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22.2.25

Heysel, il ricordo dello juventino Briaschi e l'abbraccio al tifoso sassarese Franco Tartaruga Fiori

A maggio  non ricordo     se  a metà  / fine  maggio di  quest'anno   ricorrono i  40  anni   del'Heysel  e  gia  la stampa ,  in  questo  caso  locale , inzia  a  ricordare  e    riportare storie  in merito  a   tale  vicenda   . Per    quanto  riguarda    i  ricordi  personali  ,  posso     dire     che   ancora  viva la memoria dell'evento ricordo ancora come se fosse oggi avevo 9 anni e la maerstra delle elementari ci chiese una riflessione su quello che era successo . Non riesco ricputroppo a ritrovare il mio vecchio scritto . Ma Ricordo , come tutti\e che La partita si giocò comunque per la decisione dell’Uefa per motivi di ordine pubblico. Il match iniziò con oltre un’ora di ritardo. Tra le immagini di quella sera, anche quelle dei giocatori della Juventus Cabrini, Tardelli e Brio che vanno a parlare con i tifosi. Il capitano Gaetano Scirea lesse loro un comunicato: "La partita verrà giocata per consentire alle forze dell'ordine di organizzare al termine l'evacuazione dello stadio. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi".
 Un rigore di Platini consegnò un’amara e dolorosa vittoria alla Juventus per 1-0. I giocatori festeggiarono con Platini che portò la coppa e con un giro di campo. "Non sapevamo cosa era davvero successo, avevamo avuto notizie di un morto, forse due, ma non potevamo immaginare una tragedia così grande", avrebbero detto poi i giocatori bianconeri.
 Dopo questi miei fumosi ricordi lascio , oltre ai consueti link d'approffondimento che trovate a fine post , la parola a due protagonisti dellepoca che hanno vissuto la vicenda su due lati diversi . Un tifoso il primo , un calciatore della Juventus ell'eoca il secondo . Le    loro testimonianze  sono  prese dalla  nuova  sardegna   del     20\2\2025   il  primo  a quella  del  22\2\2025 il  secondo  



 «A I2 anni fa prima bancarella a 27 sono scampato all’Heysel) Franco Fiori, per tutti Tartaruga, sogna un centro pieno di locali e turisti Gli 
articoli più richiesti nel suo piccolo bazar: sciarpa et-shirt della Torres 


 Ho iniziato a lavorare a 12 anni, facevo il garzone e le consegne in bicicletta in giro perla città, diciamo che sono stato uno dei primi rider di Sassari. Poi mio padre mi ha instradato al commercio e la mia prima bancarella è stata un lenzuolo steso per terra in viale Italia, con qualche articolo che mi dava lui, che per tanti anni ha avuto la postazione fissa all'Emiciclo Garibaldi con la quale manteneva tutta la famiglia». Nella passeggiata mattutina tra piazza Mazzotti, corso Vittorio Emanuele e corso Vico,
 Franco Fiori, commerciante sassarese di 67 anni -per tutti in città Tartaruga « immagina un centro di Sassari pieno di turisti e di locali e ripercorre le tappe della sua vita, con tanti ricordi legati a vittorie entusiasmanti della Torres e della Dinamo, ma anche un momento drammatico, quando il 29 maggio del 1985 si ritrovò all’interno del settore Z.dello stadio Heysel di Bruxelles in occasione della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool,durante la quale morirono 39.persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600. «Sono passati quasi quarant'anni -— racconta Franco Fiori - ma ancora mi vengono i brividi se ripenso a quei momenti in cui ci ritrovammo in campo accan- to ai calciatori e sugli spalti molti di noi vennero schiacciati e non riuscirono a salvarsi». Prina di tirare su la serranda del suo bazar colorato, davanti all'ex hotel Turritania il commerciante - una vera icona per gli appassionati di sport in città- spiega il motivo di questo soprannome curioso e ammette che il grande murale con la tartaruga, apparso qualche anno fa in porta Sant'Antonio non era certo dedicato a lui. «Tartaruga è un nomignoloche mi hanno messo i miei amici da bambino —-Spiega Franco Fiori - perché quando venivano a chiamarmia casa per andare a giocare ero sempre molto lento nel prepararmi.
Iniziarono a chiamarmi così eoggi tutti mi conoscono in quel modo. Il murale? Non scherziamo, io non e'entro niente — ride il commerciante — l’ideacd:icnilo tece era tegata al Candelieri e alla loro antichissima tradizione». Nato in casa, in via Sardegna, nel 1958.in una famiglia numerosa, Tartaruga è stato tra i primi in città a credere nel merchandising legato allo sport. «Dopo le prime esperienza da ragazzino e qualche anno a Firenze — spiega risalendo il Corso — sono rientrato in città e intorno al 1987 ho iniziato a piazzare la bancarella nelle vicinan- ze dello stadio, dopo che qualche anno prima avevo dato una mano a un ambulante di Milano.che veniva a Sassari per vendere nei mer- catini e vicino'agli stadi. All'inizio vendevo solo sciarpe -- spiega il commerciante —- ricordo che in quel periodo, tra gli anni 80 e i primi anni Novanta, quella della Torres la vendevo a 3500 lire, oggi la vendo a 10/15 euro. Poi ho diversificato l'offerta e ho iniziato a proporre cuscini da stadio, gagliardetti e cappellini».Oggi; tra piercing, cartoline,bandiere e maglie di calcio e di basket Nba, gli articoli più richiesti nel suo punto vendita di corso Vico restano sempre gli stessi: la sciarpa e le t-shirt rossoblù dellaTorres. «In questi ultimi due anni con la squadra che sta andando bene -- spiega dietro il bancone del negozio -- le richieste sono aumentate na-turalmente. I sassaresi sono fatti così — aggiunge — se la squadra vince si ricordano la strada per lo stadio, altri- menti non si fanno vedere.LaTorres più forte che ho visto ? Forse quella dei fratelli Amoruso nel 2000, ma anche questa di quest'anno è una bella squadra, chissà come andrà a finire. Ho conosciuto anche il boom di presenze al palazzetto dello sport — prosegue — nel 2015 quando la Dinamo vinse lo scudetto in città erano tutti impazziti per la pallacanestro e per me gli affari con maglie e bandiere bîancoblù andarono alla grande».Residente nella zona di P0zzu di Bidda Franco Fiori crede ancora nelle potenzialità del centro storico. «Ho sceltodi vivere e lavorate in questa zona della città -- spiega -- perché sono convinto che possa riprendersi dall’attuale e crisi. Da anni sento parlare di centro intermodale e di una ripresa delle attività — prosegue — credo che se finalmente dovesse partire il progetto la zona del corso basso e di Sant'Apollinare potrebbe veder nascere nuove attività e anchei sas» saresi che sono andati via tornerebbero a viverèi. Chissà se sarò ancora dietro al bancone — conclude Tartaruga-a vendere sciarpe della Torres...» 

mentre finivo di    riportare  tale storia  mi arriva    sempre dallo stessso giornale   quest altro articolo 


Il calciatore  Massimo  Briaschi   ripercorre i momenti della tragedia. Quello stesso giorno allo stadio c'era anche Franco Fiori Tartaruga

Sassari «Quando ho visto la foto in bianco e nero sul vostro giornale mi è ritornato alla mente quel giorno di 40 anni fa, che doveva essere di festa e invece si rivelò la tragedia che tutti conosciamo». Il 29 maggio del 1985 Massimo Briaschi aveva 27 anni e insieme a Platini, Boniek, Tardelli, Rossi e gli altri giocatori della Juventus si ritrovò in campo insieme a centinaia di tifosi italiani che nella calca – nella quale morirono schiacciate 39 persone – si riversarono sul terreno di gioco per tentare di salvarsi la vita. Tra quei tifosi, con
la sciarpa bianconera al collo, c’era anche il commerciante sassarese Franco Fiori, per tutti “Tartaruga”, al quale qualche giorno fa abbiamo dedicato una pagina sulla Nuova Sardegna per raccontare la storia della sua vita, che passa anche per quella tragica giornata di maggio del 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, dove era in programma la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e il Liverpool. «Un amico mi ha mandato la pagina del vostro giornale e quella foto mi ha riportato sul terreno di gioco» racconta Massimo Briaschi che oggi ha 66 anni, fa il procuratore sportivo e vive a Vicenza. Attaccante dotato di un gran tiro, Briaschi aveva iniziato a giocare a calcio proprio nel Vicenza, per poi raggiungere la maturità con la maglia del Genoa e spiccare infine il grande salto nella Juve di Trapattoni.«Ho giocato anche un anno nel Cagliari nella stagione 1979/80 – spiega l’ex giocatore – sono legatissimo alla Sardegna e ho una casa nella zona di Sant’Elmo a Castiadas. Mi sono sentito di contattarvi – spiega Briaschi perché tramite il vostro giornale vorrei dare, se possibile, un grande abbraccio alla persona che era venuta all’Heysel per giocare al nostro fianco e che ho visto nella foto». Quel giorno Franco Fiori, (anche lui nel 1985 aveva 27 anni) dopo la traversata in traghetto fino a Genova e il viaggio verso Bruxelles con un pullman partito da Torino, si ritrovò allo stadio Heysel proprio nel settore Z - dove i tifosi inglesi sfondarono le reti divisorie - con due amici con cui era partito da Sassari. «Persi le scarpe e una sacca con la macchina fotografica – racconta Franco Fiori – e un ragazzo che era con noi sul pullman mi donò un paio di ciabatte che mi consentirono di non rientrare scalzo. Purtroppo una persona che era sul nostro pullman, il signor Giovacchino Landini, rimase schiacciato e morì. Io riuscii a salvarmi e finii sul terreno di gioco – aggiunge – e insieme ad altri tifosi chiesi ai giocatori della Juve di disputare la partita, perché altrimenti la situazione sarebbe peggiorata».
Quel frangente - immortalato nello scatto in bianco e nero che abbiamo pubblicato sul nostro giornale - è ancora impresso nella mente di Massimo Briaschi, che non aveva mai visto la fotografia. «Ricordo benissimo quel momento – spiega l’ex giocatore – sono istanti che è impossibile dimenticare. Eravamo rientrati negli spogliatoi – spiega – e a un certo punto ci mandarono fuori a calmare le persone che erano sul campo. In quel momento non si sapeva ancora bene cosa fosse accaduto – aggiunge – noi lo apprendemmo al rientro in albergo. Quel giorno persero la vita 39 persone che erano venute a sostenerci – prosegue l’ex calciatore della Juventus – una tragedia che forse si sarebbe potuta evitare se non si fosse scelto quello stadio quasi fatiscente. Al tifoso sassarese che ho rivisto nella foto che avete pubblicato – aggiunge – visto che abbiamo passato quei momenti insieme, uno da una parte e uno dall’altra, vorrei mandare un abbraccio e a quarant’anni di distanza dire grazie a lui e a chi era lì quella sera che nessuno di noi dimenticherà mai».

18.6.24

Le sei wonder women di Tonara: «Gol di tacco? Meglio di testa»Le mamme che hanno preso il timone della storica Polisportiva locale. «Un impegno da affrontare con serietà, una dichiarazione d’amore per il calcio» e Danimarca, la Nazionale di calcio maschile rifiuta l’aumento di stipendio e garantisce la parità salariale per quella femminile



  da  la  la nuova sardegna del  16\6\2024 
Le sei wonder women di Tonara: «Gol di tacco? Meglio di testa»
                         di Alessandro Mele


Le mamme che hanno preso il timone della storica Polisportiva locale. 



Tonara Tra quelle montagne ora sono più famose del torrone e il merito se lo sono conquistate, è il caso di dirlo, sul campo. L’esempio calza a pennello perché quello che hanno ottenuto per il loro paese non è cosa da poco: hanno salvato la Polisportiva Tonara. Sei donne, sei storie diverse da raccontare sono diventate sei calci di rigore imparabili. Gol che si moltiplicano se si calcola quanti bambini, quanti giovani, potranno continuare a sventolare maglie e bandiere rossonere. Quante famiglie potranno continuare a contare su un grande supporto sociale, quello di far crescere i propri figli sul manto erboso del proprio paese.
Perché il calcio a Tonara è scuola di vita, è una storia di rispetto reciproco, è storia d’amore per la maglia e per quel senso di appartenenza profondo che da sempre contraddistingue la purezza del dna montagnino. E così, tra le mille cose da organizzare per il settore giovanile e la prima squadra, le nove wonder women hanno il tempo e lo spirito di raccontare chi sono e da dove arriva tutta questa forza fatta di cuori di mamme ingabbiati in un animo da super tifose, quasi da ultras d’altri tempi.
A partire dalla presidentissima Maria Sau, 52 anni e mamma di Greta e Nina. Lavora in Comune nel settore finanziario. «Più che una passione, la sfida del Tonara è un mettersi alla prova – commenta –. Sono una donna del fare e quindi ho risposto “presente” all’esigenza di guidare la polisportiva. Vengo da una famiglia di 4 donne, mio padre ci ha trasmesso l’amore per il calcio e ce lo ha sempre raccontato. È vero, faccio un lavoro impegnativo, ma questo non è da meno. Vivo il calcio come un vero e proprio lavoro, per il Tonara non dormo la notte perché è la mia più grande passione. Inizio a essere stanca, ma mi sento un trattore, anche se non sono ancora andata al mare».
Poi c’è Cristina Sau, anche lei ha 52 anni ed è mamma di due piccole donne, Marika e Camilla. Per lei la passione per il calcio è nata in età più matura: «Ho fatto la fiorista per 13 anni – racconta col sorriso –, da 11 invece mi occupo di una ragazzina portatrice di disabilità. Una delle mie figlie, gioca a calcio da quando ha sei anni, in Serie C; ed è stata lei a trasmettermi questa grande passione. Ormai da 14 anni, la seguo da un campo di calcio all’altro. Sono sempre stata una spettatrice del Tonara, adesso la mia famiglia ha sposato questa sfida bella e totalizzante per tutti. Siamo veramente contenti e fiduciosi».
È la volta di Eleonora Porru, imprenditrice 40enne, è titolare di un torronificio. Ha due gemelli di 7 anni, Simon e Giommaria. «Fino a d oggi ho seguito il calcio solo da lontano – ammette – scegliendo di dedicare la maggior parte del mio tempo al lavoro. Non mi pento di aver scelto di occuparmi del Tonara, perché per me adesso è un modo per lasciare a casa i problemi della vita. D’altronde non c’è tonarese che non tifi questa squadra e io sono qui con l’obiettivo di rendere la polisportiva famosa almeno tanto quanto il nostro prodotto di nicchia che piace a tutti, ossia il torrone».
Noemi Deligia, 31 anni, nata a Belvì, è agente della polizia locale. La nuova stella di Tonara la porta in grembo, è al nono mese di gravidanza. «Sono una ex giocatrice, questo a sottolineare la mia passione per questo sport. Certo – prosegue –, la gravidanza mi ha un po’ allontanato dal campo, ma grazie all’entusiasmo di mio marito sto conciliando tutti gli impegni con serenità. Tifo il Cagliari e sono amante del calcio da sempre, anche in nome di questo desidero trasmettere a mia figlia questa stessa passione».
Tra chi guida la polisportiva c’è chi si deve occupare di tenere i conti e di occuparsi dell’anima degli atleti. È il caso di Maria Stefania Columbu, 57 anni di Ollolai ma residente a Tonara. È una funzionaria regionale nei centri per l’impiego. «Mi occupo di orientamento per i giovani disoccupati – dice – e questo abbiamo fatto anche con i giovani atleti del Tonara in termini di gestione del gruppo. Le donne forse riescono meglio a gestire le dinamiche dello spogliatoio e degli spalti. Ho due figli maschi che parlano solo di calcio e ora sto comprendendo la loro passione. Non so neanche cosa sia il fuorigioco, ma voglio occuparmi del lato umano delle cose».
Tra le sei, anche Rosalba Asoni, 57 anni e impiegata Inps: «Mio figlio gioca in prima squadra e anche io mi dilettavo con piacere. Questo progetto per me è una missione, una vocazione. Utilizzo il tempo che ho per il campo e per i nostri atleti».
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Danimarca, la Nazionale di calcio maschile rifiuta l’aumento di stipendio e garantisce la parità salariale per quella femminile



Con un gesto simbolico, ma anche tremendamente concreto, i giocatori della Nazionale danese che stanno disputando l’Europeo in Germania hanno rifiutato un aumento di retribuzione da parte della Federazione per garantire la parità salariale con la Nazionale femminile. In pratica, a partire da dopo Euro 2024, rinunceranno al 15% dei compensi destinati alla squadra maschile, grazie a cui saranno aumentati del 50% quelli delle calciatrici donne. Hanno fatto, cioè, da soli quello che né la Federazione né il mercato chiedeva loro. E sarà pure un piccolo gesto, ma di questi tempi, e visto da queste latitudini, non scontato, esemplare, da sottolineare e ammirare.
IL bel gesto da parte della Nazionale di calcio maschile della Danimarca che rifiuta l’aumento di stipendio e così garantisce la parità salariale per quella femminile: un compenso equo annunciato dallo stesso sindacato Fifpro. Non è passato inosservato il rifiuto da parte della
Nazionale di calcio della Danimarca  sull’aumento di stipendio che, così, garantirà la parità del salario per la squadra femminile: un consenso che è partito da veterani ma che è stato accolto di buon grado da tutta la rosa
La Nazionale maschile, dunque, percepirà la stessa retribuzione di base di quella femminile: assicurando così la parità di guadagno e maggiori diritti anche alle calciatrici. Un gesto che segna la recente storia della Nazionale calcistica e che sottolinea un valore etico e uno spessore umano non comune.
A confermare quanto accaduto lo stesso sindacato Fifpro che ha dichiarato come la Nazionale maschile al termine di Euro 2024 avvierà un contratto quadriennale senza alcun cambiamento nello stipendio e una riduzione della propria copertura assicurativa:
“In Danimarca la Nazionale femminile ha firmato un accordo con la federazione che le garantirà un compenso equo con la squadra maschile. Il contratto quadriennale, in vigore al termine degli Europei, prevede che i calciatori della Danimarca accettino una riduzione della propria copertura assicurativa: non solo, hanno rifiutato un aumento salariale per poter ridistribuire equamente le risorse anche alla squadra femminile”.


Una riduzione che, in sostanza, prevede un taglio del 15% sulla copertura assicurativa per la squadra maschile e che permetterà al contempo di aumentare la copertura assicurativa di quella femminile del 50% in più rispetto al contratto precedente.
A giovare di questo gesto, però, non ci sarà soltanto la Nazionale calcistica femminile ma anche quella dell’Under 21 maschile che potrà usufruire di una copertura assicurativa del 40% in più rispetto al precedente accordo.
Michael Sahl Hansen, direttore del sindacato danese Spillerforeningen, ha poi chiarito quanto sia importante questo passo ai fini della contribuzione per migliorare le condizioni generali della Nazionale femminile: “È un passo straordinario per contribuire a migliorare le condizioni delle nazionali femminili. Quindi, invece di cercare condizioni migliori per se stesse, i giocatori hanno pensato di sostenere la squadra femminile. Quando abbiamo presentato il piano al team, composto da Andreas Christensen, Thomas Delaney, Christian Eriksen, Pierre-Emile Højbjerg, Simon Kjær e Kasper Schmeichel, erano molto soddisfatti”.

14.3.24

diario di bordo n 38 anno II ha trovato 141 milioni di lire non le puo covertire in euro , A 23 anni dalla macelleria della scuola Diaz la polizia fa lezione, insorgono gli studenti. "Fuori dalle nostre aule", La Roma licenzia dipendente per un video a luci rosse rubato da un calciatore, Assessora ha una relazione con il sindaco ed è costretta a dimettersi: Giulia Bandecchi chiede aiuto a Giorgia Meloni

fonti     www.msn.com/it ,  the  social post ,  ecc 

 

la  solita  situazione paradossale    italiana    rispetto al resto  degli altri paesi della Ue  

Il Messaggero
 4 ora/e

Trova 161 milioni di lire nella cassapanca della nonna a Sondrio, ma la Banca d’Italia non li converte più in euro
  



                               © Ansa

Un sogno diventato incubo. Trova 161 milioni, ma sono in lire e la Banca d’Italia non li converte in euro. È accaduto a un uomo, residente a Sondrio: qualche mese fa ha scoperto per caso il denaro chiuso in una vecchia cassapanca della nonna. I risparmi di una vita avrebbero potuto rappresentare una grande occasione, un colpo di fortuna di quelli che possono cambiare la vita. Ma, al momento, il signor Lorenzo impiegato precario in un call center, dovrà attendere e chissà se potrà mai ottenere la cifra.
Sì perché le lire non hanno più valore. Il signor Lorenzo immediatamente dopo aver trovato il denaro si è rivolto alla Banca d’Italia chiedendo informazioni su come poter convertire in euro la cifra e incassarla, ma la risposta è stata negativa. I 161 milioni di lire non possono essere convertiti in euro, e quindi non hanno alcun valore. L’uomo, però, non si è arreso e si è rivolto a Giustitalia, un’associazione che difende i consumatori, per intraprendere una battaglia legale e cercare di ottenere i suoi soldi. Come spiegano gli avvocati di Giustitalia che stanno seguendo la vicenda, Francesco Di Giovanni e Luigi De Rossi, quello del signor Lorenzo non è un caso isolato e la cifra ritrovata non è neppure tra le più alte: «Seguiamo tante battaglie. Riceviamo circa 30 richieste al giorno. Alcune somme sono molto ingenti, anche superiori a quella del signor Lorenzo. Il principio è che i risparmiatori non sono assolutamente tutelati dalle istituzioni. Questa situazione di vuoto normativo esiste solo in Italia. In tutti gli altri paesi dell’Unione europea, è possibile convertire denaro delle vecchie valute in qualunque momento, senza prescrizioni temporali».
Al momento in casi come questi ( Roma, pensionato trova 245 milioni di lire a casa del fratello morto ma non riesce a cambiarli: equivalgono a 126 mila euro ) esistono due filoni interpretativi. «Da una parte, come fa la Banca d’Italia, - raccontano gli avvocati - si fa riferimento alla prescrizione decennale che impedisce il cambio una volta trascorso questo tempo. E questo vale per qualunque titolo di credito: se il titolare è dormiente per dieci anni, perde il diritto di convertire la cifra in lire posseduta, nella valuta attuale. Dall’altra c’è il Codice civile, che all’articolo 2935 sancisce che la prescrizione decorre da quando un soggetto può far valere il suo diritto». In quest’ultimo caso, in pratica, una persona può chiedere di convertire il denaro ritrovato anche se sono trascorsi più di dieci anni, perché lo fa nel momento in cui li ha trovati. «La problematica – spiegano gli avvocati - è relativamente recente e l’ago della bilancia è proprio la decorrenza di questa prescrizione. Noi sosteniamo, in base al codice civile, che il diritto debba decorrere dal momento in cui il soggetto può farlo valere. Ad esempio dal momento del ritrovamento». Coloro che, come il signor Lorenzo, decidono di intraprendere una causa civile di solito lo fanno perché si tratta di somme importanti e quindi in qualche modo vale la pena tentare. Ma i tempi non sono brevi: «Una causa civile può durare anche due anni e al momento non c’è alcuna certezza perché non ci sono state né sentenze contro, né a favore».

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che intelligentoni i dirigenti scolastici della #scuoladiazdiGenova . non lo sanno che quello che è successo ( la #macelleriamessicana nel luglio del 2001 ) nella scuola è una ferita ancora aperta e che la reazione degli studenti era prevvedibile

A 23 anni dalla scuola Diaz la polizia fa lezione, insorgono gli studenti. "Fuori dalle nostre aule"

quotidiano.net   
Storia di GIOVANNI ROSSI
 • 19 ora/e 

A 23 anni dalla scuola Diaz la polizia fa lezione, insorgono gli studenti. "Fuori dalle nostre aule"© Fornito da Quotidiano.Net

Roma, 13 marzo 2024 – Quasi 23 anni dopo i drammatici pestaggi del G8, a Genova esplode un altro caso Diaz: senza violenze fisiche, ma dal forte portato evocativo. Gli studenti del collettivo Pertini si rivoltano contro il dirigente scolastico Alessandro Cavanna per l’ammissione della polizia a una giornata di orientamento lavorativo post maturità. Scelta che scatena la rabbia studentesca. Perché gli ambienti della Diaz restano gli stessi insanguinati dalla "macelleria messicana" evocata dal vice questore Michelangelo Fournier nel processo seguito alla brutale repressione su attivisti e operatori media del Genoa Social Forum (63 dei quali ricoverati in ospedale con lesioni anche gravissime) nella drammatica notte del 21 luglio 2001.
“Fuori la polizia dalla Diaz", recita il cartello appeso ai cancelli dell’Istituto comprensivo Diaz-Pertini-Pascoli (e subito rimosso). Gli studenti spiegano che la propria iniziativa è "per la libertà di espressione, contro la militarizzazione delle scuole". "Dopo le cariche della polizia contro gli studenti di Pisa, Firenze e Napoli – prosegue il volantino –, rifiutiamo che la polizia, proprio in una scuola simbolica come la nostra, possa venire a fare lezione, come se niente fosse". "Le divise danno i numeri, diamo i numeri alle divise, fuori la polizia dalla Diaz", punge un altro striscione finalizzato al controllo civico degli agenti in piazza. E subito i ricordi della città corrono alla sciagurata irruzione alla Diaz di 346 poliziotti (supportati da 149 carabinieri) il giorno dopo la morte di Carlo Giuliani. Le condanne confermate in Cassazione ad alti dirigenti di polizia, anche per la "consapevole preordinazione di un falso quadro accusatorio" che giustificasse il blitz, sigillano una vicenda che, secondo la Suprema corte, "ha gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero".

Con simili premesse, non era difficile ipotizzare una rivolta dei ragazzi, tanto più in una stagione di crescente ritorno alle manifestazioni di piazza e all’impegno sui grandi temi internazionali. Pur nel rispetto del "dissenso", la dirigenza scolastica prova a ridimensionare i fatti, addirittura accusando gli studenti di scarso tempismo. Il presidente si dice infatti "sorpreso", perché i ragazzi sarebbero stati "informati diversi giorni fa dell’incontro e delle modalità, avrebbero potuto parlarmi prima e avanzare eventuali lamentele". In ogni caso, "nessun poliziotto è arrivato a scuola a fare lezione – puntualizza il dirigente scolastico –: durante la giornata sono stati allestiti alcuni spazi per raccontare diverse professioni, la carriera nelle forze dell’ordine era una di queste ma non c’erano agenti presenti". Solo due formatori in abiti civili.
Il collettivo Pertini reagisce comunicando obiettivi che vanno oltre la vicenda: "Vogliamo promuovere un’educazione mirata alla valorizzazione degli ambienti scolastici come luoghi di pace e accoglienza, dove poter coltivare un pensiero critico che ci consenta di mettere in discussione ciò che viene proposto dalle istituzioni". E subito arriva la solidarietà della Rete studentesca: "Noi comprendiamo l’azione degli studenti e delle studentesse del Pertini e la supportiamo nella misura in cui fa prendere coscienza delle violenze da parte dello Stato su quei cittadini e quelle cittadine che dovrebbe avere il primario scopo di tutelare". Inevitabile, nel contesto evocato, anche il richiamo agli incidenti di Pisa "in cui studenti e studentesse privi e prive di qualsivoglia intento violento hanno ricevuto ingiustamente e smodatamente le cariche delle forze di polizia".

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revenge  porn o non revenge  porn     qui  si  è messo, almeno allo stato attiuale dei fatti  ,     alla   gogna  una  ragazza .  E  come  al solito  a  pagare  non è l'uomo    che  avrebbe  commesso  tale  reato ma  la  vittima  , la  donna  in questo  caso  

La Roma licenzia dipendente per un video a luci rosse rubato da un calciatore  14/03/2024 12:39


Il mondo al contrario: un club sportivo (e non uno qualunque) licenzia una dipendente vittima di revenge porn. Al momento, la faccenda appare piuttosto controversa ma, in estrema sintesi, i fatti sarebbe andati proprio così.
L’As Roma licenzia vittima di reveng pornProprio così: il club sportivo è proprio quello della 

Roma
. Secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, la vittima , una donna di 30 anni, sarebbe stata allontanata dopo che un proprio video intimo sarebbe stato sottratto dal suo telefonino da parte di un giocatore della Primavera e diffuso tra i compagni e lo staff. La società, piuttosto che schierarsi dalla parte della sua dipendente, avrebbe preferito licenziarla adducendo come motivazione quella di «incompatibilità ambientale».Il video a luci rosse sarebbe stato sottratto dal cellulare della dipendente da parte di un giocatore della Primavera, a  
cui la donna aveva prestato lo smartphone per una chiamata al suo agente. Il filmato, nel quale lei è ritratta in atteggiamenti intimi insieme al proprio compagno, è stato poi diffuso dal giovane calciatore al resto della squadra, per poi raggiungere dirigenti, staff e altri dipendenti. Nelle chat interne e sui social sarebbero apparsi anche commenti a sfondo sessuale, che hanno reso la donna a tutti gli effetti vittima di revenge porn.

Il licenziamento
Il fatto si è verificato lo scorso autunno e l’allontanamento della donna è avvenuto nel mese di novembre, quindi prima dell’enorme ondata di licenziamenti che ci sono stati a Trigoria nel periodo successivo. Nella lettera di licenziamento inviata da Lorenzo Vitali, legale dei Friedkin, si evidenzia che la diffusione del video ha compromesso la possibilità di mantenere un ambiente di lavoro sereno, proprio a causa della visione del filmato da parte di molti componenti dello staff e dei giocatori dell’A.S. Roma. La donna è stata subito allontanata dal centro sportivo, con la società che ha evitato di commentare la vicenda.
Il retroscena
Sempre secondo la ricostruzione del Fatto Quotidiano, sarebbe arrivata anche l’ammissione del calciatore, che in una riunione avrebbe confessato in lacrime di aver sottratto il video dal cellulare della donna. L’ex dipendente si è rivolta a un legale, Francesco Bronzini, che sta provando a negoziare un reintregro della sua assistita in società, contestando anche il fatto che il calciatore non avrebbe ricevuto alcun tipo di sanzione. Una vicenda destinata a fare rumore.

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  Invece  di    fare  interrogazioni    a destra e manca     dovevi pensarci   prima  di  candidarti    se  sapevi  che  c'è queto regolamento  eticamente  discutibile  . 


Assessora ha una relazione con il sindaco ed è costretta a dimettersi: Giulia Bandecchi chiede aiuto a Giorgia Meloni


Il sindaco di Terricciola ha una relazione e una figlia con l’assessora. Niente di strano fin qui. Per lo statuto statuto del piccolo Comune toscano però, non è consentito. Così Giulia Bandecchi, compagna di Mirko Bini, è costretta a dimettersi. Il caso è stato innescato da un esposto dell'opposizione. Per l'articolo 49 dello statuto «non possono contemporaneamente far parte della Giunta comunale ascendenti e discendenti, fratelli, coniugi, affini di primo grado, adottandi e adottati». Per questo, l'assessora (legata al PD) si è rivolta con una lettera a Giorgia Meloni chiedendole di intervenire. «Difenda le donne e le mamme in politica», avrebbe scritto.
Il caso è cominciato con un’interrogazione parlamentare (poi ritirata), presentata al ministero dell’Interno dall’onorevole di Fratelli d’Italia Francesco Michelotti, che aveva ricevuto segnalazione dai  consiglieri comunali di opposizione della lista “Terricciola sicura”. L’assessora con delega all’urbanistica e ai lavori pubblici ha presentato le dimissioni e nella prossima seduta del consiglio il sindaco dovrà nominare un altro assessore, una donna, riporta La Nazione. «Nel settembre 2023 – spiegano dalla lista di opposizione Terricciola SiCura – abbiamo presentato una istanza al Prefetto riguardante la presunta violazione dello Statuto comunale e del Testo Unico degli Enti Locali relativa alla composizione della giunta comunale di Terricciola, che include due persone conviventi. Attualmente nessuna interrogazione è in discussione presso la Camera dei deputati».



25.9.23

diario di bordo n°12 anno I . Luigi Minchillo è morto il guerriero della boxe italiana che seppe resistere a Hearns e Duran., Giovanni Lodetti, il ricordo dei ragazzi che giocavano a calcio con ‘Ceramica’: “Quel patto tacito per rispettare la sua riservatezza”.,Non solo Zinasco: viaggio tra i rifugi della Lombardia dove inizia la seconda vita degli animali sottratti all’industria alimentare


storie tratte   da  repubblica  del 25\9\2023


Luigi Minchillo è morto il guerriero della boxe italiana che seppe resistere a Hearns e Duranveva 68 anni, fu campione d’Italia e d’Europa. Celebri le trasferte americane per sfidare, e resistere in piedi, a due leggende del ring


Per spiegare quanto abbia rappresentato per la boxe italiana Luigi Minchillo, morto improvvisamente per un malore all’età di 68 anni, bisogna paradossalmente partire da due sconfitte contro autentiche leggende del pugilato come Roberto Duran e Thomas Hearns. Con Duran, in un match senza titolo in palio al Caesars Palace di Las Vegas. Manos de Piedra, che veniva dalle due memorabili sfide contro Sugar Ray Leonard (la prima vinta, la seconda persa con il famosissimo rifiuto di continuare, il ‘no mas’) non sceglieva certo avversari banali. E Minchillo banale non lo era. Il suo alias, il ‘guerriero del ring’, non era un omaggio alla scena ma la perfetta spiegazione di quale pugile fosse. Non eccezionale dal punto di vista tecnico, mai disposto però a fare un passo indietro, pronto sempre ad affrontare qualsiasi sfida. Duran vinse ai punti, ma Minchillo fece un figurone al cospetto di un pugile che qualche tempo dopo sarebbe andato vicinissimo a chiudere il regno di un certo Marvin Hagler. Ma il quadro del coraggio di Minchillo fu dipinto nel febbraio del 1984, stavolta con il titolo mondiale dei superwelter in palio: andò a Detroit, nella tana di Thomas Hearns per una impresa impossibile. Hearns, pugile di tecnica, personalità, devastante potenza e con il solo limite della mascella fragile, fece di tutto per vincere prima del limite. Michillo però seppe resistere stoicamente per dodici round, finendo con il volto tumefatto ma con la fierezza di chi aveva fatto più del possibile.  Due sfide che nessuno gli aveva regalato. Originario di San Paolo Civitate, in provincia di Foggia, ma pesarese di adozione (50 anni nella città marchigiana, dove aveva fondato una palestra), Minchillo aveva costruito la sua carriera per gradi in una epoca in cui la boxe, soprattutto in Italia, era assai più selettiva di quella attuale. Selezionato da dilettante per l’Olimpiade di Montreal del 1976. Da professionista campione d’Italia, da ricordare due sfide molto accese contro Vincenzo Ungaro. Quindi campione d’Europa: conquistò il titolo contro il forte francese Louis Acaries, lo difese contro il croato Benes ma soprattutto contro alla Wembley Arena contro Maurice Hope, il fortissimo inglese che era stato capace di battere Vito Antuofermo e in due circostanze Rocky Mattioli. Ha dato tutto, in alcune circostanze forse troppo: arrivò al mondiale che era nelle sue corde, a Milano contro Mike McCallum, ancora con le scorie del match con Hearns e dovette arrendersi al tredicesimo round. Lascia la moglie Cristina e i suoi tre figli Stefania, Paolo e Sabina.


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Giovanni Lodetti, il ricordo dei ragazzi che giocavano a calcio con ‘Ceramica’: “Quel patto tacito per rispettare la sua riservatezza” I funerali del campione milanista a Caselle Lurani e il ricordo di Stefano Zuffi, uno dei ragazzi che condividevano con lui "il puro piacere per il gioco" a parco Trenno

di Lucia Landoni


Domani, martedì 26 settembre, alle 14.30 a Caselle Lurani (il comune del Lodigiano dov’era nato) si terranno i funerali di Giovanni Lodetti, l’ex centrocampista del Milan e della Nazionale scomparso nei giorni scorsi a 81 anni.Nel corso della sua carriera aveva collezionato vari soprannomi – da “Basleta”, dovuto al suo mento pronunciato, a “terzo polmone di Rivera” per
il suo ruolo in campo, fedele scudiero del Golden Boy rossonero – ma a Milano per qualcuno resterà sempre “Ceramica”. Lo chiamavano così infatti i ragazzi con cui Lodetti amava giocare il sabato mattina al parco di Trenno, dopo essersi ritirato dai campi di serie A.Amava raccontare lui stesso quell’aneddoto, a cui era evidentemente molto legato: “Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni. Una mattina al parco di Trenno vedo dei ragazzi che giocano. Mi fermo a guardare: la squadra che perde ha un giocatore in meno. Non resisto e vado dietro al loro portiere: 'Scusa, mi fate entrare?' – spiegava – Quello si volta e non ha tanti riguardi, i ragazzi di oggi sono così: 'Ma dai, qui siamo tutti giovani'. Insisto: 'Gioco anche in porta'. Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un po' mi dice: 'Sai che sei buono? No, sul serio'. Troppo giovani per ricordarsi di Lodetti e allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali”.In quel momento è nato Ceramica: “Mi chiedevano: ‘Sì, ma come ti chiami?’. Avevo un giubbotto con scritto Ceramica: 'Mi chiamo Ceramica'. Mi hanno guardato strano però mi hanno accettato e da allora ogni sabato mattina Ceramica se n'è andato al parco Trenno a giocare, a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica – ricordava Lodetti – Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato”.Tra quei ragazzi che quarant’anni fa condividevano un campo improvvisato con Giovanni Lodetti c’era anche Stefano Zuffi, 62enne storico dell’arte milanese: “Non eravamo una squadra, ma solo un gruppo di amici che si ritrovavano per divertirsi. Quand’eravamo fortunati trovavamo libero un campo con delle vere porte, altrimenti ci arrangiavamo mettendo in terra i borsoni per fare da pali – racconta – Una volta, credo fosse il 1981, ci si è avvicinato un 40enne stempiato, smilzo, poco mobile, con maglietta striminzita e brachette stinte”.All’epoca Lodetti aveva smesso di giocare da professionista da appena cinque o sei anni e ne aveva una quarantina, “ma ai nostri occhi di ventenni sembrava avesse già una certa età – prosegue Zuffi – Ci ha chiesto garbatamente di poter giocare, perché aveva notato che eravamo dispari. Era gentilissimo, quasi timoroso. Abbiamo accettato ed è sceso in campo con noi”. Il resto, come si suol dire, è storia: “Era una persona dotata di un garbo eccezionale, tant’è vero che conoscendolo persino a me, interista da sempre, era quasi venuta voglia di diventare milanista – scherza – Poi non è successo ovviamente, ma rende bene l’idea di che tipo di uomo fosse. Eravamo tutti studenti universitari, quindi già troppo vecchi per poter essere considerati delle potenziali promesse. Lodetti non era lì per fare il talent scout, ma solo per il puro piacere del gioco, come dovrebbe essere”.Anni dopo, “durante un evento alla Galleria Previtali”, Zuffi e Lodetti si sono reincontrati per caso: “Mi sono avvicinato per salutarlo e gli ho parlato di quel bel periodo – continua lo storico dell’arte – Si ricordava perfettamente ogni dettaglio, compreso il colore delle nostre maglie, arancione”. Solo su una cosa i ricordi dei due non combaciavano: “L’avevamo riconosciuto eccome, bastava vedere come toccava la palla – conclude Stefano Zuffi – Ma lui era molto riservato e noi rispettavamo il suo desiderio di non essere smascherato. Era una sorta di tacito patto”

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Non solo Zinasco: viaggio tra i rifugi della Lombardia dove inizia la seconda vita degli animali sottratti all’industria alimentareTra gli ospiti ci sono alpaca, piccioni, ratti e degu: "Qui l'essere um ano non è la specie dominante, ma parte di un ecosistema"


Il più (tristemente) famoso è il 
Progetto Cuori Liberi di Sairano di Zinasco (nel Pavese), dove nei giorni scorsi i veterinari dell’Ats hanno eseguito l’ordinanza di abbattimento di nove maiali a causa della diffusione nella zona del virus della peste suina. Ma sono decine i centri lombardi in cui trovano rifugio e accoglienza animali generalmente considerati “da reddito” e non “d’affezione”, quindi non cani e gatti, ma asini e mucche, cavalli e maiali, capre, pecore, galline e anatre, ma anche ratti e nutrie.Alcuni di questi sono riuniti nella Rete dei Santuari di Animali Liberi in Italia: le strutture aderenti hanno sottoscritto una “carta dei valori” comune, secondo la quale a ogni creatura ospitata “deve essere garantita la migliore qualità di vita fino alla sua fine naturale” e ciascun santuario deve aprire le porte al pubblico per delle visite, in modo che “ogni animale salvato diventi ambasciatore della propria specie, portavoce dei suoi fratelli e sorelle meno fortunati”.L’aspetto divulgativo è fondamentale perché “in questi luoghi vogliamo raccontare la nostra visione del mondo, diversa da quella attuale – spiega Sara d’Angelo, attivista di Vitadacani odv e coordinatrice della Rete dei Santuari – Qui ci basiamo sulla gentilezza e non sulla prevaricazione e gli animali cambiano status, trasformandosi in creature ‘a debito’ anziché ‘da reddito’, il che significa che loro si riposano e sono gli umani a lavorare per loro, garantendone il benessere”.Nei santuari viene applicata la logica anti specista, quindi “l’essere umano non è visto come specie dominante, ma come parte di un ecosistema”.Fino a qualche mese fa queste strutture erano equiparate agli allevamenti secondo la legge, ma dallo scorso marzo (in virtù di un decreto ministeriale poi pubblicato in Gazzetta ufficiale il 16 maggio) sono stati ufficialmente riconosciuti come santuari: “Per noi è stata una svolta epocale, perché i nostri ospiti sono stati definitivamente sottratti al comparto zootecnico – continua d’Angelo – Abbiamo quindi bisogno di protocolli dedicati anche dal punto di vista sanitario e il caso drammatico del Progetto Cuori Liberi ha dimostrato che sotto questo aspetto c’è ancora molta strada da fare”.Tra le diverse realtà appartenenti alla rete c’è appunto quella di Sairano di Zinasco, dove sono ospitati circa 200 animali fra mucche, asini, cavalli, capre, pecore, tacchini, galline, anatre, oche, tartarughe da terra e d’acqua, nutrie e, fino alla scorsa settimana, anche maiali.Un altro santuario, fondato e coordinato proprio da Sara d’Angelo, è PorciKomodi di Magnago (nell’hinterland milanese), in cui vivono allo stato semibrado oltre 200 animali fra mucche e buoi, maiali, cinghiali, asini, pony, pecore, capre, piccioni, galli e galline. Solo i maiali, che non a caso danno il nome alla struttura, sono ben 140.“Tutte le creature accolte nel nostro e negli altri santuari sono state salvate dallo sfruttamento dell’industria della carne (ma anche del divertimento o della sperimentazione animale) – sottolinea d’Angelo – Gli animali che arrivano qui sono scarti di produzione, nel senso che non sono più utili agli allevatori per vari motivi, oppure provengono da situazioni di maltrattamento per cui vengono sequestrati dalle autorità, che poi ce li affidano”.Oltre a PorciKomodi, fa parte della galassia di Vitadacani anche il Piccolo rifugio La Boschina di Gallarate (nel Varesotto), nato dalla passione per gli animali della veterinaria Elisabetta Curotti: attualmente accoglie quattro cinghiali, cinque maiali, Tino il tacchino, Cecilia la gallina, un degu (roditore originario del Cile) e otto gatti.Tornando in provincia di Milano, la Fattoria Capre e Cavoli di Mesero ha sede in una storica cascina che apre spesso le porte ai visitatori (a cominciare dai più piccoli) per farli interagire con i 50 animali presenti, fra cavalli, asini, vitelli, maiali, pecore, capre, cani, gatti, conigli, anatre, oche e galline.“Abbiamo un’enorme aia con anatre, oche, galli e galline, liberi di razzolare e fare bagnetti (chi di terra, chi d’acqua) oltre ai conigli, i mici, e Zem e Lja, due cagnetti bosniaci che compongono il nostro comitato d’accoglienza – spiegano i gestori – I campi circostanti, che si estendono per cinque ettari, sono la casa tra gli altri dei cavalli Flora e Caramella, degli asini Stella e Carlotto, delle pecore Bianca e Vida e del maiale Pumba”.

Fattoria Capre e Cavoli

Fattoria Capre e Cavoli

 

Perché nei santuari gli animali smettono di essere numeri per diventare individui, ciascuno con un proprio nome e una storia.A Cantù (nel Comasco) si trova il rifugio NelloPorcello, che prende appunto il nome da Antonello, il primo cucciolo di suino arrivato nella struttura nel 2017: in questo “piccolo angolo di mondo dove individui di diversa specie convivono e lottano fianco a fianco contro ogni forma di discriminazione”, come lo definiscono i gestori, vivono una trentina di animali fra maiali, capre, pecore, conigli, cani e gatti.

Rifugio Nello Porcello

Rifugio Nello Porcello

 

Sono invece circa 40 gli ospiti di Oasi Fortuna, rifugio di Chiari (nel Bresciano) che accoglie una mucca, un bue, maiali vietnamiti, capre, pecore, asini, tacchini e oche e si definisce “un luogo di liberazione dalla produttività a cui la società in cui viviamo costringe e incatena gli animali non umani di ogni specie”.

Oasi Fortuna

Oasi Fortuna

 

Ci sono poi strutture lombarde che non fanno parte della Rete dei Santuari di Animali Liberi, ma ne condividono la mission: per esempio Ca’ Romoletto di Galbiate (nel Lecchese), così chiamata in onore del primo ospite, l’asino Romoletto. Arrivato nel 2013 in gravi condizioni di salute quando aveva già 35 anni, l’asino si è poi ripreso grazie alle cure ricevute ed è vissuto per altri sette anni.Oggi il rifugio ospita una quarantina di animali fra asini, mucche, capre, pecore, maiali, galline, anatre, tacchini, cani e gatti.Spostandosi nel Comasco, a Castelmarte si trova Il Vecchio Faggio onlus: nata come pensione per animali, si è poi trasformata in rifugio che attualmente accoglie una quindicina fra cavalli, alpaca, maiali, capre, pecore, cani e gatti. “Tutti salvati da situazioni orribili, dalla morte e dal dolore” sottolineano i gestori.

Il vecchio Faggio

Il vecchio Faggio

 

Provengono invece dai laboratori gli ospiti de La Collina dei Conigli odv, centro di recupero con sede a Monza (ma anche a Torino e a Genova) che si occupa di regalare una nuova vita a conigli, cavie, ratti, topi e piccoli roditori: “Molti di questi animali vengono impiegati in sperimentazioni da cui possono uscire – spiegano dalla onlus – Noi li ospitiamo nelle nostre strutture e cerchiamo per ciascuno di loro una nuova casa”.