(ANSA) - NAPOLI, 09 GEN - Di Carmine Giuliano, ex boss di Forcella, si ricorda soprattutto l'amicizia con Maradona: memorabile la foto col pibe de oro nella vasca da bagno a forma di conchiglia. Ora la figlia, Nunzia, del tutto estranea a contesti criminali, lancia sui social un profumo in omaggio del padre e che porta il suo soprannome: 'O Liò, con il muso stilizzato di un leone sulla boccetta. In uno dei suoi tanti messaggi su TikTok, dove è seguita da circa 14mila persone, Nunzia spiega che acquistando il profumo "state dimostrando tanto rispetto e stima nei confronti di mio padre, perchè voi avete ricevuto rispetto da lui. Leggo bei messaggi, belle parole, frutto di quello che mio padre ha seminato. È scontato che io parli di un grande uomo, un grande papà, sono la figlia. Ma voi? Voi siete il popolo, la bocca della verità e leggere questi commenti per me è un onore". In effetti, c'è chi parla di Giuliano (morto per una malattia nel 2004) come di "un pezzo di storia napoletana" e ricorda "i reportage con Maradona", dove appare "elegante e gentile, un uomo d'altri tempi". Chi lo descrive "pieno di fascino". A chi commenta che "al di là di tutto era in primis suo padre, ci sarà sempre chi le dirà cose brutte, ma per lei era solo ed esclusivamente il suo papà", Nunzia risponde: "Bravissima, lui per me è stato un papà unico ed esemplare". E pubblica una foto di lei bambina col genitore con la scritta: "Quello era il mio posto sicuro, tra le tue braccia".O lione era uno degli undici figli di Pio Vittorio Giuliano, il patriarca. Assieme ai fratelli Guglielmo, Salvatore e Raffaele, ha affiancato per anni il primogenito Luigi, 'o rre, cioe' il re di Forcella, alla guida del clan. Acerrimi avversari di Raffaele Cutolo, i Giuliano diedero vita con altri gruppi criminali alla Nuova famiglia. Padroni per decenni di Forcella, divennero ricchissimi grazie al contrabbando, alle estorsioni, alla vendita di prodotti contraffatti e allo spaccio di droga. Poi, alla fine degli anni Novanta, arrivò il declino, con gli arresti che ne decimarono le fila.Intanto ora 'O Liò è sold out, "continuamente in produzione", come dice la stessa creatrice del profumo.
L’uomo ha discusso la tesi ieri a Catanzaro, nel penitenziario dove sta scontando trent’anni di reclusione per l’assassinio del consigliere comunale del Pd di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino Killer si laurea con lode in cella: Catello Romano nella tesi confessa tre omicidi
di Dario del Porto
Si laurea in carcere con il massimo dei voti e, nella tesi, ammette di aver commesso tre omicidi per i quali non era mai stato processato. «Mi chiamo Catello Romano. Ho 33 anni e sono in carcere da 14 anni ininterrotti. Ho commesso crimini orrendi e sono stato condannato per diversi omicidi di camorra. Quella che segue è la mia storia criminale». Si legge come un romanzo, ma racconta episodi drammatici realmente accaduti e una clamorosa confessione, la tesi di laurea in “Sociologia della sopravvivenza”, dal titolo “Fascinazione criminale”, che Romano ha discusso ieri a Catanzaro, nel penitenziario dove sta scontando trent’anni di reclusione per l’assassinio del consigliere comunale del Pd di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino. L’esponente politico fu ucciso il 3 febbraio del 2009 mentre era in auto con il figlio. All’epoca dei fatti Romano era un fedelissimo di Renato Cavaliere, esponente di spicco del clan camorristico D’Alessandro oggi collaboratore di giustizia. Alla fine della seduta, la commissione di laurea ha premiato il 33enne con 110 e lode e la pubblicazione della tesi. «È stato molto apprezzato il lavoro di tipo “autoetnografico” svolto dal candidato», spiega il relatore, il professor Charlie Barnao dell’università di Catanzaro. Si tratta, come scrive Romano nella sua tesi, «di una sorta di intervista con sé stessi» in cui si cerca di comprendere il passato «attraverso un processo di immedesimazione». Poi aggiunge: «Ho creduto di mettere in atto, attraverso questo lavoro, almeno in una certa misura, un’opera di verità e riparazione, non oso dire giustizia, nei confronti di chi è stato direttamente colpito dal mio agito deviante», rivelando «fatti e circostanze che, ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, non hanno mai avuto un seguito giudiziario e, dunque, di appuramento di mie responsabilità penali dinanzi a un regolare tribunale». Romano, che dopo l’omicidio Tommasino iniziò una brevissima collaborazione con la giustizia subito interrotta da una spettacolare fuga e mai più ripresa confessa nelle pagine della tesi di aver preso parte ad altri due agguati di camorra: il duplice omicidio di Carmine D’Antuono e Federico Donnarumma, uccisi il 28 ottobre del 2008: «L’evento più violento, traumatico, irrimediabile della mia vita», scrive. Romano rivela di aver addirittura coinvolto in appostamento una delle sorelle, ignara di tutto («le rifilai la balla che volevo far ingelosire la mia ragazza») e che Donnarumma non doveva essere ucciso: «Non so perché, non l’ho capito e non me ne capacito ancora, ma sparai anche a lui». L’altro delitto che Romano ammette di aver commesso è quello di Nunzio Mascolo, ammazzato il 5 dicembre 2008. Quanto all’omicidio Tommasino, il 33enne riconosce che sulla vicenda «ancora non si sono diradate le nebbie». Poi sostiene di aver fatto cenno ai sicari, mentre seguivano in scooter l’auto del consigliere comunale, di non sparare perché a bordo della vettura c’era anche “na criatura”, in realtà il figlio adolescente della vittima. «Malauguratamente quei due capirono l’esatto contrario». L’ipotesi alla base della tesi è che «il crimine esercita una profonda fascinazione» nei confronti dei giovani, arrivando a «sostituire la famiglia d’origine». Romano, che da bambino voleva fare il poliziotto e ricorda il trauma della separazione dei genitori, afferma di essere stato affascinato dal personaggio di un film, “Il camorrista”: «Nel mio caso, lo spazio interiore è stato occupato prima da “’o prufessore ‘e vesuviano, cioè Raffaele Cutolo, poi da Renato Cavaliere, il mio “compare di malavita”». Oggi Romano dice di voler ripartire «da quel Catello che ero prima di tutto quello che ho raccontato». Per il professor Barnao, «il senso profondo di questo percorso sta già nel fatto di essere arrivato a raccontare, nel dettaglio circostanze che avranno delle conseguenze, pur di riuscire a mettere ordine, una volta e per sempre, nella propria vita
Ora sarà anche vero quello che dice #NandodallaChiesa .Ma quello che mi chiedo come mai adesso ? quando sono quasi diue annoi che la serie è finta ? Evidentemente non sà come riempire la sua rubrica oppure per partorire un ovvietà visto chew sono anni che si dicono talòi cose sula serie tv deve averle viste tutte le stagioni . Ora se uno\a che ha visto o vuole rivedere \ o vedere per la prima volta la serie ha un buon spirito critico e vede una opera in maiera attiva e non passiva saprà distinguere fra apologia ed esaltazione . Inoltre mi sembra strano che un esperto di criminalità e di mafia\e non sappia che prima il film e poi la serie #Gomorra raccontano la storia ed l'evoluzione della #camorra dal traffico di sigarette ed non solo di contrabbando fino agli anni 70\80 e poi della droga con annesse le faide degli anni 80 \ 2000 . Ma soprattutto fa vedere come lo STATO sia stato assente se non complice \ colluso , ed evidentemente a lui uomo delle istituzioni non deve far piacere che lo si racconti . E poi nelle ultime due stagioni lo stato anche se in miera blanda un po' , anche se con il lumicino si vede la presenza d'esso . Lele sue osservazioni , sarebbero simili , se non fosse che ha seguito #Saviano fin dall'inizio , come quelle che fecero alla #serietv cult degli anni 80\90 #lapiovra . Inoltre è vero che le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli ma : dovrebbe scrivere qualcosa anche sui fatti di via Fracchia a Genova e sopratutto di come il padre teneva nella cassaforte il verbale originale del risultato del referendum repubblica e monarchia e dcome si sia procurato e poi non lo abbia consegnato alla magistratura il dattiloscritto integrale dell'interrogatorio di moro da parte dei brigatisti . Poi rubato o fatto sparire dalla sua cassaforte durante il funerale del padre . Ma soprattutto spiegare o domandarsi come mai quando fu trasferito in Sicilia girava senza scorta o senza protezione in particolare il giorno in cui fu ucciso
Vittorio Maglione aveva 13 anni quando si impiccò nella sua cameretta, a Napoli, il 10 aprile 2009. Lo scrisse su messanger, dicendo addio a tutti, fuorché al padre, un camorrista. A lui disse solo questo: “Io non voglio diventare come te. Me ne vado, non ti scoccio più”. Vittorio aveva perso il fratello maggiore pochi anni prima, ucciso perché aveva rubato il motorino alla persona sbagliata. E da anni “scocciava” il padre e la famiglia, perché nonostante avesse 13 anni tutto voleva fuorché una vita da delinquente, a cui pure a causa del contesto dove viveva sembrava destinato. Si tolse la vita in questo giorno. Un ragazzo che studiava alla scuola dedicata a Giancarlo Siani e che voleva un futuro lontano dalla malavita. Ricordando questo giorno, è difficile esprimere un concetto che non sia francamente solo il dolore per una morte così. Eppure un pensiero va fatto: quanti Vittorio esistono? Quanti ragazzi vengono condannati ad un futuro a cui non possono sottrarsi? Le mafie sono un cancro e si autoalimentano. Combatterle passa dall’agire preventivamente sulle loro fonti, le famiglie. Perché di Vittorio ce ne sono tanti, ed è compito dello Stato offrire loro una fuga da quel mondo che non sia togliersi la vita.
e da repubblica del 11 aprile 2009
Suo padre è un esponente dei Casalesi, suo fratello fu ucciso giovanissimo Dopo una lite col padre, lascia un messaggio in chat e si toglie la vita
Napoletano, 13 anni, figlio di boss annuncia suicidio sul web e s'impicca
di STELLA CERVASIO
NAPOLI - "Adesso sei contento? Non ti rompo più ". Figlio di boss dei Casalesi, a tredici anni ha lasciato una riga di rabbia contro il padre nel grande mare di parole di Messenger. L'addio affidato alla chat alla quale gli adolescenti consegnano i loro pensieri protetti da un nickname, un nome di fantasia. Ha legato una corda a una trave del soffitto della casa dove viveva con i genitori e un fratello gemello, a Villaricca, periferia di Napoli e si è lasciato cadere da un tavolo. Non voleva andarsene senza dirlo a nessuno, ha lasciato anche un biglietto, trovato sul tavolo: "Addio a tutti quelli che mi hanno voluto bene". A luglio avrebbe compiuto tredici anni. Uno meno di suo fratello, rapinatore ammazzato dagli "scissionisti" di Secondigliano nel 2005 a Mugnano. Vittorio Maglione andava a scuola, faceva la seconda media, e a differenza del fratello Sebastiano, a quattordici anni già sulla strada del crimine, non aveva esordito nel mondo di Gomorra. Una famiglia difficile, la violenza di una periferia congestionata e abbandonata: il padre, Francesco Maglione, nel giro era entrato molto presto. Finito in galera per il primo omicidio a scopo di rapina nel '78, a diciott'anni, era stato nella Nco di Raffaele Cutolo, e alla fine degli anni ottanta era entrato in forze ai Casalesi, passando prima con il boss Tambaro e infine con il feroce Francesco Bidognetti, "Cicciotto 'e mezanotte". A trovare il ragazzo quando non c'era più niente da fare è stata la madre, che era uscita per fare la spesa. Il primo giorno di vacanze per Pasqua a scuola. Il tredicenne si era alzato tardi e si era messo al computer per la quotidiana razione di "chiacchiere" elettroniche tra coetanei. I carabinieri della compagnia di Giugliano hanno trovato il pc acceso con una schermata di commenti negativi a quel proposito annunciato con enfasi: "Me ne vado, non ti scoccio più ", rivolto al padre. Gli amici, identificati con nickname dai quali gli investigatori cercheranno di risalire alla vera identità dei ragazzi, hanno cercato di dissuadere Vittorio. Molti i messaggi increduli. "Veramente ti vuoi ammazzare?". Niente aveva girato pi� in quella casa, dopo la morte violenta di "Bastiano", quattordici anni e la vita a rischio per amicizie sbagliate. In piena faida di Secondigliano, gli "scissionisti", i dissidenti del clan Di Lauro che hanno insanguinato un vasto territorio con un crescendo di sfide, il 9 marzo del 2005 spararono un colpo alla testa a distanza ravvicinata al figlio maggiore di Maglione. Aveva rapinato la persona sbagliata e doveva essere punito: ma il raid degenerò come accadeva spesso in quel periodo, nella cruenta lotta tra bande. Un inseguimento in una strada deserta e poi l'esecuzione. Dopo pochi giorni squadra mobile e carabinieri arrestarono cinque ragazzi, tre dei quali minorenni. Sebastiano Maglione, in sella a un ciclomotore Honda Sh con un complice, aveva tentato il colpo su uno dei suoi coetanei che era fuggito andando a chiamare i rinforzi. La vendetta del branco non si era fatta attendere.
Mi sa che Pino Arlacchi dovrà riscrivere o aggiornare il suo libro ( copertina a destra tratta dal suo sito in cui trovate il libro in pdf ) . Infatti questa intervista a la nuova sardegna di Roberto Saviano in tour in sardegna in questi giorni pere presentare il suo ultimo libro e l'arresto di Graziano Mesina ex bandito per estorsione e droga testimoniano il contrario
L’autore di “Gomorra” analizza il ruolo di Graziano Mesina nel traffico della coca. «Lui era solo uno dei terminali, l’isola è per le cosche una piattaforma girevole»
SASSARI. La droga muove il mondo. La cocaina, in particolare, muove il mondo. Il traffico di stupefacenti è il cuore di un’economia criminale che ha infiniti collegamenti con quella legale. Niente sfugge al meccanismo infernale. Nessuna parte del mondo globalizzato ne è esclusa. Quindi neppure la Sardegna. Roberto Saviano, che queste cose le dice e le scrive,capita nell’isola mentre centinaia di carabinieri sono impiegati per arrestare Graziano Mesina, accusato di essere il capo di una banda dedita soprattutto allo smercio della droga. Inevitabile sentire l’autore di “ZeroZeroZero” (Feltrinelli)per un giudizio su ciò che sta accadendo.
Graziano Mesina è stato un simbolo del vecchio banditismo sardo, legato in qualche modo ai valori della tradizionale società agropastorale sarda. Ora viene arrestato come capo di un'organizzazione che gestisce, secondo l'accusa, il traffico della droga nell’isola. Anche la Sardegna omologata all'orizzonte globale dell’economia criminale?
«La Sardegna è da sempre nello scacchiere delle mafie nazionali e internazionali. Da sempre è attraversata dal narcotraffico. Solo che oggi c’è un’operazione che fa notizia perché è coinvolto il furbissimo Grazianeddu, che sino a pochi giorni fa, ospite di un festival di storia, schermava le attività criminali di questi anni dietro la sua vicenda di bandito, insinuando la pittoresca interpretazione che, finita la miseria, in Sardegna non c’è più bisogno di fare sequestri. In questo modo mirava a giustificare il suo essere bandito come una scelta inevitabile negli anni di miseria. Detto questo, la Sardegna, essendo un’isola, è piena di porti e il trasporto marittimo è quello da sempre preferito dalle mafie, perché permette di spostare enormi quantità di droga – tonnellate e tonnellate – con un unico viaggio. Negli ultimi dieci anni la maggior parte (il 60%) della cocaina è stata intercettata in mare o nei porti».
La Sardegna come punto di passaggio dei traffici legati alla droga?
«Più che essere un punto di passaggio la Sardegna è una “piattaforma girevole” per la coca che va dal Sud America all’Europa; cosa che accade soprattutto d’estate, quando ci sono più imbarcazioni private che utilizzano i litorali sardi come punti d’appoggio. Ma la Sardegna è anche un punto di arrivo. Qui la coca si ferma e viene consumata. Ogni anno nell’isola arrivano tra i cinque e i seicento chili di cocaina e, secondo gli inquirenti, ci sarebbero (stima fatta per difetto) oltre diecimila consumatori. D’estate, con i turisti, i consumatori raddoppiano, per un giro d’affari di oltre duecento milioni di euro l’anno. I corrieri sbarcano a Cagliari, Sassari, Olbia, Alghero, moltissimi nell’arcipelago della Maddalena. La Costa Smeralda diventa un supermarket della coca. Quello che i sardi ancora non sanno è che stanno per diventare, se non lo sono già, una sorta di garage di stoccaggio della coca, perché la conformazione geografica della vostra regione permette di nascondere grandissime partite di droga: gli stazzi della Gallura e gli ovili della Barbagia sono zone di stoccaggio. Con i metodi usati un tempo per presidiare i sequestrati, si presidia la coca. Soltanto qualche giorno fa, per fare un esempio vicinissimo nel tempo, a Golfo Aranci, sulla banchina, all’arrivo del traghetto della Sardinia Ferries proveniente da Livorno, in una Volkswagen, nascosti sotto i sedili, sono stati scoperti cinque panetti di cocaina. Al volante c’era un cagliaritano che da anni vive a Civitavecchia: l’uomo è subito sembrato nervoso, ecco perché l’auto è stata sottoposta al controllo dei cani antidroga. Cinque panetti, quindi cinque chili, che una volta tagliati sarebbero diventati quindici, per un valore di oltre un milione di euro. La coca era destinata alla costa Smeralda: era il primo arrivo per questa estate».
Quanto incide il silenzio, anche in Sardegna, sulla crescita delle realtà criminali come quella che sembra emergere dalle indagini su Mesina e la sua banda? Non le sembra che sulla Sardegna ci sia come un cono d'ombra che tiene l'isola fuori dalla grande informazione nazionale?
«Il silenzio incide moltissimo nel rendere meno efficace l’opera di contrasto delle organizzazioni criminali. A dimostrazione del fatto che in Sardegna la coca è di casa, lo scorso ottobre a Olbia, in una casa di campagna in località Lu Mungoni, è stato scoperto un piccolo stabilimento che veniva usato per ricristallizzare la cocaina, cioè per portarla dallo stato liquido allo stato solido attraverso sostanze chimiche. C’era un gruppo di narcotrafficanti, attivi tra il Sud America, la Liguria e la Sardegna, che impregnava di cocaina liquida le tele dei quadri per il trasporto dal Sud America all’Italia, in modo da poter passare senza problemi i controlli doganali. Poi a Olbia la coca tornava allo stato solido nel laboratorio di Lu Mungoni e alla fine era spacciata principalmente nel mercato dell'isola. Il silenzio sulle vicende sarde ha avuto come effetto, in questi anni, l’assenza di un contrasto vero delle potenti organizzazioni criminali. Nel caso di Mesina, va sottolineato che le due organizzazioni che sono state scoperte e sgominate con l’operazione di questi giorni non sono le più pericolose. Mesina si è inserito nel traffico di stupefacenti sfruttando, per attivare legami con la ’ndrangheta, il suo carisma. Mesina non si è mai pentito, è riuscito – uso una parola del modo criminale – a “fottere” perché ha fatto il gioco del dissociato: non si è pentito, moralmente si è dissociato, è tornato alla vita “civile”, a fare affari senza dover denunciare nessuno. Ma continuava a essere un riferimento e quindi ha iniziato a ricevere coca da distribuire alle strutture territoriali per lo spaccio. Grazianeddu è diventato il mediatore. Il cono d’ombra cui lei fa riferimento esiste: ci vorrebbe una presa di coscienza e di responsabilità, che però non arriva».
tale intervista rilasciata da saviano viene confermata anche da :
1) da questo articolo del 11\6\2013 sempre dellla nuova
L’Anonima della cocaina Il traffico di stupefacenti collante tra malavita sarda, ’ndrangheta e mafie emergenti l’arresto di grazianeddu
di Pier Giorgio Pinna wSASSARI Forse non c’era bisogno di una conferma tanto eclatante. «Si sa da tempo che i canali della droga portano dalla Sardegna a Milano, con saldature tra personaggi della vecchia mala sarda e boss mafiosi emergenti», commenta un investigatore. Ma certo l’arresto di Mesina e del suo esercito di presunti complici fa riflettere a fondo. Intanto, perché costringe gli inquirenti a rispolverare i faldoni sulle ultime inchieste da cui sono scaturiti collegamenti con la ’ndrangheta. Poi, perché getta luce non tanto sul ruolo dei corrieri – da sempre semplici pedine in una scacchiera molto più ampia - ma soprattutto sugli affari illeciti, da centinaia di milioni all’anno, che legano calabresi, albanesi, barbaricini, capi delle aree cagliaritane a maggior tasso di criminalità. Infine, perché, indirettamente, quest’ultimo blitz dei carabinieri svela aspetti inediti nel sotterraneo spaccio di coca, eroina, ecstasy, anfetamine. Terreno di coltura. La Sardegna è un mercato appetibile per
oltre la mafia della speculazione edilizia Olbia2 (carboni , calvi , banda magliana ) e lo scandalo di Is arenas, ci sarebbero anche altre mafie che stanno penetrando sempre più nell'Isola . Esse sono le ecomafie ( denunciata , in fatti è stato sentito alla commissione antimafia , in un romanzo dallo scrittore massimo carlotto ) ., quelle sulle energie pulite confermato per quella dell'eloico dall'indagine e processi sulla P3 e P4, sia quella del solare da 1) questo dossier sul rischio delle infiltrazioni delle mafie nell'energie rinnovabili ), 2) dalle proteste , come stava avvenendo nonostante le risate poi zittite dalle inchieste per l'eolico , di pastori e contadini ma anche cittadini comun per la vendita ( in alcuni casio anche sospetta e viziata ) di grandi estensioni di terreni fertili che potrebbero essere usati per l'agricoltura e la pastorizia . E poi ci sarebbe il pizzo ed il racket che sembrerebbe trovare conferma sia dall'aumento ( si era interessato anche la Dia nazionale ) dei reati d'usura , estorsione , turbativa d'aste giudiziarie , sia da numerosi attentati ad auto e a locali ad Olbia in particolare e voci sempre più insistenti ma non confermate giudiziariamente di estorsioni \ racket nel settore dei vigilantes verso gli Alberghi della costa Smeralda . Ed l'assalto delle mafie all'oro rosso come riporta questo articolo
INCHIESTA. Camorra e criminalità sarda pescano illegalmente il prezioso animale in Algeria e Tunisia. Un business da centinaia di milioni di euro l’anno, su cui indaga la procura di Cagliari.
La criminalità organizzata all’assalto del corallo sulle coste di Tunisia e Algeria. Un traffico illegale che vale centinaia di milioni di euro l’anno, su cui ora indagano sia la Procura di Cagliari che le autorità locali nordafricane. I pubblici ministeri sardi ipotizzano che una quota importante del corallo rosso lavorato e trasformato in gioielli e oggetti d’arte nei laboratori della Sardegna e della Campania, poi venduti a peso d’oro ai turisti, provenga in realtà da partite che arrivano illegalmente in Italia dalle coste nordafricane. Già nei decenni scorsi, imbarcazioni campane avevano depredato i fondali della Tunisia. Ora si sono trasferiti in Algeria. Dove i trafficanti operano principalmente nella zona di El Kala e Annaba, da dove partono anche i migranti. Queste due località, sono di fronte alle coste della Sardegna meridionale. A circa 160 chilometri di mare da Cagliari. La decisione delle autorità algerine di vietarne la pesca, non ha fermato i trafficanti.
Tanto che la procura dell’isola ha scoperto almeno due rotte. La prima è gestita da sardi che avrebbero stabilito la propria base logistica nell’isoletta algerina di La Galitte, nei pressi di un’area molto ricca di corallo. Piccole imbarcazioni, lo pescano con un metodo artigianale devastante per l’ecosistema, utilizzato anche in Italia fino alle fine degli anni Sessanta: la “croce di Sant’Andrea”. Si tratta di due tavole di legno incrociate appese a un cavo lungo 200 metri che strappano il corallo, arando i fondali. Consente di raccogliere meno del 30 per cento dei rametti spezzati, visto che gli altri restano sul fondale e muoiono. In Algeria vale 2.000 euro al chilo, ma una volta caricato sui motoscafi e sbarcato a Cagliari già schizza a 60mila euro. Per poi moltiplicarsi per dieci nei laboratori della Gallura e nei negozi di Alghero, nel nord dell’isola. Un ottimo affare per la criminalità organizzata sarda. Fiutato anche dalla camorra.
Tanto che la seconda rotta, quella per Torre del Greco (Na), è gestita dai clan campani, il cui referente sarebbe un certo Antonio che le autorità algerine cercano di arrestare in tutti i modi. Gli italiani catturati negli ultimi anni sono una dozzina, altrettanti i sequestri. Tra cui una partita di corallo grezzo di una trentina di tonnellate, del valore iniziale di almeno 18 milioni di euro. Anche il Dipartimento algerino per la pesca di Annaba, parla ormai apertamente di «mafia del corallo con basi in Italia» che conduce in Sardegna e a Torre del Greco. Alcuni arrestati avrebbero già iniziato a collaborare con le autorità locali, raccondando che tra i compratori ci sono anche francesi e spagnoli. Del resto nei decenni scorsi, soltanto nel Mediterraneo, si pescavano almeno 60 tonnellate di corallo l’anno. Ora sono meno della metà. Perché il Corallium, che cresce in media di 3-4 centimetri ogni 15 anni, è quasi del tutto scomparso delle coste italiane, francesi e spagnole, causa sovra sfruttamento.
«Prima questo animale si trovava anche sulle nostre spiagge a 2-3 metri di profondità, ora dagli 80 metri in giù e quasi solo in Sardegna», denuncia il biologo marino Luca Marini. Che poi conferma: «Abbiamo avuto notizie di grandi partite di corallo stoccate e rivendute dalla criminalità organizzata». Molti governi, come quello algerino, ne hanno vietata la pesca. Altri, come l’Italia, limitata a determinati periodi e solo per i corallari subacquei che devono operare con una licenza rinnovata annualmentedalla Regione di pertinenza. Inoltre non possono spingersi oltre i 100 metri di profondità e possono restarci per qualche decina di minuti. «Il corallo lavorato a Torre del Greco proviene da tutto il Mediterraneo e il mare algerino è il più ricco in assoluto, tuttavia sono le condizioni socioeconomiche locali a favorire la pesca illegale e le infiltrazioni della criminalità a monte», conferma Ciro Condito, presidente di Assocoral, l’associazione di categoria che riunisce le 300 aziende campane del settore.
«La soluzione va trovata in loco». Del tutto assenti anche le certificazioni sulla filiera. «È impossibile ricostruire la provenienza del corallo - ammette Condito - perché se un laboratorio lo acquista dalla Sardegna la fattura proverrà da quell’isola. Al mercato interessa solo che sia rosso e del Mediterraneo». Già in un’indagine condotta dall’Antimafia di Napoli nel 2004 era emerso che il clan Falanga di Torre del Greco sarebbe riuscito a monopolizzare l’approvvigionamento del corallo in città. E non contento, al pari delle altre attività commerciali e imprenditoriali dell’area, chiedeva ai laboratori anche il pizzo. Emblematica la vicenda del polo del corallo di Marcianise (Ce) del consorzio Oromare (150 aziende). Nel 2005 il clan Belforte pretende una tangente di 10 milioni di euro malmendando il costruttore Fabrizio Giustino e minacciando il presidente del consorzio, Gino Di Luca.
dalla nuova sardegna online del 19 ne del 20 marzo
Camorra, sequestrato il palazzo che ospita l'Inps di Oristano
La Guardia di finanza di Oristano ha posto sotto sequestro l’intero palazzo dove hanno sede gli uffici della sede provinciale dell’Inps. Il sequestro è stato eseguito nell'ambito dell’inchiesta sul gruppo campano Ragosta
La sede dell'Inps di Oristano
ORISTANO. La Guardia di finanza di Oristano ha posto sotto sequestro l’intero palazzo dove hanno sede gli uffici della sede provinciale dell’Inps, nel quartiere San Nicola, alla periferia del capoluogo. Il sequestro segue un provvedimento esecutivo inserito nell’inchiesta sul gruppo campano Ragosta, impegnato tra l’altro nel settore immobiliare.
L’inchiesta, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, questa mattina ha portato all’esecuzione da parte delle Fiamme gialle di 60 misure cautelari: 22 in carcere, 25 con i benefici dei domiciliari e 13 divieti di dimora. Tra i destinatari delle misure cautelari ci sono anche sedici giudici tributari, otto funzionari impiegati nelle Commissioni tributarie provinciale e tegionale di Napoli, un membro del Garante del contribuente della Campania e un funzionario dell’Agenzia delle entrate di Napoli.
Complessivamente in tutta Italia sono stati sequestrati beni per un valore di un miliardo di euro. Il palazzo che ospita la sede dell’Inps di Oristano in passato era stato oggetto di un contenzioso che aveva avuto per protagonista proprio il Gruppo Ragosta.
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ORISTANO. Da piccola impresa familiare in 15 anni diventa una holding. Ma per fare tanta e rapida strada il gruppo Ragosta ha avuto il supporto dei soldi del clan camorristico Fabbrocino. Un'ombra che ha sempre accompagnato la controversa vicenda dei palazzi finanziari di Oristano che ospitano l'Inps. Da ieri le torri sono sotto sequestro. A sostenere il doppio filo dei Ragosta con la camorra (si veda l'articolo sotto) sono i pubblici ministeri di Napoli. Tra i 60 indagati ci sono i fratelli Fedele, Giovanni e Francesco Ragosta, originari di San Giuseppe Vesuviano. Il sequestro del palazzo nel rione San Nicola a Oristano è stato eseguito dalle stesse fiamme gialle di Napoli. I colleghi di Oristano hanno solo dovuto registrare la notifica di un fax. Del resto per loro sarebbe stato imbarazzante procedere, essendo la stessa guardia di finanza ospite in un'ala della struttura, benchè non interessata alla vicenda, che invece chiama in causa direttamente l'Inps, in quanto inquilino dei palazzi. Il sospetto dei magistrati è che
da ilfattoquotidiano da cui èmtratta la foto estrapolata dal video e il video sotto riportato , leggo tale news
Non è servito il pugno duro del sindaco Luigi Bobbio, e neppure
l'impegno di Curia e forze armate per controlli più severi sui membri
del comitato organizzatore della festa e sul percorso che la processione
avrebbe dovuto seguire. Anche quest'anno la statua di San Catello,
patrono di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, è passata
sotto la casa del boss ai domiciliari Renato Raffone, detto
'Battifredo', e lì si è fermata in omaggio al ras della zona. Di più:
Raffone sembra quasi guidare la processione, ordinando alla 'paranza'
dal balcone di casa quando fermarsi e quando riprendere la processione.
Una scena che non è piaciuta a Bobbio che, come lo scorso anno, ha
deciso di togliersi la fascia tricolore, abbassare il gonfalone del
Comune e allontanarsi. Beccandosi pure gli improperi di alcuni fedeli
che non hanno visto di buon occhio il suo gesto.
Di Andrea Postiglione
(si ringrazia Gennaro Manzo)
e dal suo blog http://luigibobbio.blogspot.com/ ( chi se ne frega se è della pdl la legaliotà non ha colore politico ed ideologico )
Si è svolta, ieri
mattina, alle ore 10:30, presso l’Episcopio di Castellammare di Stabia,
l’incontro tra S.E. Mons. Felice Cece e il Sindaco di Castellammare, on.
Luigi Bobbio, con la partecipazione del dott. Ferdinando Rossi,
dirigente del locale commissario Ps., fautore dell’incontro stesso.
La
riunione ha avuto carattere di grande chiarezza e cordialità e, nel
corso della stessa, sono state reciprocamente illustrate le rispettive
posizioni alla fine risultate sostanzialmente coincidenti, diversamente
da quanto un quotidiano cittadino aveva tentato di accreditare. Il
sindaco ha ribadito la necessità, dal suo punto di vista di massima
autorità cittadina e dal punto di vista del Prefetto, quale autorità di
Governo, di escludere in qualsivoglia momento della processione – dalla
fase organizzativa del trasporto della statua all’effettivo svolgimento
del rito – qualsiasi aspetto che possa essere letto quale, attenzione a
qualche associato alla camorra. Il vescovo ha condiviso quanto espresso
dal Sindaco ed ha auspicato che la festa del Santo Patrono, con la
collaborazione di tutti, diventi sempre più un momento di comunione e di
concordia nella comunità civile e religiosa e nei rapporti tra le
istituzioni.
Nel corso
dell’incontro, peraltro, sono stati toccati vari aspetti problematici
dal punto di vista lavorativo e sociale della città, primi tra tutti
quelli riguardanti la vertenza Fincantieri e Terme di Stabia
realizzandosi e riscontrandosi una piena identità di vedute tra gli
interlocutori
Prendo da http://destramente.myblog.it l'argomento dei post d'oggi . << Voglio raccontare una brutta vecchia storia di oramai quasi cent’anni orsono, voglio farlo non per spirito revanscista o polemico, o per razzismo, ma perche è un fatto che deve essere ricordato affinché sia di insegnamento e monito a tutti, che buoni e cattivi, giusti e sbagliati non sono fattori geografici, e neppure antropologici e non sempre politici, ma sono tante cose, tutte sepolte in ognuno di noi, e il confine tra ciò che è giusto o sbagliato, tra il buono e il cattivo attraversa tutte le categorie dell’umano. >> Ma soprattutto perchè l'unità d'italia è stato anche questo e nele celebrazioni del 150 anni siano celbrati in modo obbiettivo raccontando anche questi fatto , e non nascondendoli sotto il tappetto , parlando ed esaltando soolo quelli eroici e positivi .
Siamo ad Itri, in provincia di latina ma allora provincia di Caserta, è il 1911, anno di grandi progressi e di sviluppo tecnologico, simboleggiato forse dalla strada ferrata, la ferrovia, ed è in costruzione proprio la tratta Roma - Napoli, nei suoi cantieri lavorano centinaia si emigrati sardi, chiamati sia perche per sfuggire alla miseria si accontentavano di un salario inferiore, sia perche la scarsa dolcezza di clima e suolo li avevano forgiati al lavoro e alla fatica.
Ad Itri sono acquartierati circa 400 di essi, il rapporto con la popolazione locale é inizialmente buono, ma sono gli anni in cui la stampa nazionale, anche per giustificare il banditismo tratta molto poco gentilmente i sardi, cercando conferme nell’antropologia e nella genetica, distanti ancora i tempi in cui i sardi saranno definiti dai bollettini della prima guerra mondiale come la “razza bellicosa e guerriera” che ha salvato l’Italia, dopo aver innaffiato di sangue il carso e il grappa.
Razza, che brutta parola,
Torniamo ad Itri, si comincia a speculare, sugli alloggi, su ogni genere alimentare, in quanto necessario, e poi arriva la camorra, pretende che ogni operaio paghi il pizzo.. Ma ad essa si contrapponeva il netto rifiuto, per l’innata fierezza della cultura «De s’omine», dell’uomo, sia per la matura coscienza dei diritti loro spettanti, conquistata nelle prime lotte operaie nelle miniere del Sulcis, con ancora vivo il ricordo delle repressioni e della strage di Buggerru, nessuno paga, i camorristi reagiscono con le minacce ma davanti a loro hanno persone altrettanto pericolose, e cosi si fomenta abilmente la popolazione, adducendo il furto del lavoro, il carattere dei sardi, le retoriche dei giornali, e si prepara la trappola.
Il 12 luglio un carretto urta per strada un sardo, alle proteste di esso comincia la caccia, urla, insulti e spintoni e poi le armi, stranamente già pronte, ed in quantità, comincia una caccia all’uomo, all’animale sardo, con una ferocia ed una brutalità che si vedranno solo trenta anni dopo nei nazisti, lo stesso sindaco, e alcuni carabinieri furono visti sparare, molti caddero, morti o feriti, e i supersiti scapparono nelle campagne, tornarono l’indomani, per reclamare i caduti, e la caccia ricomincia, da ogni parte, urla lame spari, non arrivò nessun soccorso, il telegrafo fu chiuso…
Libera caccia.
Il terzo giorno furono recuperati otto morti ed una sessantina di feriti, e di essi molti moriranno dopo, molti invece non furono più ritrovati, fatti sparire, morti o moribondi per eliminare le prove.
Militi ignoti in patria, prototipi di lupara bianca.
Tacquero alcuni giornali, altri minimizzarono ed altri parlarono di aggressione sarda agli itriani, ad essere arrestati furono solo alcuni sardi, nessun itriano scontò nessuna pena, i sardi supersiti andarono via.
Ma la camorra non vide un centesimo
Perche lo racconto? Ripeto, perche deve essere ricordato, ma soprattutto perche penso che davanti alla storia in Italia siamo tutti colpevoli, ognuno porta i suoi scheletri, le sue menzogne e le sue vergogne, ciò che può essere riparato lo deve essere, ma dopo un secolo non ci sono più colpevoli, neanche ad itri, o nelle fabbriche del nord o nelle foibe, ma non si deve dimenticare, la memoria e storia, e la storia è il passato, ma soprattutto il futuro, essa insegna, fa da esempio, da stimolo, la storia è tante cose…
Ma soprattutto la storia non è un alibi .
>>
infatti esso è un episodio che appartiene alla "storia dimenticata" e che dimostra quanto siano antichi i mali che affliggono il nostro paese. Ed è anche se a distanza di un secolo sconcertante e incredibilmente attuale, (anche se adesso le vittime di turno non sono più i sardi ma quelli che noi chiamiamo clandestini ).
La canzone "Sas tres mamas" è la versione in lingua sarda di " Tre madri " di Fabrizio De Andrè ed è cantata da Elena Ledda
Ho trovato solo tre foto d'epoca; per raccontare la storia ho scelto i dipinti di Pavel Filonov.
Le foto della Grande Guerra sono del film "Uomini contro" di Francesco Rosi, soggetto tratto da "Un anno sull'altopiano" di Emilio Lussu, un grande scrittore sardo.
Concludo con questo commento lasciato al post sul blog dell'autore dell'articoo citato prima
<<
Globalizzazione e lavoro
Si è parlato molto, spesso a sproposito, negli ultimi anni di globalizzazione; e parecchi anche tra quanti praticano la politica, fuori o dentro dai quadri istituzionali, sono stati spesso mediocri, superciali e deleterei, questo per non dire falsi. Da destra, pur vedendo la globalizzazione quale invasione culturale, ci si è accodati in nome di un invisibile vantaggio economico; la sinistra in nome di quel garantismo che probabilmente non sa neppure cosa è, ha accettato la libera circolazione di merci e persone, senza limiti, senza porsi il problema della mutazione genetica del rapporto tra il lavoro ed i lavoratori, tra i datori di lavoro ed il costo stesso del lavoro, situazione che di fatto ha delegittimato i risultati delle lotte sociali conquistati negli anni vicini al 2000, distruggendo di fatto ogni conquista, pagata anche col sangue, ottenuta a partire dall'inizio del novecento. Nessuno dei nostrani politici si è reso conto ( uso questi termini per semplice fiducia concessa, ma non lo credo ) che da noi sosteniamo il welfare soprattutto grazie alle tasse sul lavoro; che in altri paesi del welfare non esiste neppure l' ombra. Nessuno dei nostrani politici si è reso conto che se permettiamo alle nostre industrie di fingere la chiusura, per poi riaprire le stesse attività in paesi del terzo mondo, producendo quindi ( sfruttando il più basso costo della manodopera ) a costi inferiori, permettendogli poi di reimportare quegli stessi prodotti sul nostro mercato privi di dazio d'entrata, pianifichiamo la perdita del lavoro futuro dei nostri operai e, l'annientamento di tutti quei diritti sociali tanto duramente conquistati dalla fine del '800 fino ai giorni nostri. Un serio aiuto al terzo mondo non ha come significato l'impiantare quintali di fabbriche sul loro territorio, atte poi in verità solo a sfruttarli, ma tramite uno studio logico, una seria programmazione, finanziare attività produttive atte a migliorare il loro tenore di vita e il loro PIL. Se quanto viene prodotto in un territorio non circola nel mercato interno ma viene dirottato sul mercato occidentale vi si legge un solo risultato: sfruttamento del popolo locale e regressione nostra nel campo dei diritti di Stato Sociale acquisiti. Vedo come deterrente l'applicazione di dazi di entrata a tutti quei prodotti che senza difficoltà potrebbero essere prodotti qui in occidente, questo a salvaguardia dei nostri lavoratori. Non dobbiamo permettere ai nostri industriali di trasferire la parte manuale per sfruttare la manodopera di quei paesi eludendo così ,di fatto, tutte le conquiste sindacali; una globalizzazione giusta e severa non può che prescindere da una regola certa e sicura: se in un mercato vuoi vendere in quel mercato devi produrre.Si potrebbe anche affermare:”se preferisci produrre fuori (per aggirare i costi dello "stato sociale" che le nostre leggi ti impongono) dovrai pagare delle tasse di entrata pari a quegli oneri sociali che hai tentato di eludere, ma ciò non tutelerebbe ne moralmente ne, tuttosommato, economicamente i nostri lavoratori dipendenti. La globalizzazione non può e non deve essere uno scambio di merci e persone senza un serio condizionamento, uno squallido sfruttamento di popoli e mercati così come chi, economicamente parlando, domina ha voluto, ma un incrocio economico-culturale che si richiama ai diritti umani.Con la globalizzazione attuale si vedono solo grossi guadagni per i soliti noti e discriminazione per le popolazioni. Da tempo ormai lì Europa ha “chiamato all' invasione” extra-comunitari provenienti dai paesi del terzo mondo in cerca di lavoro e di una vita migliore. Senza ombra di dubbio questa migrazione è comprensibile ed accettabile da parte di chi vede il mondo utilizzando il lato umano, ma sostanzialmente, però, bisogna impegnarsi affinchè i soliti ( e anche qualche cittadino, diciamo distratto ) non credano di poter vedere in loro dei moderni schiavi fatti giungere qui nell' intesa di poter abbassare il costo del lavoro, cosa che oggi alcune nuove leggi sul lavoro permettono di fatto, una meschinità studiata dai poteri forti ed avvallata, ignobilmente, da molti cittadini convinti che i diritti civili siano qualcosa di esclusivo. Questo genere di globalizzazione avvallata da contratti differenti tra loro ( in cui incappano anche i cittadini italiani e comunitari, non dimentichiamolo ) sfrutta le nuove leggi sul lavoro, perchè così si potrà dare loro una paga inferiore e si potranno versare meno contributi per lo "Stato Sociale". I nostri politicanti che negli anni hanno creato questo stato di cose hanno ignorato lo "Statuto dei Lavoratori" stipulato nel 1970 che parla di lavoratori e non fà distinzioni tra lavoratori nazionali ( tra loro ) e lavoratori extracomunitari. Continuando con distinzioni di questo tenore noi continueremo perpetuamente ad essere la causa e l'origine dell'embrione del razzismo, è ovvio ed inopinabile che ogni datore di lavoro, a condizioni tali, preferirà quel lavoratore che gli garantisce il più basso costo, con questo creando di fatto delle iniquità sociali. Oggi qualcuno distribuisce gratis frasi del tipo: " sono lavori che gli italiani non vogliono più fare".. , certi lavori, grazie a leggi ad hoc, gli italiani non possono più reggerli, sottopagati con un costo della vita ormai alle stelle, certi lavori retribuiti con paghe allo sfruttamento, non consentono di tirare avanti una famiglia ! Succede questo perchè ( e sono gentile a dirla così, in realtà penso di peggio ) delle classi politiche inette non hanno visto bene la situazione prestandosi così, di fatto, ad un gioco speculativo che ha donato all' Italia ed a parte dell' occidente un solo risultato: una guerra tra poveri, il nuovo razzismo da sopravvivenza, non da mentalità! Forse noi in qualche modo, con un pò di buona sorte riusciremo a districarci in questa situazione, ma il futuro dei nostri figli ormai è drammaticamente segnato!