrioti” alla Camera. «Neanch’io festeggio il 25 aprile!», fece eco La Russa che nel 2020 propose di intitolare il 25 aprile ai «caduti di tutte le guerre» esortando a intonare la canzone del Piave. L’anno scorso, da presidente del Senato, ribadì: «La parola antifascismo non è in Costituzione». Quando non spara a palle incatenate la destra usa il fioretto delle mozioni. Strumentalizzando celebrazioni e doverosi ricordi. Prima in Friuli-Venezia Giulia e poi in Veneto FdI ha fatto approvare in consiglio regionale la sospensione di contributi a associazioni che «si macchiano di riduzionismo o negazionismo sulle foibe». Il nemico non dichiarato erano e sono la ricerca e la divulgazione sugli eccidi nazifascisti. «Sotto le insegne dell’Anpi si nascondo i crimini del comunismo», ringhiano i colonnelli veneti di Meloni. Di che stupirsi in fondo se, nel 2021, l’assessora regionale Elena Donazzan decide di celebrare la Liberazione alla foiba Buso de la Spaluga, sul monte Corno, dove furono uccisi 14 soldati nazisti. Lontani dal verdetto della storia, lontani dall’aula. Da poco il consiglio comunale di Vicenza ha reintrodotto dopo 8 anni la clausola antifascista per la concessione di aree e luoghi pubblici: i meloniani sono usciti dalla sala consigliare. C’erano tutti invece, il 20 agosto 2022, nel circolo FdI di Velletri inaugurato qualche anno prima dalla Lady M. Appeso al muro spicca il vessillo del Msi intitolato al gerarca Ettore Muti, segretario del PNF nel periodo delle leggi razziali. “L’uomo userà la velocità, non il contrario!” dicevano i futuristi. Velocemente, nel solco del “non restaurare non rinnegare”, era tornato persino Marcello De Angelis, ex terrorista di Terza Posizione, amico di Giorgia e autore del brano ‘Claretta e Ben’. Quando si sono accorti che era troppo l’hanno dovuto lasciare a casa. Per compensare l’album di famiglia un mese fa Lollobrigida ha assunto come portavoce Paolo Signorelli jr, nipote del cofondatore di Ordine Nuovo. E sì, la memoria ha i suoi tempi.


  Ora    Il 25 aprile è una festa. È la festa , o al,meno dovrebbe  essere  , di tutti gli italiani, festa della libertà e della democrazia.Libertà, democrazia, italiani: tre parole che non possono che essere patrimonio di tutti. Non ci si   dovrebbe  dividere nemmeno su una di queste parole che sono fondative della nostra Repubblica e della nostra Costituzione e che sono soprattutto fondative della nostra possibilità di essere quello che siamo oggi: donne e uomini liberi. Ecco perché mi auguro illudendomi  che questo 25 aprile
2024 non ammetta distinguo.Sappiamo bene che il clima politico nel quale stiamo vivendo non promette niente di buono ma a maggior ragione sarebbe importante che noi tutti, cittadini di questo Paese,
fossimo consapevoli del significato di questa data e cercassimo di onorarla senza se e senza ma. In una democrazia compiuta devono esserci valori non discutibili e condivisi: primo fra tutti, il ricordo di quel giorno che ha restituito dignità a un’Italia che aveva conosciuto la vergogna del fascismo, l’orrore della violenza e delle leggi razziali, che aveva scelto l’alleanza con i nazisti, che aveva patito la tragedia della guerra in cui il regime ci aveva trascinato.Il 25 aprile ci ha portato la libertà ma soprattutto ci ha regalato il futuro. Un dono prezioso, pagato col sangue di migliaia di innocenti e con quello di ragazze e ragazzi, in molti casi ragazzini, che hanno sacrificato la loro esistenza per il nostro futuro. Molti di loro quel giorno non hanno visto il sole che splendeva ma hanno dato la loro vita perché potessimo vederlo noi.Noi che oggi abbiamo il diritto e la possibilità di pensarla diversamente, di esprimere le nostre opinioni liberamente. Per questo la reticenza con cui alcune cariche pubbliche non riescono a esprimersi chiaramente sul fascismo, per non parlare di coloro che, pur avendo giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza, non riescono a definirsi antifascisti, è inammissibile.Sarebbe bello che potessimo ritrovarci tutti insieme nei valori che il 25 aprile rappresenta: sarebbe importante, sarebbe naturale perché la libertà è come l’aria che respiriamo. È la stessa per tutti.  

 ecco due  storie  ed  una bibliografia  se  pur   sommaria  e  in parte  capziosa    per  alcuni libri   prese   dal settimanale 

  • Oggi 
  • Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO G. PAVESI

  • A 11 anni, Gustavo Ottolenghi diventò un partigiano. Dormiva nei fienili, faceva la staffetta. I genitori l’avevano lasciato per salvarlo: «Ci vediamo a fine guerra». Non aveva nulla. Solo un appuntamento

    - Gustavo Ottolenghi che a 11 anni diventò partigiano di Fiamma Tinelli

    - Sandra Gilardelli che conserva ancora una rosa di Fiamma Tinelli

    - I libri: vedi alla voce Liberazione di Valeria Palumbo

    Mi dicevano: “Vai là, a piedi”. Ero una staffetta ma non lo sapevo, mi nascondevano i messaggi negli zoccoli — G. Ottolenghi

    Gustavo Ottolenghi aveva 11 anni quando si unì ai partigiani. Che nome di battaglia vuoi?, gli chiesero. E lui: «Robin. Come Robin Hood». Oggi, Ottolenghi di anni ne ha 92 e vive a Sanremo con la moglie, Maria Pia, in una casa che guarda il mare. Medico, nella vita ha fatto molto: è stato primario di Radiologia, ha partecipato alla guerra dei Sei giorni («Perché quella volta avevano ragione gli israeliani»), attraversato lo stretto di Bering con le spedizioni di Overland. «Ma senza la Resistenza, non
    sarei qui».

    Figlio di Raimondo, ebreo, e di Letizia, cattolica, con le leggi razziali suo padre perse il posto alla polizia municipale di Torino e Gustavo venne espulso da scuola. Era battezzato, ma bastava il cognome. Per sfuggire alle retate la famiglia si rifugiò nel Monferrato. A fatica, il padre aveva trovato lavoro nella ditta di un amico. Finché, nel 1944, quello gli disse: “Mi dispiace, a tenerti qui rischio troppo”. «Senza lavoro, coi repubblichini addosso, non sapevamo cosa fare. Così, una sera, mio padre convocò me e mia madre con aria grave. “Vi devo parlare”».

    Che cosa vi disse?

    «“Se stiamo insieme ci ammazzano, l’unica via è dividersi”. Aveva dei contatti coi partigiani dei dintorni, ci saremmo uniti a loro in tre luoghi diversi. Ci diede un appuntamento: “Se questa guerra finisce, ci vediamo sotto la statua del Duca d’Aosta in piazza Castello, a Torino”».

    E lei partì.

    «Mi affidarono a Guido e Sergio, due 20enni della brigata

    Cossolo. Ci nascondevamo nei fienili, si mangiava quel che c’era. Li seguivo dappertutto, come un cagnolino. Finché si resero conto che ero sveglio e cominciarono ad affidarmi dei compiti».

    Quali?

    «Dovevo far la guardia, in cima al campanile. “Se vedi camion tedeschi o fascisti corri giù e ci avverti”. Poi, cominciarono a mandarmi in giro per i paesi. Camminavo per chilometri con un paio di sabot di legno ai piedi. Ma non capivo il perché».

    Messaggi.

    «Esatto, facevo la staffetta e non lo sapevo. Avevano fatto un buchino nel tacco, ci infilavano dentro i biglietti. Arrivavo da tizio, da caio, e quelli mi dicevano: “Togliti gli zoccoli all’ingresso, che sono sporchi”. E poi mi davano la merenda in cucina, pane e formaggio. L’ho capito dopo, che intanto prendevano il pizzino e lo sostituivano con un altro».

    Aveva dovuto rinunciare alla scuola.

    «Mi davano una mano i partigiani laureati, chi m’insegnava geometria, chi grammatica. Quando arrivai all’età della terza media mi dissero: “Meglio che tu faccia l’esame, almeno un pezzo di carta ce l’hai”. Mi presentai a Torino, alla scuola Cavour, da privatista. Il preside che faceva l’appello quando arrivò al mio cognome lo pronunciò con la faccia scura: “Ottolenghi?!?”. Aveva capito che ero ebreo. D’un tratto mi sentii afferrare il braccio, un altro professore mi trascinò via. Prese un pezzo di carta, ci scrisse “Promosso” e mi disse: vattene, subito. Mi salvò la vita».

    Un antifascista.

    «La Resistenza era fatta anche da quelli che il mitra non ce l’avevano. Dai maestri, da chi preparava i documenti falsi, dalle donne di campagna».

    Finché la guerra finì, per davvero.

    «La mia brigata entrò a Torino che c’erano ancora i cecchini, la gente festeggiava, ballava, cantava. La prima notte dormimmo nella caserma Cernaia, un

    carrarmato tedesco nel cortile. Poi, i partigiani cominciarono a tornarsene a casa loro. Guido e Sergio mi dissero: “Sei vivo, sei libero, vai”. Ma vai dove? Io non avevo più famiglia. Solo un appuntamento».

    La statua in piazza Castello.

    «Corsi lì e aspettai mamma e papà tutto il giorno, seduto sul basamento. Guardavo, guardavo, non venne nessuno. Il giorno dopo, uguale. Cercavo i loro visi tra la gente, vedevo solo sconosciuti. “Sono morti”, pensai. Avevo 13 anni, ero un ragazzino. Ed ero solo».

    Eppure, tornò.

    «Non sapevo cos’altro fare. Il terzo giorno, vedo una donna sbucare da via Po. I capelli erano cambiati ma gli occhi, gli occhi erano i suoi. Era mamma. Non la vedevo da un anno e mezzo, quell’abbraccio lì non lo dimenticherò mai. Il giorno dopo ci mettemmo ad aspettare di nuovo, insieme. Eravamo preoccupati, di mio padre nessuna notizia. Finché sentimmo una voce da dietro: “Gustavo, Letizia!”. Era lui. Era vivo. Era con noi. Aveva lavorato per il Cln a Torino, aiutato i partigiani».

    Il 25 aprile è la vostra festa.

    «È la festa di tutti, anche se qualcuno al governo vorrebbe tanto che non se ne parlasse più. Ha mai sentito dire a La Russa: “Sono antifascista”? Io no. Quando sento che il ministro dell’Istruzione vorrebbe classi di soli italiani lo sa a cosa penso? A quando hanno mandato via me, a quando ero un indesiderato. E poi le frasi, la retorica… Il premierato caldeggiato da Meloni cos’è, se non la nuova versione di uno solo al comando? Se andiamo avanti così tra dieci anni il 25 aprile sarà una data come un’altra».

    Si rischia di perdere la memoria.

    «Io continuo a raccontare, lo farò finché campo. Lo ripeto sempre, ai ragazzi: la libertà non è un regalo. È una conquista».






    CONSERVO ANCORA QUELLA ROSA

    «Mi chiesero: cosa sei disposta a fare? E io: tutto». A 17 anni, Sandra Gilardelli è entrata nella Resistenza. In guerra ha trafugato farmaci, rischiato la vita. E incontrato un uomo con gli occhi buoni

    Sotto elezioni, Sandra Gilardelli al mercato è meglio che non ci vada. «Sennò attacco briga, che io se vedo un fascista ancora gliene canto quattro. Non mi facevano paura a 18 anni, si figuri adesso». A 99 anni, la partigiana della brigata Cesare Battisti non è stanca di raccontare la sua battaglia. Partecipa agli incontri nelle scuole, riceve i ragazzi. «Tutto quel che serve per ricordare la Resistenza, io lo faccio. E per favore non darmi del lei, non mi piace. Io sono solo Sandra». Seduta nella poltrona rossa della sua casa di Milano, apre una scatola di cartone con cautela. Dentro c’è un bocciolo di rosa, secco. Ha quasi 80 anni. «Me lo diedero il 25 aprile, in piazza. Per festeggiare», dice, mentre lo sfiora leggera.

    Antifascista, Sandra, non lo è diventata. Lo è sempre stata. Fin da quando, bambina, vedeva suo padre Antonio irritarsi di fronte ai discorsi del Duce. «Scuoteva la testa e mi diceva: “Questa è una dittatura, e il regime ci toglie la cosa più importante che c’è, la libertà. Ricordatelo sempre”». Mai indossato una divisa da Piccola italiana: pur di non mandarla alle riunioni, i suoi genitori, d’accordo col medico, la davano malata. Una volta il mal di testa, un’altra il mal di pancia. Quando scoppiò la guerra, Sandra frequentava la quarta ginnasio al liceo classico Parini, «un covo di antifascisti». Le bombe su Milano dell’ottobre del 1942 se le ricorda bene: gli inglesi avevano lanciato ordigni incendiari al fosforo e lei, che era sola in casa, si fece a piedi mezza città con le scarpe che bruciavano. «In piazza Cavour, dove era stato colpito un palazzo, vidi la gente che si gettava dai balconi per sfuggire alle fiamme. Non lo dimenticherò mai». Finché la sua famiglia decide di sfollare, prima a Gorgonzola, poi nel Verbano, a Pian Nava: una manciata di case, una piazza, un albergo. È lì, che a Sandra è cambiata la vita.

    Per essere fascista mica serve fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso se ne deve andare Sandra Gilardelli «Sapevo che in montagna c’erano dei ragazzi che combattevano contro i fascisti. Un giorno ne vidi due seduti in piazza, giovanissimi. Mi avvicinai facendo la timida - anche se timida non ero - e chiesi: “Siete partigiani? Io vorrei dare una mano”. Mi squadrarono dalla testa ai piedi, sospettosi. “Fatti trovare domattina presto a Premeno”». Quando lo racconta al padre, lui le dice solo: «Vai».

    Sandra ha 17 anni, una cascata di ricci, l’aria ingenua. Al comando, i partigiani le fanno un mezzo interrogatorio. Chi sei, cosa sei disposta a fare? «Tutto». Decidono di metterla alla prova. «Abbiamo molti feriti, mancano bende, Streptosil. Ruba, inventati qualcosa». Sandra ci pensa su tutta la notte. Siamo in guerra, non si trova nulla. L’indomani, le viene un’idea. Mette tutte le donne di casa al lavoro: tagliano le lenzuola per farne delle strisce, le fanno bollire per sterilizzarle. Le bende ci sono. Recuperare il disinfettante, è un’altra storia. «Girai tutte le farmacie del Verbano, trovai solo un paio di confezioni, troppo poco. Poi, mi venne in mente che lo zio di mia cognata era un chimico. “Puoi produrcelo tu?”. “Certo”. Ci si aiutava, tutti».

    Una sera di febbraio, l’ufficiale medico la fa chiamare d’urgenza. C’è il partigiano Sasha ferito, bisogna operare subito e serve che Sandra dia una mano («Io, che non mi ero mai messa neanche un cerotto»). Appuntamento la mattina dopo alle 7, nel bosco, l’unico posto sicuro. Sasha urla dal dolore, ma di anestetizzante non ce n’è. «Vado a bussare alle case vicine, cerco qualcosa, finché la signora Angioletta mi fa: “Io in casa ho solo il Vov...”. L’abbiamo operato così, con me che gli facevo tranguigiare il liquore e il medico che cuciva».

    Il passo successivo è fare la staffetta. I combattenti le affidano messaggi sensibili, roba che se ti scoprono i fascisti mettono al muro te e tutta la brigata. E durante una delle sue missioni, per la prima volta, ha paura. «Viaggiavo in tram con un’amica, due ragazze che chiacchierano si fanno notare meno di una sola. All’improvviso sale un gruppo di soldati. “Perquisizione!” gridano, e cominciano a strappare le borse di mano, a far svuotare le tasche. Io faccio appena in tempo a sfilare il biglietto che dovevo consegnare, una richiesta dei medici del CLN, e lo tengo in mano, sollevato come fosse un

    Sasha era ferito, lo operammo nel bosco. Per sedare il dolore gli facevo bere il Vov

    — Sandra Gilardelli

    fiore. In bella vista, immobile. Finché quelli mi restituiscono la borsa: “Può andare”. Non lo so che cosa m’è passato per la testa, ma ha funzionato». Un giorno del 1944, la ragazza si affaccia alla finestra di casa e sobbalza: appoggiato al cancello, c’è un nazista che fuma una sigaretta. «Stavo per dare l’allarme quando vedo due partigiani mettersi a parlare con lui. Non capivo…».

    L’uomo travestito da SS è “Mosca”, alias Michele Fiore, la primula rossa dei combattenti. La divisa nemica, la usa per infiltrarsi. «Ne avevo tanto sentito parlare, ma non l’avevo visto mai». Giorni dopo, mentre Sandra sta andando a comprare il pane giù in paese, Mosca la blocca: «Dove vai? Di te non mi fido, e se poi avverti i fascisti che sono qui?». Lei lo guarda, stupita. «E però sorrideva, aveva gli occhi buoni... È stato in quel momento che mi sono innamorata di lui». Si sposeranno subito dopo la guerra, avranno una figlia, Michela. «Siamo stati insieme 65 anni, una vita intera», dice Sandra. E intanto, si commuove.

    Se le parli di coraggio, fa spallucce: «Incoscienza, forse». E poi, ci tiene a dirlo, «a combattere i fascisti eravamo in tanti». Le donne, non solo le partigiane, hanno fatto più di quanto si sappia, più di quanto venga loro riconosciuto. In silenzio. «Le contadine che nascondevano i combattenti nel fienile, mia madre e mia zia che sventravano i materassi di lana per fare i calzettoni per i ragazzi, su in montagna. Di loro non si parla mai».

    La libertà, spiega Sandra, è per questa che combattevamo. È per questa che lei ancora racconta. «Perché per essere fascista non c’è mica bisogno di fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso non ha diritti, che chi è di un altro colore deve tornarsene a casa sua. Sei fascista lo stesso».



    Infatti  

    il fantasma del fascismo che continua a premere, anche nel 2024. Solo affrontando il passato possiamo capire perché il governo di Giorgia Meloni ha risvegliato gli istinti peggiori del nostro Paese. Nella settimana del 25 aprile, una puntata speciale di Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?




     ispirata da "Il ritorno della Bestia. Come questo governo ha risvegliato il peggio dell'Italia" (Rizzoli), di Paolo Berizzi.
     





    io aggiungo   due  anzi  tre    molto  obbiettivi     che    denunciano  le  stesse cose  di Pansa   ma  verificandole  e senza  scadere  nè  nel negazionismo    nè nell'esaltarla   . 












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